40. Passato remoto e sepolto
Marta.
Io ed Emilio usciamo fuori dal bar di Gesualdo. Abbandoniamo quel piacevole tepore per ritornare all'esterno dove regna il freddo, per ritornare alla caotica vita fiorentina.
Naturalmente, ho insistito fino alla fine a voler pagare il tè con i miei stessi soldi, ho preferito pagarmelo da sola senza dover accettare inutili offerte da parte del mio professore, che non si è risparmiato ad avanzare.
Gli ho spiegato, non mancando di essere educata, che a me piace non essere in debito con nessuno, nemmeno se si tratta di un euro e cinquanta centesimi. Una sciocchezza, in realtà, ma per me significa assai tanto.
Per cui ho scelto di versarli di tasca mia, non ho voluto sentire obiezioni.
Emilio, di fronte alla mia affermazione inerente al "mi piace non essere in debito con nessuno", ha commentato con un ironico «Sì, l'avevo intuito», seppur sorridendo, un lieve sorriso è stato così generoso da donarmi.
Inutile dire che un simile sorriso ha fatto sciogliere il mio cuore gelido e privo di calore, che io l'abbia voluto o meno. Sono delle azioni particolari, queste qua, quelle sfuggono via dal controllo senza neanche che tu te ne accorga. E quando te ne rendi conto, con consapevolezza, sai che è troppo tardi per rimediare.
Scacco matto alla Regina.
Successivamente, saliamo a bordo della sua auto con l'intenzione di tenere fede alla mia richiesta. Ossia di andare via da lì, di andare in un luogo ancora più tranquillo. È vero, il desiderio l'ho espresso io, tuttavia non ho avanzato suggerimenti al riguardo. Sta facendo tutto quanto Emilio, è lui che sta prendendo questa importantissima decisione decidendo anche per me.
Dove mai potremmo andare al fine di ritrovarci in un luogo più tranquillo del bar semi-deserto di Gesualdo? In tutta onestà, preferisco non fare ipotesi, meglio che io non pensi a niente. La reputo una scelta saggia oltre che prudente.
"Pensa ad altro, Marta, pensa a qualcos'altro", mi esorto da sola, prendendo un lungo respiro e tentando di rallentare il battito cardiaco.
Ma a cosa dovrei pensare in un momento del genere? Sono dentro la macchina del mio professore di storia dell'arte, quello per cui – tecnicamente – ho una seria e non indifferente sbandata!
A cosa diavolo potrei pensare? La mente è tutt'ora vuota, nemmeno una boiata simile a quella che ho sparato nel dopo riunione al Caravaggio sarei in grado di partorirla.
Mi ritrovo a esaminare ogni dettaglio all'interno della vettura; nessun pensiero tetro, nessuno scenario splatter, soltanto gli interni morbidi e delicati della sua Jeep.
Incredibilmente, constato che è molto pulita, non c'è la minima traccia di polvere ed è priva di qualsivoglia cartaccia sparsa là e qua, e di qualsivoglia bottiglia vuota.
In qualche modo pare rispecchiare in tutto e per tutto il mio professore, sempre composto, perennemente impeccabile e mai con un capello fuori posto. Tale auto, tale padrone. La mia, in compenso, è un caos totale, come la mia camera, come i miei appunti, come le cartelle del mio pc, come la mia mente.
Niente che sia in ordine, la confusione regna sovrana.
Dentro la Jeep prevale il silenzio, mi accorgo solo in un secondo momento, ora che sono priva di pensieri deviati. La radio è spenta, le nostre bocche sigillate, a tal punto che riesco a sentire il sangue pulsarmi nelle orecchie con chiarezza e persino il suono del mio cuore riecheggia tranquillo. Adesso mi sono calmata.
Be', mi sembra il minimo dal momento che mi sono agitata anche sin troppo, poco fa. A quando Emilio finalmente è riuscito a darmi del "tu"...
Ci vuole un po' di contegno, insomma! Ho pur sempre diciotto anni, non più quindici.
Nel mentre che Emilio guida alla volta di chissà dove, io non oso guardarlo nemmeno di striscio. Voglio bearmi di apparire disinteressata, almeno finché mi è possibile.
Quel briciolo di istinto di sopravvivenza e di difesa ancora c'è dentro di me, non tanto facilmente se ne andrà via, sono quasi convinta che rimarrà lì ancora per molto, ma molto, tempo.
Ma poi faccio un movimento che, con la giusta consapevolezza, so che non dovrei osare — vado a rovistare fra i cd che spiccano con un che di attraente sotto il cruscotto scuro. Se prima ho ispezionato la macchina quasi con distrazione, ora mi permetto di ispezionare i suoi gusti musicali. Almeno avrò qualcosa di cui dialogare, soprattutto lamentarmi in caso fossero osceni.
Perquisisco ogni confezione di plastica rigida senza neppure chiedere il permesso, agisco e basta.
Il mio dito indice passa delicatamente in rassegna molteplici nomi, molteplici titoli. Mozart, Beethoven, ovviamente Chopin, Wagner, Debussy, Rossini, Paganini... tutti compositori di musica classica che furono.
Così non ci siamo, questi sono gusti oltremodo ineccepibili, non ho maniera di polemizzare!
