44. Predizione inquieta
Alzo gli occhi dal messaggio appena inviatomi, in bella vista sullo schermo del cellulare, con calma e lentamente.
Mi prendo la libertà di sbattere le palpebre quasi con ciclicità disarmante, come se andassi al ritmo di una qualche canzone ricca di melodia. Scuoto il capo al fine di liberarmi dalla zavorra dei capelli che sono andati a cascarmi, inesorabili, dinanzi al viso. Mi ravvivo perfino la frangetta, riflettendo con assennatezza che sia giunto il momento perfetto per darle una leggera spuntatina; è cresciuta alquanto in questi ultimi mesi, quasi è arrivata a sfiorarmi la soglia delle palpebre.
Incredibile del modo in cui stia agendo, esattamente come se avessi a disposizione tutto il tempo del mondo, come se non avessi un Leonardo a qualche metro di distanza da me, in attesa di un qualsiasi movimento da parte della sottoscritta, come se potessi crogiolarmi nella sfrontata pigrizia. Ahimè, come se non ci avessi preso gusto immane a punzecchiarlo all'ennesima potenza, provocandolo con qualsiasi arma del mio arsenale.
Abbiamo fatto pace sabato notte, dopo la vicenda al Circolo degli Illuinati, e sensazione migliore di quella non l'avevo affatto provata. Mai.
Non che l'avessi fatto con cattiveria o malizia quel gesto equivoco quale quello dell'averlo ignorato; di proposito sì, ma non c'erano secondi fini dietro, non glielo facevo appositamente per farlo... irritare, tanto per mettere i puntini sulle "i". Tuttavia, a dispetto delle previsioni, il modo con cui abbiamo chiarito è stato maledettamente incantevole.
Mi è piaciuto da morire vederlo scocciato per il fatto che l'avessi semplicemente tagliato via dalle mie peripezie, mi è piaciuto assai vederlo piccato per un nonnulla come quello, troppo abituato a essere sempre al centro dell'attenzione, ben voluto da chiunque, desiderato ancor di più. Leonardo Aspromonte lo ha reso come suo vizio personale quello di essere il prediletto, venerato e amato da tutti.
Mi diverte stuzzicarlo a dovere, dal momento che so poi cosa mi aspetta nel dopo. Dal momento che ho avuto la maniera di scoprirlo, mi sembra giusto definirmi nel profondo come perfetta egoista e perfetta irriverente: "egoista" perché lo sottopongo a scherzetti non troppo... etici, "irriverente" perché, fondamentalmente, Leonardo non si merita questo. Ma dato che in me sovente è la prevalenza del lato oscuro, anziché quello chiaro – quello da "Sith" come direbbe Marta –, ecco che mi ritrovo a comportarmi come colei che vuole a tutti costi stuzzicare la pazienza del leone. Sapendo che, alla fine, lui mi sarebbe saltato addosso al fine di vendicarsi a dovere.
È un ragionamento piuttosto contorto, intricato forse. Ma io non ho mai asserito di essere una ragazza semplice, dall'aspetto liscio e senza fenditure, dalle quali, poi, fuoriesce e fuorientra di tutto, di bene e di male.
Ed è per questo motivo che mi permetto di lanciare un'occhiata carica di beffardia in direzione del leone che, ora come ora, ha tutta l'aria di essere una preda con la "p" maiuscola. Addirittura il colore dei capelli rispetta in tutto e per tutto la tonalità dorata del manto e della criniera.
Blocco il display del mio cellulare, così facendo visualizzo soltanto il messaggio su WhatsApp, e, con la coscienza di non aver dato uno straccio di risposta, lo vado a riporre nella tasca della salopette. Leonardo segue ogni mio movimento con particolare minuzia, assottigliando lo sguardo, curioso di sapere della mia contromossa e stando bene attento a non farsi beccare né da sua madre, né da chissà chi altro.
Leonardo non riesce a fare a meno di scuotere il capo, infilando una mano fra i capelli in una mossa dettata dalla tensione, e di sogghignare sotto i baffi.
Infine mi esibisco nell'elegante movimento del fare spallucce, quel movimento che suggerisce in tutto e per tutto un "Vedremo".
Per tutta risposta Leonardo mi lancia l'ennesima occhiata, seppur stavolta carica di allusione accompagnata da un divino sopracciglio inarcato. Strano che non si sia aggiustato gli occhiali... ormai ci sto facendo la sana consuetudine.
Nell'esatto momento in cui egli pare voler scrivere dell'altro nello schermo del suo iPhone, Marco fa il suo ingresso al Caravaggio accompagnato da suo padre Giuseppe, originario della meravigliosa Sorrento e napoletano fino al midollo.
Entrambi camminano fianco a fianco, Marco leggermente più alto di suo papà e con le mani ficcate nella tasca del giacchetto senza zip, Giuseppe con quest'ultime, invece, all'aria e agitandole senza sosta.
«Mi auguro per te che quest'anno gliela fai a pigliare 'sta maturità benedetta. Sennò sai a chi piglia un colpo? A chillu strunz e patet» sento dire a Giuseppe con quel suo tono di voce squillante e arguto, l'accento napoletano che decora le sue parole.
«Ma stai tranquillo, bà, è tutto sotto controllo. Sono diventato molto studioso negli ultimi tempi» si difende Marco nel mentre che alza gli occhi al cielo, avvicinandosi sempre di più alla sottoscritta.
«Tu sei troppo fareniello, bello mio! Ora sentiamo cos'hanno da dire i tuoi professori» incalza Esposito Senior agitando il dito indice come se fosse una spada, stringendo nell'altra mano lo stesso foglio di mia madre, ossia la lista dei professori e le rispettive aule.
«Ciao, Marco. Ehilà, Giuseppe, quanto tempo! Come va?» esclamo distogliendo definitamente l'attenzione da Leonardo ed esibendo un caloroso sorriso, spostando appena il peso sulla gamba sinistra.
Il padre di Marco, come mi mette a fuoco, ricambia immediatamente il mio sorriso, sfoggiando quell'espressione che lo rende tanto amato agli occhi degli amici del figlio.
«Ciao, Matilduzza. Non ci lamentiamo, non ci lamentiamo. Tra poco scopriremo se questo uaglione me lo bocciano di nuovo» dichiara allegramente Giuseppe, dando un bello scappellotto sul capo dell'altro povero sventurato, «tua madre? Tutto bene?».
Con una forza immane tento di non scoppiare a ridere, soprattutto cerco di non soffermarmi sulla smorfia esilarante stampata in faccia di Marco.
«È di sopra a fare la fila per Lunanuova, magari riesci a beccarla» gli spiego educatamente, tossicchiando al fine di soffocare quell'avvisaglia di risatina epocale.
«Come no! Molto volentieri. Tanto anche io devo fare due chiacchiere con "O sole mio"!» asserisce riferendosi a un Emilio Lunanuova simpaticamente ribattezzato.
Diamine, qua rischio davvero di piegarmi in due dal ridere, infatti non riesco a resistere oltre. Mi ero quasi dimenticata di quanto fosse simpatico il padre di Marco. Magari tutti i genitori fossero come lui.
E come egli va a salire le scale, superandomi di buona lena, Marco finalmente esplode, sbuffando rumorosamente e portandosi le mani sopra le palpebre.
