4. Diego Guevara
Rabbia. Colei celebre per essere messa in rilievo da ogni persona, colei conosciuta come un sostantivo femminile — suddiviso in due sillabe —, la cui miglior definizione corrisponde a una considerevole irritazione violenta e spesso incontrollata. Ed è proprio quello "spesso" che fa sì d'essere temuta da tutti.
La maggior parte delle volte viene scatenata da motivazioni a sé stanti, che incarnano la perfetta analogia di situazione incoercibile — irreparabili delusioni, gravi offese e contrarietà da parte di un singolo o molteplici individui.
La precedente definizione l'ho sin da sempre giudicata la migliore, la più attinente e di veridicità correlata, eppure ve ne è una seconda: la rabbia sorda e contenuta, quella dovuta allo sdegno, al senso d'impotenza, all'invidia, al dispetto.
Vi sono due interpretazioni esistenti del termine, assai differenti fra di loro, due poli opposti, mai destinati a incontrarsi e a collidere.
La rabbia incondizionata, fuori controllo, che esplode al tuo interno con la stessa potenza sprigionata da un vulcano, incurante di colpire qualcuno o qualcosa, impassibile se dovesse causare danni irreparabili. Quella rabbia che prorompe con la sua lava incandescente infiammando tutto ciò che incrocia sul proprio cammino. Le importa soltanto di affiorare in superficie — repentina e sterminatrice —, di uscire all'esterno, solo questo.
Non importa del resto, di chi sta fuori. Lei è egoista.
La rabbia pacata, dal portamento composto come quello di una dama di corte seduta a tavola per il pranzo, non si scompone nemmeno quando le cose precipitano inesorabilmente. Questa rabbia non si sfoga come la prima, non si scatena facendo rumore, rompendo tutto — vetri rotti e cristalli interrotti — rimane incastrata dentro, incisa sulle ossa, incuneata alle viscere, agli organi, conficcata nell'anima come la più infida delle lame.
Essa non risale in superficie, non ha desiderio di venire alla luce del sole, di essere carezzata di tepore.
Se la prima definizione di rabbia è quella disastrosa per gli altri, allora la seconda è quella disastrosa per chi la prova in prima persona. La prima logora e distrugge chi hai intorno, la seconda logora e distrugge te.
Come definizioni sono assai discordanti fra di loro, le eterne sorelle destinate a darsi battaglia ma mai a trovare un punto d'incontro — però alla fine dei giochi, in ogni caso, qualcuno viene condannato.
Io la parola "ira" la conosco molto bene, non cela segreti per me, sorride quando ella mi guarda negli occhi. Condividiamo una profonda amicizia da un bel po' di tempo, più di quanto vorrei ammettere.
Sono a conoscenza di ogni sua singola sfaccettatura — poiché ne ha molteplici —, delle sue conseguenze, di cosa è capace di fare se istigata ai limiti. Sono a conoscenza dei suoi sinonimi, so che si definisce addirittura come "odio", "irritazione", "collera" e "rabbia".
So che colpisce quando meno te lo aspetti, quando non hai di che proteggerti, indifesa, svestita di corazze. So che è una vera e propria bastarda. So che per un lungo tempo, estremamente lungo, infinito, ne sono stata preda; ero contaminata dalla prima categoria, forse quella peggiore.
Quella che ti fa scontrare con il muro i tuoi stessi pugni — volontà di vedere sangue e percepire dolore —, quella che ti fa prendere a calci lo zaino di scuola o i piedi del letto, quella che ti fa venire voglia di spaccare il labbro a qualcuno — qualcuno a cui tieni, per giunta — quella che ti fa urlare, che ti porta via il tuo essere te stesso per poi rimpiazzarlo con uno che di familiare ha ben poco. Estraneo con lineamenti torvi. Quella che ti fa chiudere a chiave in camera e ti fa afferrare uno specchio per poi farlo schiantare contro il pavimento, altri vetri rotti, altri cristalli interrotti.
Solo che quei cristalli sono io.
All'epoca io eseguivo esattamente tutti questi punti stilati come un elenco, obbedendo con un che di disperato, che piano piano consumava. Non me ne rendevo conto, non ne avevo la consapevolezza — la rabbia acceca davvero.
Ma adesso, ora che sono riuscita a cambiare, ora che sono riuscita a emergere fuori da quelle acque torbide e opache, provo unicamente e sempre la seconda categoria.
Provo rabbia interiore per qualsiasi eventualità o situazione in cui mi vado a ficcare, volente e nolente. Ed è dolorosa e fa male poiché mi tengo tutto dentro — qua, proprio al centro del petto, dietro al cuore, piccola cavità con le stesse grandezze di una mano —, non ne faccio fuoriuscire nemmeno la più piccola goccia. Quasi ne fossi gelosa.