Tutto sommato mi sento quasi lieta di poter scoprire qualche lato nascosto di Emilio, non importa se non ho sufficienti espedienti per cui criticarlo. Va bene anche così.
«Hai dei buoni gusti in fatto di musica» infatti mi trovo a dichiarare; sento davvero di doverglielo dire, lo considero un dovere.
«Le piace... ti piace quel genere lì?» mi domanda lui dopo essersi volontariamente corretto.
Non è facile prendere confidenza con un qualcosa che, per diverso tempo, ti sei ostinato a evitare come la peste. Ha tutta la mia comprensione.
«Mi piacciono molti generi, in realtà, però la vecchia scuola non muore mai» commento con una certa aria di superiorità, spalmandomi meglio sul sedile d'un tratto comodissimo.
Sono quasi le sei, realizzo dopo aver dato una fugace occhiata al display della radio in stand-by. Matilde sarà sicuramente a coprire il suo turno all'Arcadium, chissà se Jevanni le insisterà ancora sul fatto di volerla invitare a uscire con lui... un po' senza speranza, attualmente, contando il risvolto con Aspromonte.
«Mi sono chiesto più volte, infatti, cosa ti piacesse a livello musicale» ammette Emilio guadagnandosi un'occhiata da parte mia. Veloce come una saetta, sbigottita subito dopo.
«Stai scherzando...» dico senza riuscire a nascondere la mia espressione incredula stampata in volto.
Sicché il prof. ridacchia divertito di fronte alla mia reazione, come biasimarlo.
«Al contrario, più che serio» asserisce mettendo di punto in bianco la freccia per svoltare a sinistra di un incrocio, «dopo che hai palesemente detto, durante la nostra chiacchierata tutt'altro che amichevole al Maverick, "Accidenti a questa musica di merda da quattro soldi, non si riesce a sentire una minchia!"», conclude la mia imitazione con una certa enfasi, per di più con una certa bravura.
Non per niente è un attore teatrale, ci sa fare.
«Cristo!» esclamo portandomi le mani alla fronte, tutte e due, «Ero convinta che non si fosse sentito...».
«Hai urlato, per di più eri molto infuriata, il carico da undici quasi» sottolinea Emilio, dilettato dai miei occhi spalancati.
«Non mi scuserò, sappilo», riparto subito alla carica senza perdere terreno, incrociando addirittura le braccia al petto e sfoggiando una seria smorfia di disappunto.
Ero in un locale universitario, avrei potuto recitare tutto il vocabolario delle parolacce e dei termini sconci se mi avesse compiaciuto.
«Non mi devi niente, Marta Brunori, men che meno le tue scuse» sentenzia lui con voce morbida, miele puro.
E appena lo sento pronunciare il mio nome al completo, deglutisco preda di una morsa invisibile quanto feroce allo stomaco. Mi sento assai spaesata, era da tanto che non provavo questa sensazione. Ora non so come comportarmi, poiché qualsiasi cosa deciderò di fare, sicuramente lo farò all'estremo, esagerando con i sentimenti come sempre.
Come mia dannata e maledetta abitudine!
Ecco perché mi ostino ad abbracciare quell'ideologia dettata dall'istinto di sopravvivenza. Il segreto, nonostante tutto, è la totale freddezza e il controllo maniacale di ogni reazione o movimento. È un meccanismo crudele, sadico, poiché lenisce in ogni dove il mio spirito, il mio animo. Però solo a questo modo posso sentirmi protetta e al sicuro.
Oddio, quanto mi odio per essere divenuta così... così posata, controllata, bloccata, misurata!
È vero, ho diciotto anni, la maggiore età che accerta quel qualcosa di maturità. Tuttavia sono questi gli anni del lasciarsi andare, delle pazzie, dei pentimenti e rimorsi mancati! Mi sento come se avessi una catena alla gola, pronta per essere stretta per tutte le volte che provo a osare quel pelo di più. È una tortura sana e insopportabile.
Eppure, d'altro canto, me la sono legata da sola, con le mie stesse mani, questa catena alla gola...
«Stiamo andando a casa tua?» chiedo scuotendo la testa, cercando di scacciare ogni pensiero pronto ad artigliarmi inesorabile.
«Sì, ma, ti prego, non pensare male. È l'unico posto tranquillo e in cui mi sento al sicuro, soprattutto se devo aprirmi e darti quel pezzetto corroso di me» spiega Lunanuova mostrando gentilezza, togliendomi il dubbio e rivelando una volta per tutte la meta, «saprai custodirlo senza esserne intaccata?».
Sbatto velocemente le palpebre in automatico come lo sento dire ciò. La preoccupazione inizia a farsi strada dentro di me, lo devo ammettere.
«Sono abbastanza forte per tutto ciò che avrai da dirmi» recito consapevole del peso delle mie parole.
«Oh, lo so che tu sei forte. L'ho visto dal modo in cui hai disintegrato quelle povere e innocenti matite durante le mie lezioni» conclude Emilio con un ghigno decisamente sarcastico.
Emilio Lunanuova abita in via delle Forbici – non troppo vicino al Caravaggio come mi sarei aspettata –, in una zona piuttosto verdeggiante che fa' parecchio a pugni con quella dove vivo io e a pochi metri dall'Università Internazionale dell'Arte.