«Quella bocciatura in primo anno me la rinfaccerà fino alla morte. Se la porterà sulla tomba» si lamenta lui sfiduciato, piegando gli angoli della bocca verso il basso.
«Sono genitori, è la loro natura» convengo dandogli una pacca amichevole sulla spalla, ben più leggera dello scappellotto che gli ha rifilato suo papà pochi istanti fa.
«Tu credi? Eppure mia madre non se l'è legata al dito...» sottolinea Marco un filino isterico, togliendosi le dita dal volto arrossato.
«Che importa? Vai bene a scuola, per di più non sei stato più segato da quella volta» gli ricordo con tono consolatorio, «tuo padre non mi sembra proprio uno stronzo. Scalmanato sì, ma non stronzo. Lascialo lamentare, è il giorno dei colloqui dopotutto».
Dopodiché Marco si stringe nelle spalle e mi lancia un'occhiata piuttosto mite, lo vedo alquanto rasserenato. «Marta? Diego? Ludovico? Thalìa? Notizie di qualche superstite?» domanda poi con fare premuroso guardandosi intorno, come a cercare di intravederli chissà dove.
«Che io sappia Marta dovrebbe venire con sua mamma. Diego non so se preferisca restare a casa o meno. Ludovico... e bè... Ludovico pensi che farà venire i suoi genitori a parlare con gli insegnanti?» asserisco poggiandomi con una spalla contro il muro, mettendomi comoda.
«Uhm, improbabile ma non impossibile» sentenzia Marco sogghignando con leggerezza, estraendo nel contempo dalla tasca del giacchetto il porta-tabacco, le cartine e i filtri per fare un drum, «vieni fuori a farti una cicca?», mi chiede indicando con un gesto del capo la direzione opposta alla nostra, quella della porta principale.
«Forse più tardi. Voglio stare accanto a mia madre quando andrà a parlare con Lunanuova, mi piacerebbe sentire cosa ha da dire e, eventualmente, verificare che sia la verità» declino gentilmente, nonostante la voglia di fumare di una sigaretta la avverto eccome, e successivamente, senza rendermene conto, volgo lo sguardo esattamente nel punto dopo poco fa Leonardo mi stava osservando con aria divertita.
Tuttavia lui non c'è più. La figura slanciata che se ne stava in piedi accanto alla grande finestra del corridoio è sparita nel nulla, come anche la madre, segno che il loro turno di entrare a parlare con chissà quale prof. è arrivato.
«Be', ci becchiamo dopo» mi fa Marco con naturalezza, riportando le miei iridi su di lui.
«Ci becchiamo dopo» annuisco lanciando un'altra occhiata nello stesso punto di prima ormai vuoto.
Mi mordo il labbro inferiore nervosamente, nemmeno presto attenzione a Marco che leva i tacchi e si allontana da me; la consapevolezza che non sarebbe di certo finita lì la percepisco come le dita di una mano che mi stringono la gola: una sensazione opprimente.
Prima di andare di sopra per raggiungere Adele, prima di sorpassare il famoso "muretto delle pomiciate", scorgo con la coda dell'occhio Midorin arrivare insieme a suo padre. Ha beccato proprio Marco nello stesso, esatto momento. I due si salutano amichevolmente, dimenticando – e per fortuna – di appartenere a due indirizzi ben differenti, poi noto Marco dirle qualcosa e, infine, la Rappresentante d'Istituto del Classico accetta la proposta che io ho rifiutato pochi attimi fa; si unisce al mio amico per fumare una sigaretta.
Io e mia madre siamo appena entrate nell'aula occupata dal professor Lunanuova, il secondo E.
A differenza degli altri anni precedenti, non percepisco quel tipico senso di agitazione, di irrequietudine suprema, aggrovigliarmi stomaco e cervello come se fossero tenaglie roventi. Nonostante non ci sia la dolce professoressa Pancrazio, bensì al suo posto un giovane sostituto non troppo magnanimo, provo nient'altro che tranquillità.
Non mi viene l'impulso ostinato di portarmi le dita alla bocca per poi ridurle in brandelli di carne mangiucchiata e sanguinante, non mi scatta quel meccanismo che attiva la vescica e ti costringe a filare in bagno per fare, magari, letteralmente una misera goccia di pipì, lo stomaco non si mette in modalità "vomito automatico", le gambe non si riducono a molle gelatina paragonabile a quelle delle Goleador in piena estate.
Nulla di tutto questo.
Anzi, riesco quietamente a sostenere lo sguardo inquisitorio e glaciale di Emilio, riesco a non farmi sopraffare da quella linea ben dritta e al tempo stesso dura delle sue labbra leggermente arrossate per colpa del freddo; lo sguardo che Marta Brunori è stata in grado di addolcire, le labbra che hanno sfiorato le sue ridestandosi da quello che sembrava un lungo inverno arido e privo di calore umano.
Tengo le mani allacciate con armonia sopra la stoffa dei jeans a vita alta mentre Lunanuova cerca il cognome "Castellani" sul suo registro scolastico, senza staccarmi gli occhi di dosso.
Sfoglia con cura le pagine senza essere brusco, privo di tatto, dimostrando la sua venerazione per della semplice carta che funge da materiale adibito alla sua professione. Marta me lo ha spiegato: per lui, tutto ciò che ha una copertina e delle ruvide pagine con sopra delle lettere stampate è considerato al pari di un tesoro prezioso, di inestimabile valore. E in questo, il professore ha tutta la mia totale approvazione. Sarei quasi tentata di alzarmi in piedi e di andargli a stringere la mano, con tanto di applauso finale. Me ne sarei persino fregata dall'occhiataccia che sicuramente mi avrebbe rifilato.
Appellandomi a tutta la calma dell'Universo, sto iniziando a ponderare che sia cosa buona e giusta rivalutare la persona di Emilio Lunanuova.
Al di là della sua apparente stronzaggine, del suo essere esageratamente seguace della perfezione in un'interrogazione, del suo essere severamente dedito alle regole tanto da farlo portare ad annusare la stoffa degli indumenti dei propri studenti e del suo inutile cronometrare il tempo con il cellulare, ritengo che sia una persona di valore dietro la sua corazza inattaccabile fusa con una personalità solida, forte e invincibile. Ritengo che non per forza dobbiamo ricambiare il suo stesso trattamento verso di noi, anzi, penso che dovremmo mostrare più bontà d'animo, più amabilità e, perché no, anche più passione verso il sapere e la conoscenza.
Non necessariamente il quinto D deve comportarsi da testa di cazzo con lui, poiché Emilio non se lo merita affatto. Dopo quello che ha dovuto affrontare, egli si merita tutto il meglio del mondo, ammesso che ce ne sia rimasto... A dire il vero un po' di quel "meglio" ce ne sarebbe ancora ed è la mia Marta.
E, probabilmente, Emilio potrebbe rappresentare la definizione di "meglio" per lei. Si completerebbero alla perfezione, l'incastro ineccepibile.
Hanno letteralmente un vuoto per ciascuno, e quel vuoto combacia l'uno con quello dell'altra.
Marta è cotta di Emilio, io lo so. Sarà sconvolta per il bacio di Alberto, glielo concedo, ma il suo cuore è letteralmente andato in orbita già da un po', da molto prima.
