46. L'esaltazione della rilevanza
"Einstein sbagliò quando disse: 'Dio non gioca a dadi'. La considerazione dei buchi neri suggerisce infatti, non solo che Dio gioca a dadi, ma che a volte ci confonda gettandoli dove non li si può vedere."
La Teoria del Tutto (2014)
Fin da quando ne ho memoria, fin da quando sono riuscita ad apprendere la facoltà di saper afferrare con grazia e, al tempo stesso, con decisione quegli sprazzi fuggenti altresì conosciuti come reminiscenze, mi viene un gesto più che naturale quello di fermarmi un attimo, di mettermi in pausa.
Una sorta di posizione di standby dal resto di ciò che mi circonda.
Da un po' di tempo a questa parte ho imparato una regola alquanto importante: il mondo non smette di girare — non si ferma — solo perché hai la nausea.
Di conseguenza le uniche cose rimaste effettivamente da fare sono due, o mi caccio una mano contro la bocca, premendo con forza e strizzando gli occhi in attesa che questa orrenda impressione passi via, veloce come l'autunno, oppure mi prendo il lusso di mettermi in pausa per qualche minuto, quasi barando.
"Ah, l'autunno... senz'altro la mia stagione preferita. In quest'anno corrente, a pensarci bene, non gli ho dato nemmeno un quarto dell'attenzione che meritava. Per colpa di tutta quella tragica faida sotto quel dannato liceo, mi sono totalmente dimenticata di assaporarlo come si confà con un dolce d'alta pasticceria o con un vino pregiato, invecchiato al punto giusto. O anche con un film che da tanto stai aspettando di vedere, godendoti ogni singola scena" rifletto involontariamente non appena sopraggiunge la parola "autunno" fra i tralci della mia mente.
Di solito, in autunno, mi scrivo una lista di varie cose da fare, esattamente come una sorta di rito di benvenuto.
Scrivo che devo leggermi tutte le poesie incentrate sulla medesima stagione — quelle di Gianni Rodari, di Giuseppe Ungaretti, di Herman Hesse, di Giovanni Pascoli, di Salvatore Quasimodo, di Primo Levi, di Adelaide Crapsey —, scegliendone una alla fine definendola come la migliore per quell'autunno lì.
Scrivo che devo andare con mia madre alla ricerca della zucca perfetta, per poi intagliarla il giorno stesso di Halloween con l'espressione più spaventosa che possa immaginare.
Scrivo che devo visitare in un giorno qualsiasi Montepulciano insieme a mio padre, baciata dai primi colori gialli, rossi e arancioni, e attraversata dalla nebbiolina tipica di ottobre.
Scrivo che devo andare a mangiare la schiacciata Dante dell'Antico Vinaio insieme a Marta, quella con il capocollo, lo stracchino, la crema di tartufo e la rucola.
Scrivo che devo ascoltarmi assolutamente tutto l'album Doolittle dei Pixies, non per niente registrato tra il 31 ottobre e il 23 novembre del 1988, mi ricorda l'autunno come non mai.
Scrivo che devo organizzare una serata a casa mia, invitando i miei amici, per guardare "Nightmare before Christmas", poiché io personalmente preferisco vederlo durante il periodo di Halloween piuttosto che quello del Natale.
Scrivo che devo invitare il signor Cornelio a uscire con me per offrirgli una cioccolata calda e per poi ascoltarlo raccontare della sua splendida Eloisa.
Quest'anno non ho fatto niente di tutto questo, ho ignorato l'autunno come se niente fosse, comportandomi da perfetta maleducata e senza meritare il perdono. Non ho letto nessuna poesia, non ho intagliato nessuna zucca, non ho messo piede a Montepulciano, non ho assaporato la Dante, non ho nemmeno per sbaglio ascoltato una canzone dell'album Doolittle, non abbiamo visto alcun film a casa mia, non ho invitato Cornelio neanche a bere un bicchier d'acqua.
Negli ultimi tempi sto peggiorando considerevolmente, ma siccome già mi sono data della "cattiva persona" qualche giorno fa, poco senso avrebbe se ricominciassi anche adesso, andando persino fuori di testa.
Per cui mi limito, come ho detto, a rimanere in standby, evitando di portare il palmo della mano – piuttosto sudato – all'altezza della bocca. A poco sarebbe servito.
Il mondo continua a girare, il tempo continua a scorrere, le persone continuano a vivere le loro vite. Anche se la mia di vita sta lentamente rovinando verso il basso.
Per qualche attimo mi sono estraniata dalla realtà, ritornando, seppur per breve tempo, a quel lontano e oscuro 2012. Per qualche attimo sono sfuggita ai nodi oppressivi e stretti del presente, barando appunto, imitando la Alice che cade nel buco del Bianconiglio.
Sono riuscita a far divenire invisibile la figura di Leonardo a pochi centimetri dalla mia, sono riuscita a cancellare l'ambiente quale la sua camera attorno a me, sono riuscita a praticare il difficile atto del raccoglimento rimanendo a occhi aperti, con l'espressione focalizzata in un solo e singolo punto.
Ma nonostante riesca a ignorare lui, con addirittura le sue dita calde e rassicuranti incastrate contro le mie spalle, e il suo volto contratto a pochissima distanza dal mio, tuttavia mi è impossibile non percepire il suo respiro lievemente accelerato e preda al nervosismo, a differenza del mio, lento – troppo lento! – e quieto.
Leonardo deve essere preoccupato per me, per come sto reagendo, rimanendo impassibile, distaccata, inespressiva. La mia perfetta antitesi, dal momento che quando sono soggetta a pressioni elevate riesco a esplodere nientemeno come un uragano. Un turbinio di emozioni, pure e cancerogene, sincere e corrosive, incurante di esternarle a chiunque e fregandomene di infettare qualcuno. Anzi, forse ne gioisco addirittura se dovesse accadere, mi beo appellandomi a una crudeltà spicciola, senza pretese.
Zero filtri quando si tratta della sottoscritta. Io perdo il controllo, poco me ne importa di chi abbia intorno.
Eppure, non adesso. Non in questo momento. Stranamente non rispondo allo stimolo lanciato a occhi chiusi da quel social del cazzo quale Facebook, dalla mano di Claudio.
Ciò che è appena accaduto, esploso come una contorta trappola usuale di Saw, non mi sembra ancora vero, non riesco a metabolizzarlo a sufficienza. È come se un meccanismo che si trova al mio interno abbia preso a non funzionare, bloccandosi sempre al medesimo punto; e più ricomincia da capo speranzoso di superare quell'ostacolo, più si arresta irrimediabilmente.
Mi sento come se stessi sognando a occhi aperti, come se non fosse reale... è come se mi sentissi all'interno di Requiem for a dream, intrappolata nella fase dell'"autunno", ben consapevole che la fase della "primavera" mai arriverà.
Dopodiché accade una delle cose più ricorrenti fra gli esseri umani, ossia trasformare il movimento involontario delle palpebre a volontario, comandandole a mia volta, scordandomi che – effettivamente – bisogno non ce n'è. Un'azione piuttosto scomoda.
Senza aprire bocca, scosto con lentezza le dita di Leonardo, scrollandomele di dosso una volta per tutte, allontanando di proposito colui che tecnicamente sta rappresentando la mia àncora, il mio appiglio, il mio paracadute. È un gesto che porto a termine intenzionalmente, nulla di accidentale, e forse è proprio quello che fa spuntare un'espressione alquanto sorpresa e amareggiata sul suo viso.
Leonardo, però, rimane in silenzio, imitandomi, si limita a osservare con scrupolosa attenzione, studiando ogni mia singola mossa, studiando anche la più piccola emozione solcarmi l'oceano delle iridi, studiando anche la minima ruga che si pronuncia sopra la mia pelle. Non mi perde neanche per un secondo.
"Sto sognando davvero?", affiora questo microscopico pensiero nel bel mezzo della foschia che alberga nella mia ragione, lasciandomi quel leggero, quanto fastidioso, sentore di dover andare più a fondo, di dover scoprire di più.
Ed è per questo motivo che decido di aprire Facebook, animando il cellulare dopo aver lasciato cadere a vuoto la telefonata di Costanza. Magari quella fotografia che ho visto pochi istanti fa sullo schermo dell'iPhone di Leonardo l'ho semplicemente immaginata. Magari quella fotografia neanche esiste realmente, come così anche il messaggio tutt'altro che amichevole di Diego.
Sì, magari trattasi di una pura illusione; esattamente come ho avuto l'illusione di aver creduto di avere tutto l'autunno a disposizione per mettere in atto la mia lista di cose, quando invece, puf, è volato via veloce imitando un falco pellegrino.
Premo sulla barra di ricerca, siccome non ho quella feccia di Claudio Patriarchi tra gli amici e ingrandisco sul suo profilo con la privacy aperta a tutti.
"La foto non c'è, non ci sarà, è ovvio. È impossibile", sento canticchiare la vocina interiore con tono trasognato, un pelino ricorda le frasi di coloro che sono toccati. Ricorda Olivia alla festa a casa di Leonardo.
