5. Breaking
"La vera follia è fare finta di essere felici, fare finta che il modo in cui ti vanno le cose sia il modo in cui devono andare per il resto della tua vita; tutti i desideri, le speranze, tutte le gioie, le emozioni e le passioni che la vita ti ha tolto sono lì davanti a te, puoi riprenderti tutto!"
Mr. Beaver (2011)
"Dicono che,
devo calmarmi e respirare un po' di più,
dicono che,
devo staccare il cane da quell'auto blu,
dicono che,
gli omini del calcio balilla a testa in giù non vanno bene,
va bene, va bene ma poi dicono che,
non devo accomunare fede e schiavitù,
dicono che,
dovrei baciarvi a stampo come le Tatù,
dicono che,
mi spediranno in cielo come una Soyuz.
Ok, va bene, va bene, va bene avrai ragione tu!
Ho le ossessioni amico serie,
mi prendono per il sedere tipo sedie,
come quando sei malato di schizofrenia e il prete ti convince che il diavolo ti possiede,
davanti al pianoforte ho le visioni,
come te che ti avvicini e mi chiedi
"Allevi suoni?",
dovrei guarire ma detto tra me e te ho meno chance delle previsioni meteo.
Magari chiedo scusa ai leghisti,
magari, scrivo a caratteri cubitali,
voglio la Padania libera via dall'Europa per il gusto di chiamarvi extracomunitari,
chiedo scusa ai discotecari, fighetti, politici, elfi, facoceri, gnomi e re,
che poi dicono gli artisti sono comunisti,
i comunisti ce li avete in testa come me!
Dicono che,
devo calmarmi e respirare un po' di più...".
La canzone del Capa riecheggia a gran volume per tutto il cortile del Caravaggio, in ogni angolo, si propaga quasi a macchia d'olio.
Entra nelle nostre orecchie, si imprime nel cervello — senza traccia di brutalità alcuna — e fa esultare, fa librare nell'aria le nostre menti, la nostra fantasia, ci fa staccare i piedi dal terreno, elevandoli su, nell'alto del cielo; verso colui che ha ordito questa manifestazione politica: il ragazzo con i capelli ridotti a un nido di merli.
Un senso di libertà e di potere si diffonde attraverso le braccia, le dita delle mani che si agitano in rumorosi applausi, attraverso le ciocche danzanti che vanno al ritmo del saltellare, attraverso occhi ricolmi di esultanza ed emancipazione.
Alcuni nemmeno conoscono questo cantante — autore geniale di testi su testi, strofe su strofe, poesie —, altri non fanno caso al significato della canzone, altri ancora esultano senza magari condividere l'ideologia di questa improvvisata, lasciandosi trasportare semplicemente dal momento. Piccole e gracili foglioline secche in balìa di una tempesta più grande di loro.
Gli alunni esplodono in grida di giubilo e tripudio — gioioso inno verso un qualcosa che accomuna e che avvicina —, quasi sovrastano le note di "Avrai ragione tu"; alcuni studenti, persino qualcuno del Classico, rilasciano un'essenza che ha tutto il sapore dell'euforia e cantano. Ne scandiscono parola per parola, traendone vigore e quella dolce spontaneità tipica del nostro essere adolescenti inquieti e visionari.
La restante metà dei Perfettini, anziché urlare per il discorso di Thalìa o agitarsi per la melodia fatta esplodere senza preavviso, è immobile e pacata, una pallida presenza fatta di disprezzo, stizza e rancore. Bruma che stona nel mezzo di tutta quella letizia e spensierata serenità.
Gli studenti del Classico, al di fuori di quella ristretta percentuale che pare abbia dimenticato per qualche attimo effimero della loro appartenenza d'indirizzo, si limitano a esternare con audacia e senza alcun turbamento occhiate di fastidio, contrarietà e palpabile irritazione; segno evidente che non sono per niente favorevoli all'improvvisata di Diego, né tanto meno al suo discorso rivolto al loro venerato e insuperabile leader.
Provano ribrezzo, provano superiorità verso quello che reputano, magari, un miserabile e una zecca.
Le loro braccia saldamente incrociate con quell'ostinazione tipica della chiusura, del rifiuto del confronto, e aderite ai propri petti ne sono la dimostrazione inconfutabile; dimostrano indisponibilità totale a ciò che hanno di fronte, dimostrano indisponibilità allo scambio d'opinione e al dibattito. La linea delle loro labbra piegata inesorabilmente all'ingiù, nessun accenno di empatia. Niente di niente.
È quasi triste... non accettare, non valutare, in qualche modo, le vedute diverse da quelle che si hanno. Più giuste o più sbagliate, non importa. Il paragone dovrebbe essere un diritto inalienabile.
La non tolleranza... è questo ciò che mi spaventa di più.
È così che nascono i dissapori, le divergenze, i contrasti, le guerre. Anzi, non è quasi triste, è triste e basta.
Ad ogni modo, la mente di Diego Guevara non è popolata di questi pensieri, troppo intrinsechi, forse, per un momento come questo.
Adesso non sta ipotizzando questi piccoli dettagli, sta saltellando sul posto battendo al contempo le mani, tendendo in alto le braccia, quasi volesse sfiorare le nuvole e il cielo stesso. Si sta godendo il suo attimo di gloria meritata senza farsi offuscare da cupe considerazioni, come sto facendo appunto io. Forza dell'abitudine.
Nemmeno Thalìa, che ha una mente davvero acuta e davvero aperta — anche più della mia —, sta ponderando certe cose.
Thalìa è un tutto imitare le movenze di Diego; i suoi lunghissimi dreadlocks danzano a ritmo del suo volteggiare studiato e armonioso, le gambe oblunghe che si piegano, i grandi orecchini a cerchio che giocano al "vedo, non vedo" con le ciocche aggrovigliate.
Tutti gridano, tutti sono felici, tutti ballano. Non ho mai visto tanti sorrisi decorare labbra come in questo mattino.
Ed è proprio questo a farmi accorgere soltanto adesso che io sono l'unica dell'Artistico a non compiere un misero movimento, sono l'unica che si sta facendo trasportare. Addirittura Leonardo ne sta prendendo parte, con la sua espressione coriacea come il granito e assurdamente infuriata.
Un eterno ghiacciaio è racchiuso all'interno di quelle pupille spiritate e insensibili, persino quell'eterocromia che incarna la figura del sole appare gelida.
Cioè, io, Matilde Castellani, candidata ai Rappresentanti d'Istituto, una delle cause della manifestazione di stamattina, la cosiddetta dea Atena e altra faccia della medaglia — cui l'altra metà è occupata dal dio Apollo —, non sto muovendo un dito e non sto spiccicando nemmeno un vocabolo.
Bell'esempio da dare a quelli che fanno il tifo per me, per noi.
Come leader faccio proprio pena, Diego è mille volte meglio di me. Io sono solo capace di fare guerra verbale – e fisica, dovesse essere necessario – con Leonardo. Ecco, quello mi riesce piuttosto bene. Sono un asso.
"Ma ti vuoi dare una svegliata, Matilde? Falla finita di ponderare centinaia e centinaia di pensieri inutili! Dacci un cazzo di taglio!", interviene furiosa quella vocina che alberga nei miei meandri interiori.
«Se non pondero pensieri inutili non sto bene con me stessa» dico ad alto tono, scordandomi di rispondere mentalmente, gli occhi fissi verso il terreno.
Timorosa, per un solo secondo, di non essere utile.
Ma non mi scompongo, mantengo il ritegno, e lascio che il volume della musica e il vociare degli studenti coprano il mio pensiero esternato senza volerlo — se lo desiderassi, potrei persino urlare di agonia e nessuno mi udirebbe.
"Ponderali ad alta voce allora! Fatti sentire".
Devo farmi sentire? Devo farmi valere? Non ho mosso un muscolo da quando sono giunta qua. E non ho aperto bocca. Diego e Thalìa, con Leonardo compreso, hanno fatto tutto da soli. Di Matilde nemmeno l'ombra e, a quanto constato, neppure di Marta.
Okay, dovrei farmi sentire per davvero?
Bene, mi farò sentire! In fondo ho ancora quel sassolino dentro la scarpa riguardo al messaggio di Leonardo di ieri e alle gratuite offese nei nostri confronti. Devo toglierlo in qualche maniera, no?
Faccio un respiro profondo prima di partire alla carica. Riempio i polmoni d'ossigeno, lasciando che vengano premuti contro la gabbia toracica, fregandomene del leggero e passeggero fastidio.
Con la coda dell'occhio cerco di scovare il megafono, che da qualche buon minuto non è più né fra le mani di Thalìa, né di Diego e né di Leonardo.
L'ultima ad averci parlato attraverso è stata Thalìa, per cui deve averlo appoggiato per terra di sicuro, a poca distanza da lei.
E infatti eccolo lì, proprio a pochi centimetri dalla sua figura e dalle sue gambe senza fine — quasi sembra pronto per essere imbracciato di nuovo.
Non ho la minima idea di dove si sia cacciata Marta, e siccome ho una voglia incombente di sputare quattro fiotti di veleno gratuito, seppur giustificato, e siccome mi sto gasando come non mai grazie alle esultanze e alla canzone di Caparezza, muovo una gamba in avanti. Poi l'altra.
Abbandono la mia postazione in cima a questa folla urlante, decidendo di recarmi ai piani alti e dare il giudizio universale.