Di punto in bianco mia madre si schiarisce la voce, grattandosi un po' a disagio la nuca. Un tipo tutto pepe come Adele Del Gaudio proprio non riesce a restare fermo per più di dieci secondi, soprattutto se ciò implica il rimanere seduta su una sedia di un liceo.
Infatti quando lavora allo studio è in costante movimento: cammina avanti e indietro quando parla al telefono, piega le gambe in un balletto perpetuo quando rimane in piedi a esaminare progetti, agita la testa quando invece è costretta a sedere a disegnare. Non ha mai pace.
«Professor Lunapiena, lo sa vero che a una certa età moriamo di vecchiaia?» dichiara la mamma andando ad accavallare l'altra gamba per l'ennesima volta da quando siamo entrate.
Per poco che non mi strozzo con la mia stessa saliva e inutile dire che le mani che tenevo riposte elegantemente sopra le cosce sono andate ad afferrarmi i capelli.
«Castellani. Eccola qua, la nostra Matilde» asserisce Lunanuova abbozzando un sorriso; sorriso che non gli ho mai visto prima d'ora se non in casi rarissimi! Stranamente si è ricordato la forma corretta del mio nome, meno male che si è risparmiato quel suo solito chiamarmi Matilda. «È Lunanuova, comunque» aggiunge subito dopo senza sembrare troppo scocciato.
Adele rimane per qualche secondo in silenzio, socchiudendo l'occhio sinistro e la bocca semi-aperta, il che mi fa pensare che sia preda di un lapsus involontario.
E poi trattasi anche di una questione di educazione; fuori, oltre quella porta, ci sono altri genitori in attesa di parlare con l'insegnante di storia dell'arte, tra i quali anche il padre di Marco.
«Allora, il suo andamento scolastico» annuisce Lunanuova dopo aver sbattuto ripetutamente le palpebre, «Matilde Castellani ha una buona media con la mia materia» acquista un tono alquanto professionale e placido, rivolgendosi principalmente a mia madre e scorrendo con il polpastrello dell'indice sulla tabella che riporta i voti di un novello primo quadrimestre, «non si è mai fatta trovare impreparata durante le mie interrogazioni, anche se bisogna dire che io le faccio programmate proprio per andare incontro ai miei studenti. All'ultimo compito in classe ha preso un bel nove pieno, uno dei pochi della sua sezione. Mi dà l'idea che storia dell'arte sia una sorta di sua religione personale, ogni volta che durante la lezione spiego l'argomento, lei segue con scrupolosa attenzione, la vedo che pende dalle mie labbra. L'unica pecca è che fa una comunella assurda con Brunori, la sua compagna di banco, e con Falco ed Esposito, seduti dietro di loro».
«Wow, Mati, non sapevo fossi diventata così studiosa. La maggiore età ti ha portato consiglio» Adele mi prende in giro seppur in buona fede, si vede che è decisamente orgogliosa grazie alle parole che Emilio ha speso per la sottoscritta.
E che parole, diavolo! Non mi aspettavo un riscontro positivo del genere, soprattutto con uno come lui. Sono piacevolmente sorpresa.
«E comunque, professor Lunanuova, le assicuro che la comunella la fanno anche quando si piazzano a casa mia. Non sono troppo sorpresa» aggiunge poi senza sbagliare il cognome, per fortuna. Non avrei retto fisicamente a un'altra figura di merda come quella di prima.
«Speriamo che si sappiano comportare responsabilmente durante la gita che faremo a gennaio. Io sono uno dei professori che si è offerto di accompagnarli a Berlino, mi auguro che non combinino disastri nel mentre che li terrò d'occhio» osserva Emilio portandosi i capelli più lunghi della norma dietro le orecchie, e arrotolandosi poi le maniche della camicia immacolata sino ai polsi.
Ha in tutto e per tutto l'aspetto di un drammaturgo, altro che di un attore teatrale! Lo vedrei bene stringere fra le mani lo stesso cranio di Amleto mentre osserva me e la mia combriccola di amici fare atti vandalici in quel di Berlino.
«Le ricordo, prof., che io sarei una Rappresentante d'Istituto. Io non combino disastri, io aiuto a prevenirli» gli faccio notare senza evitare di roteare le iridi al cielo.
«Come quella mattina in cui vi ho ritrovato faccia a faccia con i ragazzi del Classico in procinto di una rissa, con tanto di megafono, grida e cassa per la musica? Pareva vi fosse una manifestazione in piena regola» obietta Emilio mettendo mano alla mia memoria indubbiamente fresca e attiva.
Come dimenticarsi di quel giorno?
«Era una campagna per le elezioni, lo sa. Inoltre, nessuno avrebbe preso a botte nessuno, ben sappiamo che la violenza non è la risposta ai problemi» gli faccio presente, «stia tranquillo che la gita filerà liscia come l'olio. Non commetteremo alcun tipo di atto vandalico. Niente comportamenti incivili e niente manie da teppisti, è una garanzia».
«Vedrò di fidarmi di lei, Castellani. Voglio darle il beneficio del dubbio. A parte questo, io non ho nient'altro da dire, Matilde non ha problemi con la mia materia, anzi, eccelle senza complicazioni. Suggerisco di tenere stretto questo andamento per tutta la durata dell'anno, fino alla maturità. Sarà sicuramente ben ripagata alla fine» dichiara lui spostando l'attenzione sulla figura sottile della mamma, che ha tutta l'aria di balzare in piedi come una molla.
È ormai giunta al limite della sopportazione, deve assolutamente muoversi, fare qualcosa.
E infatti si erge sulle gambe in uno scatto mentre al contempo si ravviva i capelli cortissimi.
«La ringrazio, professore, è stato veramente un piacere conoscerla e ascoltarla. Penso che sia un degno sostituto della vecchia prof. di Mati, la Pancrazio» espone ella stringendo la fibbia della borsa che gli circonda la spalla e allungando la mano per farsela stringere da Lunanuova.
«Mi fa piacere sentirmelo dire, nonostante io sia solo un supplente» sorride l'altro sinceramente lieto del complimento inaspettato, «mi auguro di rivederla prossimamente».
«Arrivederci, prof.! Ci becchiamo domattina in terza ora» gli dico alzandomi dalla sedia per seguire a ruota Adele, imitando il saluto militare con la mano.
«Castellani, può trattenersi soltanto un attimo? Le devo chiedere una cosa» m'interrompe però Emilio come appena metto piede oltre la soglia del secondo E, poco dopo che mia madre fuoriesce dalla classe.
Mi blocco sul posto visto che la richiesta mi coglie prettamente di sorpresa.
Sposto con fare nervoso la frangetta leggermente di lato per non farla cozzare contro i miei occhi – giuro che quando ritorno a casa le do una spuntatina con le forbici – e mi volto verso colui che ha richiesto la mia presenza. Piego la gamba sinistra, trasferendo di conseguenza tutto il mio peso in quella destra, premendo poi la mano contro un fianco.