Scorro appena con il polpastrello del pollice, tremante, e deglutisco il vuoto perenne. Rasenta il miracolo il fatto che il cellulare non sfugga via dalla mia presa. Scorro ancora un po', superando le informazioni di base di Claudio.
"La foto non c'è, non ci sarà, è ovvio. Sciocchina che non sei altro, sempre a pensare negativamente".
I capelli rosei mi cascano in avanti, solleticandomi le guance accalorate, ciononostante non impediscono di rivelare l'inevitabile, di rivelare la realtà.
La foto c'è, ci sarà, è ovvio.
È proprio lì, in bella vista, postata sul profilo di Claudio Patriarchi, che non ho neppure fra gli amici.
Io e Leonardo, Leonardo e io, stretti l'uno con l'altra, Apollo e Atena, coloro che si sono giurati odio eterno, beccati in flagrante in effusioni del tutto discutibili e tranquillamente fraintendibili. Un gesto che suggerisce in tutto e per tutto un abbraccio di quelli voluti, di quelli cercati, di quelli bramati dopo un lasso di tempo infinito. Lui che mi stringe e io che non mostro la minima opposizione, anzi, addirittura piego il capo all'indietro mostrando un sorriso compiaciuto.
Dischiudo percettibilmente le labbra, tanto da farvi passare attraverso un sottile spiraglio d'ossigeno. Ho dimenticato come si faccia a respirare con il naso.
Mi sento maggiormente dentro Requiem for a dream, soltanto che adesso è arrivata la stagione dell'"inverno".
«La fotografia è reale» pronuncio dopo quella sembra essere un'eternità, senza smettere di fissare quello schermo maledetto, senza alzare gli occhi verso Leonardo, «com'è potuto accadere?».
Esatto, com'è potuto accadere? Mai domanda fu più corretta di questa! Rimane uno splendido mistero codesto dilemma, poiché quella sera, al Circolo degli Illuminati – io ricordo alla perfezione –, Claudio lo stavo tenendo sotto controllo insieme a Marta. E la stessa cosa vale per Olivia.
Nessuno dei due novelli amici, amanti o quello che è, può aver messo mano al cellulare per poi immortalarci senza ritegno. Non possono essere stati loro, andando a rigor di logica. Una parte di me vorrebbe, desidererebbe ardentemente che sia stato uno di loro, almeno in quel frangente avrei la scusante. La scusante per afferrare o lui, o lei, per i capelli fino a fargli baciare il terreno vicino alle mie scarpe. Ne sarei in grado, in maniera alquanto terribile.
Purtroppo, la ferrea legge della logica m'impone di contenermi e di ponderare: chiunque potrebbe essere stato, eravamo tantissimi dentro quella discoteca quella sera, anche colui – o colei – che rappresenta l'improbabilità fatta persona.
Una cosa però la so, quel qualcuno, a quanto pare, deve avercela a morte sia con me e sia con Leonardo; non necessariamente deve nutrire sentimenti come il rispetto o l'amore verso uno come Claudio.
«Ne so quanto te, Matilde» replica Leonardo dopo aver atteso qualche buon secondo, forse minuto, passandosi nervosamente la mano tra i capelli, «e potrebbe davvero essere stato chiunque. È un cazzo di casino».
Potrebbe essere stato chiunque... magari sì, magari no.
"Magari è stato qualcuno del Classico", rifletto nella mente nel frattempo che, pian piano, si sta annebbiando di rabbia liliale. Ed è un qualcosa di profondamente sbagliato riflettere a mente calda, addensata di pensieri iracondi e scorretti, ipotizzando il peggio della situazione, traendo solo e soltanto il marcio.
«Che ne sai che non sia stato qualcuno del Classico?» domando velenosa e tagliente come una lama intrisa di cicuta, la stessa che uccise Socrate.
Finalmente alzo lo sguardo in sua direzione, decisa a fare incastrare i miei occhi scuri con i suoi, chiari e incontaminati. Non ho un'espressione troppo bonaria dipinta in faccia, anzi, do l'impressione di rappresentare un animale colto da aggressività improvvisa e pronto ad attaccare. È malevolenza gratuita la mia.
«Che cosa?» proferisce Leonardo preso contropiede e visibilmente perplesso, lanciandomi un'occhiataccia dal dietro delle sue lenti, «Stai seriamente accusando qualcuno senza nemmeno averne le prove concrete?». Percepisco del sarcasmo in mezzo alle sue parole.
«Fanculo! È chiaro che sia stato uno del tuo indirizzo, andiamo! Tutti loro mi odiano, godono nel vedermi soffrire come un cane, adorano vedermi umiliata esattamente come l'altra volta, quando hanno appeso la mia fotografia sulla vetrinetta scolastica! Ed ecco che la storia si ripete, è successo di nuovo» esclamo piccata sul vivo, soprattutto da quella malcelata ironia del cazzo, inclinando di appena un po' il volto, quel tanto che basta ad avere lo sguardo ancor più sinistro, «ed esattamente come l'altra fottuta volta, sarò solo io a essere presa di mira, non tu. No, di certo. Leonardo Aspromonte è l'intoccabile, il pupillo di Gandolfo, la luce degli occhi dei professori, l'idolo di tutto il Caravaggio! È lontanamente impossibile che le conseguenze vadano a sfiorare anche lui!».
È fatta, me la sto prendendo anche con Leonardo. È fatta, sto perdendo per la millesima volta il controllo, non riuscendo minimamente a mantenere la calma neppure per un misero minuto.
Sto affibbiando la colpa anche a lui, lo sto trattando esattamente come facevo a quando tutto era diverso, a quando gli avrei volentieri spaccato il naso a suon di cazzotti, a quando lo odiavo con ogni particella di me, a quando a malapena riuscivo a tollerarlo in fatto di esistenza. Diamine, l'ho maledetta un sacco di volte la sua esistenza...
Ora la situazione dovrebbe essere cambiata, dovrebbe essere migliore, e invece sto riversando la colpa su Leonardo nella stessa maniera di come farei se avessi qui davanti Claudio o il presunto artefice.
Che razza di persona del cazzo che sono... infatti, nei momenti come questo, non faccio altro che augurarmi la solitudine eterna. Io non mi merito null'altro se non quella.
Apro la bocca per aggiungere dell'altro, e di certo non un qualcosa di simpatico, ma Leonardo è più veloce di me, mi precede. Allunga le braccia, facendo aderire i palmi delle sue mani contro le mie guance roventi, esercitando la delicatezza più estrema, come se avesse la paura primordiale di scalfirmi con le sue morbide dita, come se non volesse consumarmi. Sono una scultura di vetro soffiato sotto il suo tocco.
Ma non ha capito niente, non ha capito che io, sotto il suo tocco, sono come sabbia alla mercé delle onde del mare; non mi spezzerò mai, ma sarò sempre in sintonia con lui, con ogni suo movimento, l'emblema di una rara armonia.
«Matilde, lo sai, vero, che io non ti abbandonerò? L'altra volta ero dall'altra parte di proposito, ma adesso è diverso, adesso io sono con te. Nessuno ti prenderà di mira, né dell'Artistico, né del Classico» recita con voce dolce come il miele, senza esagerare con il tono, senza apparire brusco o rabbioso come me, carezzandomi con la punta dei pollici la superficie degli zigomi ancora non bagnati da lacrime di amarezza, «le cose si fanno in due, lo sai questo?».
I miei occhi si specchiano sui suoi, oltre le lenti degli occhiali, vedo il riflesso della mia espressione fredda e imperturbabile. Le sue parole raggiungono le mie orecchie, oltrepassano quella membrana fisica composta di pelle, muscoli e ossa, e attecchiscono sulla mia psiche, vezzeggiandola a dovere, assecondando la brama di essa esattamente come un bosco brama l'acqua dopo la siccità.
«E se gli altri ti convincessero che non è stato altro che un errore?» chiedo meccanicamente, le labbra che rispondono allo stimolo del movimento, la lingua che obbedisce al mio volere, le corde vocali che cooperano, «Tu lo sai che esistono errori che ci affascina di più rimembrarli che commetterli ancora?».
Parlare mi fa male. Rende incandescenti le pareti all'interno delle guance. Provo dolore nel dire che quello sto dicendo, ma proverei maggior dolore se tenessi tutto assopito dentro di me. In qualche modo me ne devo liberare.
Il cellulare che stringo in mano, ormai con il display bloccato, è preda a continue telefonate, vibra convulsamente sotto le mie dita. Quando una chiamata si arresta, ignorata di proposito, ecco che ne arriva un'altra e un'altra di nuovo. Da parte di Costanza ancora, di Marco, di Diego, perfino di Thalìa.
Quella fotografia postata ha attivato la trappola di Saw che si celava nell'ombra del Caravaggio, nell'angolo più oscuro e non visibile a occhio nudo. E non oso guardare il gruppo di classe su WhatsApp, mi rifiuto nella maniera più assoluta.
