43. La percezione della realtà

"Oh deliziosa delizia e incanto. Era piacere impiacentito e divenuto carne. Come piume di un raro metallo spumato, o come vino d'argento versato in nave spaziale. Addio forza di gravità, mentre slusciavo... quali visioni incantevoli!"

Arancia Meccanica (1971)














Cammino lentamente, facendo abituare i miei occhi al buio messo più in evidenza per via della scarsa illuminazione. Lascio che mi avvolga dolcemente, facendo calare le sue ombre sopra la pelle scoperta, sopra i vestiti non troppo pesanti che indosso, sopra i ciuffi dei capelli.

Cammino imitando i passi di danza classica ai quali, un'eternità fa, ero dannatamente devota, flettendo con maestria i muscoli dei polpacci, piegando con grazia le caviglie e aiutandomi con il movimento delle braccia.

Ovviamente presto attenzione alle varie buche presenti sul terreno e alle numerose bottiglie di vetro vuote – alcune persino rotte, di conseguenza pericolose per chi vi si avventura qua dentro – che qualche pezzente maleducato ha osato gettare con la più totale noncuranza e non rispetto per l'ambiente.

Sto attenta a non inciampare; dopo tutto questo casino incommensurabile l'unica cosa che voglio con tutta me stessa è quella di rimanere in equilibrio.

"Io non sono fatta per restare in equilibrio", mi viene però in automatico da pensare, con un sorrisetto beffardo che sfugge alle mie labbra, "io sono incline alle rovinose cadute e ai solenni rialzarsi in piedi, mai all'armonia, alla staticità".

Fa piuttosto freddo e me ne accorgo solo ora che sto smaltendo i rimasugli del sudore dettato sia dal calore dentro il locale cui eravamo confinati fino a poco fa, sia dalla corsa improvvisata. Tuttavia lotto contro la pelle d'oca che affiora in superficie.

Oltre il suono dei miei passi, ciononostante, avverto anche il suono del calpestio delle scarpe di Leonardo. A dispetto dell'udito un po' abbassato per colpa della musica assordante del Circolo degli Illuminati, riesco a sentire una vibrazione così lieve. Confortante e al tempo stesso seducente, che ispira frenesia.

La presenza di Leonardo è in grado di procurarmi questa singolare sensazione emotiva: un aggroviglio eccelso di serotonina e cellule sinaptiche, un intreccio indefinito di ali di farfalle all'interno dello stomaco, quasi che se dovessi chiudere gli occhi, concentrandomi, sarei stata in grado di catalogarne le tonalità e le forme. Un invito a nozze per un collezionatore di quell'insetto così delicato e fulgido.

La mia testa, nonostante l'opprimente odore di fumo della discoteca e di quella percezione che è appena accaduto il finimondo e ancora devo realizzare alla perfezione, e nonostante il pensiero rivolto a Marta tra le grinfie di Alberto – o, molto probabilmente, viceversa –, è incredibilmente vacua.

Magari per via del buio, magari per via del sapere me e Leonardo soli senza qualcuno pronto a interromperci volutamente o magari per via, semplicemente, dell'adrenalina. Non mi sento in equilibrio, bensì mi sento leggera e libera, assolta da ogni tipo di responsabilità, almeno per questa sera. Nemmeno riesco a prendere con serietà i ricevimenti pomeridiani con i genitori che avverranno all'inizio della settimana; l'indomani, considerando che abbiamo già superato la soglia del sabato, entrando in quella della domenica.

Ed è un bene, perché quando sono insieme a lui voglio sentirmi esentata da qualsiasi obbligo etico. Non voglio provare il minimo senso di colpa verso nessuno, non voglio sentirmi dire che sono un'irresponsabile a comportarmi così. Voglio goderne secondo per secondo, minuto per minuto, ora per ora della sua compagnia. Già ho evitato Leonardo fin troppo per i miei gusti questa settimana.

Adesso so di essere in trappola – per così dire – e di dovergli una più che giusta e dettagliata spiegazione; dopo quella buffonata dei messaggi sono proprio in dovere!

Cammino ancora per qualche metro, forse, e mi fermo dinanzi a una panchina non troppo malridotta ma neanche troppo dall'aspetto decente.

La luce fioca dell'unico lampione presente illumina metà di quest'ultima e metà dell'area verde, col suo bagliore accarezza flebilmente anche il mio viso scoperto dai capelli, tirati dietro le orecchie. Appena arresto il movimento delle gambe smetto di sentire anche il rumore dei passi di Leonardo, qualche centimetro dietro di me.

Pochi sono gli istanti che passano, uno schiocco di dita, e comincio a percepire il suo respiro contro la mia nuca. Caldo e dal ritmo impaziente.

Con la punta delle dita prende a carezzarmi con morbidezza la linea della mia mano, seguendo un determinato ordine: prima il palmo, poi l'attaccatura dell'indice e del medio, successivamente ancora i polpastrelli e infine la parte superiore, come a volermela stringere.

«Hai paura del buio?» gli domando a bassa voce prendendolo in giro con evidenza, abbassando il capo e abbozzando un sorriso proprio come farebbe una bambina. Alludendo palesemente al suo afferrare la mia mano.

«Fossi in te non mi azzarderei a fare del sarcasmo gratuito, ti ricordo che ancora sarei offeso. Il tuo comportamento è stato oltremodo imperdonabile» asserisce Leonardo con enfasi, spostandosi con lentezza oltre il mio fianco, abbandonando il tocco.

«O mio dio, ma che linguaggio aulico... devo averla fatta proprio grossa» insisto col mio tono sarcastico, fingendomi impaurita dalle sue parole.

«Acuta osservazione, l'hai fatta proprio grossa, esattamente. E, per tua informazione, preferisco utilizzare una parlata colta anziché cafona e priva di signorilità» sottolinea Leonardo finalmente mettendosi davanti a me, torreggiandomi sfrontatamente con la sua altezza.

«Sei uno con la coda di paglia, tu eh?» incrocio le braccia al petto e inarco il sopracciglio, squadrandolo da capo a piedi. Anche se "squadrare" è alquanto un eufemismo, semmai lo sto ammirando, poiché tutto di Leonardo è modellato per essere ammirato.

Inizio a giustificare quelle ragazzine che lo osservano di nascosto, alcune con più sfacciataggine di altre, con adorazione, come se fosse veramente una divinità dell'Olimpo da venerare. Unica cosa che ho a mio favore, volendo essere positivi e volendoci sperare, è uno straccio di autocontrollo. Un brandello, niente di più. Anche DarthMart diceva di avere l'autocontrollo perfetto per non cadere preda delle spire di Emilio, e infatti si è proprio visto... ha resistito davvero parecchio con il suo ferreo dominio di sé.

«Sono uno che non è abituato a essere ignorato, te l'ho già detto» mi ricorda Leonardo beffardo, stavolta il sentore di un piccolo sorriso compare anche sulle sue di labbra. Assottiglia persino le palpebre, così facendo le iridi limpide luccicano con aria quasi sinistra.

«Allora ti consiglio di leggere Uno, nessuno e centomila. Il punto di vista di Vitangelo Moscarda potrebbe esserti molto utile in questo caso» dico ostentando nonchalance, iniziando a girargli intorno come una falena farebbe con una lanterna accesa. L'unica differenza è che i miei movimenti sono ben studiati e graduali, non ho alcuna fretta.

A Leonardo sfugge una risatina del tutto divertita appena mi sente dire tale ovvietà. «Cioè, fammi capire bene, tu mi stai forse accusando di non aver letto Uno, nessuno e centomila? Una delle opere più famose di Pirandello? E per la cronaca, io venero Pirandello» dichiara rispondendo per le rime al mio giochetto ironico.

Con una elegante piroetta ritorno immobile davanti a lui, inchiodando i miei occhi ai suoi, il sopracciglio sempre in bella vista; non sia mai!