Il professore è in piedi dinanzi alla cattedra con le dite delle mani premute contro la superficie, appena vicino al bordo. Tiene il capo chinato verso il basso e i capelli corvini gli ricadono delicatamente sul volto, i ciuffi vanno a incorniciarglielo in maniera impeccabile. Soltanto la sommità del naso a punta fa capolino da dietro di essi; pare che un qualche maestro dall'estrema bravura gliel'abbia disegnato a regola d'arte.
Il suo naso è molto diverso da quello di Leonardo, forse più armonioso, realizzo in silenzio.
«La ascolto» lo incito a parlare poiché noto che abbia una qualche difficoltà a esprimersi.
Lo capisco dal modo in cui flette le spalle, alterando la postura dei muscoli degli avambracci scoperti, e lo capisco perché ha tirato un lungo sospiro nel contempo che ha abbassato la testa.
Decido di non avvicinarmi a lui, decido di rimanere distanza perché non mi va di forzare troppo la sottile confidenza creatasi in questi ultimi cinque minuti. Ritengo saggia questa mia scelta di lasciare lui il suo spazio vitale.
«Prof., c'è qualche problema?» insisto tuttavia non vedendo alcun segno di voglia di parlare da parte sua, questo silenzio mi mette una leggera soggezione.
«Sai... tu sai se oggi Marta verrà?» apre bocca Emilio e ciò che ne esce mi lascia letteralmente impietrita, con tanto di occhi sbarrati.
In primis il timbro di voce assai abbattuto, non consuetudinario nelle battute del suo ampio repertorio, in secundis il suo avermi dato del "tu". Prima volta in assoluto da quando è iniziato l'anno scolastico a settembre! Emilio Lunanuova non mi ha dato del "lei"... è un miracolo.
L'ultima cosa a lasciarmi di stucco è il nome di Marta che anima il movimento delle sue labbra e, evidentemente, quello della sua mente. Tutto questo scatena in me una tenerezza inaudita e istintiva, mi viene da provare nient'altro che compassione.
L'anima di Emilio è veramente troppo pura e preziosa.
«Sì, verrà insieme a sua madre» lo informo mentre un sorriso mite va a illuminarmi il volto, sperando in qualche modo che riesca a infondere della sana e meritata pace nello spirito del professore.
Quest'ultimo alza il proprio sguardo – di un blu inalterato più scuro seppur stupendo come quello di Leonardo – e lo proietta in mia direzione; esattamente come il "tu", è la prima volta in cui egli mi osserva come se fossi un suo pari, come se quel rapporto professore-alunna si fosse per un istante dissolto.
Siamo esattamente al medesimo livello.
«Oh, bene... mi fa piacere» proferisce quasi a bassa voce e, secondo me, perfino con un filo di imbarazzo.
Dopotutto è della mia migliore amica che stiamo parlando. Naturalmente, in cuor suo, sa benissimo che lei mi ha raccontato tutto, per filo e per segno di ciò che è accaduto fra di loro la settimana scorsa.
Pur tuttavia l'insicurezza e la timidezza sono tratti distintivi nel genere umano, onnipresenti. E più si cerca di estraniarli, affermando che essi non fanno parte di noi, più loro tendono a venirti addosso, travolgendoti come un'onda in piena tempesta. E allora non ci sarà contegno, decoro, compostezza, rigidità o temperanza che tenga.
«Devo parlarle e non mi sembrava opportuno farlo su un social come Facebook. È dalla settimana scorsa che aspetto» racconta con semplicità, portandosi il palmo della mano dietro la nuca, sotto la coltre di capelli.
«Un'idea eccellente» convengo io annuendo.
Appena dopo essere uscita dal secondo E, reduce di quel qualcosa anche chiamato "dialogo" con Lunanuova, mi guardo intorno con la speranza di intravedere almeno minimamente l'arrivo di Marta assieme a Regina.
I miei occhi passano in rassegna la moltitudine di genitori accompagnati dai rispettivi figli in attesa di essere ricevuti dai medesimi professori, visi conosciuti, visi mai visti, alcuni più familiari di altri, altri che proprio rappresentano mistero.
Nessuna traccia di capelli argentati e grandi iridi verdi.
Nei corridoi pitturati di bianco perfetto, accompagnati da dei battiscopa in legno di ciliegio, imperano le chiacchiere più disparate, raggiungendo quasi i livelli dell'intervallo; il che non mi aiuta per niente a riflettere. Le suole delle mie scarpe rimangono ben ferme e solide sopra la superficie di marmo color ardesia mescolato al grigio e ornato di rifiniture tonalità avorio.
Il cuore mi batte all'impazzata, più che normale dopo che ti accade un qualcosa paragonabile a un evento leggendario quale Emilio Lunanuova che ti riserva, finalmente, il tanto agognato "tu".
Ad ogni modo, tento di darmi una calmata, tento di ricompormi il più velocemente possibile, di modo da poter ritornare da mia madre ovviamente già volatilizzata chissà dove. Di sicuro si sarà fiondata dal professor Del Gaudio, pronta e indirizzata a rifilare anche a lui una battuta sul suo cognome.
Peccato che Del Gaudio non sia come Lunanuova, peccato che Del Gaudio sia del tutto pazzo e finito. Oltre che esaurito.
Col senno di poi, constato che ancora possiedo un cellulare sul quale posso ricevere e mandare messaggi, magari Marta mi ha scritto su WhatsApp e io non me ne sono accorta.
Difatti cammino sino all'angolo in fondo al corridoio, proprio accanto alle scale, e mi appoggio con la spalla contro il muro dei bagni del piano dell'Artistico.
Emetto uno sbuffo verso l'alto al fine di scostarmi la frangetta dagli occhi ed estraggo l'apparecchio per poi sbloccare il display orribilmente vuoto, privo di qualsiasi notifica.
No, Marta non mi ha scritto. La battaglia è da considerarsi persa, dunque.
Dopodiché, però... aprendo WhatsApp mi cattura nuovamente l'attenzione un messaggio che esattamente venti minuti fa, o poco più, ho ignorato con un'indifferenza degna della donna più crudele e spietata del mondo.
Cinica, anche. Insensibile, forse.
Il messaggio di Leonardo il quale recita un perfetto invito a dover andare a studiare da lui, a casa sua.
Mi mordo il labbro inferiore mentre esamino con fin troppa cura la mia barra di testo, che servirebbe per rispondere. Non posso fare a meno dal sorridere come una perfetta cretina pensando a come riesco a tenere meravigliosamente in trappola quel ragazzo tanto venerato dal Caravaggio al completo.
Percepisco quella sensazione di potere estremo, è innegabile, quel potere estremo, smisurato, che affiora nei cuori di coloro che ancora sono nel fiore dell'adolescenza, nel bel mezzo della sua burrasca. Chi è adulto, difficilmente riesce a percepire una sensazione simile. Probabilmente – e dico probabilmente – potrebbe soltanto mia zia Angelica, costantemente con il suo animo da bambina nonostante i suoi ventotto anni. Ed è senzadubbio una cosa positiva.
Tuttavia ritornando a me e al messaggio di Leonardo, devo decidere come architettare una risposta sagace ma non del tutto esaustiva al tempo stesso. Voglio prolungare il mio essere sadica ancora per un po', voglio ucciderlo in maniera legale sapendo poi a quale destino andrei incontro inesorabilmente. Un destino non troppo infausto secondo il mio modesto punto di vista.