«Mi sembra che dalle mie labbra la frase "Tu sei stata un errore" non sia mai uscita. Correggimi se erro» ribatte Leonardo non lasciandosi intimorire dalla mia negatività e dal mio nichilismo inaspettato.
«Non occorre che io ti corregga» mormoro dopo un attimo di esitazione, abbassando gli occhi verso il suolo, «ma io devo sfogarmi, in qualunque modo, io lo devo fare. Ne ho bisogno, non posso farne a meno».
Una sorta di scuse è la mia; penosa, lo ammetto, ma ora come ora è il meglio che posso ottenere dal mio repertorio.
Porca puttana... devo ancora realizzare. Il Caravaggio sa di me e Leonardo. Il Caravaggio è venuto a sapere di questo qualunque cosa che c'è fra me e lui. Dannazione, non mi sarei di certo aspettata di provare tutto questo terrore.
Terrore di cosa poi? Be', è molto semplice in realtà. Terrore di non avere la possibilità di spiegarmi, di non poter dire la mia poiché una fotografia scattata a tradimento lo ha già fatto al posto della sottoscritta. E io detesto non poter esprimere la mia opinione, sono troppo attaccata al concetto di democrazia, di libertà, e vado nel panico quando io stessa ne vengo privata.
Ad ogni modo, panico o non panico, una cosa ancora mi sarebbe permessa da fare, forse la più intelligente e la più sensata di questa ultima mezz'ora.
Senza tante smancerie e ripensamenti vari, decido si spegnere il telefono una volta per tutte. Premo con impazienza sopra il piccolo pulsante che ha il compito di accendere e smorzare l'apparecchio, quasi digrigno i denti dall'agitazione. Voglio mettere un muro fra me e quelle chiamate insistenti con una certa urgenza; le mie spalle esili, che ricordano le ali delle farfalle, iniziano a percepire il carico gravoso della pressione sopra di loro, sopportano a fatica.
Leonardo sta per pronunciare qualcosa, ma lo squillare del suo cellulare glielo impedisce. Perfetto, finalmente smette il mio ed ecco che inizia il suo!
Egli sospira rumorosamente, abbandonando la presa dai miei zigomi, lasciando che una sensazione di freddo vada a invadermi quest'ultimi. Un toccasana dal momento che la mia temperatura corporea si è sostanzialmente elevata.
«È Alberto» m'informa lui dopo aver dato una rapida occhiata al display, «devo rispondere, glielo devo».
Socchiudo le palpebre, raccogliendomi in un abisso infinito di buio che altro non è se non la mia laguna psichica.
Lo ascolto mentre risponde ad Alberto Del Bianco, il suo migliore amico, tuttavia non sto ad analizzare ogni singola parola che si stanno a scambiare. Al momento le mie facoltà sono piuttosto scarse e riesco ad apprendere soltanto al quaranta per cento, una percentuale decisamente schifosa e indecente.
Quindi, non sapendo che altro inventarmi in una circostanza simile, mi avvicino al bordo del letto di Leonardo, mi avvicino alla morbida trapunta che lo ricopre sfiorandolo con la stoffa dei miei jeans. Mi giro fino a dargli le spalle e mi lascio cadere all'indietro, a braccia aperte, conscia che sarei atterrata in quella superficie soffice e in grado di accogliere la mia persona.
Atterro in maniera leggera, per niente brusca, e finalmente mi posso totalmente abbandonare, come il lungo respiro che lascia le mie narici. Rifletto, cerco di fare mente locale, pondero sul come i nostri piani siano andati letteralmente a puttane, nonostante tutte le buone intenzioni: il conoscere Lucrezia, il festeggiare il nostro andamento scolastico alquanto promettente, lo studiare insieme, quel "qualcosa" in più che non avrei mai permesso che accadesse ma che in cuor mio, nel profondo, avrei sperato.
Sì, l'ho sperato eccome. Una parte di me lo spera sempre.
Eppure non c'è stato nulla da fare. Zero speranze, tutto andato in fumo. Al contrario sto ottenendo ciò che più odio provare, ciò che più vorrei evitare; avverto quell'impulso incandescente, dannatamente familiare, fluirmi nelle vene, negli arti, quell'impulso che mi fa ribollire il sangue e che aumenta il battito cardiaco.
Stringo con un che di disperato la trapunta del letto, entrambe le mani vanno a spezzare la linea perfetta di quella coperta. Vorrei prendere a pugni qualcosa, qualsiasi cosa, vorrei prendere a pugni me stessa, quel tanto che basta per potermi annullare, per poter scomparire da lì, per poter evitare quella conseguenza del cazzo, per poter dimenticare quella faccia di merda che si ritrova Claudio Patriarchi.
«Sì, lei è qui con me» sento Leonardo che riferisce ad Alberto mentre si massaggia lo spigolo della mascella, «perché? Che avete intenzione di fare?».
Velocemente drizzo le antenne dell'interesse e scatto su a sedere, cacciando i capelli dietro le orecchie. Assottiglio le iridi in due fessure dubbiose e minacciose.
Dopodiché Leonardo sposta la sua attenzione su di me, muovendo unicamente le pupille e restando fermo con il resto, seguendo al contempo le frasi di Alberto dall'altro capo. Infine, dopo qualche secondo di silenzio, si decide ad aprir bocca per annunciare il verdetto. La sua espressione è indecifrabile, una delle sue abilità di spicco, d'altronde, tramandata a regola d'arte da sua madre Lucrezia: mai far intendere agli altri ciò che celi al tuo interno, importante è mantenere una certa distanza.
«Alberto è con Marta. Vogliono venire qui» spiega Leonardo quasi senza batter ciglio, dandomi di conseguenza la possibilità di replicare, di dire la mia.
«No» dico con tono secco e funereo, nemmeno ho necessità di rifletterci sopra, «nessuno verrà qui».
«Marta è preoccupata per te. Alberto è preoccupato per me» insiste lui, fregandosene che il proprio amico è ancora lì a sentire.
«Nessuno verrà qui» ripeto con voce maggiormente profonda e acre, lanciandogli un'occhiata piuttosto sinistra.
Non mi va di vedere anima viva, nessuno, persino Marta è esentata dalla lista, per non parlare di Alberto... C'è il serio rischio che potrei dire parole di cui me ne pentirei sicuramente al cento per cento, che potrei comportarmi come la più spregevole delle persone. Vorrei evitare; scelta migliore, perciò, è quella di non incontrarli.
E comunque, la scuola esiste anche per quella ragione, no? Per incontrare chiunque, anche quelli che ti stanno sul cazzo. Li avrei visti l'indomani – Marta e Alberto – al Caravaggio, tutti quanti avrei visto l'indomani...
«Anzi, tu ora mi riaccompagni a casa, cortesemente» aggiungo con lo stesso tono, «necessito di starmene da sola, ho bisogno della mia solitudine».
«Tu vuoi startene da sola dopo ciò che è successo?» esclama Leonardo come se avesse sentito male.
«La solitudine può essere una tremenda condanna o una meravigliosa conquista, diceva Bernardo Bertolucci» faccio presente citando uno dei maggiori maestri del cinema, «be', per me non fu vittoria più grande».
«Alberto, mi dispiace, ma ci vediamo direttamente domattina. Comprendimi, anzi, comprendici» Leonardo ritorna a dialogare con il suo amico, chiudendo rapidamente la chiamata.
Quanto a me, recupero senza ripensamenti lo zaino che ho abbandonato per terra e mi riabbottono il giacchetto fino alla gola.
«Matilde, dici sul serio? Vuoi che ti riaccompagni a casa?» domanda lui corrugando la fronte con aria preoccupata.
«Sì, dal momento che sono ufficialmente senza macchina» asserisco con sarcasmo palpabile, persino un ghigno sfrontato mi spunta a fior di labbra, «me ne voglio andare, ti prego».
«Non vuoi che io stia con te?».
«No, non voglio che tu stia con me. Io voglio rimanere con Matilde, da sola, è possibile? È chiedere un miracolo?» sibilo con la pazienza giunta al limite.
E ora sono ufficialmente una persona del tutto miserabile.
Lo scenario si sposta su Marta.
«Che cosa? Cosa cazzo ho appena sentito?» sbotto gridando come Anakin fa con Obi Wan poco dopo l'esito del loro duello finale nell'Episodio Tre, «"Alberto mi dispiace, ma ci vediamo direttamente domattina"? Cioè, a te seriamente basta una scusa del tuo migliore amico così patetica e di merda come questa per farti desistere? Porca puttana, e pensare che sabato scorso ti avevo scambiato per un mastino intenzionato a non mollare l'osso!» continuo riferendomi con chiarezza a quando mi ha deliberatamente fregato il telefono da sotto il naso, proponendomi poi quello pseudo-ricatto.
«Abbassa la voce» tenta di farmi zittire Alberto con le labbra contratte, guardandosi intorno, ovviamente invano, «i genitori ci guardano male, e pure i loro dolci pupilli!».
I suoi occhi blu scuro passano in rassegna le madri e i padri che con calma entrano ed escono dal Caravaggio per via dei colloqui, qualche studente, come noi, si è preso il disturbo di presenziare per venire a conoscenza del loro rendimento scolastico.