Ma guarda un po' che piacevole coincidenza. E pensare che questa Università l'ho presa in considerazione per un mio eventuale futuro una volta uscita dal liceo e con il diploma arrotolato stretto in mano.
La casa del mio professore non è per niente uguale a come me la sono immaginata; nell'attesa che l'elegante cancello elettrico si apra per farci entrare, mi permette di sporgermi in avanti, oltre il sedile, allentando la presa della cintura di sicurezza.
Aguzzo la vista e tento di scorgere più dettagli possibili.
L'abitazione è composta da un solo piano terreno più una piccola torretta che s'innalza verso il cielo, una vera e propria chicca considerando che viviamo in città. L'esterno è molto semplice e dipinto di un colore tenue come il bianco, mentre la torretta è interamente composta di un susseguirsi di mattoncini tanto da donargli un piacevole tocco antico.
Dopo aver parcheggiato l'auto qualche distanza più in là del cancello, all'interno del giardino piccolo seppur curato con minuzia, in una distesa di pavimento fatto di pietra, scendiamo entrambi in silenzio: io con lo zaino di scuola stretto fra le spalle, Emilio con la sua fedele borsa di cuoio contenente miriadi di fogli di varie verifiche, libri di testo, penne, matite, Registro Scolastico e tutta roba che potrebbe far gola a uno studente con la media indecente.
Uhm, non troppo il mio caso... a storia dell'arte io oscillo fra il cinque e il sei, a tratti nel sette.
Il prof. estrae dalla tasca del lungo giacchetto un mazzo di chiavi non troppo massiccio e fa per aprire il portone blindato, che ovviamente funge da ingresso principale.
La dimora è silenziosa, nessuna traccia di voci, di miagolii o di qualche abbaiare canino, segno inconfutabile che vive da solo — nemmeno la presenza di un animale.
Lo seguo a ruota senza osare fargli qualsiasi domanda, entrando oltre la porta. Mai avrei pensato che prima o poi sarei riuscita a vedere casa sua, mai! Non sicuramente dopo la sua presentazione il primo giorno di scuola, quando ci spiegò che il suo incarico prevedeva di sostituire la dolcissima e professionalissima professoressa Pancrazio per tutto l'arco dell'anno. Non dopo tutta la sua stronzaggine gratuita mostrata fin da subito, chiaramente. E nemmeno dopo tutta la situazione che si è venuta a creare fra noi due.
Decisamente non dopo quello, no...
Eppure eccomi qui, con un'espressione gradevolmente sorpresa disegnata in viso, ad ammirare l'arredamento della sua abitazione. Quanto è dannatamente vero il detto "mai dire mai".
Senz'altro me lo aspettavo più antico l'interno, invece mi vedo costretta a ricredermi. Dopo che Emilio accende la luce, un bel salotto si presenta per accogliermi al meglio.
Le pareti sono tinteggiate dello stesso colore dell'esterno, una semplice vernice bianca, eccetto il muro in fondo al salotto, quello è costruito interamente in vecchia pietra e con due grandi finestre che hanno il compito di illuminare a dovere l'ambiente.
Due larghe librerie colme di libri e tomi sono incastonate nel muro al mio lato destro, una sorprendente combinazione insieme alle travi in legno a vista sul soffitto.
Faccio qualche passo in avanti, andando a posare le dita e il palmo della mano sulla stoffa morbida di un lungo divano avorio, costellato di cuscini dalle scure tonalità. Esso spicca con bellezza sopra un delicato, quanto esteso, tappeto color verde scuro.
Per il resto tutto appare rustico ai miei occhi: il tavolino rotondo accanto alla singola poltrona, con su una pila di fogli che hanno tutta l'aria di essere dei test da correggere, la lampada da terra, il pouf vicino alla stufa, persino i quadri.
Sembra di essere in una casa in piena campagna, tutto ciò si sposa meravigliosamente con i miei gusti personali.
Promuovo l'abitazione di Emilio Lunanuova a pieni voti.
Il problema, però, rimane comunque uno soltanto... dove sono gli altri componenti della sua famiglia? Perché vive da solo? Questa casa è troppo grande per una singola persona. Riesco quasi a percepire un alone di tristezza in tutto ciò...
«Questa casa era dei miei genitori» mi spiega Emilio neanche mi avesse appena letto nella mente, poggiando sul pavimento di marmo la borsa che ogni dì lo accompagna al Caravaggio e togliendosi il giaccone, «la mia famiglia è originaria di Volterra, però abbiamo vissuto una parte di vita qui a Firenze. Dopo che conclusi le superiori, i miei decisero di ritornare nel luogo d'origine mentre io preferii restare in questa abitazione dal momento che sarei andato all'università. Fu più comodo per me».
Prima informazione che ottengo dal mio misterioso professore: sia lui che la sua famiglia provengono da Volterra, un dettaglio che non fa altro che accrescere il mio ego. Ho voglia di sapere qualsivoglia cosa di Emilio... e per quanto io asserisca il contrario, be', non è che possa interpretare la parte della bugiarda menefreghista per sempre.
«Non male come casa tutta per sé» commento annuendo con indifferenza, continuando a guardarmi intorno e con ancora il giubbotto addosso.