Non vengo notata da Diego e da Thalìa mentre marcio alla volta del megafono, ma Leonardo se ne accorge nemmeno fosse un segugio addestrato per seguire al dettaglio i miei movimenti. Mi segue con espressione glaciale e attenta mentre mi approprio dello scettro del potere.
"Bene, stammi a guardare, anzi, soprattutto stammi a sentire".
La canzone è finita. L'unico rumore che si può udire sono soltanto le urla euforiche — è il momento perfetto per iniziare a parlare. Non ho bisogno di fare respiri profondi o di chiudere le palpebre, non ho bisogno di esercizi per placare il mostro dell'ansia, non sto avendo paura, non sto provando senso d'angoscia opprimente.
Sono elettrizzata, e sento la sagoma del mio corpo venire pervasa di impulsi positivi e scariche di adrenalina. Come minuscoli pizzicori a fior di pelle.
Stringo con presa salda il manico del megafono e poi do inizio alle danze.
«Leonardo Aspromonte ha quasi fatto in modo di far ricadere la colpa sui studenti dell'Artistico per via della puzza di fumo nei bagni del Classico!» esordisco mettendo al corrente ogni singolo individuo frequentante il Caravaggio dell'abile mossa ideata da colui che tanto adorano, e ogni singolo studente verte la propria attenzione sulla sottoscritta, pupille accese d'interesse. «È andato da Gandolfo in persona e se non fosse stato per me e Marta Brunori, a quest'ora noi del quinto dell'Artistico avremmo detto addio alla gita dell'ultimo anno. Dal momento che quelli della mia fazione fanno uso unicamente dei bagni del rispettivo piano, è stata un'accusa davvero pesante e insensata. E comunque persino un idiota capirebbe che può consumare sigarette uno studente dell'Artistico tanto quanto uno del Classico. Per cui se votate me, o Marta Brunori, o Thalìa, o Diego, o Marco Esposito avrete assicurata la giustizia e la parità. Cosa che la maggior parte di voi ha difficoltà a capire!», dal megafono esce un grido forte e deciso, nessun segno di cedimento.
Le mie parole giungono alle orecchie dei ragazzi di fronte a me, tentano di farli riflettere un attimo sull'avvenimento di ieri mattina e alle conseguenze che avrebbe portato.
Le mie sopracciglia sono tese in un'espressione di sdegno e repulsione, molto veleno è affiorato dalle mie parole durante questo discorso.
In questo frangente non si sollevano grida di giubilo o di gioiosità, come poco fa, adesso si levano borbottii incompresi e vocaboli detti velocemente a coloro hanno accanto — sussurri, incomprensioni.
Cose che non sapevano? Cose che sapevano ma che avevano sempre ignorato? Cose di cui si sono stupiti?
Sono rimasti alquanto interdetti grazie alla mia confessione ed era precisamente l'obiettivo che avevo intenzione di raggiungere. La mia intenzione reale è illuminare gli studenti del Caravaggio, mostrare loro la vera natura di colui che avrebbero in decisione di votare, successivamente passare ai fatti veri, all'azione.
Ma mi dimentico troppo presto e con troppa facilità che il colui in questione ha una bocca per replicare e delle mani per agire, mi dimentico del fatto che Leonardo possa passare seduta stante al contrattacco.
Lui, senza tanti preamboli a star di mezzo, avanza con due singoli movimenti, le lunghe gambe che si piegano eleganti, e va a sfilare il megafono ancora artigliato fra le mie dita.
Di primo acchito, sembra che voglia riprenderlo con sé affinché possa parlarci attraverso e mettere in cattiva luce ciò che ho appena pronunciato. Sembra. Leonardo mi ruba dalla mano il megafono, sì, ma non per blaterare. Leonardo afferra lo strumento tenendolo incastrato fra le dita, riabbassando il medesimo braccio e alzando l'altro verso di me, all'altezza della gola.
Rapidamente, con la mano sinistra, mi adunghia per il colletto della maglia — lembo di stoffa lasciato scoperto dalla cattiva allacciatura del mio giacchetto.
Annodando quest'ultimo alle sue dita, senza la minima cortesia, mi strattona verso di sé, l'orecchio che collide con il suo volto tanto che lo sfiora con le labbra, e tanto che avverto il suo respiro accelerato e decisamente pesante, il suono dell'irritazione. Quasi perdo persino l'equilibrio.
La prima cosa a cui vado a pensare — per cui provo puro sdegno — non è tanto il gesto, bensì il modo con il quale ha osato toccarmi e con il quale mi ha trascinata neanche fossi una bambola priva di anima e sentimenti.
Inoltre... mi sta sgualcendo e rovinando la maglietta — una di quelle invernali che più ho a cuore — con il disegno del Gaifū kaisei, meglio conosciuto come "Fuji Rosso", una delle opere più famose del maestro Hokusai.
Un tremolio di irritazione e nervosismo fa capolino e s'impadronisce dell'effigie delle mie labbra screpolate.
Quella maglia l'ho cercata per mesi interi, sono riuscita a trovarla per un mitico colpo di fortuna su internet e ho dovuto persino sottostare a un'attesa interminabile per riceverla siccome proveniva dal Giappone. E lui... il Perfettino dalla chioma dorata, me la sta sgualcendo.
Sono costretta a chiudere le palpebre, ad addentrarmi in un regno di buio apparente onde evitare di serrare le dita attorno al suo collo per poi stringere con tutta la mia forza. Devo stare calma, non devo arrabbiarmi altrimenti è la fine. Non posso strangolare Leonardo Aspromonte davanti al Caravaggio, non si può.
«Allora non avete minimamente capito che non lascerò mai il Caravaggio nelle vostre sudice mani? Mi sembra di essere stato chiaro nel messaggio che ti ho mandato» Leonardo mi sibila all'orecchio premurandosi di non farsi udire da nessuno oltre me, in particolare da Diego, a pochi metri da noi.
Ora capisco perché si è sbarazzato del megafono.
Come sento pronunciargli questa immane stronzata, similare a quella del messaggio di ieri, mi vedo costretta a spalancare gli occhi — il ritratto dello sconcerto. Deve comprendere, deve vedere quanto io sia adirata, non può sfuggirmi.
Senza provare il minimo timore di quella vicinanza del tutto improvvisa e del tutto sgradevole, della sua patetica minaccia e della sua eterocromia ornata d'azzurro, sollevo il braccio destro e ghermisco il polso di Leonardo, quello con il quale mi ha catturata. Le mie dita si legano a lui a più non posso, quasi con urgenza, tuttavia nessuna intenzione di mollare la presa.
Lui cattura me, io catturo lui.
«E tu hai minimamente capito che non ti baceremo mai il culo? Anzi, Diego sarebbe più che felice di aprirtelo. Inoltre non provare mai più a scrivermi, è disturbante. E mi sembra di essere stata chiara quando ti ho detto che mi repelle essere toccata da te» controbatto sibilando alla sua stessa maniera, augurandomi di essere chiara almeno adesso.
C'è dell'assurdo in tutto ciò — abbiamo un'intera scuola a guardarci, miriadi di occhi che ci osservano incuriositi eppure riusciamo a scannarci ugualmente come se fossimo soli e privi di pubblico. È come se ci fossimo io e Leonardo soltanto, come se nessun'altro al di fuori di noi avesse importanza.
Noi offriamo spettacolo, diamo sempre spettacolo — e così, di primo mattino e prima che suoni la campanella, non oso pensare a quanto possa essere da orgasmo.
Passano pochissimi secondi dall'ultima parola che pronuncio, ciononostante pare che passino minuti interminabili. Sembra che rimaniamo a osservarci in silenzio per un tempo infinito — sguardi cheti che s'infrangono l'un l'altro, traboccanti di tutto e di niente —, finché egli sta per aprire percettibilmente la bocca per dire qualcosa, finché Diego mi strappa via con fare brusco dalla sua presa, tirandomi all'indietro.
Le dita di Aspromonte scivolano via dalla stoffa come se fosse burro e io barcollo colta alla sprovvista dall'intervento del mio amico.
Evidentemente Diego deve essersi reso conto della situazione sopra le righe e pare quasi che voglia sfruttare l'occasione per regalare un gancio destro sullo zigomo angelico del dio Apollo.
Pare.
Diego mi spedisce dietro di sé, portandosi egli stesso in avanti, giungendo sotto il tiro di Leonardo. La differenza d'altezza fra i due è quasi minima, il primo è alto un metro e ottantotto centimetri, Leonardo poco più.
Nessuno deve alzare i propri occhi per guardare meglio l'altro.
Sono alla pari. Quasi alla pari. Perché Diego sta caricando il braccio per sferrargli uno di quei pugni che facilmente si dimenticano.
"Porca troia! Se Diego lo colpisce verrà sicuramente sospeso da scuola per rissa dentro contesto scolastico, allora sì che sarebbe un fottuto casino!", penso seduta stante con la bocca aperta dall'orrore.
«Questa te la sei proprio cercata, piccolo stronzetto insolente» sento sibilare Diego, nessuna pietà.
Il cazzotto sta quasi per decollare e io sono così confusa e disorientata da non sapere cosa fare, come agire, come intervenire. Non mi viene in mente niente, ho la testa vuota. Sono una totale inutilità...
Ma è Thalìa, è Thalìa che s'intromette salvando la situazione. La santa e benedetta Thalìa Obi Malek.