Perlopiù per ascoltare la versione del professore e assicurarsi che corrisponda alla realtà dei fatti; è capitato in diverse occasioni che qualche docente svalvolato inventasse delle bubbole di sana pianta. Nel mio caso è successo una volta con il prof. di laboratorio di architettura, Ferraresi, ha raccontato a mia madre che stavo sempre incollata al cellulare durante le sue ore di lezione, quando la verità era semplicemente che controllavo l'ora siccome sprovvista di orologio.
Ebbene, mi ha fatto passare per una drogata di tecnologia... quando addirittura lascio il telefono scarico per giorni e giorni, fregandomene della sua utilità.
«Non me frega una beneamata sega se ci guardano» lo cantileno con il tipico sorrisetto da presa per il culo, guardandolo dritto in faccia senza provare la minima vergogna dettata dal nostro ultimo incontro, «m'importa invece della mia amica, che per la seconda volta è stata sputtanata per colpa di una fotografia del cazzo! E ancora una volta da quel Patriarchi maledetto!».
Okay, è di elevata rilevanza che io mi dia una calmata. Non occorre dare i numeri, non serve dare spettacolo... qui al Caravaggio mi pare che di spettacoli ce ne siano anche fin troppi.
Prendendo una generosa boccata d'ossigeno, gonfiando i polmoni fino a farli quasi scoppiare, vado a sfilarmi l'elastico che tengo attorcigliato attorno al polso, pescato dal bagno poco prima di uscire di casa. Do una rapida e sostanziosa scompigliata ai miei capelli elfici, agitandoli a più non posso.
Successivamente li raccolgo al centro della nuca, verso l'alto, e li stringo in una crocchia disordinata. Il tocco di classe che va a confermare il mio attuale aspetto da pazza totale, perfino qualche ciocca sfugge dall'incastro, andandomi a solleticare il collo scoperto dal giacchetto.
«Devo fumare» realizzo inarcando un sopracciglio, sbuffando e piegando nervosamente il ginocchio della gamba sinistra.
E appena Alberto mi sente dire ciò, saetta le mani verso la tasca del suo giubbotto di pelle, al fine di estrarre il pacchetto delle sue sigarette. «No, alt!» lo fermo seduta stante allungando il braccio esattamente alla stessa maniera di un vigile del traffico, «Ho i miei drum, non occorre che tu mi dia niente».
Infatti, senza aspettare oltre, sfilo dai miei jeans la consueta scatolina metallica con logo del Jack Daniel's, la quale ospita sei drum preparati durante l'intervallo di stamattina. Ne porto uno a fior di labbra, facendogli prendere vita grazie alla fiammella dell'accendino.
«Ancora con questa storia del "dare"...» si permette di scherzare con la solita malizia il signorino Alberto, come se non gli fossero bastati gli ultimi eventi, «vai sempre a parare lì, Signora dei Sith».
«E tu vai sempre a parare alle palle, per poi romperle» borbotto roteando le pupille, gettando il fumo all'infuori, «sei più insopportabile di Jar Jar Binks, e ce ne vuole per essere più insopportabile di Jar Jar Binks!».
Anziché essere intimorito, Alberto si mette a ridacchiare senza ritegno, appoggiandosi con le chiappe contro il cofano della sua Cinquecento nera appostata all'interno del parcheggio del Caravaggio. Egli mi imita, si appropria di una Marlboro rossa e se l'accende senza smettere di fissarmi con quella faccia da schiaffi, decorata di un sorriso sghembo e uno sguardo che preferisco evitare di interpretare.
Lui è venuto con suo padre, ai colloqui, come io con mia mamma. Ed entrambi li abbiamo piantati in asso non appena, cazzeggiando su Facebook durante le attese tra l'incontro di un professore e un altro, abbiamo visto la fotografia postata da Claudio.
Non appena abbiamo realizzato la rivelazione più scottante di tutti i tempi; o meglio, non appena gli altri l'hanno realizzata, io – bene o male – qualcosa lo sapevo già. E anche Alberto. Il problema è stato il modo con cui si è rivelata al mondo intero, ovvero alla stessa maniera dell'esplosione della Morte Nera. Improvvisa e che ha sicuramente provocato danni irreparabili.
Dopo aver visto con i miei stessi occhi di quel colpo basso, la mia reazione immediata è stata quella di sfilare le chiavi della macchina dalla borsa di mia madre e di sfrecciare veloce come la luce da Matilde, dando per scontato che si trovasse a casa sua, oppure da suo padre, a studiare.
Superate le due rampe di scale, con tanto di balaustra delle pomiciate, ero già mentalmente dentro l'abitacolo della vettura, ma, naturalmente, qualcosa mi ha impedito di avanzare. Qualcuno mi ha impedito di avanzare!
Alberto, non appena mi ha vista correre con quell'impeto fuori dal comune, non ha esitato a raggiungermi, cingendomi il braccio con la mano per costringermi a fermarmi. Un tocco inaspettato il suo, l'ho definito "singolare" dopo quello che abbiamo fatto.
Lui, comunque, non ha proferito la minima parola, mi è stato sufficiente guardarlo dritto negli occhi per capire, per comprendere che anche lui sapeva ed era in pensiero per Leonardo.
Sicché, affiancandoci l'un l'altra, ho annuito e siamo fuggiti all'esterno del Caravaggio, intenzionati a portare a termine la stessa, identica missione.
Prima di mettere in moto le auto, però, ad Alberto è venuto un lampo di genio, quello che a me è mancato di palesarsi. Ha composto il numero dell'Apollo del Classico, preoccupandosi di sapere se fosse stato insieme a lei, insieme a Matilde. E infatti così si è rivelato essere, Matilde si trova proprio con Leonardo, per l'esattezza a casa sua.
Il piano era che io e Alberto saremmo dovuti andare diretti da loro, senza deviazioni, praticamente era un'idea perfetta. Appunto, era!
Perché il caro signorino Del Bianco è stato liquidato con galanteria dal suo migliore amico, per di più nemmeno si è interessato di insistere o di richiamarlo! A me importa di vedere Matilde, a me importa di sapere come sta, e contando il suo modo di reagire a determinate vicissitudini... be', mi sta venendo un'angoscia non indifferente.
Me ne fumerei anche due di drum, anziché uno e basta!
«Si può sapere che hai da ridere in una situazione del genere? Lo trovi divertente?» domando ad Alberto con poca delicatezza, lanciandogli un'occhiata di traverso, stufa della sua allegria e del suo sogghignarmi spudoratamente in faccia, «Non capisci che i nostri amici sono totalmente nella merda fino al collo? E per colpa del vostro amichetto del cazzo, se vogliamo essere puntigliosi».
«Claudio non è nostro amico. Hai presente quando un gruppo è troppo grande, composto da più persone di quante ne vorresti? Quando arrivi al punto che qualcuno si limita a diventare una misera presenza di convenienza? Ecco, Claudio incarna proprio quella definizione. È un amico del cazzo, come hai detto tu, però ha carisma, ha sempre la battuta pronta, è di bell'aspetto, sa sempre cosa fare per divertirsi, anche se, a dire il vero, lui sembra sempre, costantemente annoiato. Sembra quasi che non gli basti mai niente, sembra sempre insoddisfatto, inappagato, a tratti apatico» mi spiega Alberto unendo i polpastrelli dell'indice e del pollice di entrambe le mani, la sigaretta tenuta ben salda grazie alla presa del medio, «dovessi rivelare un segreto lo direi a Claudio? Risponderei di no. Dovessi cercare il divertimento più sfrenato lo chiederei a Claudio? Risponderei di sì».
«È subdolo, vedi come si è comportato con Aspromonte. È manipolatore, vedi come si è comportato con Olivia. È approfittatore, vedi come si è comportato con Celeste, e pure con Gioia. Disprezza praticamente tutti, racconta un mucchio di stronzate ed è oltremodo irresponsabile, per non parlare di quanto sia stronzo» sottolineo con voce disgustata, esibendo una smorfia di pura repulsione appena la faccia serpentina di Claudio fa capolino fra i miei pensieri.
Mi fa talmente schifo che involontariamente passo con fare nervoso la mano contro la pelle del mio viso, sfregando con smania, come se volessi scacciare qualcosa di invisibile.
«E per la cronaca, no, non trovo divertente tutta questa situazione» mi toglie successivamente il dubbio, prendendo un altro tiro dalla Marlboro, «trovo quanto sia esilarante nel complessivo, piuttosto. Uno non è libero di farsi i cazzi propri che deve per forza rendere conto a un qualcosa come il proprio indirizzo scolastico. È assurdo. Credevo che abitassimo in Italia, paese libero e democratico, non in quelle ambientazioni fantascientifiche e distopiche che vedi nei film».
«Qualsiasi cosa accadrà, io starò vicino a Matilde, proprio come lei mi è stata vicina quando tutti gli altri mi davano della sgualdrinella fattoncella» affermo scuotendo il capo, sentendomi male al posto suo, provando un moto d'immenso dolore.