Tutto quello che è mio, è mio soltanto, e tale deve rimanere. Anche se mi corrode.
E dal momento che non conosco vie di mezzo decenti, la scelta più saggia è esattamente questa, la rabbia pacata e tranquilla, mordace.
La sto provando adesso, in questo preciso istante, dinanzi allo specchio circolare e pieno di schizzi d'acqua del bagno.
La sigaretta che era fra le mie labbra neppure un minuto fa ora giace inerte e spenta fra la fredda acqua del gabinetto. Anzi, più esattamente galleggia.
...La mia povera Winston... andata a finire letteralmente nel cesso.
Ma, ahimè, non è lei l'oggetto del mio interesse.
Tutt'ora è il riflesso che i miei occhi vedono, quello di una ragazza con i capelli raccolti in uno chignon disordinato, gli occhi nocciola decisamente furenti — accesi di scintilla ardente —, a malapena sfiorati dalla frangetta increspata, sopracciglia scure piegate verso l'interno, la fronte corrugata quel tanto che serve a far spuntare solite e delicate rughe di disappunto, e le labbra arricciate in una smorfia di liliale disprezzo e le guance arrossate sui contorni — laddove si scorge un flebile tentativo di smorzare l'incendio con dell'acqua gelata.
Ci ho provato a calmarmi.
Tutto questo per colpa sua, per colpa di quel messaggio del cazzo, per colpa del suo ego smisurato e del suo obbligo di farti sentire una merda al confronto di quelli come lui!
Ho le dita delle mani premute contro la pietra grigia del lavandino, fredda e levigata — dai polpastrelli tremolanti trabocca disperazione e sconforto. Mi aggrappo a esso come se ci fosse il terremoto, come se da un momento all'altro dovessi perdere l'equilibrio, come se stessi per capitolare.
Le mie spalle si sono alzate tanto da nascondere il collo; per lavarmi e strofinarmi il viso ho creato un vero e proprio lago sotto ai miei piedi, ma quella è la parte minore.
La parte maggiore è quella in cui Leonardo è l'artefice di ciò.
È incredibile l'effetto che esercita su di me, è incredibile quanto mi faccia andare fuori di testa anche con un semplicissimo messaggio di Facebook. È incredibile che lui, proprio lui e nessun altro, sia in grado di farmi andare a fare la trapezista nel baratro — un nastro nero legato attorno al capo, proprio sopra gli occhi. In quella voragine fosca attraversata da una corda, tesa da un capo all'altro. È in grado di farmi esibire sopra di essa dandomi al contempo l'imprevisto: o ci cadi dentro oppure no.
Se non cado, sopravvivo portandomi dietro come un fardello il ricordo di avergli dato questo potere. Se cado, allora è il famoso punto di non ritorno per me.
No, non può. Non deve essere in grado di farmi questo. Non deve essere in grado di farmi rimontare quella rabbia che finalmente sono riuscita ad assopire — drago nel cuore di una montagna. Non glielo voglio permettere. Non deve avere questo potere.
«Io sono più forte» sussurro a voce bassa in direzione dello specchio, e nonostante il mio mormorare nel bagno comunque la voce riecheggia lievemente.
La litania dei resti di un fantasma.
I miei occhi dal taglio allungato e leggermente a mandorla si assottigliano e, aiutandosi col mento, si tirano su in un gesto di sfida. Una sfida verso il nulla.
Sono arrabbiata, sono adirata, sono incazzata con Leonardo. Non col mondo intero come ero solita a fare, bensì con Leonardo Aspromonte, il dio Apollo del quinto A. Il bastardo del Caravaggio.
Sono arrabbiata e mi fa male. Vorrei mettermi a gridare con la bocca spalancata e i denti in bella vista, ma non posso. Vorrei afferrare la piastra di mia madre e fracassare il vetro dello specchio, ma mi trattengo.
Vorrei... vorrei... vorrei fare che altro, dannazione?
I tempi dei vetri e dei cristalli sono finiti.
"Matilde, andiamo, vorresti creare dei danni solamente per colpa sua? Per colpa di Leonardo? Davvero vorresti prenderti qualche scheggia contro la faccia per lui? Vorresti rompere un oggetto della tua amorevole mamma per lui? Vorresti sprofondare ancora nella buia voragine per lui?".
Oh no, che non lo voglio. Non per uno come lui, appunto.
«Col cazzo che lo faccio per te» do fiato alla bocca, ignorando il dolore all'addome e ai polmoni, che stanno buttando fuori ossigeno più di quello che dovrebbero.
Emetto un lungo sbuffo d'aria e chino il capo verso il basso, verso il lavandino. Poi velocemente riapro il rubinetto e mi risciacquo il volto con dell'altra acqua gelida, rinvigorendomi. L'attimo del panico totale sento che sta per passarmi, l'attimo di smarrimento se ne sta andando con fare cheto.