Un ghigno familiare e piuttosto perverso mi spunta fra le labbra, il telefono ancora stretto fra le mie dita.
Accettare o non accettare?
Mi servirebbe terribilmente Emilio Lunanuova in versione Amleto con il teschio in mano, in questo caso.
Accettare, accetto di sicuro, mi va di andare a casa sua stavolta in un contesto diverso da una festa, decisamente più tranquillo. L'idea di studiare insieme a una mente brillante come quella di Apollo mi ispira da morire, l'idea di intrattenere un duello verbale menzionando gli argomenti scolastici fino a che uno dei due non si arrenda ancor di più...
«In realtà ci sarebbe stato anche quel ragazzo inglese, se vogliamo essere pignoli fino al midollo...» mormoro alzando gli occhi al cielo, arrossendo appena al pensiero di un Leonardo steso. Sono costretta a stringere con forza le palpebre per scacciare via quel pensiero non del tutto illibato.
All'improvviso, mentre trattengo gli occhi chiusi, mi sento afferrare per le spalle con decisione. Senza realizzare per tempo, vengo letteralmente trascinata dentro i bagni del mio indirizzo, senza che io possa quantomeno reagire o dire qualcosa.
Appena mi decido a riacquistare la vista – e anche un po' di equilibrio – ecco che la porta dei sanitari viene chiusa con non troppa grazia, per cui di primo acchito il buio sovrasta me e quel chiunque che dovrei avere davanti, a pochissimi centimetri di distanza. Quel chiunque che sto iniziando a conoscere alla perfezione, passo dopo passo, gradualmente.
Non ho bisogno degli occhi per averne la conferma, mi basta sentirne il profumo.
«Leonardo, fai il favore, accendi la luce» dichiaro con una temperanza gelida e con una fierezza all'altezza di un lupo delle nevi.
«Tu non avevi paura del buio, se non erro» sento rispondermi con quella voce così familiare, intrisa di sarcasmo, oltremodo beffarda.
«Infatti» sentenzio alzando il mento verso l'alto, nonostante lui non possa vedermi. «Bene, vorrà dire che mi arrangerò da sola».
Detto ciò, vado a grufolare nelle tasche del giacchetto alla ricerca del mio fedele pacchetto di Winston, mi approprio di una sigaretta e dell'accendino. Mi porto quest'ultima alla bocca, infilandocela appena, dando vita poi alla piccola fiammella al fine di accenderla.
In quella veloce frequenza di secondi gli occhi azzurri e felini di Leonardo si infrangono nei miei, sfrontati e scuri. Gli occhiali dorati scintillano sotto quella piccola luce flebile e debole, allo stesso modo della sua eterocromia.
Inclino di poco il capo per far aderire al meglio la fiamma con la sigaretta, senza staccargli l'attenzione di dosso. Ne faccio un generoso tiro, aspirando e mandando il fumo dritto ai polmoni, incendiandoli. L'accendino si spegne, Leonardo scompare dal mio raggio visivo.
Infine, imitando lo stesso suo gesto quando mi ha fatto la famosa dichiarazione, getto il fumo proprio in direzione del suo viso, sapendo esattamente in quale direzione si trovi.
Lo sento ridacchiare.
«In onore della tua accusa verso quelli dell'Artistico» proferisco riferendomi a quel fatidico giorno in cui lui è piombato nella presidenza con un'accusa campata in aria, arretrando fino a sfiorare il bordo del lavandino, andandomici a sedere, «denunciami ora a Gandolfo. La dea Atena dell'Artistico sta fumando nei bagni, che scandalo!» lo scimmiotto con voce fintamente indignata, portandomi una mano alla bocca.
E finalmente luce fu.
Leonardo preme l'interruttore situato proprio accanto alla porta con il dito e grazie a ciò possiamo guardarci faccia a faccia. Finalmente può vedere il mio sorrisino insolente e io posso vedere il suo sguardo irriverente.
«Sono sempre in tempo, lo sai?» replica lui incrociando le braccia al petto e poggiandosi con la schiena contro il muro, mettendo volutamente distanza fra di noi.
«Fallo, io nel frattempo ti aspetto qua» insisto prendendo un altro tiro dalla Winston, trasgredendo effettivamente la regola che recita che nei bagni dell'istituto non si deve categoricamente fumare, ignorando anche il cartello a chiare lettere sopra la mia testa, appeso appena oltre l'estremità dello specchio. «Specifica però che sto fumando nei bagni dell'Artistico e non del Classico, grazie. Ci tengo alla reputazione» aggiungo con tanto di occhiolino, sapendo in cuor mio che non sto affatto dicendo sul serio.
«Perché invece di sparare buffonate a raffica non parli di cose più importanti?» evita lui con maestria la mia palese frecciatina.
«E cioè?» faccio finta di non capire.
Dio, se riesco ad arrivare viva entro stasera lo etichetterò come secondo miracolo della giornata. Sto provocando Leonardo con ogni mia particella, senza se e senza ma.
«Devo forse ripeterti il testo del messaggio, piccola Atena?» mi rimembra inarcando un sopracciglio, «Non tirare troppo la corda. I giochetti li so capire anche io, non sono un tipo stupido».
«Quale messaggio?» non mi do per vinta e corrugo perfino la fronte, dando quell'impressione di essere una deliziosa tonta di prima categoria. Oh sì, la corda la sto tirando eccome. Speriamo non si strappi prima del previsto.
«Matilde...» mi richiama lui chiudendo le palpebre in un gesto di raccoglimento.
«Sì, mi hanno chiamata così» asserisco stringendomi nelle spalle e portando la mano destro sotto il gomito del braccio sinistro, la sigaretta in bella vista sulla mano di quest'ultimo.
«Ti diverte proprio tormentarmi» replica lui osservandomi di sottecchi, premendo le dita contro la fronte. E non è una domanda, è un'affermazione.
«Ripetimi il testo del messaggio. Cos'è che vuoi, esattamente?» chiedo con tono voluttuoso, ricambiando la sua occhiata che suggerisce quasi la metà del vocabolario italiano.
Lo vedo particolarmente combattuto; in parte vorrebbe assecondarmi in questo mio diversivo alquanto ambiguo, dall'altra parte vorrebbe... farmela "scontare" a modo suo. Io non intendo demordere, nemmeno in una situazione come questa dei ricevimenti scolastici, nemmeno con mia madre e sua madre sotto lo stesso tetto. A volte so essere molto infantile quando mi ci impegno.
«Vieni a studiare da me dopo i colloqui» ecco che finalmente si arrende, con un sospiro non troppo affranto, anzi, tutto il contrario.
Dopodiché fa un passo in avanti, verso di me, lento e misurato, studia ogni suo singolo movimento, come anche i miei. Leonardo è un maestro nelle mosse e contromosse.
«A studiare...» ripeto mimando il gesto di rifletterci sopra e portandomi nuovamente la sigaretta fra le labbra.
«A studiare» mi dà conferma lui fermandosi dinanzi alla sottoscritta, ben eretto in piedi e infilandosi le mani dentro le tasche. Un atteggiamento che ormai conosco bene.
«E sia. Ma... studieremo davvero» puntualizzo gettando il fumo all'infuori, stavolta verso l'alto.
