48. Gioia nera
Io, l'intervallo, lo passo con i miei amici, come è giusto che sia, con la stoffa dei jeans premuta contro i gradini delle scale anti-incendio, ricoperte di polvere, di cicche consumate e calpestate, e di cartacce di ogni sorta. Con le gambe distese e incrociate, di cui quella destra intrappolata in uno spiacevole tic di visibile tremolio, lo stesso che angustia la mia mascella e che ricorda quasi i denti che battono per il troppo freddo. Tuttavia ora non ne sento, e non per grazia del giacchetto che mi avvolge, abbottonato sino al collo.
Percepisco addosso tutti gli occhi degli studenti dell'istituto, lo sento, osservano la mia figura come osservano quella di Leonardo, in piedi, lontano da me, accerchiato dai suoi di amici, vicino alla solita panchina dall'aspetto non troppo solido.
Osservano me e lui, occhiate ci vengono scagliate contro come miriadi di piccole frecce, non troppo mirate a ferire, ma a scrutare, ad analizzare a fondo, scavando, scavando e scavando. Cercando di trovare un "perché" – quel perché – che possa dare una spiegazione logica, un nesso ai loro innumerevoli dubbi, ai loro innumerevoli interrogativi dapprima illuminati dal fioco lume dell'ipotesi, mentre adesso bruciati dalla fiamma ardente della certezza. Poiché noi, Leonardo e io, gliel'abbiamo data quella certezza così rovente e così apodittica.
Abbiamo sostituito la nostra mera imitazione stampata su fotografia con una più tangibile, con una più concreta. Noi nella realtà.
Provo nervosismo non tanto perché stanno parlando di me, ma perché, nel loro tombale silenzio, mi stanno etichettando. Che sia in maniera positiva o negativa, mi stanno incollando in fronte una etichetta. Giudicano. Loro giudicano sempre.
Giudicano i pilastri per eccellenza dei due indirizzi, coloro che si erano giurati odio eterno e reciproco, quasi ad averci firmato sopra con il sangue, coloro che non davano la benché minima speranza di vederli esternare qualcosa al di fuori di quel sentimento così corrosivo e soffocante.
Già... loro non lo sanno. Non sanno cosa significa provare a odiare qualcuno, ecco perché hanno l'impudenza di opinare; odiare qualcuno è un'arma a doppio taglio.
Lei ti dà la sensazione di libertà sconfinata, ti fa credere di possedere in corpo il più antico dei poteri, illudendoti di essere invincibile, ti rende tremendamente sicuro di te stesso, è un qualcosa di catartico. Ma allo stesso tempo ti divora, ti scortica, ti lacera l'anima, strappandola con avidità come fossero splendidi e rari fiori selvatici. Come lei dà, lei prende.
Nessuno – nel modo più assoluto – si aspettava di certo la passione, il desiderio, la predilezione... forse il tanto decantato amore. Nessuno avrebbe potuto prevedere che proprio lui, Leonardo Aspromonte, avrebbe baciato lei – me –, Matilde Castellani, proprio al centro dell'atrio del Caravaggio – terreno di belligeranza, arena insanguinata – davanti agli occhi sbalorditi di tutti.
Thalìa ne è rimasta allietata, Diego è semi-svenuto, Marco e Marta hanno mosso un passo verso l'approvazione, Laira ha spalancato i suoi occhioni di quel castano così dolce – è stato come essere avvolti da una calda coperta ricamata di morbida gioia –, Alberto ha alzato il mento in un cenno definito di plauso, Costanza ha piegato l'angolo della bocca color ciliegia in quel che pare essere stato un sorriso che gridava in ogni maniera "finalmente" e Midorin ha unito i palmi delle esili manine, premendole contro le labbra, un gesto di tacita piacevole sorpresa.
Ovviamente, da impeccabile antitesi, non tutti l'hanno presa nel migliore dei modi, non che me lo aspettassi... d'altronde.
Sara Signorelli della mia sezione mi ha riversato addosso, una volta entrati in classe, occhiate affatto amichevoli, tutt'altro che bonarie, Francesco Nobili della sezione di Thalìa ha mostrato lampante delusione, Giulio Viviani si è portato entrambe le mani contro le palpebre, Isabella Granieri e Olivia hanno agito in simbiosi, la prima ha chinato le labbra, l'altra ha teso l'udito.
Una smorfia malevola ha deturpato il delizioso visino di Olivia, mentre che assisteva impotente – le mani oltremodo avvinghiate da invisibile filo spinato – alla scena e che le venivano rifilate le parole taglienti proprio dalla sua migliore amica.
Naturalmente Viola Angeloni, che sfoggia ancora il marchio arroventato e umiliante dell'esclusa, è stata tenuta in disparte di proposito, anche in quella che rappresenta una contesa verso di me. La sua è stata un'espressione indecifrabile, quasi insoddisfatta.
Ciononostante non mi ci sono soffermata scrupolosamente, poiché scrupolosamente meritava il soffermarsi sulle labbra levigate e soffici di Leonardo — sull'atto implicito verso di me, proclamazione di noi stessi a un valore più al di sopra, su in alto, dominante nell'apogeo di quell'invisibile piramide universale altresì conosciuta come liceo.
Niente e nessuno contava. Né i nostri amici, né i nostri nemici. Né le pallide promesse, né i lacrimevoli giuramenti.
In quel susseguirsi di istanti contavamo noi e basta.
Ora tutti sanno. Non nella maniera che io avrei scelto, con una foto spiattellata su Facebook – social freddo e arido, sterile sotto ogni aspetto –, ma almeno adesso i segreti si sono smorzati come brandelli di carta bruciata che attecchiscono sul manto cristallino della neve gelida. Un flebile suono e poi assopiti per sempre.