«Il mio era solo un suggerimento» gli faccio presente facendo spallucce.

Mi pento troppo tardi per l'avergli detto una cosa così ovvia, è scontato che uno come lui, dedito alla lettura e al sapere, abbia di certo divorato un libro come quello di Uno, nessuno e centomila. Una mossa non troppo intelligente da parte mia.

«Il succo rimane sempre quello, comunque. Prendi un attimo il punto di vista di Vitangelo e facci sopra un esame di coscienza» continuo senza mollare la presa.

«Stai alludendo che il mio naso è leggermente storto? Vuoi che abbia una crisi d'identità?» mi punzecchia lui mentre inizia a toccarsi la punta del naso, esibendo un'espressione pateticamente spaventata.

«No, bamboccio, voglio che abbracci la consapevolezza che l'uomo non è Uno. In parole povere, devi smetterla di considerarti unico per tutti e di concepire che esistono anche gli altri centomila. Non tutti gli esseri respiranti possono darti la considerazione che tu cerchi, dovrai farci l'abitudine a essere ignorato, prima o poi» replico con una certa aria da sotuttoio.

Mi appaga da morire provocare Leonardo, intanto potrei iniziare io a farci l'abitudine su questo.

«Wow, che incommensurabile lezione di vita... dov'è che devo lasciarti la mancia? Spero tu accetti le offerte libere» ribatte l'altro sorpreso, ma poi immediatamente abbandona quell'espressione spensierata, ritornando di colpo serio e contenuto, «a me non importa se gli altri mi ignorano, problemi loro. Non so quale idea tu ti sia fatta di me durante questi anni, ma non me ne sono mai interessato dei pensieri di coloro che niente rappresentano per il sottoscritto. Non cerco la considerazione, mi ha solo irritato da morire il fatto che tu abbia deciso intenzionalmente di evitarmi».

«Scusami, non è che volessi evitarti» dico sospirando e abbassando il capo, effettivamente mi sento un tantino in colpa, «era per via di quella faccenda di Claudio. Io e Costanza non volevamo destare alcun sospetto a scuola. Sai com'è... abbiamo appurato che anche gli studenti meno accusabili possono rivelarsi dei potenziali Giuda».

Premo con forza la punta della scarpa contro l'erba, muovendola avanti e indietro, il gesto inconfutabile di chi è stato appena colto con le mani nel sacco.

«Cioè, mi hai mandato dei messaggi che avevano dell'incredibile, Matilde. Mi hai scritto che dovevi partire per un'avventura con Bilbo Baggins e che dovevi fare una seduta spiritica per incontrare Sir Arthur Conan Doyle, andiamo! Seriamente?» esclama Leonardo alzando gli occhi al cielo.

«Ho scritto le prime cose che mi sono venute in mente!» tento di giustificarmi aiutandomi con uno sbuffo sonoro, «E poi ti ho già chiesto scusa, di mettermi a supplicare non se ne parla, fuori discussione».

«Non ti chiederei mai di supplicarmi, nemmeno di metterti in ginocchio... be', se tu volessi metterti in ginocchio per altre questioni non avrei da obiettare» dice Leonardo scagliandomi addosso un'occhiata dannatamente impudica.

«Che razza di pervertito! Scemo, sei proprio uno scemo!» mi metto a urlare come un'aquila e senza mancare di dargli uno spintone come si deve. «I doppi sensi del tuo amichetto Alberto devono averti dato alla capoccia. Ma, come avrai visto, si è beccato un ceffone degno di chiamarlo come si deve!» sentenzio acida.

«Qua a essere pervertiti siamo in due, signorina. Non era la Matilde me medesima la persona più cattiva che esistesse? Non era la Matilde me medesima ad avermi afferrato per il colletto con l'intenzione di portarmi nella sua camera da letto? Milady, come siete diventata virtuosa tutto a un tratto...» mi rinfresca la memoria Leonardo, nel contempo con le dita va ad arricciare una ciocca dei miei capelli. Un pretesto per rincarare la presa in giro!

«Vaffanculo, se mi hai scambiata per l'acqua santa ti sbagli di grosso! Matilde Castellani è tutto meno che virtuosa. Sta di fatto che il tuo doppio senso è orribilmente fuori luogo, doppio scemo» sibilo marcando con chiarezza il succo della mia frase.

«Meno male» enuncia lui, portandosi la mano alla propria fronte in un gesto teatrale, «per un attimo ho avuto il timore tu volessi arrivare vergine fino al matrimonio».

L'ho già detto che è uno scemo?

«Santo cielo, quanto ti sei rincoglionito» sbuffo spazientita, scuotendo il capo esasperata. Perfino i ragni che popolano gli angoli del soffitto del Caravaggio sanno quanto ci davamo da fare a letto io e Gabriele.

«Ti sto dando fastidio?» è la sua domanda per me.

«Tantissimo» rispondo come una saetta, fulminandolo con lo sguardo.

«Ho un dejà vu» continua egli.

«Buon per te», mostro indifferenza.

«Intendi darci un taglio oppure continuiamo per tutta la notte?» mi fa mentre mi guarda di sottecchi, cercando in tutti i modi un appiglio visivo.

«Sì, vada per il taglio... alla tua linguaccia!» acconsento con un ghigno stampato in volto, accogliendo di nuovo le sue iridi se non altro.

«Puoi sempre morderla, se vuoi» propone con della perfetta nonchalance, ficcandosi le mani dentro le tasche dei pantaloni. Il mento alzato e in bella vista.

«La faccio staccare da Ludovico, preferisci?» provo a contrattare con un sorriso angelico. Ed è allora che scelgo di giocarmi la carta vincente, quella più bastarda di tutto il mazzo, quella che so mi frutterà sicuro l'ultima parola.

Come ho ben presupposto, il viso di Leonardo si rabbuia appena mi sente pronunciare il nome di Ludovico. Una scia di scoraggiamento solca quegli occhi così azzurri, maggiormente quello con l'eterocromia.

«Gli faresti un gran favore, probabilmente. Ottima scelta» ammette pacato, senza esternare emozioni più del dovuto.

Leonardo Aspromonte è costantemente attento a ogni sua minima mossa, attento a non sforare mai con la sua emotività.

«Era l'unico modo per farti abbassare la cresta» spiego avanzando di un passo verso di lui, avvicinandomi alla sua figura, «effetto immediato, a quanto vedo».

Senza chiedere il permesso, vado a poggiare con delicatezza la mia testa contro il suo petto, che scopro essere preda di un respiro decisamente veloce. Devo averlo mandato in agitazione.

«Dovresti smetterla di tirare fuori il nome del tuo caro amico ogni volta che si crea l'occasione» proferisce con voce bassa, stavolta non c'è nulla di divertito nel suo tono, anzi, c'è del serio ammonimento. Caspita, devo aver proprio colpito nel segno.

«Lo stesso vale per te con tutte quelle "donzelle" che ti girano intorno. Che sia Olivia, che sia Ariadne Ardinghelli o che sia una qualsiasi altra sconosciuta. E comunque hai detto bene, è un caro amico, Ludovico è mio amico, la cosa è diversa» gli faccio presente premendo le labbra contro la sua camicia e, molto probabilmente, gliela sto sporcando a dovere con il rossetto.

All'improvviso sento il petto di Leonardo tremare, sta sogghignando di gusto. «Quel Golia ha ben più dell'amicizia in mente, dài retta a un coglione. Un maschio sa riconoscere l'intento di un suo... simile».

«La sua non è altro che una cotta passeggera, ci potrei scommettere. Per questo motivo io dovrò parlarci a quattrocchi, per amore o per forza. Io devo farglielo capire a Ludovico» mormoro con sincerità, anche stupita del fatto che Leonardo non abbia sfilato le proprie mani dalle tasche per poi posarle su di me.

Sta forse aspettando un invito consegnato a casa dal postino?