Balzo nuovamente in piedi, allontanandomi dal freddo bordo del lavandino e guardando Leonardo dritto in faccia per quello che la mia altezza mi permette. È come lo gnomo che vuole fronteggiare il gigante.
«Studieremo e basta» stabilisco senza ammettere repliche ulteriori.
Marta.
Per riuscire a stare meglio dovrei fare quel giochetto della scorsa volta, il segnarmi in un foglio di carta i pro e i contro di qualcosa appena dopo aver tracciato una linea retta a dividere la pagina.
Tuttavia, ahimè, non riuscirei anche se lo volessi, di eseguire un'azione meticolosa e risoluta come quella. Non riuscirei perché quell'emozione la quale sono preda, adesso – quell'emozione cui ho cercato con ogni mio mezzo a disposizione di evitare come la peste nera –, è la paura. Pura e cancerogena paura.
Marta Brunori, la regina di ghiaccio e della freddezza, dopo un tempo che sembrava essere infinito, è ritornata ad avere paura.
Paura di cosa poi? Paura di essermi infilata in una situazione più grande di me, incapace di gestirla. Di aver accettato la mano di entrambi, di Emilio e Alberto, stringendole per poi formare il tanto raccapricciante triangolo. Cazzo, se è raccapricciante.
È raccapricciante come il fatto che sia le labbra del primo, sia le labbra del secondo, mi abbiano fatto provare un qualcosa di veramente ancestrale. Tutti e due, non faccio sconti a nessuno. Non mi va di essere incoerente anche su questo.
Diamine, quanto è sbagliato tutto questo... il tenere nascosto un segreto così enorme, così di tale importanza. Potrebbe portarmi seriamente alla pazzia, potrebbe condurmi sulla cattiva strada.
È un battito di ciglia, un fulmine durante la pioggia, un soffio di vento, uno schioccare di dita.
Zac. Pochi secondi, pochi istanti e sei fregata.
Game over. Hai perso. E poi nessuno ti chiederà "Vuoi ricaricare la partita?".
Nessuna partita, nessun salvataggio, nessun check-point, nessun riprovarci. Si rasenta con euritmia la fine. Il punto di non ritorno.
Sarebbe la seconda volta che io abbraccio quel punto di non ritorno, nel caso dovesse accadere.
«Fanculo» mormoro con la bocca premuta contro il gelido finestrino dell'auto guidata gentilmente da mia madre, dolce consorte di Lucio Brunori, vile traditore che si è rifiutato di accompagnarmi perché teme il conversare faccia a faccia con i professori.
Dice di sentirsi troppo in soggezione in un ambiente come quello della scuola; alquanto strano, poi, dal momento che ha una mente piuttosto arguta e abile.
Quando si piazza davanti alla tv guardando l'Eredità non ne sbaglia mai una, ed è per questo che non faccio altro che insistergli di andare a partecipare. Non tanto per i soldi, quelli non la fanno la felicità, nemmeno per il cazzo, ma perché so che lo divertirebbe da morire. Mettersi in gioco e dare prova di sé.
Mio padre è un gran lettore di Andrea Camilleri, del giornale quotidiano e dei libri di scrittori che menzionano il cancro dell'attualità. Mio padre è proprio un grande stronzo, avrei fatto una figura leggendaria con Emilio a fargli "conoscere" – tra virgolette – un tipo del genere.
«Che hai detto, Marta?» mi chiede la mamma andando ad abbassare la radio della vettura.
«Fantastico, ho recuperato l'insufficienza a matematica. Ecco cosa ho detto» invece replico monocorde senza spostarmi dalla superficie di quel finestrino, che inesorabilmente riflette i miei occhi del tutto spenti e i capelli succubi di un sigillo demoniaco.
«Una bella notizia, per fortuna!» esclama lei tutta allegra senza staccare l'attenzione dalla strada.
Oh sì, proprio una bella notizia. Io lo chiamerei oscuro presagio. Anzi, ancor meglio, predizione inquieta, volendomi appellare a un qualcosa di più poetico.
«Sai già con quale professore vuoi cominciare?» poi continua a dirmi con tono spensierato, non mettendo in conto il mio umore nero come la morte.
«Con quello di religione, almeno gli chiedo un esorcismo» borbotto stavolta facendomi sentire, corrugando la fronte e socchiudendo le palpebre per scacciare l'orribile riflessione che a breve avrei dovuto condividere un ambiente ristretto con Emilio Lunanuova.
E non è la stessa cosa dell'averlo in classe per la normale lezione. Per niente. Durante i colloqui saremo a poca distanza l'uno dall'altra con solo una cattedra a dividerci. I nostri sguardi s'incontreranno per amore o per forza.
«Ti è tornato il ciclo, miss tenebra?» mi canzona la mamma dopo aver sentito la mia battuta infelice.
«No, mi è tornata la voglia di seppellirmi» sentenzio a metà fra l'isterico e lo sconforto.
«È perché abbiamo fatto tardi?» mi dice lei ammorbidendo la voce, con l'aria un po' in colpa.
Effettivamente si sono fatte le quattro precise, il tutto per via di una telefonata fuori programma di Emma, che ha tenuto incollato alla cornetta per ben quarantadue minuti l'orecchio della mamma, facendo slittare la nostra partenza di parecchio ritardo.
«No, ma figurati» le riferisco tentando di rassicurarla.
«Mi dispiace, Marta, ho fatto del mio meglio. Mi dimentico spesso che ho due figlie, Emma mi manca davvero».
«Lo so. E non demoralizzarti, Natale arriva presto» le ricordo provando a sorridere, il primo sorriso che faccio dal sabato scorso, il primo movimento positivo facciale che esterno al mondo intero.
Durante il periodo natalizio, Emma ritorna a Firenze per la tutta durata delle vacanze, ritiene di vitale rilevanza passare tale festività con la propria famiglia. Rinuncia perfino all'atmosfera impareggiabile parigina e al suo sfarzo che solo durante una ricorrenza come quella del Natale è in grado di sfoggiare.
«Già, Natale arriva presto. Una figlia ritorna e l'altra se ne va» allude con un che di amarezza al mio programma di andare con Matilde a Livigno dai suoi nonni.
«È soltanto per una settimana. Bada che poi faccio ritorno e saremo tutti e quattro insieme come una volta» sottolineo sicura delle mie parole, «adesso pensiamo ai colloqui, per piacere. Voglio togliermi questo sassolino dalla scarpa il più velocemente possibile».
«Assolutamente» conviene Regina scostandosi quei delicati ciuffi color caramello che le cascano intorno al volto, sempre liberi da qualsiasi pettinatura che si realizza intersecando i suoi lunghi capelli, «perché non iniziamo con il tuo nuovo professore di storia dell'arte? Il sostituto di quello zuccherino della Pancrazio?».
Se non riesco a evitare di parlare a quattrocchi con Emilio, dall'altro lato, se non altro, viene come un qualcosa di spontaneo quello di evitare Alberto.
Con quest'ultimo non devo intrattenerci per rigore scolastico un colloquio a tu per tu, non deve per forza parlare con mia madre, quest'ultimo potrebbe addirittura essere rimasto a casa, senza accompagnare il proprio genitore ai ricevimenti. In quel caso, lo riterrei una bella botta di culo nei miei confronti. Avrei evitato Alberto fino all'eternità; purtroppo tendo a fare come gli animali feriti, me la do a gambe se mi si presenta ho l'occasione.