Avvicino per la seconda volta la Winston a fior di labbra, saggiandone appena la boccata, fumando con aria distratta, quasi fossi sulla Luna. Ultimamente mi ci perdo spesso, dentro di me.
Tuttavia riesco a sentire la voce di Laira, seduta su un gradino più in alto del mio, alle mie spalle, perfino le sue scarpe fanno capolino in entrambi i miei lati. Uno stivaletto alla Pippi Calzelunghe a destra, un altro stivaletto alla Pippi Calzelunghe a sinistra.
Con la coda dell'occhio non troppo accorto scorgo le sue dita – le unghie fatte crescere alla giusta lunghezza, niente traccia di smalto, niente scalfiture da mordicchiamento nervoso –, esse stringono senza troppa pressione un pacchetto di wafer alla nocciola, il secondo extra della sua merenda acquistato con ottanta centesimi alle macchinette.
Un lieve sorriso fa capolino sull'orlo delle mie labbra non troppo macchiate di fumo, il sorriso che dichiara un ringraziamento sincero dopo l'aver accettato di buon grado quella piccola quanto invitante offerta mascherata di premura e amicizia. Lascio che il pacchetto caschi sul mio palmo aperto, decidendo mentalmente se mangiarli ora o forse più tardi, in caso di appetito più vivace.
«Io non riesco a trovare le parole adatte per dirti quanto sia dispiaciuta, Matilde... per Gioia, intendo» proferisce Laira non riuscendo a trattenere un sospiro che trapela tormento, quasi sforzandosi di parlare... ed è un qualcosa di insolito perché Laira Visparelli sa sempre cosa dire.
«Lo hai appena fatto» la rassicuro in tono calmo voltandomi verso di lei, di modo di avere i suoi occhi uniti ai miei. Ma la sua espressione contratta non sembra essere del mio stesso pensiero.
«No, non l'ho appena fatto. Non si può spiegare quello che vorrei dire davvero, è come se avessi le corde vocali incatenate l'una con le altre. C'è tanto da dire, in realtà, e i mezzi per farlo sono pochi» insiste imperterrita con le sopracciglia che si arcuano sotto il volere del dispiacere, tirandosi verso di sé un ginocchio.
«Lingua, denti e voce. Non serve altro, non sembra così difficile» interviene di punto in bianco Ludovico, senza provare il minimo rammarico nel rivolgerle un'occhiata piuttosto torva, la schiena premuta contro il parapetto metallico e gelido delle scale anti-incendio.
«Scusa... tu chi saresti? Non ricordo il tuo nome... non che sia un qualcosa che m'interessi» replica Laira per le rime assottigliando la fessura delle palpebre, senza scomporsi dinanzi alla schiettezza di Ludovico Auditore.
«Ludovico. Quello che ha spaccato il naso al presunto ragazzo della tua amica» le toglie prontamente il dubbio appellandosi come sempre a quel tono neutro, privo di sfumature, tuttavia somigliante al ringhio d'una belva selvatica.
«Certo che è proprio il colmo» borbotta Diego scuotendo il capo due o tre gradini più in basso, in piedi esattamente come Ludovico, una drum consumato a più della metà che penzola dal pollice e dall'indice, dimenticato, «è incredibile di quanta fuga di notizie vi era proprio sotto i nostri nasi, e soprattutto dai nostri stessi giocatori».
E la frase di Diego è paragonabile a una stilettata per Laira, veloce e invisibile, che lascia il solco profondo proprio lì dove è passata.
«Ma perché, Laira? Perché fidarsi di Gioia? Insomma... il minimo sospetto l'avrai avuto» continua Diego, ancora alle prese con il metabolizzare la "cosa" fra me e Leonardo, il pugno di Ludovico ai danni di Claudio, il Classico che inizia a far fronte comune con l'Artistico. Non si può certo affermare che non stia facendo fatica.
Al che Laira, che sino a pochi istanti fa si era mostrata ardita e con la battuta sagace nei confronti di Ludovico, non può resistere all'impulso di stringere le palpebre come se le provocassero dolore e di chinare il volto verso il basso, riempiendosi la visuale con un palmo vuoto e l'altro impegnato con un bicchiere di cappuccino arricchito di ben quattro bustine di zucchero.
Ho la netta impressione che suonerà la campanella di fine intervallo e quella bevanda rimarrà lì esattamente dov'è.
«Non ce l'ho avuto il sospetto... no... non è stato così» piagnucola Laira, arrendendosi allo spaventoso quanto smisurato senso di colpa che con sguardo predatore le si aggira intorno, piano piano, attendendo il momento migliore per attaccare. Ha attaccato.
«È la mia Marni, la mia migliore amica da sempre. Siamo andate all'asilo insieme, sapete? No, non ce l'ho avuto il sospetto, perché mi viene naturale raccontarle le mie cose, qualsiasi delle mie cose, ogni cosa faccia. E quando lei raccontava certi fatti a me, come la visitina di Apollo da Gandolfo per accusarci del fumo nei bagni, e io le chiedevo di come avesse fatto a venirne a sapere, lei rispondeva semplicemente che aveva udito per caso oppure che si trattava di una voce giunta sino al suo orecchio, di pettegolezzo in pettegolezzo. Io mi fidavo, io le credevo, io prendevo tutto come oro colato e poi andavo da Matilde, andavo da voi, credendo di fare del bene... un po' la cosa giusta, in fondo. Non potevo immaginare che... io non avrei mai potuto pensare che...».