«Togliti pure il giacchetto, c'è l'appendiabiti dietro di te» mi suggerisce lui apparentemente calmo, «gradisci qualcosa? Succo di frutta? Aranciata? Caffé? Noccioline? Biscotti? Me li porta giornalmente la signora che confina con me, è molto gentile e apprensiva nei miei confronti. Ti assicuro che sono deliziosi».
Sicché tiro giù la zip e mi privo dell'indumento pesante, dando ascolto al suo consiglio.
Effettivamente qua dentro c'è un piacevole tepore, deve aver lasciato il riscaldamento acceso da stamani.
«Mi hai convinto sui biscotti, ne assaggio volentieri uno. Soltanto uno» accetto però mettendo una restrizione categorica.
Non mi va di creare troppo disturbo. So che è buona educazione accettare almeno una piccola offerta da parte dell'ospitante, ma approfittarsene troppo poi diventa di poco gusto.
Per cui, nel frattempo che Emilio scompare in cucina, riprendo a osservare ciò che mi circonda. Una fragranza fruttata fuoriesce da un profumatore per ambienti, arrivando alle mie narici e deliziandomi con delicatezza.
Mi lascio cullare a occhi chiusi, mi godo l'attimo fuggente.
Finché una piccola fotografia rotonda cattura la mia attenzione, posizionata sopra la nicchia di una finestra accanto a un vaso riempito d'acqua e fiori di lillà. L'unica fotografia presente in questo salotto, ho modo di realizzare.
Mi avvicino, mossa da un serio lampo di curiosità, non riuscendo ad appellarmi a quella famosa parte di me quale il farmi bellamente gli affari propri. Devo vedere, devo sapere.
A passo lento raggiungo la finestra, ficcando le mani nelle tasche posteriori dei jeans a vita alta, i capelli mi finiscono tutti davanti alla faccia e mi pento di non averli intrecciati precedentemente.
Più accorcio la distanza, più la figura sopra quella foto prende forma e appare nitida, fino a diventare un bambino.
Un bambino dagli occhi e capelli color caramello sorride all'obiettivo, le manine e l'angolo della bocca sporchi di cioccolato. Solitamente quando si guarda uno scatto del genere la reazione dovrebbe essere di serenità, se non altro di dolcezza, tuttavia rimango perplessa, non posso fare altrimenti.
Secondo le poche informazioni che ho di Emilio non risulta ci sia un bambino nella sua vita. È riservato, quello sì, ma mai che gli sia scappato detto, mai che gli sia sfuggita anche una banale foto nel cellulare. Nemmeno a scuola nessuno ha mai accennato a una cosa simile.
Cosa se ne fa lui di una fotografia incorniciata di un bimbo?
Poi realizzo. Arriva come un fulmine a ciel sereno quell'illuminazione che non vorresti mai avere, che speri che non sia vera o quantomeno fattibile.
E se la cosa troppo dolorosa da raccontare sia proprio quella? Emilio Lunanuova è padre, la sua ragazza ha rotto con lui e gli ha portato via suo figlio. Ecco svelato l'arcano.
Mi copro le labbra con la mano appena tale idea prende a farsi strada dentro di me, non sapendo come altro reagire.
Questo cambia tutto, ogni cosa.
«È pasta frolla fatta a mano, in mezzo ci sono dei lamponi, spero tu non sia allergica» arriva la voce di Emilio alle mie spalle, facendomi irrimediabilmente sobbalzare.
Nel momento in cui mi volto, un piatto pieno di biscotti stretto fra le sue dita cattura i miei occhi, a dispetto della mia esplicita e specifica richiesta. I suoi capelli corvini sono portati dietro le orecchie, quasi a dargli un'aria più alla buona, più domestica.
I capelli neri, appunto!
Quel bambino non ha i minimi colori del professore; né l'ombra scura della chioma, né il blu lapislazzuli delle iridi. Che somigli interamente alla madre?
Lunanuova si accorge che ero alle prese con lo studiare quell'unica fotografia, si accorge della mia espressione cambiata esattamente come la mia mano premuta contro la bocca. Non ci vuole granché a fare due più due.
«Oh... hai già visto la foto» dichiara posando il piatto sopra il tavolino rotondo, stando attendo a non sfiorare la pila di fogli. Scorgo una strana luce nei suoi occhi.
Deglutisco rumorosamente e mi inumidisco le labbra prima di dire qualcosa.
«Scusami, mi ci è caduto l'occhio...» mi giustifico addirittura sentendomi in colpa. Dopotutto non ne avevo alcun diritto di curiosare.
«È in bella vista, fatta per essere guardata. Altrimenti non la terrei lì» spiega Emilio avvicinandosi alla cornice, rimanendo al mio fianco, a pochi centimetri. «È una vera peste, però ha un modo di sorridere che te lo fa adorare fin dal primo sguardo» ammette poi esibendo un sorriso sghembo.
Dio, quell'espressione... lo ama, lo si vede lontano mille miglia. E come non potrebbe amare suo figlio?
«Non... non c'è somiglianza tra di voi» dico a bassa voce, quasi avessi paura di parlare. Ho paura che qualsiasi parola esca dalle mie corde vocali sia sbagliata, fuori posto.