Ultimamente sono piuttosto incline alla codardia...
Dopo quel sabato sera, dopo che è accaduto quello che è accaduto, Alberto mi ha ricercata su Facebook.
Non mi ha scritto nulla di che, mi ha semplicemente detto "ciao" e mi ha chiesto come stessi. Un gesto premuroso, quello mi sono sentita di concederglielo, ciononostante ho preferito ignorare i suoi tentativi di parlare con me.
Stessa procedimento l'ho messo in atto perfino questa mattina, sono saettata dentro il Caravaggio con la coda tra le gambe e mi sono rintanata nel sotterraneo. Nell'intervallo ho preferito starmene bella e buona in classe, seduta sul mio banco, rinunciando al mio adorato drum e rosicchiando delle fette di mela preparate prima di venire a scuola. Matilde e Diego sono rimasti accanto a me, non sono sgusciati via come saponette appena bagnate, e siccome Matilde ha scelto di starsene comoda sulla sua sedia, allora così ha fatto persino Ludovico. Caparbio senza ritegno, ma dolce da morire... o almeno io è così che ho interpretato il suo gesto.
Stai a vedere che mi sono rammollita di colpo, un tempo una come Marta Brunori non avrebbe mai definito "dolce" un comportamento simile! Diego non sa minimamente del mio bacio con Alberto, quindi mi è stato vicino senza conoscere il motivo. Un atto che dimostra la seria lealtà e la seria amicizia che ci lega.
La voglia di morire e di seppellirmi aumenta a dismisura. Soprattutto ora che il padre di Yousef è appena uscito dal secondo E, dove all'interno si trova il mio prof. di storia dell'arte.
Faccio un respiro profondo, gettando all'infuori una grande quantità di ossigeno. Stamattina non ho sfiorato neanche per sbaglio lo sguardo di Emilio, volontariamente e necessariamente, ora sarò costretta. Ora è come se avessi un blaster puntato alla tempia.
"Coraggio, DarthMart, che la forza sia con te!", mi faccio forza da sola, l'unica che può seriamente aiutarmi.
Non ho toccato drum o sigaretta quest'oggi, infatti si vede. Mi avrebbe aiutato a distendere i nervi, perlomeno. Impasticciare di sostanza nociva i miei polmoni mi avrebbe aiutato a stare meglio, nettamente; un vero paradosso il mio.
Io e Regina entriamo dentro il secondo E rispettando l'ordine della fila, sapendo che il turno spetta nient'altro che a noi.
Mia madre si fa stampare in viso un sorriso a trentadue denti, lieta e contenta di poter far finalmente conoscenza con quel professore così giovane. Mentre avanza con la mano ben tesa e aperta, la spessa treccia che le ricade sulla schiena si muove con grazia.
Emilio, il professore, si è alzato in piedi appena mi ha vista entrare con tanto di braccia incrociate e stretto contro il petto; i miei occhi spalancati ma visibilmente turbati e credo che questo dettaglio non sfugga all'attenzione di lui.
«Buon pomeriggio, signora...» recita Emilio con una voce galante maledettamente in contrasto con il secolo attuale, allungando a sua volta il braccio.
«... Minareti» espone con prontezza la mamma, accettando ben cortese la stretta, «sono la madre di Marta Brunori, lieta di conoscerla, professor Lunanuova».
«Il piacere è unicamente mio. Finalmente quest'oggi ho modo di vedere che faccia abbiano i genitori dei miei studenti. Pare una sciocchezza, a dirla in codesta maniera, ma in realtà è molto appagante» spiega Lunanuova ricambiando il sorriso, del tutto diverso a quello che ha riservato a me quel pomeriggio.
«Non lo metto in dubbio» asserisce l'altra, accomodandosi a sedere e io la imito, «allora, cambiando argomento! Come va la mia Marta con la sua materia? Sa, mia figlia è molto brava con la pratica, con le tavole dei disegni, ma alla teoria è proprio inadatta».
I capelli di Emilio sono raccolti dietro entrambe le orecchie, scostati all'indietro chissà quante volte in un gesto di nervosismo e incapacità di rimanere fermo, tranquillo. Sembrano morbidi, come sempre del resto... per non parlare della bellezza dei suoi occhi. Mi è quasi mancato poterli osservare così da vicino.
«Brunori, Brunori, Brunori... eccola qua» recita come se sapesse la manfrina a memoria, spulciando il registro scolastico di sua proprietà, andando a pigiare con la punta chiusa della penna sopra la carta con stampato il mio nome, «sì, è un dettaglio che ho notato anche io. Alla pratica eccelle a dismisura, valutando le tavole con la professoressa Francisi, alla teoria è molto carente, valutando io stesso con la mia materia. Alla verifica di inizio anno è riuscita a strappare un sette, a un'interrogazione si è fatta trovare impreparata, dunque le ho dovuto mettere tre, e all'ultimo compito in classe ha preso un sei meno. Non è una situazione critica quella di sua figlia, assolutamente, sono convinto che ancora non mi abbia mostrato il meglio di sé».
«Andiamo, Marta! Un tre? Non avevi proprio studiato, che cavolo» mi riprende la mamma leggermente risentita.
«No, non avevo studiato» ammetto la palese verità a bassa voce, senza un tono particolare, guardando il niente.
«Facci la brava! Hai la maturità quest'anno, non scordartelo» replica lei massaggiandosi la fronte.
«Non è nulla di grave o di irreparabile, signora Minareti» interviene con voce rassicurante Emilio, «siamo a dicembre, il primo quadrimestre è ancora un campo aperto. E poi, sarei proprio curioso di vedere che punteggio otterranno i miei studenti alle simulazioni d'esame. Un po' contano anche quelle».
«Mi raccomando, vedi di studiare almeno per quelle» borbotta Regina.
«Non si preoccupi, me ne occuperò io personalmente. Vedrò di far migliorare suo figlia in vista degli esami di stato poiché ritengo che di potenziale ne abbia tanto, e anche di tenacia», Emilio mi lancia un'occhiata veloce, talmente veloce che è un miracolo se riesco ad accorgermene.
Tenace... pensa che io sia tenace, pensa che abbia tanto potenziale.
Wow, che fine ha fatto il professore stronzo che cronometrava i suoi studenti ed elargiva loro discorsetti poco simpatici?
«La ringrazio, professore, la ringrazio davvero tanto» proferisce mia mamma sinceramente grata, «abbiamo finito? C'è dell'altro? Brutto, bello?».
«Stia tranquilla, abbiamo finito. Con Marta non c'è nulla che sia brutto, mi creda» la tranquillizza il mio professore affabile, sporgendo nuovamente la mano verso di lei al fine di congedarla, «ehm, potrei scambiare due parole con sua figlia? Questione di pochi attimi», dopodiché aggiunge un pelino incerto.
«Ma certo, nel frattempo vado a fare la fila per un altro insegnante. È stato un piacere, professore, mi auguro di rivederla presto» acconsente Regina alzandosi in piedi, lasciando che io rimanga seduta, in balia di un qualcosa che va oltre le mie aspettative, più grande di me.