«Non devi essere geloso» dico di punto in bianco, allontanando la faccia dalla stoffa, «adesso sono qua. Messaggi idioti o non messaggi idioti. Evitandoci o non evitandoci. Scuse o non scuse. Sono qua, con te, e stavolta sono io a chiederti di non ignorarmi».

«La mia non è gelosia» borbotta Leonardo guardando dinanzi a sé, tutto tranne che i miei occhi.

Come sempre niente trapela dal suo sguardo, niente che viene filtrato anche per minimo errore dalle sue parole. Lui calibra qualsiasi cosa, guai a lasciarsi andare!

Comincio a sospettare che sua madre, Lucrezia, abbia quasi creato un mostro alla costante ricerca della perfezione e regolarmente propenso all'algidità. Eppure, in quegli attimi spesi insieme a me, sono riuscita a tirare fuori una parte del tutto nuova e sconosciuta di Leonardo.

Dubito che qualcun'altro abbia avuto la fortuna di ammirare quel suo lato così magistralmente nascosto, so di avere avuto un'immensa esclusiva nei suoi confronti. Non Olivia, non una qualsiasi altra ragazza che sia passata fra le sue lenzuola, ma io, nessuno di più.

Sicché, sorridendo senza poterne fare a meno, allungo la mia mano verso il mento di Leonardo, afferrandolo con una dolcezza degna di una bambina, scostando il suo raggio visivo fino a raggiungere il mio. Ardente, vivo, carico di brama.
Si lascia manovrare dal mio tocco, non oppone resistenza, a quanto pare non gli dispiace.

«Dovremmo prendere esempio da Catullo. Il poeta aveva ben compreso che era meglio concentrarsi su episodi semplici e di tutti i dì, anziché farlo sulle gesta di eroi e Dèi. Smettiamola di cercare la perfezione dovunque, l'ideale. Guardiamoci intorno e impariamo ad accettare e apprezzare alla stessa egual misura. Le imperfezioni sono il segno distintivo che rendono unici e speciali ognuno di noi» sussurro con tono amorevole e candido, l'esatta sensazione di una piuma che accarezza le corde dell'animo.

Lentamente muovo i polpastrelli sopra la pelle del suo mento, seguendo la linea della mascella, ben definita e dritta. La carnagione è piacevolmente pallida sotto il tenue raggio del lampione, tuttavia non priva d'imperfezioni, tutti ne abbiamo. È la normalità umana.

«Stai cercando di incantarmi?» mi domanda socchiudendo le palpebre, per poi aggiustarsi meglio la montatura degli occhiali sopra il naso.

«No, sto cercando di darti un consiglio» replico andandogli a sfilare per mero dispetto i suoi occhiali. Me li infilo con attenzione oltre le orecchie, incollandoli agli occhi. Il pizzicore, il fastidio, è immediato.

«Avanti, fai quella battuta che fanno tutti. "Oh cavolo, Leonardo, quanto sei cieco!"» borbotta Leonardo senza poter fare a meno di ridacchiare, «Sono astigmatico e ipermetrope, cazzo. Non li tengo per bellezza quei dannati occhiali».

«Non ti avrei mai detto una cosa del genere. Piuttosto ti avrei detto che questi occhiali ti rendono magnificamente irresistibile» mi fingo piccata dalla sua affermazione, afferrando l'asticella di sinistra con le dita.

«Effettivamente donano anche a te. A quanto pare rendono irresistibile chiunque...» mi scimmiotta Leonardo e finalmente allunga le sue mani verso di me, cingendomi i fianchi e attirandomi dove ero incollata fino a poco fa.

Senza chiedere il permesso – e meno male! – va a mordicchiare la mia guancia; nel frattempo mi lascio inebriare dal suo profumo, che immediatamente mi fa ponderare pensieri assai indecenti. L'ho detto che io sono la persona meno paragonabile all'acqua santa.

«Abbiamo per caso fatto pace?» mormoro mentre gli cingo il collo con le braccia, alzandomi in punta di piedi, aggrappandomi letteralmente a lui.

«Be', hai mai visto due persone che si odiano scambiarsi certe smancerie?» risponde alla mia domanda con un'altra domanda, stavolta lasciandomi piccoli bacetti sulla punta del naso.

«In realtà sì» dichiaro facendo palesemente allusione alla nostra situazione fuori dalle righe.

«Nah, tu non mi odi» enuncia lui sicuro di sé, «non più». E adesso ha spostato le sue labbra a pochi centimetri dalle mie, come se volesse farmi tormentare ancora un po'.

"Fanculo, se non lo fai tu allora lo farò io!", esclamo mentalmente prima di stringergli con poca cortesia i ciuffi biondi, di modo da far scontrare le nostre bocche.

Vado subito al sodo, spazientita da questa sua lenta e intenzionale tortura, dischiudo le mie labbra lasciandovi passare attraverso la lingua, sperando che venga accolta come si deve.

«Se continui così, Matilde, poi non rispondo delle mie azioni. Ti avviso» mi ragguaglia Leonardo con voce roca, lisciando l'incavo della mia schiena con l'indice.

«Siamo in un luogo pubblico» gli ricordo mentre – come direbbe mia madre – gli mangiucchio la gola, esattamente dove ho lasciato un succhiotto in piena regola.

«Appunto. Per il futuro ci potremmo impegnare così nella mia camera, oppure nella tua, mi è indifferente. Magari quando la tua simpatica madre non è nei paraggi» tossicchia, cercando di trattenersi davvero.

«Ops» scoppio a ridere come una cretina, spostando verso il basso lo sguardo con fare sconveniente, «forse è meglio fare una piccola pausa».

«Tu dici, eh?» mugugna Leonardo roteando le iridi, sapendo bene a quale intoppo mi sto riferendo, «Adesso ti allontani, cortesemente» e mi spinge con gentilezza via da lui, di modo che... si possa riprendere.

«Ebbene, te lo ripeto, abbiamo fatto pace?» cinguetto inclinando il capo al solo fine di risultare irritante e provocatoria, nascondendo le braccia dietro la schiena. Anche se la pietra l'avrei già scagliata...

«Sì, direi di sì!» esclama Leonardo esasperato, «Sei contenta adesso? Mi hai appena reso come un adolescente alle prime armi, per di più non vedente. Complimenti, Matilde Castellani».

«Dì un'altra volta di quanto ti sembri virtuosa» sghignazzo compiaciuta.

«Ridi pure, poi vedremo chi riderà per ultimo» mi "minaccia" con un palese doppio senso dietro, «ridi ora, finché puoi, Atena».

«E poi quella melodrammatica sarei io...» gli faccio con un sopracciglio inarcato, ma dubito che lui riesca a vederlo.

«Te lo farò cantare il melodramma, stai pur certa» giura Leonardo camminando in cerchio, provando a farsela passare.

«Non vedo l'ora» replico leccandomi avidamente il labbro inferiore, mordendolo alla fine.





















L'invitante odore di zucchine ripiene che stanno cuocendo nel forno a cottura lenta e quello delle penne al baffo sprigionato dalla padella sopra una fiamma bassa, misto all'incantevole melodia di "Rimmel" suonata dall'impareggiabile Francesco De Gregori, rappresenta per me il magistrale sinonimo di "domenica".

Papà ha finalmente organizzato quel famoso pranzo a casa sua con me e zia Angelica, ed entrambe siamo stravaccate sul piccolo divano in vimini a due cuscini a pochi metri dalla finestra.

In estate, quel divano è uno dei posti migliori del mondo per passarci comodamente qualche ora. Durante quei tre mesi caldi e afosi, spesso mi ci stendo con le gambe nude e incrociate, poggiandole sulla linea dello schienale.

Appunto, infilo un vinile sul giradischi di papà – come ha fatto esattamente anche adesso –, mi riempio un bicchiere con del succo di frutta o, nei rari casi, con del vino rosso e mi distendo con una sigaretta accesa fra le labbra. Mi beo di quel panorama che offre la finestra della cucina di Fabrizio Castellani: lo scorcio dei tetti fiorentini con tanto di Cupola del Brunelleschi a vista.