Il pieno controllo delle mie facoltà ritorna a rispondere della propria padrona — psicologiche e fisiche, non proprio un giochetto facile.
Devo un attimo pensare, riflettere a eventuali contesti che potrebbero venire alla luce da quell'assurdo messaggio. Allora... Leonardo ha detto che è disposto a passar sopra l'intervento mio e di Marta di questa mattina, con Gandolfo; però, conoscendolo, non la farà passare liscia a chi ci ha fatto la soffiata del suo colloquio, se dovesse scoprire che è stata Laira Visparelli del terzo E penso davvero che scoppierebbe il finimondo.
Tutto il Classico si accanirebbe contro quella povera sventurata.
E per finire, dal momento che siamo a tutti gli effetti candidati – io, Marta, Diego e Marco –, ora inizierà seriamente a romperci i suddetti coglioni.
Se fino a quest'oggi era quantomeno tollerabile il nostro rapporto con l'altra fazione, be'... da adesso in poi diverrà insostenibile.
Sicuramente tenterà, tenteranno, di metterci in cattiva luce a tutti i costi.
Insomma, apparentemente quando guardi uno studente del Classico, vestito con abiti di sartoria di prima qualità e capelli in perfetto ordine, contro uno studente dell'Artistico, con addosso dei jeans strappati o larghi e maglioni di tre taglie in più e capelli colorati o rasati, la prima impressione parla chiaro e tondo.
È palese che se un Leonardo Aspromonte o un Alberto Del Bianco punta il dito contro un Diego Falco o una Matilde Castellani automaticamente vengono dati per scontati il torto e la ragione. Vengono dati per scontati grazie alle apparenze del cazzo, non per quello che realmente siamo o dimostriamo; per cui dobbiamo veramente, ma veramente, stare attenti, tenere due occhi aperti anziché uno.
Non dobbiamo farci prendere di sorpresa, non dobbiamo farci calpestare, dobbiamo tenerli sotto costante osservazione e anticipare ogni loro mossa, qualsiasi mossa.
Tanto per averne la certezza solida decido di riprendere fra le mani il mio cellulare, appoggiato precariamente sulla piccola mensolina dove mamma tiene in bella vista tutti i suoi cosmetici. Voglio rileggere ancora una volta il messaggio di Leonardo, ancora senza una risposta da parte mia.
Lo rileggo una seconda volta. Lo rileggo una terza volta. Lo rileggo una quarta volta addirittura. Tanto per farmi ficcare in testa con la stessa pressione di uno stiletto ciò che ha scritto, anche con troppa superficialità.
Al di là dei simpatici nomignoli che ha affibbiato a Marco e a Diego, rimanendo per oltre stupita che non ne abbia trovato uno anche per DarthMart, la parte che più non mi va giù è quella in cui ci dice che praticamente noi dobbiamo rimanere buoni e mansueti. Che non dobbiamo farci gli affari loro poiché altrimenti sarà automatica la sua vendetta.
"Ti dico solo che dovrete stare bene attenti a non farvi troppo gli affari che non vi spettano, avvisati. Altrimenti sarò implacabile".
È una minaccia, lo capisco, tuttavia non ho paura. Come non avrebbe paura nemmeno Marta, nemmeno Marco, né tanto meno Diego! È il tono che urta leggermente i nervi.
«Dobbiamo fare qualcosa per Laira» constato dopo questo ponderare infinito mentre mi vado a sedere sul water, chiudendo tempestivamente il coperchio.
E non importa un accidente se quelli del Classico ci renderanno ancora una volta la vita scolastica un inferno, anche noi dell'Artistico faremo altrettanto. Siamo composti di pasta dura noi artisti. Non ci siamo mai piegati e non lo faremo di certo ora in vista delle elezioni. L'importante, bensì, è proteggere quella ragazza adesso, di non farla andare in mezzo alla merda per colpa nostra.
Era liberissima di starsene in silenzio, di non dirci nulla, di non avvertirci per paura e per timore delle conseguenze contando la bastardaggine di Aspromonte. Invece ha fatto la sua decisione e ha scelto di battersi in onore della sua fazione — a me lei direbbe tutto.
L'orario suggerisce che ancora è troppo presto per andare da Marta, a casa sua, ma preferisco non badarci. Devo immediatamente correre da lei a raccontarle e mostrarle tutto. Avrò bisogno del suo aiuto e del suo supporto.
Quindi abbandono la postazione del bagno per andare a infilarmi il giacchetto, infilarmi le fibbie dello zaino nelle spalle — perché comunque avremmo dovuto fare i compiti — e, senza nemmeno districare l'elastico dai miei capelli, esco dalla porta di casa, richiudendola senza grazia alcuna. Come sempre.