«Che si scopava quel testa di cazzo e nel frattempo confabulava alle spalle di tutti» la interrompe Ludovico incarnando le vesti della ghigliottina lucente, inesorabile e letale.
«Io... io lo vedevo che aveva dei baci incastonati sulle sue labbra, io vedevo che c'era un qualcuno. Ma quando gliel'ho chiesto lei mi ha donato il suo familiare sorriso furbetto e ha precisamente dichiarato che per il momento preferiva non dirlo, che era un segreto. Gioia dice che i segreti sono essenziali nei rapporti di amicizia, altrimenti veniamo privati del mistero. Non ho insistito, io li so rispettare i limiti. Ho rispettato la mia amica e lei...» procede Laira digrignando i denti, più va avanti con il parlare – con l'ammissione –, più le pareti della gola, della bocca, il palato, la lingua, le diventano roventi e si impregnano di orribile sapore, il sapore dell'inganno. Amaro, terribilmente amaro. Nemmeno il più vecchio dei liquori ne eguaglia lo spirito.
«E lei ti ha tradita» conclude Marta con la voce di chi è appena ritornato da un funerale in pieno inverno, carezzato dalle luci del tramonto, decorato di nuvole buie che fanno presagire temporale.
Marta preme la suola della scarpa contro il metallo delle scale. Le sue iridi hanno uno strano scintillio sinistro, amplificato grazie a quel colore così lindo e glaciale. Dilatato da quello che io intendo essere piglio livoroso.
Se io in questo momento appaio come una sottospecie di burattino cui hanno tagliato i fili e con la stessa volontà di vivere di un animale infreddolito, lei per perfetta e sublime controparte traspare di gioia nera — quella sensazione di appagamento che si raggiunge unicamente facendo ricorso all'atto di far soccombere. Gioire delle disgrazie meritate altrui, gioire di un qualcosa di sbagliato. Una gioia nera, una gioia priva di gaudio.
«Ha solo diciassette anni, Marta... ha solo ragionato con il cuore anziché con la testa, cosa che io ritengo totalmente da inetti» interviene Marco con serietà. L'animo riflessivo del gruppo.
«Ha ragionato con il culo» ma la risposta d'un Ludovico furioso e insoddisfatto non tarda ad arrivare.
«Ludovico ha ragione, cazzo... e se arrivo a dirlo io qualcosa che non torna c'è» asserisce Diego sarcastico, roteando gli occhi.
«Cosa volete farle? Volete farle qualcosa?» domanda Laira lievemente colta dall'apprensione; dopo aver saputo ciò che è accaduto a Claudio, è ovvio che abbia da temere per la sua migliore amica... o quel che ne resta.
«Prima scopriamo chi ha scattato quella foto del cazzo» sentenzio io, ridestandomi dal torpore e fumando un tiro dalla sigaretta.
M'isso su in piedi, piegandomi sulle ginocchia, l'intelaiatura che eleva verso l'alto me e tutto il mio inflessibile valore di autorità.
«Prima facciamo capire a costui che è cosa buona e giusta trattenere la punta del naso sugli affari propri» pronuncio solleticandomi il vello del labbro inferiore con la lingua, un gesto intenzionale per marcare al meglio le mie parole, «e poi stabiliremo definitivamente la dannata pace, qui al Caravaggio. Basta distinzioni, basta etichette, basta guerre da quattro soldi, basta sussurri, basta segreti. È la serenità a cui dovremmo ambire. Se due studenti di entrambi gli indirizzi vogliono stare insieme, lasciatemelo dire... saranno esclusivamente e beatissimi cazzi loro. Niente più opposizioni, niente più teatrini, niente più odio».
«Come te e quel signorino?» mi sopraggiunge la voce di Ludovico all'orecchio, diretta e con una lieve nota avvilita, paragonabile all'ala sottile di una farfalla.
Perché con Ludovico, un'emozione come quella dell'afflizione non è in nessun modo contemplata; anzi, penso proprio che non sia capace di elaborarla, semplicemente. Ed ecco che quando ci prova altro non può fuoriuscire che una frase frastagliata di suono asprigno, quasi che potrebbe risultare priva di tatto e sfacciata.
Ciononostante non vengo piccata come avrei ipotizzato, non succede quello che mesi, anni addietro è spesso avvenuto — trattandosi di me. La cornice del mio inconscio non percepisce alcun tipo di provocazione, essa rimane docile, mite in una tormenta di glissata amarezza.
L'amarezza di Ludovico nell'aver finalmente saputo, nell'essersi reso consapevole che un qualcosa a cui teneva – chissà mai in quale sconosciuto modo – è svanito in mille e mille batuffoli di pulviscolo, irrevocabilmente. La ragazza del bagno che, in atteggiamento fuori dagli schemi, lo ha accolto a braccia aperte nel suo mondo di pro e di contro, di bellezze e di orrori.
Rimaniamo a osservarci in silenzio, i nostri petti che si alzano e si abbassano all'unisono, calma apparente. Nessuno dei nostri amici fiata, osa muovere un muscolo.
Diego si trattiene dal pronunciare vocaboli forse sconnessi e per niente adatti al momento, DarthMart abbassa il volto mordendosi il labbro, Marco distoglie direttamente lo sguardo, andandolo a posare oltre l'inferriata dell'istituto, oltre gli avvenimenti che si rincorrono al suo interno, Laira sposta ansiosamente l'attenzione su di me e su Ludovico, poi di nuovo daccapo.
Nessuno si arrischia – non ne hanno l'intenzione, troppo pericoloso – a infilare il dito nella piaga.