Matilde non si merita l'umiliazione, non se la merita affatto, non lei che si è sempre spezzata per l'Artistico.
«Tutto questo è successo solamente perché lei ha deciso di seguire quello che sentiva, senza filtri, senza negarsi. Solo perché ha scelto Leonardo, la persona probabilmente più sbagliata» aggiungo sussurrando, forse proprio per non farmi sentire di proposito.
«Lo ha fatto accettando le conseguenze e lo stesso vale per Leonardo. Credimi, se avesse aspettato ancora qualche mese penso che sarebbe esploso» asserisce Alberto tramutandosi serio di colpo, piantando in asso quell'aria spensierata e dilettata, «è stata una liberazione e una condanna al tempo stesso».
«Wow» mi lascio sfuggire mentre un sopracciglio si va a inarcare all'ennesima potenza, come un magnete Alberto cattura la mia attenzione portandola su di sé, «sono sempre abituata ad ascoltarti sparare buffonate su buffonate, che quando te ne esci con questa saggezza gratuita mi lasci troppo sorpresa» alzo le mani tanto per sdrammatizzare, e anche per mascherare il mio stupore sin troppo evidente.
Preferisco trattenermi per quello che mi è permesso.
Alberto, lasciandomi ancor più sbalordita, si va a sedere esattamente sopra il cofano della Cinquecento, distendendo ben bene le gambe, accavallandole una sopra l'altra, e aprendo le braccia come se stesse galleggiando a pelo di uno specchio d'acqua inesistente. Fa cozzare senza essere brusco la nuca contro il vetro del parabrezza lievemente sporco di polvere, noncurandosi del costoso giubbotto che ha addosso, noncurandosi di sporcarsi i capelli.
Egli si mette a osservare il cielo. Un cielo costellato delle prime stelle della notte, intriso di uno degli arancioni più che belli che avessi mai visto. Uno di quegli arancioni intensi, che sai bene quanto possa trattarsi di una rarità, tuttavia, per contro, sai pure che non sarà l'ultima volta che apparirà. Le nuvole sono corpose, dense, lambite da quella tonalità meravigliosa, calda, che fa presagire una serata pronta ad accogliere Firenze a braccia spalancate. Le prime ombre fanno capolino con timidezza, quasi sorridendo al tempo stesso con un che di vispo.
M'immagino tante figure fanciulline – buie, oscure – rincorrersi attraverso quelle nuvole, giocando a sfiorare quest'ultime per farle divenire fosche, abituandole a colei che rappresenta la madre, la notte che sta per arrivare.
«Sai qual è il punto, Signora dei Sith?» esordisce Alberto facendosi spuntare un sorriso a metà che non so come interpretare, «È che questo mondo è dannatamente pesante, grave, a tratti oppressivo. Per non dire triste e con tragedie a volontà. Io preferisco ribellarmi, preferisco prenderla sul ridere, preferisco sparare buffonate anziché soccombere alla desolazione e al dispiacere. Ora mi dirai che sono un cazzo di cliché vivente, ma la vita è troppo breve. Pensala come ti pare, ciò non muterà la realtà dei fatti».
«Si vede che non mi conosci per niente, Alberto Del Bianco» sentenzio con espressione seria, «io non definisco le persone positive come dei cazzo di cliché, le ammiro perché io stessa non ne sono capace di formulare costantemente pensieri felici».
«Chi ha mai detto che io sia una persona positiva? Io faccio solo buon viso a cattivo gioco» mi mette al corrente lui allargando di più il sorriso, portandosi la sigaretta alla bocca e assaporando uno degli ultimi tiri, «le apparenze ingannano, lo hai visto tu stessa».
«Cosa stai cercando di dirmi?» gli domando visibilmente confusa, inclinando il capo.
«Niente di cui preoccuparsi, Signora dei Sith. Non sono altro che stralci di pensieri di un povero liceale smarrito, tuttavia indubbiamente bellissimo» Alberto replica soltanto dopo aver fatto una pausa più lunga del normale, senza perdere quel ghigno in grado di irritare mezza Firenze, «allora, come ti stavano andando i colloqui? Scommetto che a storia dell'arte vai come un treno».
Se fino a pochi istanti fa stavo nutrendo per Alberto quello che potrebbe lontanamente somigliare al rispetto, ecco che adesso si è azzerato come il punteggio dei game-box quando perdi.
Ecco che ritorna quell'impellente istinto di volergli fasciare la gola con le mani per poi soffocarlo fino alla morte! Va benissimo anche un calcio diretto ai gioielli, è un'opzione che non disdegno!
«Vaffanculo» dico con voce eccessivamente divertita, imitando la sua stessa filosofia di vita, fumandomi l'ultimo tiro di drum, «se ti compiace saperlo, vado di merda a storia dell'arte. Grazie per l'interesse, Del Bianco».
Non deve osare neanche minimamente andare a parare a Emilio, non deve osare coprirlo di malignità. «In compenso vado egregiamente a matematica, perché so essere razionale e fredda come i numeri» aggiungo gelida, gettando successivamente il rimasuglio del drum per terra, pestandolo con la punta dello stivale con eccessiva veemenza.
«Marta...» pronuncia lui il mio nome con quello che pare essere rammarico.
«"Marta" un cazzo!» esclamo fulminandolo con gli occhi, «Sei proprio uno stronzo, esattamente come Claudio Patriarchi!».
E senza perdere altro tempo prezioso, giro sui tacchi per andarmene, per ritornare dentro al Caravaggio ad affiancare mia madre, preparandola psicologicamente ad affrontare l'incontro con Del Gaudio, lasciato saggiamente come ultima spiaggia.
Tuttavia Alberto non è della mia stessa idea. Balza giù dal cofano della macchina, piazzandosi dinanzi a me, impedendomi di avanzare oltre.
«Non chiederò il tuo perdono perché, in primo luogo, sarebbe sciocco da parte mia e, seconda cosa, perché tu sicuramente sarebbe l'ultima delle cose che vorrai concedermi» enuncia nel contempo che lo sottometto al mio sguardo di fuoco.
Ha ben inteso, acuta osservazione, il mio perdono lo vedrà l'anno del mai e il mese del poi.
«Cosa pretendi che io faccia, eh? Cosa pretendi che io dica? La sto prendendo con ironia anche adesso, non smetto mai di farlo. È il mio modo di ribattere per le rime alla sofferenza» dichiara senza fermarsi.
«Non ti ho definito un fottuto cliché vivente per quello che hai detto prima, ma ti ci definisco adesso. Adesso sei un cliché del cazzo che respira e cammina» pronuncio distaccata, non mi lascerò impietosire neanche sotto tortura. E tento di sviarlo passandogli a lato.
Ma Alberto mi blocca per la millesima volta, afferrandomi per entrambe le spalle e voltandomi nella sua direzione. Percepisco il calore delle sue mani persino con la stoffa del giacchetto a dividerci. La Marlboro andata chissà dove.
«Io non sono perfetto, Marta» dichiara quasi implorandomi, «sono pieno di difetti, ne ho una moltitudine, e tra queste vi è anche la gelosia. E io la gelosia la so esternare soltanto così, con battute fuori luogo e riprovevoli».
«Di battute fuori luogo e riprovevoli ne ho avute abbastanza» sibilo andando a rivangare un passato così lontano eppure così vicino, fosco e infausto.
«Riavvolgo il nastro, mi rimangio quello che ho detto, mi mordo la lingua a sangue se necessario. Dimentica quello che hai sentito uscire dalla mia boccaccia maledetta» insiste Alberto inchiodando le mie iridi con le sue. Verde contro blu.
«Le parole fanno male, Alberto» dico monocorde, il sentore di quella scena a tratti familiare e a tratti calorosa avvenuta pochi minuti fa svanita come polvere in mezzo a una tormenta.
«Io non voglio farti male, Marta. Tutto vorrei farti meno che del male, di questo potrei scommetterci tutto quello che ho».
«Io ho sopportato a sufficienza, per tanto tempo» confesso con voce spezzata, però no, non piangerò, «e sai qual è la cosa peggiore? La cosa peggiore è che non riesco a decidermi, non riesco a scegliere in quale parte poggiare il piede. La cosa peggiore è che sto nuovamente sopportando, sto nuovamente facendo a botte con un conflitto interiore. Diverso, ciononostante un conflitto troppo grande per me. Per cui, per favore, te ne sarei grata se tu continuassi a essere un cliché del cazzo vivente che pronuncia battute riprovevoli. Almeno in quella maniera mi allontani da te. Se ti esponi come hai fatto prima, allora sì che rappresenterai un problema per me».
Improvvisamente sento freddo, mi accorgo del gelo del primo di dicembre soltanto adesso.
Girando, girando, su Matilde si sposta l'asticella.
«Matilde, sei sveglia?».
Tengo le palpebre serrate, ma la coscienza quella sì che è perfettamente vigile e attiva.