Lascio che il raggio caldo del sole di luglio mi carezzi le palpebre socchiuse, le labbra piene, non più screpolate dal freddo invernale, lascio che mi baci le spalle coperte da striminzite spalline di canottiera, lascio che il tramonto di mi dia il suo addio in tutta la sua tranquillità e in tutta la sua bellezza.

A volte, mi ci perdo in pensieri infiniti sopra quel divano. Riesce a spedirmi in un'altra dimensione con una semplicità inaudita.

Durante l'inverno la sua magia si sente di meno, ciononostante non riesco a disdegnarlo nemmeno durante questo periodo. La mia fedeltà verso di lui è troppo grande.

«Titòu ritornerà ad Arles dopo Natale» proferisce zia Angelica dopo un lasso di tempo che si potrebbe definire come "voto di silenzio". Lo dice con un tono di voce strano, con un tono che mai le ho sentito usare.

Di solito lei ha sempre quel suono sagace, sarcastico e leggero a intridere le sue frasi. Sposto i miei occhi sulla sua figura supina, raccolta in una posizione non troppo composta; la scopro con le mani intrecciate sopra lo stomaco, con i capelli rossissimi e riccissimi in ogni dove, persino addosso a me, ma soprattutto la scopro con le sopracciglia arcuate verso l'interno. Il dipinto di un'espressione rattristita.

Qui il sospetto da parte mia s'infittisce.

«Fantastico, hai un pretesto per andarlo a trovare. Magari ti fa visitare la Provenza in lungo e in largo» le faccio notare mentre giocherello con il cellulare, in attesa di un messaggio da parte di Leonardo.

«Io non lo andrò a trovare» ribatte lei acidamente con un gesto di stizza, «se se ne vuole ritornare nella sua tanto adorata Francia che faccia pure. Non gli correrò di certo dietro».

«Nessuno ha detto che devi corrergli dietro» sentenzio sempre più insospettita dal suo discorso.

«Esattamente, perché non lo farò» mi dà ragione Angelica sbuffando e guardando dall'altra parte della stanza; una bambina cui sono stati vietati i dolci per punizione farebbe meno scenate.

«Come mai ha deciso di ritornare? Credevo che fosse stabile qui a Firenze» le domando ignorando il suo tentativo di evitare l'argomento.

«È venuto in Italia a gennaio con il pretesto di trovarsi un lavoro e una casa dove abitare. Avrebbe fatto un anno di prova, per vedere come sarebbe andata. E infatti sembrava che la Toscana fosse stata in grado di rubargli il cuore, poi l'altro ieri se ne esce che qui si sente solo, troppo lontano dalla sua famiglia, troppo lontano dalla sua lavanda del cazzo» racconta asprigna, addirittura imitando il timbro francese di Titòu con tanto di labbra arricciate, «io gli ho detto che una città come Firenze ancora devono costruirla, che si perde un'opportunità senza precedenti se decide di andarsene. E sai lui cosa mi ha detto? Tsk, ha detto "Angelique, ma chère, ho quasi trent'anni. Io speravo di trovare l'amore qui in Italia come in quei vecchi film romantici, ma se non ci sono riuscito in un anno che senso ha aspettare?"».

«Non è che quel bel francesino ha fatto breccia nel tuo cuore di pietra?» s'intromette mio padre con la sua solita delicatezza, maneggiando e amalgamando per bene pasta e sugo. Segno inconfutabile che è pronta per essere messa in tavola e mangiata.

«Cazzone d'un fratello maggiore, ma ti senti quando parli? Perché non ti limiti a fare quello che ti riesce meglio, ossia cucinare?» lo fulmina Angelica adirata, scattando la testa nella direzione opposta, facendo finire i suoi infiniti capelli contro il mio viso. Pieno centro.

«Abbassa il tono, Angi. Ti ricordo che come ti ho invitato posso anche buttarti fuori a calci» asserisce papà con un sopracciglio inarcato, «ve le siete lavate le mani?».

«Io sì» arriva pronta la mia risposta.

«Ma ci hai scambiate per due bambine?» bofonchia la sorella, per contro. Mio padre si becca una sinistra occhiataccia da parte sua.

«No, ho solamente visto che ti sei fumata più di sei sigarette e, se permetti, la cosa non è igienica per niente» insiste Fabrizio con il tono di chi non ammette repliche. Lo stesso con cui mi ha cresciuta, severo e inflessibile, seppur appropriato. Questo va detto. «Alla mia tavola, con quelle mani, non ti ci siedi! E ora vattele a lavare, Angelica».

«Che due palle che sei, anche da vecchio!» esclama la zia roteando gli occhi e balzando in piedi, per poi dirigersi alla volta del bagno.

E in quel momento mi arriva un messaggio, il suono di una campanellina si fa sentire chiaro e tondo.



Faccia da cazzo, 12:47

- Tra poco mi metto a tavola anche io. Comunque, non sono riuscito ancora a sentire Albi... tu hai avuto notizie di Marta?



Ecco perché stavo aspettando con impazienza il suo messaggio. Perché nessuno dei due è stato in grado di mettersi in contatto con i superstiti della serata precedente.

Niente, neanche il minimo messaggio o uno straccio di chiamata.

In compenso ho parlato con Diego mezz'ora fa, si era appena svegliato. Ha detto di aver passato una nottata veramente coi fiocchi e che intorno alle quattro non ha saputo dire di no ai molteplici inviti di bevute da parte degli altri ragazzi; in sostanza, ha caricato una bella miccia ed è stato riaccompagnato a casa da Marco, lasciando la sua moto nel parcheggio del Circolo degli Illuminati in attesa di essere andata a recuperare.

"Ma dove cazzo se l'è infilato quel dannato cellulare? Mi auguro che quell'idiota di Alberto gliel'abbia restituito alla fine dei giochi...", rifletto fra me e me, mordendomi il labbro dall'ansia, "mi auguro veramente per lui che non le abbia fatto qualche folle richiesta, che non le abbia proposto un indegno ricatto!".

«Mati, pulcetta adorata, adesso metti via quell'aggeggio infernale e vieni a sedere a tavola prima che io te lo faccia volare sopra Palazzo Vecchio» mi arriva l'elegante invito di papà a pranzare, ovviamente inteso come palese presa in giro.

«Dammi solo cinque secondi per scrivere un messaggio e arrivo» replico esasperata incrociando gli occhi di proposito.

«Uno, due, tre, quattro, cinque... molto bene, buon pranzo!» non demorde con facilità.

«Bello mio, ora sei un uomo single fatto e finito. Sai com'è, per questa tua nevrosi ti consiglio di scopare di più» lo distrae per fortuna la voce di zia Angelica, di ritorno dal lavaggio extra delle mani, «potresti iscriverti su Tinder, adesso va di moda. Senza offesa per Adele, nipotastra» e infine si rivolge a me.

«Matilde, ricordami perché non invito spesso tua zia qui a casa» borbotta Fabrizio con la pazienza giunta al limite, il mestolo di legno ben stretto in un pugno non troppo simpatico.

«Perché la definisci troppo irriverente, sorprendentemente pungente e ai limiti della tracotanza. Sì, credo che i termini da te usati siano proprio questi. Un po' simile al tuo modo di essere, in effetti...» replico facendo spallucce e al tempo stesso approfittandone per rispondere a Leonardo.

Ogni minuto in casa Castellani è prezioso!


Io, 12:59

- Marta è morta esattamente come Alberto! Sparita, volatilizzata. È il caso di preoccuparsi?



Invio il messaggio di WhatsApp con un velo d'ansia a coprirmi interamente; infatti, avverto l'impulso irresistibile di mordicchiarmi le unghie se solo non fossero tinte di smalto blu scuro.