La ragazza s'interpone tra Diego e Leonardo, facendo addirittura arretrare quest'ultimo grazie a una lieve seppur voluta spallata. Poggia entrambe le mani sulle spalle di Diego e ficca i suoi occhi dritti in quelli di lui, occhi non troppo bonari, dall'ardore severo e che non ammette repliche.
«Noi. Non. Abbiamo. Bisogno. Di. Ricorrere. A. Questi. Metodi!» scandisce parola per parola con il duro tono dell'inflessibilità, «Mi hai capito?».
Diego continua a carbonizzare con lo sguardo la figura del nemico, tuttavia, se non altro, ha abbassato il pugno.
«Coraggio, allontanati da lui. Ora!» lo esorta Thalìa con quella voce di chi non è abituato ad arrendersi, spingendolo all'indietro.
Il gesto del mio amico ha causato un bel vociare fra la folla, ha ridestato loro le proprie corde vocali. Il brusio è così alto che rimango perplessa: come mai nessuno dei professori o bidelli è intervenuto?
Ma ho parlato troppo presto, davvero con largo anticipo.
Saetto l'attenzione verso gli studenti del Caravaggio, e proprio lì — la figura fosca che spicca a priori — vi è il professor Emilio Lunanuova che si sta facendo strada nel mezzo di quell'agglomerato di persone.
Però! Stamani è in anticipo il caro professore. I suoi capelli corvini sono tutti in preda al caos, spettinati, e gli regalano un'aria ancor più tenebrosa e sinistra.
«Che diamine è tutto questo gran baccano? Come mai voi studenti vi siete raggruppati di fronte all'ingresso? Qualcuno mi spieghi il perché di tutto questo frastuono fuori luogo!» esclama alquanto arrabbiato, guardandosi prima alle spalle e poi verso di noi, gli artefici.
Mi viene spontaneo dar lui una risposta soddisfacente dal momento che sono in mezzo a tutto ciò, e poi meglio che sia io a rispondere anziché Leonardo. Lui sarebbe capace di peggiorare le cose, non conosce affatto Lunanuova e di quanto possa rompere il cazzo. Una sola parola di troppo, e per noi sarà la fine.
Sto quasi per alzare il dito e proferire parola quando Alberto Del Bianco, uno dei grandi amici di Leonardo, interviene al posto mio, affiancando il prof., emergendo dalla calca di ragazzi.
«Se lo domanda pure, professore? Mi pare sia ovvio che la colpa di tutto questo gran casino sia dell'Artistico. Quel Falco ha scambiato il Caravaggio per il Parlamento» asserisce senza complimenti Alberto, indicando la cassa, la maglietta di Diego, il megafono e ogni oggetto incriminante. Ogni dettaglio che porta alla nostra disfatta.
«Mi permetto di dissentire!» grida un'altra voce alle loro spalle, venendo a galla da quel fittume di giacchetti, «Io ho assistito dal primo momento e posso affermare che si è trattata di una normalissima "campagna politica scolastica" in vista delle elezioni di giovedì. Questa non è altro che una frecciatina da uno del Classico che non sa accettare un po' di sana rivalità» afferma Marta senza perdersi di contegno e venendo in nostro soccorso. Le iridi smeraldo che trattengono per miracolo una scarica elettrica indirizzata proprio verso Alberto Del Bianco.
«Tsk... io direi che si tratta di frecciatine da persone immature che provano dell'astio, più che altro» enuncia Lunanuova con una risatina sarcastica, proprio da presa per il culo. Se non altro non prende né le parti di Alberto, né quelle di DarthMart. Decide di essere neutro.
«State pur certi che ne farò riferimento al preside, per i miei alunni. Voi del Classico non siete affar mio. E mi domando se ci sia ancora un preside in questa benedetta scuola!» aggiunge poi il professore guardando prima Marta, poi me e infine Diego e Thalìa. E non lo fa amorevolmente, affatto...
Perfetto, saremo sicuramente infinocchiati a dovere se farà rapporto solo a noi. I Perfettini hanno il culo coperto dato che non c'è nemmeno un loro professore presente.
Ti pareva che doveva capitare proprio un nostro docente, per di più Lunanuova!
Ma non poteva esserci il professor Ferraresi? Lui si sarebbe limitato a dire «Andate in pace, ragazzi miei. Le ripicche e il rancore non portano a nulla, aprite il vostro cuore l'uno con l'altro». E non è nemmeno il professore di religione!
Emilio sta per sorpassarci per poi entrare dentro l'istituto quando Marta lo anticipa, fermandolo sul posto. La mano premuta contro la stoffa del giacchetto.
E lo lascia sorpreso — di quello stupore che decora i lineamenti quando meno te lo aspetti.
«Ma lei, professore, da che parte sta?» gli dice con tanto di sorriso disgustato.
C'è un forte odore di chiuso, di umidità e di fili elettrici fulminati qua sotto. E di legno marcio — la tipica emanazione di un ambiente che è stato precluso per tanto tempo.
È completamente buio, l'unica luce a illuminare i bordi della stanza è quella che fa capolino dalla porta semi-aperta. Sembra quasi di essere in una caverna anziché in un'aula sotterranea del Caravaggio adibita per le vecchie attrezzature da pittura, per i vecchi manichini e per i vecchi banchi. Di quelli rotti e di cui c'è ben poco da fare per aggiustarli. Di quelli sporcati di anni passati, esperienze che furono e vite di studenti che hanno brillato per tutta la durata del liceo.
C'è un qualcosa di ascetico e ammaliante qui sotto... granelli magici nell'aria filtrati da quel flebile bagliore, lo stesso che illumina i nostri volti.
Qua sotto siamo al sicuro da orecchie indiscrete, soprattutto da occhi troppo curiosi. Niente trapelerà da queste quattro mura fredde e screpolate. È come se stessimo ordendo un complotto io, Marta e Laira, colei che ci ha avvisate della soffiata di ieri mattina.
Il mio fedele uccelletto, colei che canta solo su mio ordine.
Non v'è elettricità, i lampadari appesi al soffitto sono fulminati, e tutta questa oscurità ad avvolgerci le membra non fa altro che aumentare il mistero di questo stravagante intrigo. È l'eccitazione dell'arcano, il pensiero di essere in qualche modo scoperte che ci fa luccicare le pupille nella penombra. Occhiate scaltre, occhiate sagaci, sfavillio di segreti.
Io e Marta abbiamo deciso di incontrare Laira durante l'intervallo nei sotterranei senza pensarci due volte. Anche se ancora non sa di preciso del perché l'abbiamo condotta qua, non sa di cosa vogliamo parlarle. Ma penso che lo possa intuire facilmente, Laira non è affatto una ragazza stupida o stolta.
Lo potrebbe far credere, di primo acchito, guardandola.
È solita a portare gli scuri capelli legati in due stretti chignon in cima al capo e gli occhiali dalla montatura alla Harry Potter — nessuna lente a contatto —, e la sua mise preferita è senza ombra di dubbio l'unione fra salopette di jeans e maglioncino di qualsiasi colore. Laira adora i colori, fosse per lei si getterebbe all'interno del proprio armadio per uscirne vestita di ogni stoffa — un giorno mi rivelò che intendeva scoprire dove nasce la scia di un arcobaleno, per poi passarci attraverso e rivestirsi delle sue tinte sgargianti.
Osservandola con quella cura riservata a un solido legame di amicizia non si direbbe che abbia compiuto sedici anni, non si direbbe che si avvii per la strada dei diciassette — sembra quasi una bambina. È quell'aria ingenua, quell'espressione intenzionalmente fanciullina che trae in inganno la maggior parte delle persone, quelle movenze da perfetta dolce metà di Peter Pan.
Ma Laira sull'Isola che non c'è non vi ha messo mai piede, Laira interiormente rasenta proprio tutto il contrario in maniera inesorabile; ella è dotata di quella rara scaltrezza che tutti credono di avere mentre in realtà si tratta di mera utopia atta a servire per sentirsi un passo avanti agli altri, possiede tagliente schiettezza e sa benissimo come farne uso senza rimanerne ferita dalle sue stesse lame — tutt'altro che sprovveduta.
Laira Visparelli è quella tipica ragazzina da non sottovalutare.
Nel contempo che Marta è in piedi vicino alla porta, a lanciare un'occhiata di tanto in tanto, io sono seduta sopra uno degli innumerevoli banchi ormai dimenticati e rovinati dal tempo, Laira di fronte a me impegnata a bere il suo Estathè al limone, la metà della sua merenda.
«Credo di sapere il perché mi avete fatta venire qui» fa Laira senza utilizzare alcun tipo di tono particolare, calma e tranquillità ne decorano il bordo delle parole.
«E io so che tu lo sai... difficile che ti sfugga qualcosa ma preferisco comunque dirtelo, così che le carte siano tutte in tavola», annuisco esibendo un sorriso divertito.
Come stavo appunto dicendo, lei ha già intuito.
«Più che altro vorrei mostrartelo», ci penso meglio e decido che farle vedere il messaggio di Leonardo sia la cosa migliore. «Il fatto che abbia scritto "ho deciso di essere clemente e di passarci sopra" non significa che voglia farla passare liscia alla "lingua lunga"» dico piegando l'angolo della bocca verso il basso, attendendo che Laira finisca di leggere.