«Mi dispiace, Ludo... ma sì, come me e Leonardo» deglutisco con estrema fatica, tuttavia io lo sento, sento il bisogno di doverlo dire una volta per tutte, di farlo venire fuori alla luce del sole, di mettere in chiaro le cose, «non abbiamo ucciso nessuno, semplicemente abbiamo capito ciò che davvero ci legava soltanto dopo esserci ridotti a brandelli. Quelli che hanno sofferto maggiormente siamo noi, anzi... forse quello che ha patito di più è stato proprio lui. Lui... lui mi ha sempre guardata da lontano, dietro al suo vetro di rigidità e freddezza, ammirata e venerata in silenzio, odiata e detestata con clamore. Io ero la sua gioia nera, perché lo nutrivo e lo consumavo simultaneamente. Sempre troppo vicina, mai così distante. Il bello era che meno centimetri ci separavano, più lui sembrava sanguinare».
«Quindi ora tu non lo odi più», è più un'affermazione con una domanda quella di Ludovico. Egli mi studia di sottecchi dalla coltre scura delle sue lunghe ciglia, muovendo percettibilmente il collo, facendo tintinnare la catena chiusa con il lucchetto che glielo va a circondare.
«No, non lo odio più» replico con un sospiro, le gambe ben tese e una tenue staffilata di vento che porta il nome di dicembre mi va a scompigliare i capelli, «e lui non odia me, forse nemmeno ha mai odiato tutti voi. Il suo è stato un meccanismo di difesa, in risposta a me soltanto».
«Cristo santo...» borbotta Diego passandosi la mano contro lo spigolo della faccia, tracciando linee sopra la fronte e sopra gli occhi, «quando parlavo di Rivoluzione non mi sarei aspettato questo risultato».
«È un risultato sorprendente e magnifico» c'interrompe una voce sulla soglia dei gradini delle scale, una voce solenne, una voce che sa il fatto suo e che non conosce il significato di sottomettersi.
Costanza marcia con la sua camminata imperiale verso di noi, gradino dopo gradino, accompagnata da Midorin e Diana Marchesi. La fanciulla dai tratti orientali e la fanciulla dai tratti nordici, la prima un trionfo di tonalità scure, paragonabili a ombre, la seconda un tripudio di tonalità arancioni, paragonabili alle arance mature d'inizio autunno — lentiggini aranciate sulla punta del piccolo naso a patata, lentiggini aranciate sulle guglie delle sue gote, ciocche aranciate ad abbellire l'ovale simmetrico del viso. Colori più smorzati di quelli di mia zia Angelica, ma comunque colmi di quella gradevolezza piacevole alla vista.
«Hai pure di che lamentarti?», Costanza rimprovera Diego esibendo il sopracciglio inarcato, che sembra cantare in ogni lingua conosciuta il proprio disappunto.
«Non ho mica detto che non sia un buon risultato» ribatte Diego, alquanto stupito di quella bizzarra circostanza.
È la prima volta, forse, che Costanza Notai e Diego Falco si rivolgono la parola, guardando l'uno negli occhi dell'altra. Il che fa presagire seriamente a una sana ed eccezionale Rivoluzione.
«Infatti non è un buon risultato, è un magnifico risultato» sottolinea per la seconda volta, accostandosi ancor di più alla persona di Diego, fronteggiandolo nonostante la sua altezza inferiore a quella di lui, ben superiore.
«È un risultato inaspettato, su questo ti è impossibile obiettare» asserisce l'altro gettandosi all'indietro con la schiena, facendola cozzare contro il parapetto.
«È il risultato che forse tutti ci aspettavamo, prima o poi» esordisce Midorin tratteggiando la forma di un risolino in quel delle sue labbra, che ricordano tanto le fattezze di un cuore.
E come fosse da una calamita invisibile agli occhi, ella sposta le sue iridi color nero pece al fine di allacciarle a quelle di Marco. Un groviglio strano, quello delle loro occhiate — traboccante di peculiarità in precedenza imbevuta nel caramello.
«E si può sapere tu cosa ci fai ancora qui?» mi riporta alla realtà la voce squillante di Costanza, tutt'ora rivolta alla sottoscritta, troppo impegnata a discernere di intrecci e dei loro profumi.
Aggrotto la fronte dando sfogo alla mia espressione disorientata mentre che Costanza raccoglie tutta la mia attenzione, devo sembrarle una perfetta idiota.
«Leonardo ha letteralmente riscritto la storia del Caravaggio stamattina, in quell'atrio. Ha letteralmente ribaltato i pesi sulla bilancia quando ti ha baciata di fronte a tutti, quando ti ha elevata come a persona più di entità per lui. Per cui, si può sapere cosa ci fai ancora qui, con noi?» mi sbatte in faccia la realtà quasi fosse l'acqua spumeggiante di un'onda marina, zampilli mi finiscono in ogni dove donandomi la giusta coscienza, la dovuta percezione.
«È con i suoi amici» tossicchio senza neanche esserne convinta io stessa di quello che ho appena asserito, ma proprio per niente. Riavvicinando per l'ennesima volta la sigaretta alla estremità della bocca; tuttavia Costanza non è dell'identico avviso, sicché senza indugiare oltre, con uno schiaffo diretto e deciso, mi scaraventa via – oltre la mano, oltre il mio possedere – la Winston non ancora terminata.
Mi incenerisce con i suoi occhi affilati tanto risplendenti di luce propria, una luce che tutti desiderano ma che non gli è permessa. Il riverbero dell'arroganza mescolata alla prodezza, un'unione deleteria per i poveri di spirito e per quelli sprovvisti di un temperamento come si deve. Una Celeste Auditore si scioglierebbe sotto l'incandescenza delle iridi di Costanza.