Riprovo a chiamarla, ritento quella variabile decisamente di merda anche conosciuta come "fortuna". Anche se la vedo dura che risponda alla mia chiamata... le ho fuso il telefono da quando ho aperto gli occhi stamattina.

Inoltre, in caso lo avesse riacceso mi avrebbe sicuramente ricercata. Almeno spero. Perché naturalmente Alberto le ha restituito il maltolto, per galanteria – chiamiamola così – ha preferito darci un taglio a quello scherzetto da prima elementare.

Ora come ora non ho niente di personale contro Alberto Del Bianco, però, andiamo... fregare il telefono dicendo successivamente "Su, avanti, ti sfido a riprenderlo, gne gne gne, gni gni gni", fa parecchio bimbetto infantile. Peggio di Leonardo quando mi ha minacciata di andare a casa di mia madre quando io non ero presente! E non mi farei idee sbagliate su quel ragazzo se solo Marta si rendesse reperibile una volta per tutte!

Dovrò farle un discorsetto in stile "signorina Rottenmeier" a proposito di questo argomento, non è la prima volta che scompare nel nulla senza uno straccio di spiegazione. Come quando era con Emilio, ad esempio!

«Matilde, degnati di venire a pranzo, per piacere! Con chiunque tu stia parlando, digli cortesemente che a quest'ora, normalmente, si mangia! E se questo chiunque vuole fare la dieta, bene, digli che ci ribecchiamo a giugno» esclama papà battendo il mestolo sul tavolo, ripetutamente, addirittura gli balla un occhio. Adesso sì che devo muovere il culo.

"È di Leonardo Aspromonte che stai parlando, pà, figurati se è uno che vuole fare la dieta", vorrei tanto, ma tanto, ribattere così... poi ricordo che ancora Fabrizio Castellani è all'oscuro di Leonardo e di tutto ciò che gira intorno a lui, per cui scelgo di tenere la bocca sigillata e di sorridergli come una cretina. In fin dei conti un leggero appetito comincio a sentirlo, non ha senso aspettare oltre.

«Com'è che era finita quella famosa volta? Uno l'hai fatto trasferire in Danimarca e l'altro si è ammazzato dal dolore? Con te non ci si capisce più niente...» sento mio padre rivolgersi a zia Angelica, il tono decisamente ironico.

«Uno si è trasferito a Londra e l'altro è diventato gay, Fabrizio, nessuno si è ammazzato per amore!» ringhia per tutta risposta l'altra, gettandosi di peso sopra il cuscino della sedia con tanto di braccia incrociate.

«Questo Tito lo farai diventare prete missionario, dammi retta, partirà per il Congo dalla disperazione di averti conosciuta» asserisce lui servendole una porzione di pasta.

«Si chiama Titòu, è francese, cazzo! Smetti di ascoltare il "Testamento di Tito", confondi troppo le canzoni con la realtà» sbuffa Angelica roteando le iridi senza dar loro pace, «e dammene di più, è domenica. Vuoi farmi morire di fame?» obietta lanciando un'occhiataccia sbigottita verso il piatto.

«Dammi il numero di questo Titòu, gli dico che glielo compro io il biglietto per ritornare in Francia!».

Siccome i due allegri fratelli Castellani sono più che impegnati nel loro battibecco amorevole e fraterno, decido di fare un ultimo tentativo. Provo a chiamare Marta ancora una volta. La prova del nove.

Premo il cellulare contro l'orecchio lanciando sbirciate fugaci verso i litiganti, alzandomi in piedi intanto, una bella sgranchita di schiena non me la toglie nessuno. Mi metto in attesa dei tanto agognati squilli che sicuramente non arriveranno neanche a pagarli oro...

«Tanto ci ritorna da solo in Francia, non occorre che lo istighi tu, maremma maiala! Ma te c'hai i pioppini ner capo per davvero» sbotta Angelica prendendo a menare insulti alla toscana.

Perfetto, adesso sì che le danze sono iniziate per bene.

Picchietto la suola della scarpa contro il pavimento dall'ansia, sia per le loro vocine insopportabili sia per questa lunga agonia dettata dalla mia migliore amica. Mai un attimo di pace, mai! O vuoi che sia Leonardo, o vuoi che sia Ludovico, Diego, Laira, quel becero di Claudio oppure Costanza. O vuoi che sia il Caravaggio, o vuoi che sia Marta che va a casa del prof., o vuoi che sia mia madre con una delle sue idee geniali, o meglio ancora quella piattola/cozza/spugna di mademoiselle Rossini!

È impossibile, la vita di Matilde Castellani deve essere costantemente come le vicende di Renzo e Lucia: assurda, scombussolata e mai con un attimo di pace.

Impreco mentalmente contro Pablo Picasso – il pittore che detesto di più – quando entra per la millesima volta la segreteria della Tim. Ufficiale, Marta Brunori l'abbiamo persa. E forse abbiamo perso pure Alberto Del Bianco. Magari se ne sono andati al diavolo insieme, chi lo sa.

«Papà, versami un bicchiere di vino, se non ti dispiace» mi rivolgo a egli, finalmente avvicinandomi alla tavola. Ieri sera mi sono imposta di non ingerire alcol, dunque adesso sono più che giustificata a volerne un po'. Perlomeno per distendere i nervi siccome sono alquanto tesi, corde di violino.

«Anche a me. La pozione magica che ti rende simpatico ai miei occhi» si mette di mezzo la zia allungando il calice e l'espressione facciale alquanto spiritata.

C'è dell'incredibile che la sorella dell'ex marito vada più d'amore e d'accordo con la ex moglie... una vera e propria eccezione. Stramba, certo, ma d'altro canto la mia è una famiglia stramba.

«Sai che ti dico? Bevo anche io, carichiamo su tutti e tre una bella ciucca e poi a letto, la domenica perfetta. Meno male che l'impegno dei colloqui di domani se lo sia preso Adele, altrimenti erano veramente 'azzi amari» sproloquia Fabrizio assecondando la mia richiesta, riempiendo sia il mio bicchiere, sia quello di Angelica, sia il proprio di un liquido rosso scuro, profumato e invitante. «Alla salute di Titòu!» conclude poi alzando la coppa di vetro.

«Alla salute di quel francesino testa bacata! A lui e alla sua Francia del cazzo!» gli va dietro Angelica, e in quel veloce istante cui pronuncia la frase scorgo del risentimento misto a demoralizzazione. Soprattutto dovuto al suo sorriso dall'aspetto malinconico, un po' come quello di un componente della famiglia Addams.

«Che diventi gay anche lui» continua Fabrizio dopo aver preso un generoso sorso.

«Sì, che vada a tutti i gay pride del mondo» replica l'altra dopo aver scolato del tutto la bevanda, a differenza del fratello!

«Che si trasferisca a Londra insieme ad Armando», un altro goccio da parte di papà.

«È Arnaldo» lo corregge prontamente Angelica, «che si trasferisca al Polo Nord, ovunque voglia, basta che stia lontano da me. Così non saprà mai dell'interesse che ho per lui, fanculo!».

Perfetto, io non ho più parole.
















Il lunedì che segue faccio il mio ingresso al Caravaggio con una consapevolezza diversa dal solito, ben maggiore; prendo atto dell'insania e della sregolatezza – stavolta in maniera assai più accentuata – di Claudio, del malsano doppio gioco di Gioia, della discolpa di Laira, dell'eccessiva fragilità ed emotività di Celeste, e dello spiccato senso vendicativo di Costanza. Più esattamente, riesco ad avere un'intensa percezione della realtà.

La sento, la intendo, la comprendo con sicurezza e piena coscienza. Quasi che riesco a vederne i fili dorati tesi con cura attraverso l'istituto, attraverso le persone che vi albergano all'interno, tramite le molteplici occhiate – schive e altre più esplicite –, tramite gesti sottintesi.

È una ragnatela piuttosto grande, che si dirama a vista d'occhio, seguendo le stesse dinamiche di una macchia di petrolio nell'oceano aperto. E con le stesse proprietà tossiche, nocive.