Ed è una sensazione davvero strana per me, io so sempre cosa dire e come dirlo. La mia è una dote innata.
«E lo credo bene, il padre ha certi colori scuri che pare un miracolo tutto quel color caramello in quel bambino» ridacchia l'altro, riprendendo a muoversi, allontanandosi da quella sottospecie di "altare".
Il padre?
Una velocissima botta di sorpresa mi afferra con effetto immediato. Faccio scattare il capo dritto in sua direzione, allargando persino gli occhi.
«Che cosa? Lui non è tuo...» domando stupita ma la frase mi muore in gola.
«... figlio?» perciò continua lui per me, assumendo una voce piuttosto stridula, dettata indubbiamente dalla sorpresa, «No, diamine, proprio no. Ma come sei andata a pensare una sciocchezza del genere?».
«La colpa è tua che non parli!» esclamo subito sulla difensiva, «Giungo a conclusioni, di conseguenza».
«Santi numi... quello lì in foto è Edoardo, figlio di Lucia, mia sorella. È mio nipote» mi illumina in quattro e quattr'otto.
"Non metterti a urlare, cara Marta, non provare a fare atti osceni in luogo pubblico", una vocina mi ordina seduta stante siccome mi sento leggera come una piuma dopo la notizia più che splendida.
Lucia... questa è nuova, ad ogni modo. Mi ricordo perfettamente che il nome di sua sorella era diverso.
«Quante sorelle hai? Fai parte della scatenata dozzina?» esclamo allargando di nuovo gli occhi, dando l'impressione di essere oltremodo pazza.
«Due, a dirla tutta. Due sorelle gemelle, purtroppo. Lucia e Natascia» proferisce Emilio incrociando le braccia al petto, «un vero inferno contando che sono più grandi di me».
Non reagisco prontamente dopo aver ricevuto la sua risposta – tranquillamente paragonabile a una delucidazione –, faccio passare qualche buon secondo che non perdo a contare. Non so che cosa dire, niente di sensato comunque.
Per cui mi lascio cadere seduta sul divano, appurando di quanto davvero sia morbido, sentendomi esterrefatta e stanca allo stesso tempo. Agguanto un biscotto dal piattino a poca distanza da me e lo mangiucchio con espressione assente.
Emilio aveva ragione, sono deliziosi, quella signora ci sa fare in cucina, perlomeno con la pasta frolla ai lamponi.
Stando attenta a non sbriciolare come un roditore sovrappeso, rivolgo nuovamente i miei occhi sopra la figura di Emilio, che scopro sbirciare verso di me. Un paio di occhi incuriositi mi stanno studiando mettendomi un po' in soggezione.
Sì, va bene, è chiaro, ho fatto un'epocale figura di merda, per di più con il mio professore di storia dell'arte, per di più ancora prima dei colloqui imminenti. Che altro ancora?
Ci manca solo che mi infili in testa la maschera di Darth Vader che ho usato per Halloween e mi metta a ballare una qualche canzone latino-americana in questo maledetto salotto! Con tanto di spada laser a fungermi da palo. Forse potrei ancora dare il meglio di me.
«Va tutto bene, Marta?» chiede Lunanuova cercando di non mettersi a ridere.
Ebbene mi trova divertente, come dargli torto. Fossi stata al suo posto mi sarei presa per il culo fino alla morte; polemica e ironica come sono poi... un invito a nozze.
Il giovane tiene premuto l'indice e il pollice contro il labbro inferiore pur di non scoppiarmi a sghignazzare in faccia, intravedo la tensione dei suoi muscoli facciali, la stessa che viene a Diego quando si trattiene dall'esibirsi in una sonora risata.
«Ho appena asserito che tu avessi un figlio e che la tua presunta ex compagna te lo avesse portato via, impedendoti di vederlo per il resto della tua vita. Come pensi che vada? Avrei voglia di saltare dentro il Millenium Falcon e di abbandonare questa galassia...» dichiaro con tono alquanto isterico, la stessa isteria che uso per consumare questo biscotto!
Emilio indurisce lo sguardo come mi sente pronunciare tale battuta, orgogliosamente sarcastica, e finalmente si mette a sedere vicino a me, non troppo vicino, non troppo lontano.
La distanza che serve, quella giusta.
Tuttavia riesco a percepire il suo profumo, mischiato alla fragranza che regna nell'ambiente a noi circostante. Un toccasana per il mio respiro.
«Un figlio...» ripete lui con un che di amarezza mista a nostalgia, l'attenzione proiettata in avanti, in nessun punto preciso, «il che ci riporta a quanto devo dirti, a quanto sia corretto che tu sappia».
La mia spina dorsale scatta come una molla, mettendosi completamente eretta, e le mie orecchie si aprono più che mai. Ci siamo, sta per vuotare il sacco.
«Sono pronta ad ascoltarti, sono pronta a essere il contenitore per il tuo dolore» gli ricordo, pulendomi in fretta gli angoli della bocca, «riprendiamo da dove abbiamo interrotto».