In realtà sono sveglia da quasi un'ora, ho persino smorzato la sveglia delle sette prima che iniziasse a suonare. Poi mi sono rimessa giù, accomodando la nuca contro la morbidezza del cuscino, tirando lenzuola e trapunta all'altezza del petto, sovrastando quest'ultime con le braccia, incrociando le mani l'una sopra all'altra. L'esatta posizione di una che viene adagiata su una bara all'interno di una camera ardente; mancava all'appello soltanto uno scarno mazzolino di fiori da stringere e poi sarei stata completa.
Sono sì sveglia da cinquanta minuti, quasi un'ora, ma ho preferito tenere gli occhi chiusi – tanto quando si ha l'intelletto attivo poco cambia se gli occhi rimangono aperti o chiusi – e ho del tutto ignorato la presenza ingombrante e stra-pesante di Marsellus Wallace, disteso giù in fondo ai miei piedi, dormiente e impegnato a ronfare infischiandosene di fare lo stesso rumore di un trattore.
In realtà non ho dormito bene per niente questa notte, mi sono girata e rigirata nel letto, alla ricerca della disposizione migliore, che sia di fianco, a pancia in giù o a pancia in su. Eppure nulla di fatto, sono riuscita a entrare in dormiveglia con scarsi risultati e per poche ore, scarsissime ore.
Appena riuscivo ad abbandonare questa realtà terrena, impossibile da evitare, ecco che i miei sogni – incubi, preferirei definirli – si popolavano di qualsivoglia atroce fantasticheria. Erano talmente definite, talmente tangibili, che mi destavo di soprassalto convinta stessero avvenendo sul serio. Mi destavo con il cuore in gola e con il respiro irregolare, il sudore che m'imperlava la schiena e la fronte.
La sera precedente, prima di coricarmi, mi sono piazzata dinanzi allo specchio del bagno. Potrei giurarlo su entrambi i miei genitori, l'istinto di chiudere le dita della mano fino a formare un pugno per poi sferrarlo contro la superficie c'era, era presente nel modo più assoluto.
Come anche la mia espressione terrificante, intrisa di livore e sete di rivincita, simile allo sguardo carico di disprezzo che sfoggia il Clint Eastwood su Gran Torino. Le sopracciglia piegate verso l'interno, la linea della bocca dritta e dura, e gli angoli che precipitavano irrimediabilmente verso il basso.
Infine ho cambiato idea. Anziché plasmare un pugno, ho lasciato la mano ben aperta e sono andata ad appropriarmi delle forbici.
Con meticolosità ho preso fra l'indice e il medio ciuffo dopo ciuffo della frangetta troppo cresciuta, iniziando a tagliare, liberandomi di quell'intralcio insopportabile, trasformandola nella solita frangetta di sempre. Che carezza graziosamente il punto d'incontro tra sopracciglia e fronte. Ho continuato a osservare il mio riflesso per qualche altro minuto, in silenzio; i miei occhi nocciola scuro mi studiavano con scrupolo, tuttavia con il lusso del non essere giudicati.
In seguito ho scostato il volto con semplicità, distogliendo l'attenzione dalla mia figura, mi sono lavata i denti e mi sono tolta il mascara dalle ciglia, pronta – almeno – per sprofondare nel mondo dei sogni.
Speranza vana, ho realizzato col senno di poi.
«Matilde» mi richiama per la seconda volta la voce di mia madre, che mi osserva dalla soglia della porta della camera, il gomito poggiato contro il bordo del muro.
È già vestita, pronta per un'altra giornata di lavoro, pronta per il secondo giorno della settimana. Un delizioso maglioncino rosso bordeaux a collo alto mi cattura l'attenzione, trovo che le stia divinamente.
«Sono sveglia, sì, non vedi?» ribatto con voce strascicata, più che mai smorzata, tenendo soltanto un occhio semiaperto.
Il ritratto impeccabile della voglia di morire. Basil Hallward non potrebbe desiderare soggetto migliore da ritrarre. Incredibile, non è vero? In questo quinto anno scolastico già più volte ho pregato di morire. Che sia una coincidenza?
«In verità no, stai tenendo tuttora gli occhi chiusi» mi fa notare Adele, sbuffando, «come anche quella botte di cane» si riferisce a Marsellus.
«Sono sveglissima, prontissima per affrontare questa bellissima giornata di dicembre» dichiaro ironica, ancora non ho strecciato le mani.
«Cos'è? Ti sei data ai superlativi assoluti stamani? I colloqui ti hanno fatto questo effetto?» ridacchia lei facendo caso alla mia frase non del tutto normale.
«No, mi sono data alla positività. Non l'hai notato?» la ragguaglio finalmente spalancando le palpebre e roteando le pupille.
«No, non l'ho notato. Adesso spicciati ad alzarti, miss raggio di sole! Oggi vado a pranzo con una mia collega, quindi sentiti libera di andare a mangiare da tuo padre o di invitare qualcuno a pranzo qui, almeno non stai sola» m'informa lei staccandosi con il braccio dalla parete, mettendosi in equilibrio, «cosa ti va per colazione?».
«Pane, burro e disperazione con latte macchiato alla depressione» richiedo issandomi a sedere, sbadigliando.
«Mi spiace, quelli già li ho consumati io, sono finiti. Vuoi dell'altro, magari?» risponde non prendendomi troppo sul serio, e come potrebbe? Battute del genere gliele propino ventiquattr'ore su ventiquattro.
«Del succo. Vorrei del succo, all'ace se c'è...» dico con la consapevolezza di avere lo stomaco chiuso con tanto di catene e lucchetto, chissà mai dove sarà finita la chiave... «non alla mela. Alla mela mi fa schifo».
«Solo succo? Nient'altro?», la mamma mi guarda stranita.
«Nient'altro. Farò una seconda colazione più sostanziosa a scuola» la tranquillizzo abbozzando un sorriso, in netto contrasto con le occhiaie che sicuramente mi adornano il contorno degli occhi.
"Scuola"... pronuncio quella parola infausta con un certo disgusto, i brividi che mi percorrono ogni centimetro di pelle, facendomi rizzare i peli delle braccia.
Il cellulare è ancora spento. Dopo che Leonardo mi ha riaccompagnata a casa, dopo che l'ho saluto con un netto e distaccato "ciao", sono salita di corsa in casa e ho gettato l'apparecchio direttamente sopra la scrivania, ignorandolo per quasi tutto il resto della sera. Ho ignorato di proposito i miei amici, tutti loro, nessuno escluso. E questa mattina, oltre che a fare i conti con il Caravaggio al completo, avrei fatto i conti anche con loro.
Al Caravaggio, già, tutto ruota sempre intorno al Caravaggio. Per amore o per forza. Non è vero che tutte le strade portano a Roma, nossignore, chi l'ha mai detta 'sta cazzata? È evidente che tutte le strade portano al Caravaggio! E vaffanculo pure a Firenze che ospita un simile covo di serpi!
Ho appena parcheggiato la Yaris e con un passo un po' incerto cammino verso il patibolo. Le cuffione, ovviamente, premono contro le mie orecchie, regalandomi quella immacolata percezione di allontanarmi dalla realtà, dalle cose di rilevanza. Il telefono è stato riacceso, alla fine, tuttavia ho inserito la modalità aereo, pur di sfuggire alla pressione mediatica ancora per un po'.
Questa volta niente "Rock the casbah", questa volta niente vibrazioni sfavillanti e che incutono solarità. Bensì tutto il contrario.
Io non me lo so spiegare il fatto che quando sei giù, affranto dalle dinamiche del mondo, senti l'impellente bisogno di ascoltare il tuo stesso dolore, il tuo stesso sconforto, sotto forma di musica.
Masochismo, probabilmente. Compiacersi del proprio sadismo, più correttamente parlando. Chi lo sa?
"Right in Two" dei Tool balla all'interno della mia psiche, facendomi sprofondare ancor di più nell'afflizione. Però lo fa con gentilezza, le sue note – dopotutto – sono straordinarie per quanto malinconiche; ti sanno procurare dolore senza però allargare le ferite già sanguinanti.
Il testo mi fa persino riflettere, nel contempo che la mia visuale viene riempita da quel luogo cui si occupa della mia istruzione e che, lentamente, mi sta rovinando.
Perché il santissimo Padre ha donato agli umani il libero arbitrio, o per come la vedo io, la volontà propria? Ora essi sono tutti confusi.
E nella confusione, nel pandemonio, si sa, nessuno ragiona a mente fredda, nessuno pronuncia parole adatte, nessuno si comporta nella giusta maniera. Si fanno sbagli quando si è prede del caos.
Studenti mi passano accanto come se fossero fantasmi, studenti mi squadrano in malo modo, sussurrano fra di loro lanciandomi sguardi di sottecchi. E non so quale sia la cosa peggiore, essere squadrati o essere osservati mentre gli altri cercano di non farsi scoprire.
Però io li scorgo benissimo, questo martedì mattina ho la cautela a livelli biblici, sto provando un'apprensione non indifferente. Scorgo perfino del rancore nei loro occhi, addirittura da parte di quelli dell'Artistico; se non ho subìto conseguenze per la fotografia del Maverick, adesso le sto subendo il doppio invece, se non il triplo.