Ciononostante, a dispetto di questo senso di tormento che provo appena poso il piede sul terreno di sassolini del parcheggio scolastico – senza nemmeno preoccuparmi di chiudere a chiave la macchina –, la prima cosa che percepisco di fare, di risolvere prima dell'inizio delle lezioni, è quella di cercare la mia amica.

Inutile dire che il giorno prima non c'è stata santa ragione di parlare con lei: il telefono è rimasto staccato per tutto il dì e quando mi sono recata a casa sua per provare a parlarle, Regina mi ha informata che era uscita con suo padre a fare una scampagnata fuori città. Il che ha fatto scattare in me un preoccupante senso d'allarme.

Quando Marta sente il bisogno di fuggire, in mezzo al niente, lontano dal caos, possibilmente in un posto verde e rigoglioso, significa che è successo qualcosa che non doveva succedere. E allora lei cade nel panico e opta per la fuga temporanea.

Ora la mia priorità è lei, dunque, tutto il resto può aspettare tranquillamente.

Per cui, senza interrogarmi più del dovuto sulla questione, mi metto letteralmente a correre non dando troppo peso alle occhiate stranite degli studenti che fanno la loro entrata a scuola. La direzione è una sola, sicura e definita: il sotterraneo dove eravamo solite a incontrarci con Laira. Io so che Marta è nascosta lì, ammesso che abbia avuto l'intenzione di venire a lezione quest'oggi.

Oltrepasso il corridoio principale del Caravaggio con la dovuta attenzione, stando attenta a non investire Gandolfo alle prese con l'esaminare le foglie di una pianta con – naturalmente – la sua fedele lente d'ingrandimento, e stando attenta a non sfracellarmi contro la bacheca scolastica.

Lo zaino mi picchia sulle spalle ogni volta che muovo prima una gamba e poi l'altra, il peso dei libri si fa sentire in tutta la sua presenza. Scendo dai gradini verso il piano inferiore e procedo a passo spedito. Supero la porta dell'aula degli incontri segreti e, finalmente, alleluia, la trovo.

Marta è lì, seduta a gambe incrociate sopra uno dei banchi riposti ai lati della stanza, completamente al buio, non si è nemmeno preoccupata di accendere la luce. I capelli argentati che le nascondono il volto e le dita intente a torturarsi le pellicine.

Mi avvicino a lei lentamente e con la dovuta attenzione, considerandola al pari di un animale spaventato e ferito; accendendo la luce, premendo sull'interruttore.

«Marta» la richiamo a bassa voce, anche se, ovviamente, mi ha sentita arrivare. «Marta, va tutto bene?» insisto con cautela. Dio, mi fa un effetto veramente strano... mi sembra quasi che non la veda da un secolo preciso.

Non ottengo alcuna risposta da parte sua, in automatico il cuore – già succube di un battito martellante dovuto alla corsa – prende ad agitarsi ancora di più, come se non bastasse. Mi mordo il labbro inferiore talmente con forza eccessiva, che probabilmente il risultato non sarà altro che l'ennesimo sfregio in quella povera bocca sottomessa al freddo spietato dell'inverno.

«Cristo...» bofonchio prendendo una generosa boccata d'ossigeno.

Cazzo, si vede che non ho fumato la mia tipica sigaretta mattutina, come anche si vede che non ho ascoltato la canzone dei Clash. Il mio rito è andato a farsi fottere.

«Matilde, faccio schifo... sono una persona ripugnante...» Marta si decide a dare fiato alle corde vocali una volta per tutte. Ma tutto quello che esce della sua bocca è un misero e tetro lamento carico di angoscia e tortura interiore. Mi vengono persino i brividi, mi si rizzano i peli delle braccia.

«Che diavolo stai dicendo?» dico confusa, sbattendo ripetutamente le palpebre, andandole talmente vicino che posso percepire il suo respiro accelerato. Le premo due dita sotto il mento e le alzo il volto, voglio guardarla dritta negli occhi. Nei suoi enormi e familiari occhioni verdi.

Appena la sua faccia entra nel mio raggio visivo, a stento riesco a trattenere un sobbalzo dettato della sorpresa. Due pesanti occhiaie le cerchiano il contorno delle cavità orbitali e nessuna traccia del suo proverbiale e colorato make-up è presente sulle palpebre mobili. Nessun rossetto è a tingere di toni accesi le sue labbra morbide.

Pare proprio che stanotte non abbia dormito, pare proprio che Marta abbia subito la trasformazione in vampiro e ancora non abbia bevuto la quantità necessaria di sangue umano al fine di completare la transizione.

La mia amica distende la bocca in un ghigno cupo e arcua le sopracciglia, «Io non me lo merito Emilio, credevo di sì, ma mi sono fottutamente sbagliata» mugugna reprimendo un attacco di ridarella.

«Cosa c'entra Emilio?» le domando corrugando la fronte in un'espressione seria e guardinga.

«C'entra, in tutto questo casino che io stessa ho creato, lui c'entra» continua con quel lamento afflitto, strizzando gli occhi e scuotendo il capo, sfuggendo al mio tocco, «ho voluto io che c'entrasse a tutti i costi».

«Marta, per favore, spiegati... che vuoi dire?» tento di farla parlare, tento di carpirle quel dettaglio in più, quello importante, quello che serve a unire tutti i puntini dello schema.

Mentalmente faccio un paio di conti, optando per varie ipotesi, alcune tesi che, dopodiché, spetterà a lei confermare o meno. Una più incredibile dell'altra. Poi ho l'illuminazione, la lampadina di Archimede, allargo le palpebre quasi a far fuoriuscire le mie iridi castane e scure come il buio. Dischiudo la bocca soffocando un rantolo.

«È successo qualcosa con Alberto?» mi ritrovo a chiederle mentre la afferro per entrambe le guance, premo i palmi delle mani con delicatezza quasi costringendola a guardarmi di nuovo.

Ma è come se avessi già la risposta in tasca.

Telefono spento per tutto il giorno, nessun segno di vita da parte sua, Alberto che ignora Leonardo, sempre Marta che si allontana da Firenze con suo padre e ora la vedo seriamente in crisi, seriamente disperata per Emilio.

«C-ci... io e Alberto... sabato sera, dopo che tu e Aspromonte ve ne siete andati, siamo... ci siamo spostati a casa sua. A-abbiamo parlato, è stato persino piacevole, non è antipatico e spocchioso come credevo. Ha capito che è Emilio quello che mi piace, io non so come ma l'ha capito... poi ha iniziato a dire che era giusto che dovessi avere delle scelte, sapere a cosa avrei rinunciato... c-ci siamo baciati, Matilde» balbetta una frase spaccata in tanti piccole frammenti, quasi trascinandola per inerzia.

Non piange, tuttavia, Marta non versa una lacrima. È solo sconvolta e la capisco con tutta me stessa. In fondo, me lo sentivo, mi aspettavo un qualcosa del genere.

Ella, a differenza di poco fa, non intende abbandonare il mio sguardo, ricambiandolo con il suo, turbato e senza via d'uscita. Cerca l'appiglio innegabile dell'amicizia vincolante, quella indistruttibile, quella imperativa. Mio compito preciso è quello di allungare la mano al fine di stringere la sua, bramosa di supporto morale e fisico.

Perché in questo momento, a essere onesti, non m'importa né di Emilio, né di Alberto, né del fatto che un'altra dell'Artistico sia passata nell'altro lato. M'importa solo dello stato emotivo di Marta, fine.

«Che cosa hai provato?», infatti pronuncio con voce morbida, comprensiva e calma.

Le scosto un ciuffo di capelli argentato dietro l'orecchio, carezzandole la punta dell'orecchio con il pollice. Poiché ha detto "ci siamo baciati" e non "mi ha baciata", significa che un pizzico di qualsivoglia cosa lei lo ha sicuramente percepito.