«Sarebbe stato strano se ci fosse davvero passato sopra» replica la ragazza alzando le sopracciglia, scettica.
«Vogliamo solo raccomandarci con te di non farne parola con nessuno della tua soffiata. Non vogliamo che poi, involontariamente, questa voce finisca nelle orecchie sbagliate» interviene Marta col suo solito modo di parlare troppo autorevole, troppo trattenuta.
«Potete stare tranquille, non lo dirò a nessuno. Muta come una tomba» ci rassicura Laira con quel sorrisetto che suggerisce che mai — e poi mai — potrai conoscerla fino alla fine, nel suo profondo.
«Nessun altro lo sa, vero?» le domando mentre mi rificco il telefono nella tasca dei Levi's che un tempo appartenevano a un'Adele adolescente.
La ragazza stavolta inarca un sopracciglio, quasi se le stessi chiedendo un'ovvietà a livelli biblici. «Non lo sa nessuno» afferma con rigorosità per poi tornare a dedicarsi di nuovo al suo Estathè ormai finito.
«Meglio così, e se ci dovesse essere qualsiasi tipo di problema informaci subito» proferisco lasciandomi sfuggire un lungo sospiro, abbassando gli occhi e stuzzicando le pellicine delle dita.
«Ehi, ragazze, non ci sarà alcun problema. So tenere un segreto, anche se ancora frequento il terzo e anche se ancora potrei sembrare una bambina delle medie» tenta di smorzare la tensione, dandomi un piccolo buffetto sul braccio.
«Sembri Natalie Portman quando recitava in Léon» la correggo io insieme a una risatina nervosa.
Poiché effettivamente Laira Visparelli ha lo stesso di sguardo di Natalie Portman e le stesse labbra. Carnose e morbide, colme di un riserbo lontano, quasi sfuggente. Un'immensa fortuna.
«È un film? Dovrei vederlo?» chiede disorientata.
«Sì, dovresti vederlo!» tuona Marta alle sue spalle, lo stupore palpabile di fronte a tanta ignoranza volontaria.
«Okay, lo vedrò» parla l'altra appena spaventata dal fervore di Marta, «Dite davvero che somiglio a Natalie Portman?» aggiunge infine con una punta di malcelata superbia.
«Non fare troppo la sfacciata, cara Laira, non dovresti stuzzicare due studentesse più grandi di te» la punzecchia Marta assottigliando la fessura degli occhi, il che dà lei un aspetto del tutto felino.
«Studentesse che dovrò decidere se votare o meno giovedì...» ribatte con sguardo furbetto, spezzettando la plastica che ricopre l'Estathè.
«Spiacenti, noi non compriamo voti. E comunque, sai che il voto è segreto?» risponde DarthMart a quel simpatico battibecco che mi fa sorridere senza volerlo.
«Semmai votassi per noi avrai la garanzia che daremo a Leonardo quattro calci nel culo» enuncio con indifferenza, facendo spallucce come se fosse una cosa di così poco conto.
«In questo caso vedrò di pensarci» esprime la ragazzina grattandosi metodicamente sotto il mento. «Nah, sto scherzando, ho deciso di votare per voi nel momento esatto in cui ho saputo della vostra candidatura. Pure quel Diego... wow, stamattina sembrava volesse spaccargli il naso a quel biondino. Eh sì, Diego ha proprio carisma, prestanza e fascino» confessa dopo qualche secondo di silenzio, elogiando in particolar modo il nostro amico.
«Se Diego avesse spaccato il naso al biondino a quest'ora sarebbe stato sospeso e sollevato dalle elezioni!» esclamo senza trovarci nulla di divertente — quel briciolo di apprensione che ancora se ne sta lì, deciso a non andarsene.
«Okay, okay, non prendertela. È solo che per me è un fico, tutto qua», alza le mani Laira in segno di resa.
«Se Leonardo dovesse essere destinato ad avere il naso rotto, in futuro, vorrei essere io il boia» sibilo come un serpente, osservando la figura di Laira di sottecchi, le pupille degli occhi rivolte verso l'alto. Il ritratto di velata follia.
«Sei terrificante quando fai quello sguardo» m'informa lei con un certo distacco, quell'indifferenza cui ho fatto l'abitudine — immacolata spontaneità.
«Meglio così. Me ne ritorno in classe, sta quasi per suonare la campanella e io non ho ancora fumato una cazzo di sigaretta!» esclamo con le palpebre colte da un tremito di nervosismo; ma non per via della schiettezza o leggerezza di Laira.
Il motivo, qua, è ben chiaro a tutti. E ha ciuffi biondi e iridi che ricordano l'oceano, con un ghirigoro dorato.
La campanella della ricreazione suona appena termino di inalare l'ultimo tiro della Winston. Marta è costretta a gettare via metà del suo drum, purtroppo ha perso tempo per rollarselo.
Entrambe fuggiamo per ritornare nella nostra rispettiva aula, fuggiamo perché abbiamo storia dell'arte in terza ora e non abbiamo la minima voglia di farci fare qualche scenata; non dopo quello che è accaduto stamattina con Lunanuova, almeno.
Dinanzi alla porta troviamo Diego a sbarrarci la strada, sembra proprio che ci stesse aspettando.
«Dove siete state? Vi ho cercato per tutto il tempo durante l'intervallo!» borbotta il ragazzo piuttosto accigliato, esaminando prima Marta e poi me.
Nemmeno volesse farci un esame accurato a livello medico.
«Siamo state in bagno tutto il tempo. Ho il ciclo e mi fa male dannatamente la pancia. DarthMart mi ha fatto supporto morale e mi ha dato un Oki» sferro l'attacco letale, facendo affidamento sulla scarsa memoria di Diego.
Sì, perché ho avuto il ciclo a più della metà del mese e grazie a quello ho saltato la lezione di educazione fisica.
Tutto pur di evitare di pronunciare il nome e la faccenda che gira intorno a Laira.
Il mio amico come sente la parola "ciclo" non dico che sbianca — perché Diego sfoggia normalmente un pallore degno di un vampiro —, però ci va assolutamente vicino! Quasi che vorrei scoppiargli a ridere in faccia, ma mi costringo a rimanere seria dal momento che gli ho appena rifilato una cazzata.
«Ho capito. Non aggiungo altro» biascica quattro parole per poi defilarsi all'interno la classe. Sono persino costretta a dare una gomitata a Marta, che si è messa subito a sogghignare come Diego ha voltato i tacchi.
«E lasciami ridere, stronza! Tra poco avrò da piangere visto che andrò direttamente fra le braccia del boia di storia dell'arte» borbotta Marta rifilandomi una spintarella. «Se non mi mette almeno un sei, giuro, andrò a teatro quando ci sarà lui a recitare e lo riempo di melassa!».
La suoneria che ho impostato del mio cellulare prende a suonare nel momento esatto in cui mi sto allacciando il gilet rosso della mia divisa da lavoro.
Sono quasi tentata di lasciarla suonare all'infinito dato che è la canzone del balletto leggendario di Pulp Fiction, "You can never tell" dell'immortale Chuck Berry. È sempre una delizia poterla ascoltare, una tentazione — devo smetterla di scegliere melodie che mi piacciono, altrimenti ogni volta che qualcuno mi chiama poi cado in seduzione —, ma quando vedo che sul display c'è il nome di Dad allora perdo seduta stante il desiderio di continuare ad ascoltare.
Allungo il braccio verso il mio letto e afferro l'apparecchio, accettando la chiamata di mio padre.
«Ciao, papà» dico astenendomi volontariamente dal pronunciare il consueto "pronto" — le convenzioni sociali, quelle ovvie, tendo a saltarle a piedi pari, evitandole come la peste.
«Ciao, pulce! Come stai?» arriva la voce allegra e spensierata dell'uomo che ormai non vive più sotto questo tetto da quando avevo la bellezza di quattro anni.
«Come vuoi che stia, sono perfettamente in salute e la scuola è okay. Ci credi che non so come risponderti?» lo metto al corrente di uno dei miei più grandi disagi, prestando attenzione ai bottoni dei polsini della camicia — piccoli e delicati —, abbottonarli mentre tengo premuto il cellulare contro l'orecchio con la spalla non è mica un gioco da ragazzi.
«Be', tecnicamente mi hai già risposto... però lo so, è una domanda del cazzo. È solo che la convenzione sociale impone di farla, questa domanda del cazzo», viene in mio aiuto, e me lo immagino che si sta grattando la nuca mentre me lo dice. Impacciato e anche disilluso.
«Fa nulla, ad alcuni fa piacere sentirselo chiedere. Come alla mamma per esempio, a lei piace da matti» affermo con gentilezza.
«Per l'appunto, Adele come sta?» domanda cambiando il soggetto dell'argomento.
«Sta benone, abbastanza da venire a vedere un film stasera con una sua amica all'Arcadium» lo informo mentre vado alla ricerca del papillon da legarmi attorno al colletto della camicia.
«Ops, mi sa che ti ho importunata» proferisce lui con un che di corrucciato dall'altro capo, capendo che forse ha scelto il momento meno adatto per telefonarmi.
«Non preoccuparti. Dovrei essere lì per le sei, ma attacco alle sei e mezza» rassicuro mio padre senza aver paura di arrivare in ritardo considerando il carattere di Giovanni, il mio capo. Lui non è affatto un tiranno, ed è così con lo staff intero.