All'improvviso sento sfilarmi la cuffia dall'orecchio destro, per poi essere avvicinata da colui che sempre si esibisce in queste entrate a effetto, sempre che lasciano senza fiato. I suoi capelli spettinati e scuri mi solleticano il lobo e l'angolo dello zigomo, un profumo di sigaretta misto a gomma da masticare mi arriva alle narici. Appunto, la sigaretta è stretta in mezzo all'indice e al pollice, mentre il chewing gum viene impastato nervosamente tra i denti del ragazzo accanto a me.
«I Tool li conosco. È forte come band» dichiara egli dopo qualche secondo, restituendomi la cuffia che ovviamente vado a sfilare insieme all'altra, facendo scivolare entrambe intorno al collo.
«Ciao, Ludovico» proferisco fissandolo dritto in faccia.
«Ciao» risponde Ludovico con quel tipico tono privo di emozione.
«Stai entrando?» gli chiedo ingenuamente, non sapendo cos'altro poter dire di sensato.
«Sfortunatamente sì. Entri con me?». Strano. Veramente strano.
Perché lui non è succube dell'effetto "fotografia" come gli altri? Perché Ludovico non mi lancia occhiatacce cariche di odio oppure perché non mi sta urlando le peggiori offese? Eppure da lui me lo sarei aspettata, rabbioso com'è... come me, del resto.
«Ludovico, perché tu sei l'unico a non avercela con me stamattina?» mi ritrovo dunque a domandargli con estrema sincerità e curiosità. Anche Diego ce l'ha con me e lo posso anche comprendere. Non ha avuto la mia spiegazione, non ha avuto uno straccio di niente da parte mia. E intendo rimediare al più presto.
Ludovico sbatte ripetutamente le palpebre, alquanto perplesso dalle mie parole. Non si sbilancia chissà quanto, il grugno è sempre lo stesso che indossa ogni dì.
«Non potrei mai essere incazzato con te» mi toglie il dubbio e codesta è la pura verità. Ludovico dice sempre la verità. «Posso essere incazzato con quel biondino del cazzo, se vuoi. Lui non mi piace per niente» aggiunge dopodiché, non smentendosi neanche in questa occasione, «perché questa domanda?».
«Non... non hai guardato Facebook fra ieri e oggi? Il gruppo di classe che abbiamo su WhatsApp?» asserisco presa contropiede dalla sua mancanza d'informazione.
«Facebook non so nemmeno come si usa» spiega facendo spallucce con nonchalance, «e ho il cellulare scarico, non avevo voglia di metterlo in carica. E poi io il gruppo di classe non lo guardo mai, l'ho fatto silenziare a Celeste. Non sopporto tutte quelle notifiche».
«Oh» mi viene naturale dire, come anche il sorriso che mi spunta sulle labbra, mi viene naturale semplicemente. Un'azione involontaria. «Ludovico, se non esistevi bisognava inventarti» ridacchio tirandogli un pugno giocoso contro il braccio, gesto che fa nascere un sorriso – seppure più piccolo del mio – anche a lui.
«Nessuno me l'aveva mai detto prima» mi fa andando a sfiorare il punto esatto dove l'ho appena toccato.
Cos'è quello? Uno spiraglio di... gioia? Per tutti i film di Sergio Leone, questo martedì è veramente fuori dal comune!
«Adesso te l'ho detto io» riaffermo afferrando le fibbie dello zaino, «allora... come ti sono andati i colloqui?».
«Di merda» racconta come se ne andasse fiero, «però mia mamma è stata contenta di aver parlato con quello di storia dell'arte. Le ha detto che non sembro del tutto un caso perso e che mi aiuterà a raggiungere una media se non altro decente. La probabilità di una bocciatura imminente le è sembrata più lontana. Però mio padre ha detto che non c'è due senza tre».
«Lunanuova ha saputo vedere del potenziale in te, non importa se ti ha messo un tre» convengo mentre ci avviamo verso l'entrata, «e tuo padre dovrebbe avere più fede».
«Dici che ne ho di potenziale?».
«Ne sono fermamente convinta».
«Mi aiuterai ancora a studiare?» al che mi domanda Ludovico grattandosi la nuca, prendendo l'ultimo tiro dalla sigaretta.
Il che mi ricorda che io non ho fumato nessuna Winston. Devo essere parecchio nervosa per aver saltato a piedi pari la mia sigaretta mattutina, un evento mai accaduto prima d'ora.
«Sì, perché no? Non farò la stronza come l'ultima volta, mi limiterò a essere solamente severa. Uhm, anche esigente, sì, sarò esigente, per cui fa' attenzione» dico superando uno degli alti archi del Caravaggio, quello che è situato al centro, imponenti e magnifici come Lorenzo de' Medici, «se oserai propinarmi un'altra boiata come quella che uno dei maggiori esponenti dell'Espressionismo è Botticelli, giuro, ti spengo una sigaretta in un occhio!».
«'Giorno, Atena, detta anche la Traditrice» mi saluta dal nulla mentre mi passa accanto Melania Dionisi del quinto B del Classico, ravvivandosi tatticamente i lunghissimi capelli dorati tenuti sciolti e fluenti, «hai già in mente chi accalappiare la prossima volta? Se vuoi un consiglio, io opterei per Jonathan Keller, quello che frequenta la mia stessa sezione. Sai com'è, il fascino scozzese è intrigante... Non è biondo come Apollo, però anche i capelli fulvi non sono poi così male».
Non si ferma, continua a camminare superandomi di buona lena, piroettando su se stessa e rivolgendomi un ghigno sprezzante e derisorio.
«Me lo stai consigliando perché già ci sei passata prima tu, per caso?» replico deglutendo, mantenendo le iridi fisse su di lei e rimanendo rigida, mi costringo a rimanerci.
«Nah, mi sta alquanto sulle palle. E io non me la faccio con quelli che mi stanno sulle palle» obietta Melania con tanto di occhiolino, voltandosi giusto appena per mostrarmi il suo volto punteggiato di lentiggini, anche se non ai livelli di Viola Angeloni.
«Ma ti rendi conto? Di tutte quelle che poteva avere, proprio lei è andato a scegliere» sento l'ennesimo bisbiglio alle mie spalle, sempre di voci femminili, «Olivia era così bella... è stato uno stupido a lasciarla».
Mi giro di scatto per controllare da quale boccaccia provengano suddette parole, gli occhi incendiati di fuoco nero.
Quest'ultimi mettono a fuoco un gruppetto composto da quattro ragazzine, di primo o di secondo anno, non di più. Le associo all'indirizzo Classico, le loro facce non le ho mai incrociate sul mio piano.
«Gradite un autografo?» dichiaro sibilando come il Basilisco di Harry Potter, per di più la presenza colossale di Ludovico accanto a me intimorisce quel che serve. Soprattutto grazie a quella catena legata attorno al collo con tanto di lucchetto.
«Se avete stampata la fotografia che ha pubblicato Patriarchi ve la firmo volentieri, magari più tardi possiamo andare insieme a cercare Leonardo. Lo convincerò a firmare anche con il suo nome» aggiungo inclinando percettibilmente il capo verso sinistra, esibendo un'espressione non troppo sana.
Le quattro ragazzine mi guardano come se mi fossero spuntate altre due teste, come se fossi il Cerbero della mitologia greca anziché soltanto la semplice Atena. Non l'avrei mai giurato, ma sembrano stupite dal fatto che io le abbia sentite, sembrano... impaurite, in soggezione.
Dopotutto, quando frequenti il primo o il secondo anno, quelli che stanno al quinto incutono del leggero terrore a prescindere. Soprattutto quando riversano la loro attenzione su di te.
«Toglietevi dai piedi!» esclama una quinta voce, in questo caso più profonda, più adulta e più furente, più conosciuta.
Un esemplare di Costanza Notai si fa spazio letteralmente usando le mani, scansando due di quelle quattro ragazzine al fine di passare in mezzo. «Voi di primo anno siete come il prezzemolo, ovunque e di troppo».
Al suo seguito spunta Celeste, con la testa sorprendentemente alta e i capelli tirati all'indietro da un semplice cerchietto nero. Il mento ben in mostra e le dita delle mani intrecciate fra di loro, tenute all'altezza dello stomaco. L'esatto portamento alla "Costanza Notai". La vicinanza a lei comincia a dare i suoi frutti.
Il quartetto, con l'ansia e la paura triplicata grazie all'arrivo della Queen Bee del Classico, si defila seduta stante, quasi mettendosi a correre per il corridoio d'entrata dell'istituto.
«Ciao, Costi. Celeste» le saluto entrambe, ringraziandole mentalmente per la loro entrata in scena, almeno hanno evitato la mia imminente esplosione.
«"Ciao, Costi" un cazzo!» esclama Costanza incrociando le braccia al petto e fulminandomi con le sue iridi che ricordano una spiaggia caraibica lambita dai raggi di mezzogiorno, «Mi hai riattaccato in faccia ieri pomeriggio! Sappi che sono offesa». La sua espressione è più contratta del solito siccome ha la folta chioma legata in un unico, alto chignon intrecciato.