«Non lo so spiegare... posso solo confermare che, a malincuore, è la stessa cosa che ho sentito quando ho baciato Emilio, cazzo» sospira maledendosi mentalmente, conoscendola, «così non va bene. Ho un qualcosa che mi lega a Emilio, io lo so, e in un lampo l'ho spezzato. Che razza di ignobile che sono!».

«Non hai spezzato niente, Marta. Tu ed Emilio non siete fidanzati, come non lo siete nemmeno tu e Alberto» le ricordo, dicendo unicamente la verità.

«Io sono custode di un qualcosa d'importante della vita di Emilio! Per me significava tantissimo, significava tantissimo per lui! Dovevi vedere che espressione aveva mentre mi raccontava del suo passato, lo dovevi vedere... ho rovinato tutto e fa un male tremendo» alza di un po' la voce, sbottando.

«Ehi, Marta, ascoltami bene. Il dolore serve proprio come serve la felicità. Guarda me e Leonardo, quanto male ci siamo fatto l'un l'altro prima di arrivare a ciò che siamo ora?» le spiego con tutta la enfasi che posseggo, senza abbandonare la presa attorno al suo viso, «Ci siamo distrutti, ci saremmo perfino ammazzati! E, soprattutto, anche io ho avuto bisogno di ulteriori prove per capire... l'incontro con Gabriele è capitato a fagiolo, il bacio che ho dato a Ludovico perfino. Tutto mi è servito per decidere e fare chiarezza nella psiche».

«Ma io so già cosa voglio... credo» mormora lei poco convinta.

«Uhm, perché prima non interpelli le Marta che stanno dentro di te? Ti siedi a tavolino e parli con ognuna di loro, vedrai che alla fine arriverete a una conclusione, la più giusta» le suggerisco appellandomi allo stesso metodo che scelsi di usare io.

In quell'esatto istante, la campanella delle otto e un quarto, quella che sancisce l'inizio di un'altra giornata all'interno del Caravaggio, suona ricordandomi che effettivamente dobbiamo obbedire a un regolamento piuttosto severo. Arrivare in orario alla prima ora è una di quelle regole. Arrivare puntuali per storia dell'arte.

«No!» esclama Marta con il terrore schizzato a mille, guardando oltre la porta della stanza, «Io non posso affrontare la sua lezione, è impossibile! Entro un'ora dopo, mi firmo il permesso da sola».

«Marta, andiamo, non fare così. La stoffa della codarda non ti si addice e poi oggi ci sono i colloqui, dovresti venire e fare bella figura» la contraddico con ferreo rigore, facendo un passo indietro per darle la possibilità di alzarsi e seguirmi fino in quinto D.

«Non riuscirei a guardarlo in faccia, non riuscirei a sopportare di stare sullo stesso posto per un'ora intera» obietta imperterrita.

«Emilio non dirà e farà niente, siete a scuola, non si azzarderebbe mai. Quando sarai pronta gli parlerai tu stessa, okay? Adesso ti stampi un bel sorriso, ti togli dal viso quei capelli e ritorni a essere la DarthMart di sempre. È un lunedì come un altro» le espongo in breve il piano che ho in mente, esortandola a scantonarsi da lì, «da coma». Apro la mano nella sua direzione, in attesa che me l'afferri.

Marta è riluttante – si vede con chiarezza –, tuttavia si aggrappa a me, alla mia offerta d'aiuto. «Verrò, ma non contare che sorrida, non mi viene dal cuore» espone mentre si rizza in piedi, lisciandosi la stoffa dei suoi jeans a vita alta, ben stretti grazie a una cintura.

«No, la roba del sorridere era tanto per dire, lo implicano le convenzioni sociali. Puoi rimanere con quella smorfia anche per tutto il giorno, puoi fare lo sciopero del silenzio se vuoi» ridacchio per smorzare la tensione.

E con la mano della mia migliore amica stretta attorno alla mia, c'incamminiamo alla volta della nostra classe, senza badare troppo alla campanella che è appena suonata. Per una volta non succede niente se arriviamo in ritardo. Per di più dubito fortemente che Emilio Lunanuova si azzardi a mettere un richiamo o a mandare dal preside Marta Brunori.

«Hai usato una frase fatta, di circostanza, con me?» sento Marta che azzarda a ridacchiare, letteralmente un piccolo accenno, però è già un passo avanti.

«Chi è senza peccato, scagli la prima pietra» replico per le rime, utilizzando, appunto, un'altra frase fatta.

«Dio santo, come sei banale» contesta facendo finta di vomitare.

Appena risaliamo la rampa di scale che conducono al piano terra, il piano del Classico, notiamo che ancora gran parte degli studenti devono entrare nelle loro rispettive classi. Nessuno che abbia a cuore la puntualità, a quanto pare.

Nemmeno una come Costanza Notai, che sta camminando a passo spedito proprio come un soldato di guerra e con la sua tipica smorfia alla Cersei Lannister. Naturalmente ci scorge a entrambe, impossibile evitarla.

«Ebbene, non sono per niente soddisfatta del risultato!» esclama mentre si tira con fare nervoso le trecce alla francese che le incorniciano impeccabilmente il capo, «Claudio, dopo tutto quello che ha fatto, se l'è cavata solamente con un cerotto spiaccicato sopra il naso. Be', rotto, se non altro...».

«Costanza, dobbiamo ringraziare che i buttafuori non abbiano colto sul fatto Ludovico! E ora bisogna sperare che quel coglione non muova una denuncia» le faccio notare mettendo la mano libera sopra il mio fianco.

«Se solo osa denunciare Ludovico, io lo denuncio per aver drogato una minorenne» sibila crudele la Queen Bee, assottigliando persino lo sguardo, incutendo timore anche alla sottoscritta.

«Forse è quello che avremmo dovuto fare fin dall'inizio...» convengo io con un sospiro.

«Io volevo vedere Claudio Patriarchi con la faccia spaccata, volevo vederlo soffrire, quel suo sorrisetto del cazzo venirgli strappato. Sono stata esaudita per metà, purtroppo» sentenzia alzando il mento, «ma, pazienza, vedrò di affogarlo io stessa durante i Cento Giorni».

«Dovremmo lasciar perdere, Cost, non ne vale veramente la pena. La soluzione ultima è l'esilio sociale, che ne dici? Isolarlo da qualsiasi cosa, da tutto e da tutti. Diventerà talmente pazzo da darsi i pugni da solo» le avanzo una proposta più legale, poiché effettivamente mi sembra un'ipotesi piuttosto allietante e piena di attrattiva.

«Di sicuro col cavolo che lo invito a una festa a casa mia oppure a bere qualcosa al Forte d'Alabastro» afferma lei con sdegno, «però rimango di questa idea, lo affogo con le mie mani. Ve lo garantisco».

«Tu non t'arrendi mai, eh?» le domanda Marta con voluta ironia, senza sbilanciarsi fin troppo.

«Mai, non esiste quella parola nel mio vocabolario, "arrendersi". Non è contemplata. Costanza Notai non si spezzerà una sola volta» enuncia Costanza inarcando un sopracciglio, «sono lesbica, mica delicata come una rosellina oppure facilmente impressionabile!».

«Cos'è che sei tu?» ripete DarthMart presa alquanto contropiede.

Già, dimenticavo che lei non sa di Costanza e del suo orientamento sessuale. Anzi, quasi nessuno lo sa, in effetti. Solo Leonardo, poi direi Camillo Bernardeschi – dal momento che l'ha vista incollarsi alle mie labbra –, e altri due o tre tizi in croce. Forse Diana Marchesi è fra questi.

«Lesbica, tesoro mio, lesbica. Vuoi che ti faccia lo spelling?» le dice Costanza con espressione annoiata.

«No, non mi serve, sono abbastanza preparata sull'argomento. Ma grazie per la premura» articola l'altra beffarda e inclinando la testa verso destra, «è solo una sorpresa, tutto qua».