«Non prendertela, sai che ho una memoria piuttosto a breve termine. Va facilmente in corto circuito nemmeno fosse un impianto elettrico vecchio di secoli. Non ricordo mai i giorni in cui lavori, tanto meno gli orari!» si giustifica papà sinceramente dispiaciuto.
«Nemmeno zia Angelica ha una memoria fantastica» gli ricordo mettendomi a ridere.
«Già, non è proprio il punto forte di me e mia sorella, quello di ricordarci delle cose anche più semplici» ammette imitando il mio ridacchiare divertito.
«È un vostro tratto distintivo, come me con la fantasia» sottolineo e al contempo mi vado a infilare il giacchetto e lo zainetto che funge da borsa.
Mi do una rapida occhiata allo specchio verticale appeso al muro della mia stanza — come impone il regolamento del cinema sono costretta a indossare dei jeans neri in modo da creare un giusto abbinamento con la camicia bianca e il gilet rosso bordeux.
La frangetta che solletica la fronte si è un po' gonfiata a causa dell'umidità della doccia che ho fatto venti minuti fa, però il resto dei capelli è a posto: i ciuffi per metà bruniti sono tirati all'insù e raccolti in uno chignon apparentemente disordinato ma assai solido e intricato, il resto delle ciocche rosee mi accarezzano le spalle e poco più.
Non mi sono truccata, non mi trucco quasi mai in effetti, soprattutto per andare a lavorare.
Ho la fortuna di vantare delle sopracciglia folte e scure, che ornano con la perfetta armonia il mio viso affilato e niveo — non ho necessità di colorarmele con la matita. Ciglia lunghe e deliziosamente oblique verso l'esterno ne agghindano l'effigie dell'occhio, il che non fa altro che aumentare il mio tratto somigliante a quello orientale. Due pupille scure e buie come una notte popolata da fantasmi mi scrutano con aria quasi annoiata — incutono angoscia perfino a me medesima.
L'avere una pelle particolarmente bianca, quasi cerea, equivale alla nota negativa che durante l'inverno sono oltremodo soggetta al gelo pungente del vento; ho costantemente le guance, il naso e le labbra arrossate, screpolati, piccoli strati di epidermide che si staccano, con silenzio, e cascano giù.
Tuttavia mi donano un aspetto amabile — naso e zigomi rossi come se mi fossi scolata un boccale di vino.
Sono pronta per andare. Devo solo avvertire la mamma e lei sarà pronta per accompagnarmi.
Diamine, non vedo l'ora di prendere la patente a tutti gli effetti! Questo foglio rosa mi sta stretto. Detesto dipendere da qualcuno così, anche per un nonnulla come questo.
«Senti, Mati, ti ho chiamata non solo per farti quella domanda del cazzo che io e te disprezziamo allo stesso modo, l'ho fatto per invitarti a pranzo. Domani» spiega mio padre andando subito al sodo, cercando di non farmi perdere tempo.
«Per me può andare, basta solo che mi vieni a prendere a scuola. Purtroppo ancora non sono autonoma, ma manca poco!» gli do conferma sapendo di non avere programmi particolari per domani e poi è giusto che ritagli un piccolo spazio anche per lui.
Gli voglio sempre bene. Non sono uno di quei cliché che vive con la madre e odia il padre per motivi assurdi. Sono matura e so che i miei genitori non si amano più — come so anche che il mito dell'amore non è eterno, va e viene, ai più fortunati rimane... ai meno fortunati, be', si sa —, io dico che hanno fatto proprio bene a divorziare. È orribile continuare a stare insieme con una persona per cui non provi più niente, in assoluto, soltanto una voragine vuota, che mai più verrà riempita — è una tortura.
Loro sono stati abbastanza svegli; "abbastanza" perché potevano pensarci prima di concepire me, magari.
Ma non gliene faccio affatto una colpa, siamo esseri umani e gli esseri umani sbagliano costantemente: la loro vita è basata unicamente sull'errore.
«Ovvio che sì, per che ora devo aspettarti? Anzi, no! Non dirmelo, voglio indovinare. Ehm... devo aspettarti per le due?» azzarda a dire Fabrizio quasi assottigliando la voce per paura di sparare una stronzata.
«Ci sei andato vicino, all'una e trenta è corretto» lo correggo in tono scherzoso.
«Pazienza, ci ho provato. Molto bene, allora ci becchiamo domani all'entrata della tua scuola», la prende con filosofia.
«Ti ricordi almeno dove si trova la mia scuola?» lo punzecchio.
«Ah-ha! Sì, quello lo so, vai al Caravaggio, stronzetta» emette una finta risata, ma se non altro azzeccando il nome del mio liceo. Una vittoria.
«Ottimo, ci vediamo domani, vecchio» lo saluto capendo che la telefonata è giunta al termine.
«A domani, pulce. Buon lavoro» mi augura papà con dolcezza.
Premo il tasto rosso e pongo fine alla chiamata, poi metto il mio cellulare in modalità "vibrazione"; non lo spengo mai quando vado a lavorare, tanto quando i film sono in proiezione mi capita spesso di stare su Facebook o di parlare con Marta su WhatsApp.
Mi capita anche di fare ricerche assurde su Wikipedia, come ad esempio leggere la vita completa di Quentin Tarantino o di leggere informazioni su qualche fiore raro.
Faccio un lungo respiro prima di uscire dalla camera, un sospiro lascia la mie labbra spiccando un volo esemplare — spero che stavolta Giovanni non mi chieda per la millesima volta di uscire con lui.
La mamma ferma la macchina di fronte all'entrata del cinema Arcadium, accostando appena sul ciglio del marciapiede, e m'informa che sarebbe venuta con la sua amica per lo spettacolo delle nove e un quarto, non le sarei mancata a cena.
Una volta riemessa nel traffico serale di Firenze mi appresto a entrare dentro il mio luogo di lavoro, dentro il mio mondo dove tutto è possibile e sognare non è proibito.
Il cinema di Giovanni è una vera chicca vivente, uno spettacolo per gli occhi e per la mente di chi osa immaginare — di chi mai è satollo di fantasia, di chi mai più ha intenzione di rinunciare alle ali per toccare di nuovo il suolo della realtà, scambio mai più iniquo di così, degli eterni rivoluzionari di desideri e utopie.
Quando vado ad aprire premendo entrambi i palmi delle mani sulle porte di spesso vetro e rilegate d'una cornice dorata vengo pervasa da quella dolce aura d'euforia che ogni volta ha la cortesia di porgermi il benvenuto — mi rende consapevole che sto per varcare la soglia di un posto che amo con ogni centimetro di me, di un regno incantato dove tutto è possibile e dove ogni parola è citazione, ogni atto è poesia.
Già annuso l'aria profumata di pop corn al miele, moquette e carta per biglietti.
Ogni angolo dell'Arcadium è sul modello del grande cinema americano degli anni Ottanta; Giovanni ne è un fervente appassionato quasi quanto me, anche se lui è un esperto a tutti gli effetti. Ha studiato la materia all'università, conquistando infine una splendida laurea, incorniciata di bordi preziosi e pregiate soddisfazioni — imparagonabili.
Appena si entra all'interno del locale si ha una visuale a trecentosessanta gradi di quel reame che ai miei occhi appare come le fattezze di un ipotetico paradiso — davanti, osservando tutto a destra, vi è la biglietteria, la postazione che occupo io e un'altra ragazza dipendente come me, procedendo a sinistra vi è il ripiano bar, che è praticamente tutto decorato in stile The Great Gatsby, ed è la postazione che ricopre Giovanni oltre che quella di proprietario.
Nel 2013, quando uscì l'omonimo film con Leonardo di Caprio, anche se ancora non lavoravo qui, mi è stato raccontato che gli interni vennero tutti addobbati con lo stile degli anni Venti, in pieno atto intrinseco all'opera. Nella mia immaginazione traspare come una meraviglia ultraterrena.
Questa piccola chicca formato cinema dispone di tre sale, la Sala Tre è proprio fra la metà del bar e della biglietteria, la Sala Due è nel piano sottoterra mentre la Sala Uno è al piano superiore. Ordinate e facili da trovare. Ampie e spaziose.
Ma quando si dice che il bello deve ancora arrivare hanno ragione, perché una delle cose che più mi fa sognare di questo luogo magico sono le pareti. Al di là dei colori della tintura, al di là del loro materiale, vi è un qualcosa che salta all'occhio, ti cattura e non ti lascia più — i poster affissi su in alto, in bella vista. Il triplo più grandi di quelli che ho in camera mia. Poster dei film che hanno fatto la storia e sono passati per i posteri come E.T., Pulp Fiction, Star Wars, Arancia Meccanica, Shining, Trainspotting, Nightmare Before Christmas, il Corvo, i Goonies, l'Esorcista e Scarface.
In ognuno vi sono due lampadine a illuminare la vetrina, le tipiche lampadine da camerino teatrale. La luce perfetta per abbagliare tutta quella maestosità.
E infine, per completare questo spettacolare quadretto, Giovanni mette dal computer le molteplici colonne sonore dei vari film, importanti e non. Per esempio, in questo preciso istante, si può ascoltare la colonna sonora di Ghostbusters. Viene quasi voglia di mettersi a ballare...
Si può comprendere del perché questo cinema è tutt'ora attivo e sempre pieno di gente.