«Smettila di fumare, smettila di dare peso alle sciocchezze! Concludi ciò che Leonardo ha iniziato! Vai da lui, devi andare da lui. Adesso è il tuo turno, Matilde. Al Caravaggio forse le regole stanno per cambiare, ma tu rimarrai sempre Atena» enuncia con cipiglio solenne, non mancando di marcare quella sua caratteristica che la contraddistingue da chiunque, l'essere superba e altezzosa.
Imponente nel suo mento affilato rivolto verso l'alto, rivolto verso di me in gesto di provocazione, imponente nei suoi capelli scuri tirati all'indietro in uno chignon impeccabile, nemmeno un ciuffo fuori posto nonostante siamo già a metà mattinata.
I miei, ad esempio, sono ridotti a una matassa caotica di ciocche rosa — il ritratto veritiero della mia essenza, qui, nel presente.
Senza replicare in alcun modo piego il capo in direzione dei miei amici, di coloro che ormai considero complici, e sì, anche Laira ne fa parte. La mia piccola Laira... con tanta fretta di crescere e di volere trasformarsi a tutti i costi in un'adulta, impelagandosi di propria volontà in situazioni più grandi di lei. Le viene naturale.
Passo in rassegna i loro sguardi, come fossi un pettirosso che saltella da uno steccato all'altro in inverno inoltrato – delicatamente, con fretta eccessiva e senza far rumore –, dedico loro parole non dette, parole che in un modo o nell'altro vengono intese, capite, accolte. Forse con un'eccezione.
Ludovico.
Ludovico è colui che non riesco ad analizzare, si circonda costantemente di fosca nebbia, cosicché risulti un'impresa poterlo decifrare — riuscirci.
Torve sono le sue pupille, cupi sono i ciuffi dei suoi capelli che gli cascano con noncuranza sulla fronte e sulle tempie, decorando quell'espressione dannatamente contorta. Quell'espressione che pare suggerire di non andare, di non fare ciò che mi ha detto Costanza.
«Ludovico, mi spiace... non sai quanto mi dispiace. Ma io devo andare. È lui che voglio, lo sai. Lo sai benissimo» sussurro con la voce spezzata, il rammarico puro trapela da essa. Solo rammarico.
Niente commiserazione, niente misericordia. Io devo agire secondo il mio volere, devo dare ascolto in primo luogo a Matilde, perché, per amore o per forza, sono la cosa più importante, rappresento la cosa più importante per me stessa. «Io non vivo per compiacere i desideri degli altri. Nessuno può».
«Vai» mi asseconda persino Midorin, annuendo.
«Se lo dice Costanza allora è sicuramente un qualcosa di giusto» conviene Diana con tanto di occhiolino.
Allora, senza che io aggiunga dell'altro, poiché loro – quelli a cui tengo – lo hanno fatto per me, tiro su un lungo respiro, così grande da colmarmi in maniera bruciante i polmoni, quasi avessi bevuto litri di acqua salata, rivestendoli di pizzicori fastidiosi.
Per la prima volta me ne frego della sigaretta andata a puttane, lasciata lì, incompleta, fumata a metà. Per la prima volta, dopo tanto tempo, sento il brivido navigare lunga la colonna quale la mia schiena, pelle nuda sotto strati di stoffa. Pelle che rimane corrotta di gioia nera, perché per me ciò che sto per compiere è un atto legittimo e sincero, tuttavia ancora non lo è del tutto per gli altri...
Poco importa.
Poco mi scalfisce.
Se è gioia nera quella che proverò, quella che andrò ad abbracciare, che gioia nera sia.
Percorro a gran velocità due gradini per volta, fino ad atterrare con un elegante salto sopra il mantello erboso che disegna tutta l'area del Caravaggio. Non perdo l'equilibrio, la danza classica mi ha aiutata tantissimo in questo — anche se è stata uno dei fattori che me ne ha dato uno e me ne ha tolto un altro, di equilibrio.
Io corro, io devo correre, non posso camminare. Devo raggiungere Leonardo prima che la campanella che sancisce l'inizio delle lezioni trilli sgretolando temporaneamente le speranze di noi vivaci studenti.
Me ne devo fregare del freddo gelido che mi sferza contro la faccia, scompigliandomi la frangetta, aprendosi una fenditura fra di essa. Me ne devo fregare di andare a cozzare contro figure di persone reali, minando alla loro e alla mia incolumità. Me ne devo fregare delle occhiate affatto amichevoli, tutt'altro che amorevoli, dei ragazzi del Classico e dei ragazzi dell'Artistico.
Me le faccio scivolare addosso come una noce di burro fuso, stando attenta a non sdrucciolare per via di quest'ultima.
Corro e annaspo e corro. Ecco che il fiato sta per scemare, non troppo, soltanto appena. Corro e ignoro le frasi mormorate, ignoro i cheti giudizi, ignoro la ferrea bastardaggine del liceo.
Mi blocco, smorzo il movimento degli arti inferiori.
«Leonardo!». Lo urlo con tutti i rimasugli di respiro che sono rimasti interi e indenni all'interno della gola, lo urlo e che andassero alla dannazione coloro che mi stanno ad ascoltare, convinti di farmi paura, convinti di rendermi una codarda, come tanti altri codardi identici a loro in ogni linea e in ogni forma.
Lui è lì, in piedi, rimasto nella stessa posizione per tutto il tempo che ho speso a rimirarlo da lontano – dal mio porto sicuro –, vicino ad Alberto, a Giulio, a Camillo e a Riccardo, componenti della sua sezione.