«Puoi stupirti di quante altre sorprese vi siano dentro questa scuola» dichiara la piccola Lannister con un ghigno mordace e tagliente, «se volete scusarmi, sono in ritardo per andare a condividere lo stesso ossigeno con Claudio Patriarchi. Per piacere immenso, non compatitemi, rimedio già da sola. E, sì, ti saluto Leonardo, cara Atena. Ma non contare che lo baci da parte tua».

E detto ciò, la stupefacente e clamorosa Queen Bee del Classico riprende la sua marcia trionfante alla volta del quinto A, guardando in un'unica direzione, ovvero quella dinanzi a sé. Mai a destra o a sinistra, sempre davanti.

Costanza guarda sempre in avanti.

















Le classi cui sono sottoposte ai colloqui del 1 dicembre sono tutte le sezioni del quinto anno. Sia di Classico, che di Artistico.

Per la prima volta di questo ultimo anno scolastico, il Caravaggio ritorna a essere popolato, per un solo pomeriggio, da genitori e figli. Fa sempre uno strano effetto vedere gli adulti, che non siano professori, bidelli oppure segretari, in questi corridoi così familiari. Be', Gandolfo nemmeno lo considero nella lista, ultimamente pare più "bambinesco" lui che quelli della mia età!

Io e mia madre camminiamo fianco a fianco, lei con in mano il foglio con su scritto tutti i nomi dei miei insegnanti e le loro rispettive materie, io con la penna stretta fra le dita pronta a cancellare quest'ultime una volta aver tenuto il solito colloquio di cinque minuti. Dieci, nei casi estremi come spesso accade con Ferraresi, dannatamente logorroico.

«Dieci professori... speriamo di non starci fino alle otto di stasera. Come accadde l'anno scorso, te lo ricordi?» ragiona la mamma, grattandosi la nuca.

«Ma l'anno scorso c'era quella ragazza di quinto che si era messa a sbraitare contro il prof. di matematica. Quest'anno non c'è più, si è diplomata» sottolineo rabbrividendo al ricordo.

Per colpa di quella schizzata – che peraltro faceva parte del mio indirizzo – la nostra fila per parlare con il professor Astri si è dilungata decisamente oltre le aspettative. Sono quegli intoppi che ti auguri con tutte le migliori intenzioni che non accadano, soprattutto quando devi ancora dialogare con una una marea di professori al seguito.

«Mi auguro che quest'anno non ci sia il bis» borbotta sardonica Adele, premendo l'indice contro il foglio di carta, esaminando tutti i nomi, «ancora mi viene da ridere quando leggo il cognome del tuo professore di filosofia. Magari si scopre che viene da Livigno ed è il mio fratello perduto», allude a Geronimo Del Gaudio, che tutt'oggi ci fa sghignazzare il fatto che condivida lo stesso cognome di Adele. Come si suol dire, piccolo il mondo.

«Credimi, mamma, Del Gaudio è tutto meno che tuo fratello. Quello lì è pazzo. Voglio dire, anche tu sei pazza a modo tuo, ma quello è proprio svitato, fuori come un balcone» convengo io portandomi la mano alla fronte.

«Sì, me lo ricordo.È quello che aveva paragonato questa scuola a un manicomio e voleva a tutti costi farsi dare il camice bianco per spiegare la sua materia. Al posto della cattedra voleva la barella con tanto di cinghie, un discorso un po' da toccato il suo, però interessante se lo guardi sotto altri punti di vista» racconta Adele avanzando verso le scale che conducono al piano superiore.

«Prima o poi gli viene un esaurimento nervoso come alla Sefora Villaggi» annuisco a occhi chiusi, sospirando, «magari il Caravaggio è davvero equiparabile a un manicomio».

«Manicomio o non manicomio, l'importante è che tu riesca a diplomarti senza sgarrare. Altrimenti sono dolori» mi minaccia con estrema simpatia la mamma, addirittura osa farmi l'occhiolino.

Sto per risponderle con altrettanta simpatia, a denti stretti, quando un qualcosa mi distrae dall'intento, anzi, un qualcuno. Una figura.

Mi blocco proprio alla soglia dell'imponente rampa di scale, poggiando la mano sopra la balaustra distrattamente. Tanto ormai l'attenzione è saettata totalmente da un'altra parte.

I miei occhi sono rapiti al cento per cento da una donna, con i capelli castano chiaro meravigliosamente abboccolati e tirati all'indietro da un cerchietto luccicante – azzarderei affermare che sia fatto d'argento –, vestita di un delizioso, quanto semplice, abito nero, corto sino alle ginocchia e con tanto di mantellina sopra le spalle.

Le gambe della donna sono fasciate da collant altrettanto scuri per poi finire in un paio di décolleté con il tacco sottile e l'estremità a punta. Accanto a lei, il figlio tiene stretto fra le braccia il suo trench di Burberry dall'aspetto morbido e confortevole. Un gesto di galanteria.

Entrambi sono in fila per attendere il proprio turno per chissà quale insegnante, lei con le mani perfettamente unite, lui poggiato al muro del corridoio vicino alla finestra. La differenza d'altezza, ovviamente, è abissale.

«Quella è...» mormoro senza rendermene conto, l'espressione rapita, giunta in un punto di non ritorno.

«Oh sì» mi dà ragione Adele, che evidentemente deve aver fatto dietrofront dalle scale per ritornare da me, «quella è Lucrezia Kroess. La madre di Leonardo».

«È di una bellezza sconvolgente» recito senza smettere di fissarla.

«Sì, bisogna ammetterlo, Lucrezia è molto bella» dice la mamma, «porta veramente bene la sua età».

«Anche tu porti bene la tua età» le faccio notare senza doppio fine dietro.

«Che ci vuoi fare... siamo due fiche assurde! Adesso andiamo, voglio iniziare da quel tuo professore stronzo... com'è che si chiamava? Lunastorta?» cinguetta per poi balzare di nuovo verso il primo gradino con un saltello, lasciandomi lì impalata come una cretina.

«Sì, si chiama Lunastorta...» sussurro senza volerlo, ignorando l'assenza della mamma, continuando a osservare quello che rappresenta il dio Apollo del Classico e colei che l'ha messo al mondo.

Hanno proprio l'aspetto ineccepibile e uniforme di due opere d'arte, i loro lineamenti sembrano disegnati a matita dal Caravaggio in persona. Leonardo ha il naso leggermente più sporgente e più grande rispetto a quello della madre; tuttavia, la compostezza, le movenze, le espressioni del viso, sembrano tramandate in linea diretta verso il figlio, poiché si muovono in simbiosi, hanno una sintonia da brividi.

Eterei, è questo il termine adatto per definirli.

Rimango non so per quanti secondi imbambolata a rimirarli estasiata che nemmeno mi accorgo di quando Leonardo sposta le proprie iridi azzure su di me, per pura casualità.

Appena si accorge della mia presenza, le labbra – che fino a poco fa erano ridotte a una linea ben dritta e perfetta –, i suoi angoli, si allungano all'insù. Un sorriso genuino e, a tratti, celato spunta dal nulla ed è dedicato soltanto a me. Inevitabilmente arrossisco e mi maledico per questo.

Senza sapere cosa fare, mi porto dietro le orecchie le mie ciocche rosee e mi gratto la punta del naso, gesti prettamente dettati da un improvviso pizzico di timidezza. Non oso aprire bocca, non oso muovere di un passo.

Sicché Leonardo estrae il cellulare dalla tasca dei pantaloni, distogliendo per qualche secondo lo sguardo dal mio e prende a digitare un messaggio.

Subito dopo, quando cessa di scrivere, lui ritorna coi i suoi occhi nei miei e il mio apparecchio vibra dal giacchetto. Non perdo tempo, chiaramente.



Faccia da cazzo, 15:06

- Dopo i colloqui vuoi venire a studiare da me?





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