«Ne sentirò tanto di dolore mentre racconterò, tuttavia sono consapevole del fatto che sarà come hai detto tu. Mi farà bene, in qualche modo, e probabilmente riuscirà a chiudere quella voragine che da troppo tempo ormai mi porto dietro come un fardello, sopportando ogni secondo, ogni minuto, ogni ora la sua gravosità. Ci sono notti che nemmeno riesco a dormire. Mi sveglio nel bel mezzo spalancando le palpebre di colpo, mi alzo, prendo un libro qualsiasi da uno scaffale delle svariate librerie che ho per casa, mi siedo sulla poltrona con il libro spalancato sulle gambe e mi metto a osservare il vuoto. In silenzio, senza leggere, senza muovere un dito. Rimango immobile finché non suona la sveglia delle sei. Realizzo che è ora di ritornare nel mondo reale... il tempo si è offeso e si è fermato, da allora neanche più un ticchettio, diceva il Cappellaio Matto » spiega Emilio socchiudendo le palpebre in un atto di raccoglimento, già le sue parole iniziano a essere intrise di afflizione.
E io ho promesso, ho dato la mia parola, che avrei sopportato, che sarei stata forte.
Adesso non mi azzardo a tirare conclusioni affrettate, adesso mi metto in modalità "ascolto" e attendo la sua storia, senza farmi inutili – quanto inconcludenti – film mentali. Non è il momento.
«Io sono qua, Emilio, non proverò a interromperti nemmeno una volta. Lo giuro» dico con la massima serietà, inclinando appena il capo. I capelli argentati mi vanno a sfiorare la spalla. «Di' tutto quello che c'è da dire, coraggio».
Il professore abbassa gli occhi, posandoli sui pollici che con insistenza sta facendo girare su se stessi in un moto senza fine. La sua mascella è visibilmente contratta, la tensione è palpabile.
«Tutto è partito dalla materia che oggigiorno insegno, storia dell'arte. Per diventare professore a tutti gli effetti di questa materia così splendida, mi sono impegnato con tutta la mia passione e tutto il mio sacrificio a portare a termine il percorso universitario presso l'Università Internazionale dell'Arte, quella a pochi metri casa mia neanche a farlo apposta. Ho affrontato i fatidici cinque anni, ero desideroso di imparare, di conoscere, di apprendere, di studiare, volevo sapere sempre di più, ero bramoso di informazioni sempre più nuove. Un mio professore, al liceo, ripeteva spesso "Sei hai studiato e sai le cose, puoi rispondere. Se non hai studiato e non sai le cose, non puoi permetterti di rispondere. Gli altri lo faranno per te". È da lì che la voglia sconfinata di conoscenza si è fatta valere in me. È stata come un'illuminazione divina» racconta Emilio, con le iridi che brillano di luce propria quando arriva a parlare del suo insegnante, «dopo la maturità non persi tempo prezioso. Passai l'estate a fare test su test, ero più che intenzionato a iscrivermi all'Università, volevo quel benedetto pezzo di carta cui tutti ambivano e cui pochi riuscivano a conquistare. Io sentivo di potercela fare e infatti così fu. La mia vita universitaria fu rosea, meravigliosa e spensierata, non ero mai in ritardo con gli esami, ero circondato di amici veri, avevo il teatro e una casa tutta per me. Il paradiso per un ragazzo giovane, sognatore, con un futuro davanti e il mondo ai propri piedi. In più, avevo il supporto finanziario e psicologico da parte della mia famiglia. Mi volevano bene e io ne volevo a loro. Cioè, io avevo una vita perfetta, niente andava storto... sembrava quasi di essere in una storia di Walt Disney. Purtroppo, però, il "vissero tutti felici e contenti" non si è dato pena di farsi vedere».
Emilio prende un lungo respiro, si porta la ciocca dei capelli dietro l'orecchio destro, scoprendo così quel delizioso dettaglio che avevo notato il giorno che siamo andati insieme a teatro: la sua piccola voglia a forma di trifoglio fa capolino timidamente dalla pelle bianca.
Poi, dopo aver deglutito, egli riprende a narrare e io riprendo ad ascoltare.
«Ho detto che avevo tutto durante quel periodo... amici, famiglia, Università, positività, teatro. L'unica cosa che non avevo era una ragazza e nemmeno sentivo il bisogno di averne una dal momento che fondamentalmente ero completo, non mi mancava davvero niente ed ero felice, la cosa più importante per un essere umano. Ma poi, è risaputo, le cose cambiano, mutano, divergono, diventano diverse da come erano. All'inizio del terzo anno dovetti optare una materia a scelta per completare il piano studi, e la scelta ricadde su Storia e Critica del Cinema, una materia che non era prevista nel mio corso di laurea e allo stesso tempo dannatamente interessante. Così conobbi Nora Savini, una delicata quanto bellissima fanciulla di secondo anno, frequentante di quelle lezioni anche lei. Mi stregò quando, man mano che passavano i giorni, vedevo che a ogni lezione interpellava sempre il docente al fine di chiedergli quell'informazione in più, facendo paragoni, recitando metafore, collegando la scena di quel determinato film alla scena di un altro, soppesando le similitudini, azzardando ipotesi per una sceneggiatura diversa e quant'altro. Le piaceva il cinema, era evidente, le piaceva anche confrontarsi e per quello scesi in campo appositamente. Ci esibivamo quattro giorni a settimana in un affascinante botta e risposta, un affascinante pizzicarsi a vicenda».