I capelli biondi che risplendono sotto i tenui raggi del sole, privi di brillantina e scarmigliati dallo stesso vento che lambisce il mio viso. Spighe di grano che istigano chiunque a infilarci attraverso le dita per poterne percepire la morbidezza, estrema morbidezza.
E gli occhi, quelle iridi così uniche e così trasparenti, tunnel che conducono e che attraversano i cieli del paradiso; biglietto di sola andata. L'azzurro di tutto il mondo è racchiuso là, in quelle due fessure che custodiscono un'anima indissolubile, profondità di oceani, laghi e fiumi, infinità del firmamento e una microscopica spruzzata di deserto. L'eterocromia.
«Leonardo!». Lo richiamo una seconda volta, stavolta con più enfasi, sono un fascio di emotività.
Io, quasi al centro del cortile del Caravaggio, lui, vicino alla panchina dall'aspetto sbilenco, noi, sotto gli occhi di tutti.
Egli mi avvolge con la sua espressione decisamente sorpresa, presa contropiede. Sbatte ripetutamente le palpebre, dando al tempo stesso quella sensazione di farlo con lentezza, come al rallentatore. La montatura dorata è elegantemente posata sopra la curva del naso, per niente scomposta a differenza dei capelli.
Non faccio passare altro secondo prezioso, tempo che ci divide dagli impegni della vita di tutti i dì, che poco a poco ci avrebbe risucchiati; riprendo a muovere le gambe all'impazzata, piegando ginocchio dopo ginocchio. Il giacchetto mi si sbottona persino a causa della veemenza.
Nessuno se lo aspettava. Nessuno che lo ha preveduto. Esattamente come è accaduto stamattina, alle otto e venti in punto.
Nessuno ha potuto immaginare che proprio io, il giorno stesso, durante l'intervallo, sarei corsa come una scalmanata verso l'unica direzione sensata, fino ad andarmi a scontrare contro il largo petto di Leonardo, caldo, tangibile, familiare.
Avvolgo il suo collo con entrambe le braccia, non lasciando alcun lembo di lui sprovvisto del mio tocco disperato, alzandomi in punta di piedi. Dimentico troppo spesso della nostra divergenza in ambito d'altezza.
Faccio inabissare tutto il mio viso contro la sua clavicola, premendo contro di essa con foga, ignorando i polmoni che implorano una gabbia toracica meno stretta, ignorando il cuore che supplica la vicinanza del suo corrispettivo, racchiuso in una scatola a pochi millimetri da lui.
«Mati» sento il suo sussurro che mi solletica la cute, oltre i capelli, proprio sopra il mio orecchio. Le sue labbra sono su di me.
«Adesso è il mio turno» replico imitando lo stesso basso tono che ha utilizzato, certa che sulle mie gote siano or ora sbocciati due boccioli di rose, rigogliosi e vermigli, e che appassiranno non troppo presto.«Adesso tocca a me dimostrare».
E mi discosto da lui, intersecando per un istante le mie iridi sulle sue, lasciando che i rispettivi ricami vadano a tessersi da soli, senza che siamo noi a chiederlo. È d'uno splendore unico quando questi meccanismi divengono automatici.
Azzero la distanza – seppur minima – che si ostina inutilmente a separarci.
All'inizio lo addento, il suo labbro inferiore. Sempre lì, a fare capolino, a tentarmi, a mettere alla prova la mia capacità di resistenza — ancora in fase di manutenzione.
Ne saggio il sapore intriso di nicotina, nel mentre che artiglio con fervore cocente le guance di Leonardo. Mi lascio cadere in balìa del suo profumo così voluttuoso, talmente dolce e pungente che supera le piccole barriere dell'olfatto sino a raggiungere la bordura delle labbra stesse.
E lui mi lascia fare, lui non si oppone. Perché dovrebbe, in ogni modo? Dopotutto... rappresento la sua droga preferita in forma liquida, pronta per essere iniettata.
Adagio le mie labbra sopra quelle di Leonardo, dimenticandomi cosa significhi "finezza". La rimuovo totalmente dal mio vocabolario.
È la bramosia che impera sovrana, la fame di dimostrare che Claudio non ha potere alcuno su di noi, la sete di dimostrare che Olivia può inventarsi quello che vuole, inutilmente, l'ingordigia di dimostrare che il Caravaggio conta sino a un certo limite... comunque sia andrà in un unica maniera. Questa.
«Importante» recito come se fosse un sonetto contro la sua bocca imperlata di me, «importante sei tu».
«Mati?» mi chiama lui passando le dita affusolate attraverso i miei capelli, tessendoli come fossero fili d'oro.
«Sì?».
«Io vorrei dirti che...».
E la campanella della fine dell'intervallo trilla inesorabile. Roca e insolente. La realtà è pronta a ritornare a ticchettare.
«Ci vediamo appena finirà il tuo turno, tesoro. Sarò qui fuori ad aspettarti, okay?» mi dice la mamma nell'attesa che mi slaccio la cintura e che recupero lo zainetto contenente i miei averi più importanti.
In un movimento involontario faccio passare il dito indice attraverso il nodo della cravatta, che in questo martedì mi sono stretta forse in maniera troppo eccessiva. Quasi che rischio di strozzare.
«Affermativo, capo» annuisco stampandomi un sorriso a fior di labbra, ringraziandola mentalmente ancora una volta per avermi accompagnata al cinema, al lavoro.