Molte persone preferiscono un posto come questo per vedere un film, anziché un multiplex privo di fantasia e di calore.
Dopo aver speso i miei consueti cinque minuti a rimirare tutta quella meraviglia, vado immediatamente nella stanza degli armadietti, dove io e l'altra dipendente del martedì-giovedì-venerdì appendiamo giacchetto e borsa — in un batter d'occhio sono pronta per darle il cambio.
Violetta appena mi vede sorride e le si illuminano le iridi, deve essere stanca e non vede l'ora di tornare a casa.
«Eccomi qua, pronta a prendere il testimone» dico affabile, incamminandomi verso la cassa.
«Meno male! Sono fusa, oggi c'è stata una classe intera di un liceo a vedere Annabelle e non ti dico quanti nerd per vedere Guardiani della Galassia» spiega Violetta mimando il gesto di strozzarsi la gola.
«Non lamentarti, poi Jevanni le mance le dà a noi» le ricordo inarcando un sopracciglio.
«Hai ragione, più che ragione, ma io sono stressata. Sai cosa farò quando metterò piede in casa? Rilassarmi? Tsk, quando mai Violetta si rilassa! Mangiare? Uhm, forse Violetta qualcosa può anche sgranocchiare, come un panino, come patatine iper-caloriche. Uscire con il ragazzo? No, assolutamente no, perché Violetta deve studiare! Violetta ha un esame fra una settimana, un esame fuori programma, un appello straordinario del professore. Non so se chiamarla fortuna o sfiga» borbotta prendendosi la testa fra le mani, gli occhi che sembrano schizzare fuori dalle orbite.
Violetta già ha le pupille terribilmente rotonde, quando le spalanca somiglia a uno di quei personaggi che si vedono su American Horror Story. Quasi che mi viene da ridere di fronte al suo delirio.
«Coraggio, allora. Vai. Ora sono arrivata», la sprono a fare le valigie e a correre sopra i suoi libri universitari.
«È quasi un mese che non faccio sesso. Un mese! Se non passo questo esame violento il prof., e non m'importa se ha cinquant'anni» continua a sproloquiare alquanto incavolata col mondo intero.
«Allora vai a casa e fai sesso col tuo ragazzo, Violetta!» esclamo cercando di superare il suo tono di voce, cercando di togliermela dai piedi. Una volta che inizia a lamentarsi di qualcosa, qualsivoglia cosa, è la fine.
«Vado a casa e studio, Matilde, e studio! Non posso fare sesso con il mio ragazzo, non ne ho il tempo!» mi ricorda lei gesticolando con le mani, se non altro mi ha lasciato lo sgabello della biglietteria libero.
«Allora vai a casa e studia, Violetta!» ripeto stavolta.
«Vado a casa, sto andando! Sto andando!» grida Violetta in una delle sue innumerevoli crisi d'isteria, allontanandosi dalla cassa.
«Au revoir, Violetta» la saluto imitando il colonnello Hans Landa di Bastardi senza gloria, sostituendo il nome Shoshanna con quello della mia eccentrica collega.
Ma il delirio non finisce qui, perché come Violetta alza le chiappe e si leva di torno, ecco che arriva a sostituirla sulla scena il grande Jevanni. Sempre puntuale per venirmi a salutare con la sua galanteria.
«Matilde, ben arrivata» esordisce con voce mielosa degna di un lungometraggio Disney, le braccia spalancate quasi fosse di fronte al pubblico degli Oscar.
«Ciao, Jevanni» ricambio il saluto con cortesia, non mi viene naturale fare la stronza con lui nonostante la sua costante insistenza e ossessione verso di me.
Giovanni indossa la stessa divisa da lavoro che ho io con la differenza che al posto del papillon ha una cravatta nera. Ha ventisette anni a tutti gli effetti, ma fisicamente ne dimostra di meno.
Ha il mento piacevolmente affilato — non in quella maniera grottesca tipica dei film — incorniciato da baffi e barba alla Jack Sparrow, con il piccolo dettaglio che i baffi sono arricciati all'insù. E non scherzo quando dico che la barba è davvero identica a quella del pirata, cioè ce l'ha intrecciata in due treccine.
Dal mio punto di vista ha stile.
«Sempre un piacere averti qui», si avvicina fino a che non afferra la mia mano per farne il baciamano di routine, leggero sfiorare di labbra, mai tocco completo.
«Finché mi paghi» lo prendo in giro scoppiando a ridere per sdrammatizzare.
«Sabato sera ci sarà un incontro con la regista francese emergente Dominique Noirhomme, al Palo Verde. Ti va di venirci con me?» mi chiede sorvolando sulla mia battuta come se nemmeno l'avessi pronunciata, fissandomi con i suoi grandi e irreali occhi castani.
Ci risiamo... Ed ecco di nuovo uno dei suoi inviti.
«Jevanni, sei molto gentile, davvero, ma la mia risposta è sempre la solita. Mi dispiace» rifiuto appellandomi a quel copione immaginario cui ormai ne seguo le orme, seppure con il dovuto tatto e la dovuta gentilezza.
«Capisco, non fa niente. Sei come un biglietto di un Gratta e vinci, ho solo trovato un "ritenta"», mi fa l'occhiolino per poi tornare alla sua postazione del bar.
«Non ti piace proprio vincere, eh? Tentando con un'altra ragazza, magari...» azzardo a dire con cautela.
«In quel caso non vincerei» conclude lui con un ghigno che esprime un che di beffardo.
Alle sette è in previsione la proiezione di Annabelle e qualche coppia di fidanzati e gruppi di amici già si sono presentati per acquistare i biglietti. La serata è iniziata più che bene e sono solo le sei e quarantasette.
Ad allietare le orecchie con quella solennità e imponenza appartenente soltanto a un grande colossal c'è la colonna sonora de Il buono, il brutto e il cattivo, uno dei capolavori del maestro Ennio Morricone. Ed è la ragione delle mie labbra allineate in un sorriso definito, verace, il motivo del mio ondeggiare avanti e indietro il collo — con movimento delicato — a ritmo della incalzante melodia.
Sembra di essere coi piedi premuti contro la sabbia nel selvaggio West, incuneata fra i capelli, colpevole di sporcare la pelle degli stivali da cowboy e del prurito agli occhi, impegnati a osservare un orizzonte ardente e infinito.
All'improvviso sento le porte del cinema aprirsi e il rumore mi strappa via da quel vagabondare fantastico che spesso mi confina dentro di sé — m'impongo un leggero contegno visto che sono la cassiera.
E — come a dimostrare che l'immaginazione non abbia limiti terreni — accade tutto in pochissimi secondi; io che mi sistemo più comoda sopra lo sgabello e poi innalzo le pupille, pronta per dedicare un cortese saluto a chi è appena entrato.
La canzone che riempie l'atrio del cinema accompagna il mio sguardo — cavalcando accanto a lui come fosse un fedele compagno di battaglia — sino a farlo collidere su colui che ha varcato la soglia, esattamente nel momento più importante della traccia, quasi a voler enfatizzare, a marcare con decisione, lo scambio di occhiate nemmeno fossimo in un duello all'ultimo sangue.
È qui, Leonardo Aspromonte è qui. Dentro il cinema, il cinema dove lavoro, il mio angolo di idillio segreto. L'Arcadium di Jevanni.
Dio mio, com'è potuta accadere una cosa del genere?
Aspromonte è decisamente un tipo da multiplex, ne sono sicura! Che cazzo è venuto a fare qua? In una città grande come Firenze, la magnifica, come diavolo è riuscito a finire qui? In questo angolo speciale e conosciuto a pochi eletti?
Oh. A quanto vedo è addirittura in bella compagnia — e la melodia si fa più veloce, turbinio di note che esternano ogni mio stato d'animo.
Insieme a lui ci sono Olivia Valorosi — e come ipotizzare il contrario di un fatto talmente ovvio... —, Costanza Notai, Giulio Viviani e Isabella Granieri. Strano che all'appello manchi Alberto Del Bianco, suo devoto braccio destro e amico fidato.
Ma che cazzo sono venuti a vedere? Di certo non mi viene da ipotizzare Guardiani della Galassia!
Quale incubo, quale infausto tormento, e ora sono divenuta cimitero di illusioni morte... il sorriso che tanto ben disegnato regnava sull'orlo delle labbra svanisce — un fiore che viene spazzato via dalla tempesta —, e al suo posto vi affiora una smorfia colma di disprezzo e di giustificato stupore.
Ma non sono l'unica, a quanto pare. Leonardo esibisce un connubio di emozioni identiche alle mie, quasi un pittore dispettoso si fosse divertito a dipingerci di eguali tinture e sfumature.
«Tu» proferisce verso di me, dicendolo come se fosse un rimprovero, le bocca contratta e la linea della mascella che pare si voglia spezzare in due, «che diamine ci fai qui?».
Al solo sentire il tono con cui si rivolge a me mi vedo costretta a rispondere, per le rime naturalmente. Ora non siamo in territorio scolastico. Potrei anche tirargli addosso un secchio di caramelle e innaffiarlo di Coca Cola.
Sarebbe un miraggio poter vedere quei splendidi ciuffi biondi annegare in un liquido viscoso e pieno di schifezze.
«Sai com'è, ci lavoro», sollevo al cielo le sopracciglia, spiegando l'ovvio e sottolineando il dettaglio di quanto si sia mostrato sprovveduto.