«Avevo cose più rilevanti a cui pensare...» mi giustifico sospirando, nonostante abbia effettivamente ragione.
«Io sono rilevante» sentenzia lei con decisione, mai una volta che lasci l'ultima parola agli altri «ed ero preoccupata per te, cretina! E anche per quello scemo e balordo che ancora non ho visto e che ho intenzione di strigliare».
«Ludo, tutto bene?» Celeste si rivolge al fratello maggiore, studiandolo impensierita.
«Quel biondino ha combinato qualcosa?» ringhia Ludovico rabbuiato, rivolgendosi a Costanza, incominciando a fare due più due.
«No, Leonardo non c'entra niente. Piuttosto, non ti dispiacerà sapere che c'entra di nuovo Claudio, colui a cui hai spaccato il naso sabato sera» lo illumina Costanza con aria trionfante.
Si capisce lontano un miglio che non vede l'ora di fargliela scontare di nuovo a Claudio, ma stavolta sua intenzione è andarci giù pesante. Più pesante dello scorso episodio.
A Celeste le si allargano gli occhi dallo stupore appena sente Costanza pronunciare quella notizia evidentemente ancora oscurata. «Tu che cosa hai fatto?» grida seppure con il solito tono da uccellino, «Ludovico! Non vorrai farti espellere nuovamente!».
«Ho dato a quel testa di cazzo quello che si meritava» replica Ludovico bruscamente, senza togliersi di dosso quello sguardo torvo e adirato, «cosa ha combinato?».
«Ha umiliato Matilde, ecco cosa. E anche Leonardo. Ha umiliato entrambi con l'aiuto di un qualcuno che mi sfugge, oh, e io farò di tutto per scoprire chi si cela dietro questo mistero. Ci rimettessi l'uscita dei Cento Giorni!» racconta Costanza con il cipiglio alla Cersei Lannister, digrignando i denti.
Senza riuscire a sopportare oltre, come quella mattina in cui Diego e Marta si erano scontrati con Leonardo e Alberto dopo il mio incidente con lo specchio dell'Arcadium – stavolta però senza urlare o dare di matto –, giro sui tacchi e lentamente li lascio ai loro discorsi di vendetta e di umiliazioni.
Ho già l'animo sottosopra, non occorre che io rincari la dose. Sto facendo mentalmente i conti sul come affrontare i miei compagni in classe, dal primo all'ultimo. Da Diego a Marco. Da Sara Signorelli a Veronica.
Me ne frego dei commentini sarcastici e idioti di quelli del Classico, ma non posso fare lo stesso con quelli del mio indirizzo, è una cosa che proprio mi rimane come un limite.
Riprendo la marcia, superando il lungo corridoio pieno di finestre dell'entrata, superando la bacheca scolastica e la bidelleria, superando le rampe di scale che conducono al piano superiore. Ma prima di varcare la soglia della mia sezione, decido di rintanarmi per qualche secondo nei bagni, per riprendermi un attimo e fare mente locale.
Entro dentro uno dei cubicoli, chiudendo a chiave e poggiando le chiappe sopra la tazza del cesso, accuratamente chiusa con la tavoletta. Mi afferro la testa con le mani, conficcando le dita con le unghie mangiucchiate oltre i capelli, premendo contro la cute.
«Di coloro che non contano niente non me importa un cazzo, ma di quelli a cui tengo... cosa racconto a quelli a cui tengo dopo averli delusi?» balbetto a mo' di lamento di morte, la mascella inferiore che mi trema.
Ho ancora la modalità aereo inserita sul cellulare, chissà se Marta mi avrà telefonato, chissà se Diego mi avrà mandato qualche altro messaggio, chissà se Thalìa mi avrà ritelefonato dopo che alla prima non l'ho degnata di una risposta.
Il bussare alla porta, alla porta cui dietro mi trovo io, mi fa sobbalzare dallo spavento, tanto che quasi perdo l'equilibrio e casco per terra.
«È o-occupato» farfuglio non riuscendo a immaginare chi mai potrà celarsi dietro di quest'ultima.
«Lo so che è occupato, altrimenti non avrei bussato» mi arriva la risposta dal di là, «sono Laira. Puoi aprire?».
Laira. La mia Laira. Il mio uccelletto che io stessa ho lasciato alla libertà. Colei che è sempre stata dalla mia parte, colei che ha sempre curato i miei interessi. La Natalie Portman in miniatura drogata di dolci, la quale non le rivolgo parola da quella che pare essere un'eternità, è in attesa che io le apra.
«Se ti aprissi correrai il rischio che io ti tratti come una pezza da piedi, lo sai?» rispondo alla sua domanda con un'altra domanda.
Ad ogni modo, nonostante i trascorsi, il mio cuore sta scoppiando di felicità al saperla qui insieme a me, che si interessa alla mia situazione.
«A me piace il rischio, te lo ricordi questo?».
«Non mi sono scordata di niente» asserisco mentre con la mano vado a sbloccare la serratura vecchia e decrepita, che ha necessità di essere sostituita, esattamente come il finestrino fischiettante della mia macchina.
Gli occhi vispi e vigili di Laira Visparelli mi guardano con dolcezza, un trattamento che forse non credo di meritare.
«Ciao, Mats» esordisce lei sorridendo come una bambina, i capelli corti legati in due codini sbarazzini, «scommetto che non hai fatto colazione stamattina, mi ci gioco la scorta settimanale che mi compra mia madre di orsetti gommosi. Insomma, tieni» e sporge verso di me quella che è una Kinder Delice ancora incartata.
«No, non l'ho fatta... scommetti bene. Non avevo fame e non ce l'ho neanche ora» tiro su con il naso, scuotendo il capo con fare capriccioso, «mangiatela tu, so bene quanto è importante per te lo zucchero di primo mattino».
«Ne ho un'altra con me, ne porto sempre dietro due, per ogni evenienza... non si sa mai» ribatte decisa Laira, rinnovando l'invito di quella merendina.
«Non ho fame, ti ringrazio» e declino per la seconda volta.
«Matilde, è una fottuta merendina. Centottantacinque calorie, che saranno poi smaltite a fine mattinata, probabilmente anche prima. Quella che hanno visto è solo una dannata fotografia, lo sai quanto me che se ne dimenticheranno tutti. Tutta questa pressione durerà al massimo una settimana, forse due, non un'altra di più. I tuoi amici non ti abbandoneranno, siete un gruppo troppo compatto per sciogliervi per colpa di una bazzecola simile. Tu e Aspromonte darete talmente la nausea che nessuno più vi darà considerazione, passerete di moda. Magari quelli che sbavano dietro a te e a lui proveranno rancore per più tempo, è un'ipotesi. Tuttavia finirete nel dimenticatoio, come ogni altra questione adolescenziale che accade sotto il tetto di un liceo. E lo dice Laira, diciassette anni, ancora minorenne. Fanculo, è solo una fottuta merendina! Mangia!» mi fa un discorsetto Laira Visparelli, dimostrando la sua immensa saggezza, rara per una della sua età.
Mi porge con forza la Kinder Delice, poggiandola sopra il mio palmo aperto.
Ho gli occhi che mi pizzicano e la presenza di lacrime di commozione. Le sorrido. «Fanculo, io mangio!».
Esco fuori dal bagno con gli angoli della bocca sporchi di cioccolata e gli occhi arrossati.
Sì, ho pianto. Avevo tutto il diritto di farlo. Dovevo liberarmi di un macigno, cosicché possa affrontare a cuore aperto e con l'animo sollevato i miei amici.
Laira mi segue in silenzio rimanendo alle mie spalle, soddisfatta di aver completato la sua missione. Sto quasi per voltarmi al fine di ringraziarla come si deve, forse per abbracciarla. Un abbraccio io glielo devo. Ma ciò mi viene impedito.
Non mi volto dal momento che trovo Leonardo in attesa sul corridoio dell'Artistico, coi gomiti poggiati contro il davanzale di un finestrone aperto.
Appena mi scorge non mi dà il tempo di proferire parola, mi prende per mano e, senza darmi spiegazione alcuna, mi trascina via con sé, facendomi percorrere una seconda volta le scale principali che conducono al piano inferiore, al piano del Classico.
Una volta aver tolto il piede dall'ultimo gradino, ci fermiamo in mezzo all'area principale, trafficata da tutti, studenti, professori, addetti al personale, persino da Gandolfo stesso. È da considerarsi allo stesso pari di un palcoscenico di un teatro. Infatti, numerosi alunni marciano alla volta delle loro rispettive classi. Sia Perfettini, sia Fattoni.
«Le cose si fanno in due» esordisce Leonardo afferrandomi per la nuca, inchiodandomi con gli occhi, «perché dargli una fotografia quando possono avere la scena dal vivo?».
E mi bacia maledicendo tutti quanti, fregandosene dei loro giudizi, mandando affanculo Claudio e il colpevole della fotografia, esaltando ciò che è realmente di rilevanza. Me e lui.
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