Appena ella alza i tacchi e si socchiude la porta dell'aula alle spalle, Emilio sposta le sue iridi su di me, come se io l'attraessi come un potente magnete.
Non parla subito, tuttavia si prende qualche minuto per osservarmi nel più rispettoso silenzio, ponderando internamente chissà quale moltitudine di domande.
«Che cosa mi vuoi dire?» vado dritta al sodo, tenendo lo sguardo saggiamente rivolto verso il basso, con le ciocche argentate che mi scivolano oltre le guance e le mani infilate sotto l'esterno delle cosce, sotto il tweed caldo dei miei pantaloni. Gli anelli che ho attorno al dito medio e anulare di entrambe le parti mi premono contro la pelle tanto da farmi male.
«Io non ti ho più cercata dall'ultima volta» dichiara Emilio dopo essersi schiarito la voce.
Diamine, come è cambiato il suo tono da quando mia madre è uscita di qui! Mi prova un inspiegabile brivido lungo la spina dorsale.
«Lo so» ammetto senza l'intenzione di fargliene una colpa.
«Avrei preferito parlarti a voce ma non c'è stato il momento opportuno» mi spiega mentre va a premersi contro lo schienale della sedia, arretrando con il busto, «non sono quello che si suol dire un tipo da messaggi, sms e quant'altro e ritengo che le parole dette di persona siano migliori, oltre che più d'effetto».
«Hai tutta la mia approvazione» arriva rapida la mia risposta, mi ritrovo a dargli ragione senza volerlo.
«Io non voglio la tua approvazione, Marta. Io voglio sapere, perché oramai è un tarlo che mi perfora il cranio da anche troppi giorni per i miei standard, se ti sei pentita di quel bacio. Non te lo sto chiedendo perché voglio metterti pressione o chissà cos'altro, te lo chiedo perché per la prima volta, dopo anni, sento che questa ha il pregio di definirsi come cosa importante e degna di interesse, il mio interesse» espone Emilio con un tono grondante di dolcezza e di trasporto, le sue iridi dal inalterato non mentono.
Sono lo specchio delle sue emozioni.
«No. Non mi sono pentita» dico alzando lentamente il viso, mostrandomi a lui senza riserve, «è stato uno dei momenti più belli accaduti nella mia breve esistenza» e ammetto il vero, ammetto un qualcosa di autentico, «se prima avevo un cuore di pietra, adesso ce l'ho di carta in procinto di bruciare».
Gli angoli delle labbra carnose di Emilio si piegano verso l'alto, come un meccanismo automatico messo in moto dalle mie parole.
«Non avevo bisogno di sentire altro» pronuncia con un che di sollevato, «sai, visto che abbiamo deciso di essere onesti l'uno con l'altra voglio dirti una cosa. All'inizio, molto all'inizio, ho pensato che ci saremmo conosciuti come due fiamme tiepide, che ci saremmo vissuti come due incendi divampanti e che ci saremmo lasciati come due pezzi di ghiaccio. Non voglio affatto fartene una colpa, ma so per esperienza che l'adolescenza è un periodo di alti e di bassi, di cose volute, desiderate, che quando finalmente ne entri in possesso poi subentra la noia, la gravosità di un qualcosa che ti rendi conto di non aver mai voluto davvero se non per misero capriccio. Sono partito un po' prevenuto, spero saprai perdonarmi. Sei una persona veramente matura per la tua età, anche se conservi abilmente quel pizzico di follia tipico di quella fase. Soprattutto quel rancore che mi hai portato senza vergogna e timore, tralasciando il fatto che io sia un tuo insegnante e tu una mia alunna. Il che non mi dispiace».
Matilde.
«Prego, avanti, non essere timida» mi esorta Leonardo a varcare prima di lui la porta della sua magnifica villa per la seconda volta. Lo stesso ingresso che ho superato durante la sua festa, alquanto familiare.
«Poi devi spiegarmi perché tu e tua madre siete venuti al Caravaggio con due auto separate» asserisco ironica guardandolo di traverso mentre supero la figura del ragazzo.
«Perché lei era a pranzo fuori e mi ha raggiunto direttamente a scuola. È sempre piena di impegni, la mia adorata mamma» mi spiega Leonardo venendomi dietro, entrando all'interno dopo un me.
Un tepore piacevole m'invade seduta stante gli arti infreddoliti. «E comunque, lei è già tornata. Ha fatto prima di noi» mi mette al corrente alludendo alla sua Porsche Cayenne parcheggiata a pochi metri dal giardino di casa Aspromonte, sbottonandosi il lungo giacchetto.
«Non mi sorprendo. Comunque, che cosa devi studiare quest'oggi? Io dovrei studiare filosofia e fare qualche esercizio di matematica, magari potresti darmi una mano» proferisco inarcando un sopracciglio; vorrei evitare di usare un tono malizioso ma proprio non riesco a farne a meno.
«Leo, caro, ce l'hai fatta a ritornare! Abbiamo visite» una voce femminile e armoniosa arriva alle nostre orecchie da chissà quale angolo della casa. La voce di Lucrezia.
«Sì, mamma, lo so che abbiamo visite...» conferma Leonardo alzando appena la voce mentre si ravviva i capelli.
Il rumore di passi che dapprima appare soffuso e lontano, man mano che si avvicina si ode meglio, meglio e ancor meglio. Alla perfezione. Rumore di piccoli tacchi che picchiettano sul pavimento.
«Non indovinerai mai, Ariadne è venuta a trovarci! Sapeva che avevi i colloqui quest'oggi e si è recata fin qui soltanto per sapere come ti sono andati» dichiara con voce squillante Lucrezia Kroess, spuntando da quella famosa porta che a suo tempo Costanza mi aveva istigato a superare al fine di andare a cercare Leonardo.
L'elegante e fiera donna che avevo visto qualche ora al Caravaggio, ora si presenta sotto ai miei occhi in tutto il suo splendore, il viso ancor più luminoso e splendido di come sono riuscita a intravederlo di sfuggita e non troppo da vicino.
«Oh» le sue labbra si trasformano in una "o" ben evidente appena constata che c'è una presenza fuori programma, alias la sottoscritta.
Tiene le mani premute l'una contro l'altra esattamente davanti al petto mentre realizza che suo figlio ha portato una perfetta estranea in casa. Successivamente, alle spalle di Lucrezia spunta quella figura tanto... conosciuta.
Ariadne Ardinghelli, la ragazza che ho visto al Centro Equestre insieme a Leonardo e che ha scatenato in me della sana e pura gelosia, è qui di fronte a noi, accanto a Lucrezia, sovrastandola con la sua immane altezza.
Le sue gambe da fenicottero, esattamente come quelle di Thalìa, sono fasciate da sobrie e uniformi calze nere, sovrastate da una gonna dall'aspetto morbido e costoso. I capelli biondo cenere dalla tonalità scura tenuti lunghi e sciolti oltre le spalle, con due ciocche ai lati legate all'indietro in delicate trecce. Finalmente conosco il colore dei suoi occhi, un colore castano, ma ben più chiaro del mio, quasi dorato.
«Ops, sono venuta nel momento sbagliato?» recita con una graziosa vocina, osservando Leonardo, ma principalmente me.
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