«Però... devi lavorare ancor prima di aver finito la maturità. Deve essere dura» commenta con sarcasmo acre, di quello velenoso e che viene usato perlopiù per ferire.
«Deve essere dura andarsene in giro con il blocco degli assegni di papino, vero? E sperperare per qualsiasi puttanata. Però posso sorvolare sul cinema, dato che la considero come un'arte», poggio i gomiti sopra la superficie del bancone e mi sporgo in avanti sorridendo con un che di angelico seppur con una cheta scia di tenebra.
«Perché non la smetti di sproloquiare e non fai il tuo lavoro, piuttosto? Noi cinque necessiteremmo dei biglietti» ribadisce Leonardo mentre si avvicina, senza dar peso alle mie parole, dandomi... un ordine. E lo fa con somma abilità, un atto con cui ha confidenza, eccessiva familiarità.
«Se magari specificassi quale film...» sbuffo con aria annoiata poggiando il mento sopra il palmo della mano ben aperto, le dita che si incastrano contro la pelle del mento.
«Cinque biglietti per Annabelle» mi accontenta subito roteando le pupille, lo dice come se mi stesse facendo un favore.
Che uno come lui rivolga la parola a una come me.
«Se t'interessa, il bagno è a sinistra prima di entrare in sala, in caso dovessi fartela sotto» lo informo strizzandogli l'occhio nel contempo che stampo i cinque biglietti richiesti — carta sprecata.
Per un effimero momento, ero quasi sicura che avessero scelto Sin City.
«Smetti di rompere le palle a Leonardo e limitati a fare il tuo lavoro, Castellani» s'intromette Olivia come se si sentisse in dovere di proteggere il suo amato da un'invisibile furia implacabile, la mia.
«Fanno trentadue euro e cinquanta centesimi. Paghi tu, dolce donzella?» emetto il totale del conto con l'ennesimo sorriso artefatto impostomi dalle convenzioni sociali, osservando con minuzia la reazione della nostra paladina della giustizia.
«Fai cinque conti separati, per cortesia» chiede con la pazienza giunta al limite Costanza. E come biasimarla... con gli amici che si ritrova è più che comprensibile.
«Ma come? Il dio Apollo che non offre una bazzecola come il biglietto d'un film alla sua dolce metà? È deprimente», affilo lentamente la lama per affondarla più a fondo che posso, mossa letale — una voce zuccherosa, per niente degna di me, trapela fra le mie parole, carezzando il palato e pronte per incunearsi con intenzione malevola.
«Piccola stronza insolente» tuona Leonardo accostandosi ancora di più e senza accorgersi di allungare il capo oltre la cassa, per incombere su di me — la nemica.
«Dammi questi biglietti! Sembra di stare ad assistere a un litigio fra bambini!» esclama Costanza con la pazienza giunta al limite, sfilandomi via i tickets dalle mani e lasciando sopra il bancone una banconota da dieci euro, la somma del suo biglietto. «No, il resto non lo voglio» aggiunge prima di recarsi verso la Sala Tre.
«Tieni a bada il tuo bambino, allora» insisto facendola voltare di nuovo in mia direzione, tuttavia preferisce non controbattere, si limita a scuotere la testa, le palpebre abbassate, e a voltarmi le spalle un'altra volta.
Deduco non sia in cerca di scenate anche fuori dal Caravaggio — già ne facciamo parecchie dentro quelle mura, e senza riserve soprattutto, senza risparmiare il minimo insulto o la minima smorfia. Eppure dovrebbe saperlo... io e Leonardo nello stesso ambiente portiamo la tempesta, in automatico, è un qualcosa che ci è impossibile controllare.
«Voi andate, io compro qualcosa da mettere sotto i denti» dice Leonardo ai suoi amici, esortandoli a entrare nella sala senza di lui. Lui è calmo mentre parla, troppo calmo. Troppo calmo anche quando si muove verso la zona bar.
Addirittura Olivia sembra riluttante e preoccupata a lasciarlo nell'atrio in mia compagnia. Ha forse timore che glielo divori squarciandolo con le mie zanne di demone dell'Artistico?
Con la coda dell'occhio seguo la figura di Aspromonte, tentando di comprendere quello che sta borbottando a un Giovanni come sempre amichevole e solare. Assottiglio l'udito nel cercare di isolare la musica per qualche attimo.
«...sai, siccome andiamo a scuola insieme e ci conosciamo bene, avrei più piacere a farmi servire dalla mia amica...» sento che spiega a Jevanni, sfoggiando un ghigno che può in apparenza sembrare confidenziale e cordiale — come se davvero avesse a cuore ciò che ha appena detto —, eppure c'è, eppure si vede quello spiraglio di irrisione e quella breccia di astio. È la voce del lupo che cerca di abbindolare la sua preda, voce fasulla, intenzione di plastica.
Porca puttana, no, no, no, no! Giovanni non può credergli! Non deve credere a questa cazzata!
Leonardo è il diavolo travestito da angelo — non può acconsentire, non deve acconsentire! Che io debba servirlo.
"Che razza di stronzo, giuro che te la faccio pagare, Aspromonte! Fosse l'ultima cosa che faccio!".
«Perché no? Così la mia Matilde può chiacchierare con un suo compagno e svagarsi un po' prima del pienone delle nove» accetta alla fine Giovanni, all'oscuro di ogni cosa che si cela dietro quella faccia d'impeccabile garbo e... buona volontà.
Infido, ingannevole, falso e dannato ipocrita!
«Mati, verresti a servire il tuo amico? Ha espressamente chiesto di te. Ti sostituisco io alla cassa» mi chiama il mio capo con un cenno della mano, invitandomi ad andare lì, al suo posto.
«Come no» ringhio senza nascondere il disappunto — il morso della collera che inizia a farsi strada fra le mie viscere corrotte, «vengo subito a servire il mio amico».
Abbandono la biglietteria balzando giù dallo sgabello e andando nella direzione del bar, nella direzione di quel faccia da cazzo.
Un'espressione maledettamente divertita — il gatto che si bea di stuzzicare il topo senza ucciderlo — gli orpella gli zigomi e le iridi, sfacciato sberleffo allietato.
Come lo odio... dio, se lo odio. Non c'è minimo dettaglio in lui che io riesca a tollerare.
«Vorrei un sacchetto dimensione extra-large di pop corn e un bicchiere, sempre extra-large, di Coca Cola» ordina con tono quieto, quella fittizia indolenza che suggerisce palese e cruda vittoria sul campo mentre vado a occupare il posto di Giovanni, trascinandomi dietro il mio scheletro quasi fosse troppo pesante — soffocante — per le mie normali movenze.
E lo faccio mentre rifletto a mille modi per ucciderlo — il primo, tagliandogli la gola da parte a parte con il taglierino per aprire le scatole delle patatine.
Credevo che una volta averlo servito al bar — come suo desiderio espresso — l'avrei sistemato fino alla fine del film. Credevo di non averlo dovuto riavere fra i piedi fino a che non sarebbero stati proiettati sullo schermo i titoli di coda. Credevo che sarei potuta rimanere in santa pace fino ad allora. Credevo che per il bene della mia sanità mentale mi sarei chetata con la sua temporanea assenza.
Credevo... e io la devo smettere, la devo smettere di credere, di essere sicura delle cose, delle persone, perché ogni volta che lo faccio poi va sempre di merda.
E infatti ne sto avendo la prova concreta, reale e inconfutabile. Come se un qualcuno — un artefice invisibile — si divertisse a tirare i fili, a manovrare marionette, tutto per di rendermi preda di un'ira primordiale, pericolosa.
Non avevo considerato la pausa del film, proprio il pensiero non l'aveva minimamente sfiorata.
Non ho preso in considerazione il fatto che Leonardo ne potesse approfittare per inventarsene un'altra — la millesima — delle sue; e lui ritorna da me, sino all'angolo biglietteria, quella smania infinita di pungolare, di assaltare per forza la mia condiscendenza vacillante. E lo fa con sorriso sfavillante cucito addosso — alcuni potrebbero definirlo come La Visione Celestiale, come un angelo disceso direttamente dal cielo. Troppa beltà gli è stata donata, di troppo incanto è stata ornata la sua sagoma, e di estremo vituperio gli è stata colmata l'anima.
Perché lui è così — repleto di tutto, di qualsiasi essenza il mondo ne è ammantato. E forse è per questo che ogni ragazzo, a scuola, adulto e non, pende dalle sue labbra, ammirandolo con quell'adorazione rara ed enfatica.
E ora che c'è? Cosa dovrei aspettarmi? Cosa vuole ancora da me? Ancora e ancora e ancora, senza mai fine alcuna.
Con una certa classe, fa aderire il gomito sopra il bancone, protendendosi con tutto il suo peso, quasi che posso osservare con cura l'effigie dorata dei suoi occhiali. E le sue iridi, di candore e delicatezza, talmente azzurre, che racchiudono fosca crudeltà e amara efferatezza. Quei sentimenti così oscuri non potevano scegliere nascondiglio peggiore — e magari è per quello, magari per quel motivo spicca in maniera così smisurata la sua eterocromia.
L'unica macchia in tutto quell'angelico chiarore.
Deve essere il loro peso — il peso di emozioni alterate.