E il professore, per adesso, sta sorridendo. Non un sorriso smagliante, ma appena accennato, si vede che sta navigando interamente nel passato. In un passato remoto e sepolto.
Come gli sento pronunciare quel nome al femminile, non posso fare a meno di provare un orribile moto di gelosia ingiustificata.
«In breve tempo, un mese, se non ricordo male, cominciammo a sederci vicini a lezione, cominciammo a studiare, a passare del tempo insieme. Cominciammo a uscire con lo stesso gruppo di amici, io con i suoi, lei con i miei. Frequentavamo gli stessi locali, gli stessi musei, gli stessi parchi, le stesse aule del Dipartimento, gli stessi concerti... in breve tempo ci stavamo frequentando senza neanche accorgercene e ci stavamo innamorando. Eravamo innamorati follemente l'uno dell'altra. E fu allora che la mia vita era seriamente completa, il cerchio si era chiuso nel migliore dei modi. Non era la mia prima ragazza, ovviamente, ma era la prima persona cui avevo donato il mio amore, e per ciò si mise persino a piangere, commossa, quando glielo confessai. Si era sentita unica, speciale, importante per qualcuno, importante per me. Tutto andava a gonfie vele, niente sembrava potesse spezzarci o dividerci. Eravamo imbattibili, con un legame fortissimo, volevamo addirittura andare a convivere insieme dopo la mia laurea».
S'interrompe di nuovo, stavolta con la voce leggermente incrinata; la storia sta per raggiungere la parte spiacevole, quella che con minuzia è riuscito a seppellire dentro di sé, all'oscuro di tutto e di tutti.
Adesso è bene che mi appelli a tutto il mio animo d'acciaio.
«Poi accadde un qualcosa. Quel qualcosa che quando capita a due persone felici, innamorate e che mai hanno conosciuto l'angoscia, i brutti colpi che riserva normalmente la vita e lo strazio della crudeltà della realtà, praticamente può spezzare qualunque legame ci sia fra di loro, per quanto solido, per quanto duraturo. Nora rimase incinta e io ero il padre. Nora non era pronta, Nora abortì senza nemmeno dirmi che stava aspettando un bambino. Scoprì tutto da sola, prese la decisione da sola, andò nella clinica da sola, rimase sola nel fase post-operatoria, affrontò tutto quanto da sola. Me lo rivelò poco tempo dopo, di quello che aveva scelto di fare senza includermi. Io non ero uno stronzo, o un testa di cazzo, non ero una cattiva persona, ero forse troppo puro, troppo limpido, e lei era stata in grado di trasformarmi in un qualcuno di ben peggiore. Rimasi deluso e ferito, e per questo la lasciai, misi un fermo al nostro rapporto dopo che aveva preso una decisione così grande e importante senza interpellarmi, senza dirmi un fottuto nulla! È vero, ammetto che un figlio lo avrei voluto e probabilmente avrei tentato di convincerla a tenerlo, ma sono anche più che sicuro che, alla fine, avrei comunque accettato qualsiasi decisione lei avrebbe voluto, senza farle pressioni. L'avrei accompagnata in clinica personalmente, restandole vicino e facendole capire a quale compromesso ero disposto a scendere pur di dimostrarle quanto l'amassi. Non c'è stato bisogno, ad ogni modo. Mi tagliò fuori con una facilità talmente estrema che persi fiducia in tutto il genere femminile, quel giorno. Mi promisi solennemente che non avrei mai più avuto niente a che fare con le donne, avrei dedicato ogni istante di vita al sapere, allo studiare e alla conoscenza. Avrei vissuto come Giacomo Leopardi. Eppure, tutt'oggi, non c'è notte che io la passi serena, non c'è attimo in cui la mia mente rivanghi quel passato orribile e che tanto vorrei cancellare. Il volto di Nora mi appare ancora nei sogni, la sua espressione distaccata e imperturbabile mi ricorda di quel giuramento che feci anni fa. Per questo io non accetto inviti di alcun tipo, né di Ilda, più che altro lei la considero davvero al pari di un'amica fidata, né della professoressa Bellante, né di nessun'altra».
Il professore smette di parlare, la sua narrazione si è conclusa, finalmente ora so.
Finalmente ora ho modo di fare qualcosa. Finalmente posso sfiorare l'anima di Emilio con la mia, senza aver timore di muovermi in modo sbagliato. Finalmente mi sento vicino a lui.
Due righe umide lasciate dalle lacrime vanno a bagnare le sue guance, gli occhi sono arrossati e oltremodo lucidi, il viso è provato. Esattamente come il mio.
Senza rendermene conto mi sono lasciata sfuggire qualche goccia di pianto anche io, quel pianto dettato dall'empatia e dal dispiacere. Quel pianto che ti fa tirare su con il naso e ti fa digrignare le labbra in una smorfia contratta.
Sicché mi pulisco alla bell'e meglio con la manica della maglietta, non curandomi di chiedere un fazzoletto, e mi tiro su in piedi, sicura delle mie azioni. Mi posiziono davanti a Emilio e senza proferire parola vado a posargli le dita sopra il volto, cercando di annullare quelle lacrime con i polpastrelli. Lo carezzo con delicatezza, come esattamente farei con un bambino.