Non avevo granché voglia di guidare questa sera e, facendo capricci come una lagnosa quanto tenera bambina di sei anni, ho avanzato la richiesta alla mamma di venire con me. Sotto sotto, adoro essere coccolata e riverita come se tutt'ora quei sei anni siano ancora cuciti addosso a me, sopra gli attuali diciotto, agli imminenti diciannove.
«Prima regola?» sento che mi domanda Adele puntandomi l'indice contro.
Roteo gli occhi al cielo, incredula che me l'abbia chiesto davvero. «Niente pugni sugli specchi. Ho capito».
«Seconda regola?» insiste lei imperterrita.
«Non litigare con i clienti... ma', ma io non ho mai litigato con la clientela, ti prego...» mi schiaffeggio la guancia destra per non dire qualcosa di spiacevole.
«Uhm... io me la ricordavo diversamente. Comunque, terza regola?».
«Ti saluto Giovanni. Perfetto, non c'è altro, ci vediamo alle dieci e mezza» taglio corto, aprendo lo sportello della Yaris e mettendo un piede sopra il marciapiede, «non scordarti di dare la cena a Vivaldi» le rimetto in mente, non si sa mai.
«Quando mai l'ho fatto?» mi rimbecca lei scettica.
«Tu non scordarti! E adesso ci vediamo, altrimenti Jevanni mi spella viva».
«Non è vero, puoi anche fare un ritardo di due ore e Jevanni non oserà farti il minimo rimprovero, figurati se ti spella viva» sottolinea la mamma piena di sarcasmo, marcando l'evidente preferenza che Giovanni nutre per me — ma forse, ora come ora, nutriva, perché finalmente abbiamo sancito un promettente e roseo livello di amicizia.
A me piace la parità.
«A più tardi, mamma», scuoto il capo in un gesto di sfiducia, smontando dalla vettura e richiudendo lo sportello con spiccata veemenza.
La mamma, senza aver spento il motore, mi saluta con un cenno della mano e fa per immettersi nuovamente nello scorrere incessante del traffico fiorentino, lasciandomi da sola, a tu per tu con il mio luogo preferito: l'Arcadium.
Sto per muovere un passo alla volta della porta di vetro scorrevole, linda e splendente, illuminata dalle accoglienti luci interne, quando un particolare cattura la mia attenzione. Quando una persona cattura la mia attenzione.
Violetta Corsari, vestita ancora della sua tenuta da Arcadium, è poggiata con le spalle e con la suola di una scarpa contro il muro, la gamba piegata, proprio a poca distanza dall'entrata del cinema.
I suoi capelli, corti sino alle orecchie e riccissimi oltre ogni dire, sono illuminati dai raggi del tramonto, che rendono il castano dei suoi ciuffi più caldo, più brillante. Il proverbiale taglio rotondo dei suoi occhi è quasi assente dal momento che tiene il volto chino verso il basso, studiando la particolarità dei lacci delle sue Asics. Argomento interessante.
Ella è impegnata a fumarsi una sigaretta oltre che a ponderare una vera e propria crisi esistenziale.
«Salut, Violetta» esordisco salutandola avanzando in sua direzione, «come mai non sei già pronta per andartene? Di solito quando ti do il cambio sei sempre con il giacchetto infilato e la borsa a tracolla, dici sempre che lo studio ti chiama... è caduto un meteorite e non me ne sono accorta?».
«Matilde, ti prego... non è il momento. Risparmiati il sarcasmo» sibila Violetta assumendo un ghigno strafottente, il primo che le vedo fare da quando l'ho conosciuta, da quando siamo diventate colleghe di lavoro.
Solitamente lei è sempre isterica, incline all'esaurimento e alle scenate da pazzoide, asserendo di continuo, senza sosta, che andrà in analisi una volta presa la laurea.
Non c'è mai stata una singola volta che l'abbia vista incazzata davvero, mai una volta che mi abbia risposto in malo modo e che mi abbia rifilato una smorfia carica di... irritazione. O forse è sconforto quello lì?
«È successo qualcosa?» le domando in automatico, scattando il collo all'indietro in un gesto di limpido sospetto e preoccupazione.
«Me lo stai chiedendo perché sei interessata o perché te lo impone la circostanza? Fottuta convenzione sociale!» esclama lei gettando all'infuori una boccata di fumo, o forse una dose di rassegnazione mista a sfogo.
«M'interessa. Lo chiedo perché m'interessa» rispondo a bruciapelo, senza doverci riflettere.
Sì, m'interessa sapere di cosa l'affligge. Magari posso aiutarla, magari no. Intanto posso ascoltarla, e non c'è cosa più liberatoria per qualcuno di sentirsi ascoltati. Lasciare che un qualcun'altro di diverso da noi si faccia carico del medesimo problema, condividendolo per quello che è possibile. Io lo so, lo so benissimo.
«T'interessa davvero...» la sento ridacchiare con ironia pungente, quella velenosa.
«Dimmelo, Violetta, se vuoi. Non voglio costringerti. Se vuoi dirmelo io sono qui per ascoltare, se non vuoi dirmelo è una tua scelta e io la rispetterò» le faccio presente alzando il mento, senza tanti giri di parole, «dovrei darti il cambio e non mi piace approfittare della bontà di Jev».