«Sai, mi duole dirtelo, ma in bagno ho per sbaglio sporcato il pavimento con la Coca Cola e i pop corn. Un vero macello, dovresti andare a dare un'occhiata» mi sussurra con una piccola quanto percepibile nota di felicità nella voce. Sento ogni vocabolo nonostante la musica, sento ogni traccia di pietosa allegria.
Deglutisco, tenendo lo sguardo basso onde evitare di sputargli in faccia.
Per sbaglio? Lo ha fatto... per sbaglio?
«Perché cazzo eri in bagno con i pop corn e la Coca Cola?» domando anche se, tecnicamente, conosco già la risposta — è questione di principio, voglio comunque togliermi la curiosità. Voglio udirlo con le mie orecchie.
«...Chi lo sa» è tutto ciò che dice con l'aiuto d'un ghigno sghembo e soddisfatto.
"Se lui è un angelo... perché sorride come se fosse il diavolo?".
«E tu avresti comprato e sprecato del cibo solo per questo?» parlo lentamente, con un tono neutrale. L'incredulità che mi muore in gola e rischia di farmi soffocare.
«Niente è sprecato quando si tratta di umiliarti, dea Atena», stavolta sibila quando spiega, quando racconta come fossi una bambina poco attenta, trapela una nota di... inesorabilità.
Pulire i bagni è un compito che appartiene a me quanto appartiene a Violetta. Non spetta a Giovanni, spetta a me e a lei. Leonardo questo dettaglio lo ha supposto bene.
«Dopo di te», ritorna di nuovo a essere al settimo cielo, magicamente.
"Matilde, devi stare calma. Controllo".
Devo stare calma, devo tenere tutto sotto controllo, è tutto sotto controllo.
Insomma, è Leonardo e basta! Nessuna novità. E comunque, non avrà sporcato chissà quanto, sono solo pop corn impiastricciati di Coca Cola... poi mi voglio augurare che qualcosa se lo sia mangiato durante la prima parte del film.
«Dove stai andando?» chiede il mio titolare quando mi vede andare alla volta del bagno con in mano spazzolone e secchio del detersivo, prelevati dallo sgabuzzino.
«In bagno. Devo pulire un piccolo disastro» replico monocorde senza nemmeno degnarlo di uno sguardo. Leonardo cammina dietro di me, ombra silenziosa, e la cosa mi sta innervosendo alquanto.
«Posso farlo io» immediatamente si offre volontario, tutto pur di non far faticare me, la sua prediletta.
«No!» esclamo voltandomi come una furia e fulminandolo con gli occhi, senza volerlo, senza che me ne renda conto; ma il fatto è che quando m'incazzo parecchio, qualche azione non riesco proprio a controllarla, sfugge alla mia volontà. Ed è un qualcosa di cui non vado fiera e che mi spaventa. Perché non provo dispiacere, non mi sento rammaricata in alcun modo.
Apro la porta del bagno e fin qui tutto bene, niente di strano. Nessuna macchia, nessun macello come accennato da Aspromonte. Ma devo ancora aprire la porta del bagno, quello dei maschi, per cui non posso cantar vittoria. Non ora. Non mi è concesso.
Afferro la maniglia fredda e spalanco sorpassando la soglia — un tonfo sordo si leva nell'aria, un po' simile al metodo "ceretta": strappa veloce e non sentirai dolore, all'inizio almeno.
Nessuna macchia? Nessun macello? Questo lo chiamerei tsunami di Coca Cola e pop corn, non macello!
Sul pavimento dilaga una pozza di bevanda nerastra e frizzantina costellata di numerosi, piccoli fiocchi bianchi. L'idea che Leonardo l'abbia fatto apposta per farmi un dispetto e per umiliarmi di più mi sfiora l'anticamera del cervello, lo solletica a mo' di dispetto — e mi fa ribollire il sangue, cazzo... sento un tale prurito sulle estremità delle dita. Lo stesso che si percepisce prima di tirare un pugno contro il naso di qualcuno.
No, non sono calma e tranquilla, so che sto per esplodere, lo sento alla perfezione, ne sono consapevole, sto per perdere il controllo. Il labbro inferiore viene avvolto da un tremito e prova più solida di questa non ce n'è.
Armandomi di buona volontà e di quella sopportazione che credo sto iniziando a perdere, comincio il lavoro, a passare lo straccio imbevuto d'acqua e sapone sopra quello schifo.
"Meno male che non si sia sforzato di vomitare", rifletto per un secondo, lucidamente, "allora sì che gliel'avrei fatto leccare con la lingua".
«Pulisci davvero bene, potrei consigliarti a mia madre per farti assumere come donna delle pulizie» la voce di Leonardo arriva alle mie spalle, ironica, sprezzante, la voce di chi ha il potere di giocare con questo genere di cose, «secondo me ti piacerebbe casa mia come posto di lavoro».
Ma sto in silenzio, le labbra che rimangono volentieri serrate, confinate in un silenzio senza fine — non vale la pena ribattere. Voglio terminare presto e ritornarmene a stampare biglietti. Soprattutto far svanire questo stronzo dalla mia vista, ne ho avuto abbastanza per oggi. E considerando che l'avrei rivisto subito il mattino seguente, un attimo di pace e di respiro me lo merito.
«Se la soddisfi potrebbe raccomandarti alle sue amiche» continua imperterrito.
Devo stare zitta. "Zitta, Matilde, zitta". E quanto vorrei che Thalìa non avesse fermato Diego questa mattina, quanto avrei voluto che gli lasciasse via libera e che gli spaccasse il naso, magari non avrebbe messo piede qua dentro.
«Ma temo che se dovessero sapere da quale indirizzo scolastico provieni, be', allora credo che la cosa cambierebbe. Se sapessero come ti conci, se sapessero che razza di amici hai, se sapessero della mente contorta che ti ritrovi... non basterà la tua bravura nel ripulire la merda degli altri».
Questa è la goccia che fa traboccare il vaso della rabbia di Matilde Castellani. Il piccolo tassello che mancava nel puzzle dell'eruzione del vulcano. La goccia che ne fa scheggiare il cristallo.
Crac.
Un rumore in lontananza riecheggia fra le pareti del mio cimitero interiore, e funge come il battito delle ali di farfalla che scatenano la tempesta.
Le mani iniziano a tremolare, tanto che il bastone dello spazzolone viene sollevato da terra e smette di pulire per me. Non ci riesco, non ce la faccio.
Non riesco a controllare me stessa, né a smorzare quella rabbia violenta che con eccessivo sforzo e sacrificio sono riuscita a far assopire. Non riesco a tenerla taciuta in questo istante. Sento che sta per venire affiorare, veloce, troppo veloce, che sta per esplodere dentro di me e non so quanto potrà essere nociva e distruttiva.
Probabilmente farà un male tremendo. Come sempre ha fatto, del resto.
Non so per niente, non ho la minima idea dell'azione che sto per compiere, so solo che i lunghi respiri stavolta non bastano. So solo che io non mi basto a calmarmi.
Lo specchio di fronte a me mostra esattamente il mostro che sta uscendo all'esterno: gli occhi sfigurati dalle sopracciglia riverse verso l'interno, le iridi con la metà nascosta sotto la palpebre accese dall'ira, la bocca semi-aperta, i denti digrignati. Digrignati, perché vorrei tanto conficcarli contro la carne delle labbra e mordere fino al sentore del sangue che si mischia con la saliva.
Il riflesso mi sta quasi mettendo terrore se non fossi del tutto in balìa di quell'orribile emozione — logorante e perpetua.
I respiri divengono ansanti, corti, simili a quelli di un corpo che esala l'ultimo sospiro di vita. Sto per scoppiare. E l'input non me lo danno le ripetute frecciatine di Leonardo, ma me lo da suo sorriso che impera sulla sua bocca — soddisfatto e trionfante, riflesso sullo specchio in tutta la sua solennità.
È dietro le mie spalle, poggiato sullo stipite della porta con le braccia incrociate al petto e sogghigna come un maledetto bastardo che ha appena affondato il suo nemico. Io.
Il controllo ormai è andato a farsi fottere. Gli ho detto bye bye poco fa.
Il vaso di cristallo ora si è spaccato in due, e io mi trovo proprio nel bel mezzo.
Senza avere un briciolo di ripensamento — un briciolo di paura, un briciolo di amor proprio —, chiudo la mano destra a forma di pugno, stringo le dita talmente forte che lo nocche divengono biancastre, le unghie invisibili che si conficcano contro la carne, luogo dove vorrebbero sprofondare e scavare fino all'osso. Piego il gomito all'indietro e, nel momento esatto in cui la rabbia esplode — bomba a orologeria — nel profondo della mia prigione di carne, sferro il colpo.
Colpisco la superficie gelida dello specchio del bagno con tutta la potenza che dispongo in corpo e nell'attimo della collisione si sente un rumore orribile, il fragore di qualcosa che si rompe in mille pezzi.
Forse io, forse lo specchio. Difficile a dirsi.
Tutto si spacca in quell'unico colpo. E dai frammenti spezzati che riescono per miracolo a rimanere ancora appesi alla cornice, scorgo il riflesso di colui che ha distrutto tutto quello che mi ero conquistata con fatica.
Leonardo mi guarda sbigottito attraverso quei frammenti del cazzo ancora issati su. Il pugno ancora premuto contro il vetro, il sangue che lentamente scende, rovente. Le nocche rovinate.
E Matilde infranta, impeccabile riverbero.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top