E lui mi lascia fare, non oppone alcun tipo di resistenza, né si tira indietro con il bacino.
«Emilio» lo richiamo con voce spezzata, anche con un certo sforzo, «io provo qualcosa per te, è giusto che io te lo dica anche se già lo saprai. Ti prego, dammi il modo di starti vicino».
Dico ciò guardandolo dritto nei suoi occhi umidi, verde contro blu. Specchio contro specchio. Sofferenza contro sofferenza.
Perché è così, sia io che lui abbiamo sofferto veramente tanto in questa breve e, a tratti, inutile esistenza.
Io tradita dal ragazzo di cui ero innamorata, scambiata per un mero oggetto sessuale; lui tradito dalla ragazza di cui era innamorato, scambiato per un essere senza emozioni e privato di esternare la propria opinione.
Emilio va ad avvolgere con le proprie mani i miei polsi, esercitando la stessa delicatezza che sto usando io. Non toglie via i miei palmi, cerca solo un appiglio fisico.
Scuote appena la testa e arcua le folte sopracciglia nere in un'espressione triste.
«Io non sono fatto per te, Marta Brunori. Io non sono fatto per nessuno. La solitudine è la cosa giusta per me. Purtroppo non sono più la persona spensierata e positiva che ero un tempo... purtroppo non potrò dare più il meglio di me a nessuno, e di questo me ne dispiaccio tantissimo» mormora lui con una carica passionale da farmi venire i brividi e lo sconforto nello stesso attimo.
«No» bofonchio cercando di farlo ragionare, aumentando la pressione sulla sua faccia, «non è vero che non potrai dare più il meglio di te! Anche io dicevo così, lo sai? Dopo essere stata a letto con colui che credevo ricambiasse il mio amore, dopo avergli dato la mia prima volta, mi scaricò il giorno seguente come se niente fosse, come se fossi spazzatura, come se fossi una rottura incommensurabile da tagliare via, come se fossi una delle tante... e lo ero, una delle tante per lui. Credevo avesse portato via il mio meglio di me, tutti i miei pregi positivi per i quali valeva la pena starmi accanto. Invece mi sbagliavo, ero in errore, dopo un lungo periodo di buio e di perdizione di me stessa capii quanto tempo stavo perdendo ad agire in quella determinata maniera. In primis mancavo di rispetto a Marta come persona, siccome andavo a letto con chiunque, in secundis mi stavo privando della vera felicità, la felicità che mi spetta di dovere e che nessuno ha il diritto di portarmi via».
Non provo vergogna alcuna mentre gli racconto la mia di storia da dimenticare. Mi sento a mio agio con lui, mi sento come se avessimo una connessione profonda.
«Io... non so cosa dire. Mi dispiace per quanto ti sia successo, Marta» dice tentando di essermi di supporto, esattamente come io sto facendo con lui.
«Anche io decisi di non dare più possibilità al genere maschile, eppure eccomi qui, a casa tua, vicino a te, a confessarti quello che sento. Io ti sto dando un'occasione, Emilio. Sei il mio nuovo inizio dopo un'era di buio» confesso senza batter ciglio, «fa' che io sia il tuo».
«Marta...» mormora lui anche se non troppo convinto, mi pare di vedere del cedimento nei suoi movimenti, nella sua voce.
«Permettimelo. Provaci. Fidati di me. Io non sarò come Nora, non sarò come la Bellante, nemmeno come Ilda. Io sarò me stessa e ti prometto che rimangiarsi una promessa non sarà mai stato più meraviglioso di così» insisto, imperterrita come di mia indole.
Il giovane stavolta non risponde, non da segni di vita. Sento solo il suo respiro essersi fatto piuttosto pesante e il pulsare veloce del mio cuore.
Allora ne approfitto, ora o mai più.
Avvicino lentamente il mio viso al suo, non azzardo uno scatto, preferisco prendermela con calma. Non arretro di un millimetro, intenzionata ad arrivare fino alla fine.
Congiungo le mie labbra umide e roventi con quelle di Emilio, lievemente più secche eppure così tanto desiderate, così tanto guardate da lontano con bramosia. Non oso muovermi, voglio dar lui la possibilità di scegliere, voglio vedere proprio che cosa farà.
Potrebbe spingermi via, di botto, pulendosi la bocca, schifato. Potrebbe lui arretrare e guardarmi con espressione di scuse. Potrebbe rimanere anche impassibile, senza provare alcun tipo di emozione poiché il suo cuore è davvero rimasto duro e di pietra. Potrebbe optare per vie non troppo allegre per la sottoscritta, potrebbe scegliere di ferirmi di proposito e farmi desistere da questa mia folle infatuazione.
Avrebbe la situazione totalmente in pugno.
Alla fine Emilio prende la sua posizione, finalmente mi fa capire qual è la sua intenzione.
Egli toglie la sua presa dai miei polsi, spostando la mano destra fino a farla premere sulla clavicola ed esercitando pressione. Quanto alla mano sinistra, la fa aderire perfettamente dietro la mia nuca.
Dandomi certezza che quel bacio lo vuole tanto quanto me. Dandomi la certezza che, cazzo sì, sta ricambiando. E le sue labbra che prendono a muoversi impazienti sopra le mie, be', io lo prendo come per un sì.
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