«Io e il mio ragazzo ci siamo lasciati» taglia corto articolando con la mano, la sigaretta incastrata fra le dita, «o meglio, lui ha lasciato me. Diceva che non riusciva a reggere i miei ritmi universitari. Ma sai che c'è, Matilde? Che io non campavo più, io non riuscivo più a vivere una vita normale! Fra lo studio e il lavoro non avevo uno straccio di vita sociale, quando non studiavo o lavoravo ero sempre insieme a lui, gli dedicavo quel poco tempo che mi rimaneva. Tsk, e lui lo ha pestato come un fottuto coglione uguale al resto del mondo. Si proclamava tanto diverso, tanto alternativo... e invece è un omologato del cazzo, che deve semplicemente imparare a stare al mondo e a crescere un po'. Fanculo. Appena mi laureo la prima cosa che farò è prendere e andarmene da qui. Andrò a lavorare fuori, via dall'Italia. Inghilterra, Germania, America, Giappone, Francia, Canada... non m'interessa. Tutto purché lontano da qui».
«Ci sono volte che me ne vorrei andare via da qui anche io. Nemmeno al liceo dove vado io le cose sono rose e fiori» le racconto con tutta la comprensione che posso, «sembra che chi ci circonda voglia solo il tuo male e il tuo declino. Ma fortunatamente ho anche coloro che non si augurano questo per me, bensì vogliono unicamente la mia felicità».
Violetta appena mi sente dire ciò scoppia a ridere, la risatina da folle che la contraddistingue. Mi lancia un'occhiata tagliente e inquietante che quasi mi fa accapponare la pelle. «Pensi davvero che agli altri freghi qualcosa di te? L'altro giorno, proprio alla tv, passavano dopo il telefilm Friends lo spot dei bambini che vivono nella zona del Bangladesh, mostrava appunto bambini scheletrici, denutriti, con le lacrime agli occhi e con gli aghi delle flebo conficcate nelle braccia. Diceva di fare una donazione, di donare nove miseri euro. E appena poco dopo, terminata la visione di quelle creature dimenticate da dio, passano con cotanta e aberrante semplicità e indifferenza una pubblicità degli hotel e i soggiorni per le vacanze. Come se quei bambini mostrati pochi istanti prima non fossero minimamente importanti, come fossero meno di zero, come fosse più di rilievo andarsela a spassare... ecco, se a nessuno frega qualcosa della mortalità infantile dovuta alla fame e alle scarse cure mediche, figurati se importa a qualcuno di te, un essere umano di diciotto anni come tanti altri esseri umani di diciotto anni!».
«Vedi? Ti ho lasciato senza parole? Mi dispiace, enormemente. Ma credimi... il mondo fa ben più schifo di quanto ci immaginiamo noi tutti» e detto ciò Violetta getta per terra il mozzicone di sigaretta senza preoccuparsi di pestarlo con la scarpa, issandosi in equilibrio e rientrando dentro l'Arcadium per recuperare borsa e giacchetto. Lasciando che io le dia il cambio.
È vero. Io l'ho ascoltata... ma sarà forse servito a qualcosa?
Faccio per seguirla a ruota all'interno dell'Arcadium, pregustandomi già il dolce profumo di pop corn appena sfornati e del tipico e familiare odore che aleggia nel cinema di Jevanni – delizia per l'olfatto –, quando sento una mano, massiccia e per niente gentile, afferrarmi per la spalla.
Di colpo vengo fatta aderire con non troppa accortezza contro il muro, dove sino a pochi secondi fa vi era spalmata Violetta, sbatto contro la parete unicamente con le spalle, fortunatamente. Evitando al cranio un colpo decisamente non piacevole.
Sono inerme, incapace di fare due più due, di capire chi e perché mi sta facendo questo. Ma dura poco. Un lampo nel vero senso della parola.
Perché la faccia serpentina e per niente amorevole di Claudio Patriarchi m'invade l'arco visivo. Il naso incerottato, spaccato dalla mano inesorabile di Ludovico. Il ghigno che gli orpella gli angoli della bocca, che fa di lui un perfetto sadico, che si delizia delle disgrazie altrui.
«Lo chiederò una volta soltanto, perché già il fatto di parlarti mi sembra un peccato capitale in sé. Che cazzo fai?» sibilo gelida come il vento invernale che soffia fra le montagne dei miei nonni.
«Quanta audacia, dolce Atena. Davvero fai onore alla dea di cui porti il nome, è proprio una visione celestiale per gli occhi» esordisce Claudio avvicinandosi pericolosamente alla mia figura.
«Cosa vuoi da me? Come sai che lavoro qui?» svicolo il suo patetico tentativo di provocazione, provando a scollarmi dal muro.
Tuttavia lui me lo impedisce, aderisce entrambi i palmi delle mani contro la stoffa della mia divisa e mi riporta esattamente dov'ero.
Dove lui vuole che io stia.
«Domande lievemente scontate le tue» ridacchia Claudio senza abbandonare la pressione su di me, e la cosa mi crea un certo disagio. Mi sento quasi infettata da una malattia incurabile.
«Diciamo che lo so perché ho un buon ascendente sulla migliore amica del tuo uccelletto e... da te vorrei una cosa sola» ed egli si lecca le labbra, lentamente e con crudeltà.
«Rovinarti. Perché se rovino te, poi lo sai anche tu che rovino lui. Lo riduco in pezzi». È la sua condanna, la mia condanna.
Allargo le pupille, conscia di aver capito, di aver compreso la sua intenzione. La sua squallida e immonda intenzione.
Faccio per spostare la testa, inclinandola da un lato, cercando di sfuggirgli, ma Claudio non fa fatica alcuna nell'afferrarmi il mento con la mano, con una delicatezza che no, non gli si addice.
Riporta le mie iridi sulle sue, imprevedibili, lontane, di una mistica coltre oscura imbrattata del verde scuro, suo colore naturale.
«Io rovino lui. Tu lo hai allontanato da me e io ora gliela faccio pagare».
E Claudio Patriarchi unisce le mie labbra con le sue. Mi rovina.
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