Infischiandomene altamente di mademoiselle Rossini e del suo fine udito del cazzo.
Marta non abita troppo lontano dal mio palazzo, si parla di sette o otto vie più in là. Una distanza percorribile facilmente a piedi, soprattutto se si cammina con passo spedito quasi a essere rincorsi da qualcheduno con cattive intenzioni.
Tempo, non ho tempo da perdere — troppo veloce egli scorre quando si ha necessità di averne di più, troppo inclemente, mostra eccessivo rigore.
E io prima arrivo da Marta meglio è. Poco è di rilevanza se rischio di collidere contro le persone che camminano nella direzione opposta alla mia, e non importa se per immane disgrazia dovessi inciampare per poi schiantarmi a terra. Oggi ho fretta e sarei in grado di giustificare anche qualche ammaccatura di percorso.
Per volere della casualità — sequenza di frammenti di secondi —, saetto l'angolo delle iridi sulla vetrina lucida di un bar e ciò che si riflette sopra di essa è la prova inconfutabile che ho assunto le fattezze di una vera sociopatica.
Ciuffi di capelli volteggiano in ogni dove, sfuggiti in parte dallo chignon per via del vento, punta del naso dove pare sia appena sbocciato il frutto di una mora, e le guance, dal contorno arrossato, lambite dal freddo sferzante.
Sono stata sbadata... ho dimenticato la mia fedele sciarpa proprio nel momento del bisogno, abbandonata sulla spalliera della sedia a dondolo.
Tengo le mani ficcate in tasca, dita appiccicate l'una contro l'altra, avanzando con le spalle ingobbite e il capo piegato in avanti, quasi che voglia somigliare a tutti i costi a uno di quegli arieti usati nell'antichità per sfondare i portoni delle cittadelle.
Poco m'interessa del decoro in momenti come questi.
La mia amica vive in un palazzo dall'effigie antica, e il portone che ne abbellisce l'ingresso ha un che di solenne e di piacevolmente vecchio, il pomolo di ottone bronzeo dona lui di armonia; e quando finalmente arrivo dinanzi a lui, sfilo fuori la mano dalla calda tasca del giubbotto per premere sul campanello della famiglia Brunori. L'indice vibra di gelo non appena viene sfiorato dal freddo pungente di fine ottobre e inizio novembre — peculiare nella sua singolarità, visto che è perennemente indeciso.
Marta non mi sta ancora aspettando, ne sono certa, ma di sicuro saprà perdonarmi per questa mia improvvisata. Saprà passarci sopra quando saprà.
«Sì, chi va là?» risponde dopo dieci secondi esatti la voce di suo padre, tremendamente soggetta a cadenza toscana.
Mi sforzo di non mettermi a ridere, ogni santa volta è una vera sfida resistere. Lucio Brunori ha un timbro vocale talmente acuto e squillante che pare di stare ad ascoltare Roberto Benigni — tanto abbonda di simpatia e senso dell'umorismo.
«Sono Matilde. Potrei salire?» dico con un tono alquanto stridulo a ornarmi le parole, colmo di lotta interiore affinché non scoppi a ridere in faccia al citofono!
«La Matilde, come no! Sali, sali, cara» esclama riconoscendomi, rimettendo giù e aprendomi velocemente il portone.
Senza attendere oltre, entro all'interno del palazzo, beandomi di quel piacevole tepore che fuoriesce dalle pareti; dolce sensazione nasce all'estremità delle dita delle mani, fino a irradiarsi per tutto il corpo.
Marta abita al terzo piano e per me è sempre una buona occasione per fare attività fisica, oltretutto non mi piace granché l'attesa dell'ascensore. Le mie gambe sono parecchie attive in questa giornata, saggio è approfittare.
Giunta al pianerottolo della famiglia Brunori trovo un uscio semiaperto ad attendermi, spingo tirando sul col naso e come spalanco la porta trovo una Marta piuttosto sorpresa di avermi qui.
È priva di scarpe e la sua chioma argentea è sistemata in due trecce assai allentate e sbarazzine. Un po' come il mio chignon... Le sue iridi verdi sono spalancate — smeraldi che scintillano di luce propria — e le sopracciglia innalzate all'insù; ciononostante le sue labbra sono piegate in un morbido sorrido, il che la fa sembrare sociopatica quanto me.
«Mats, come mai così presto? Ti aspettavo per le tre e mezza, quasi le quattro» mi domanda meravigliata, «ero in bagno a fumarmi il secondo drum».
Al che, decidendo di non proferire parola, tanto sarebbe stato inutile, tiro fuori il mio telefono, già aperto sulla chat di Leonardo in modo da non doverla andare a ricercare.
DarthMart impiega pochissimi attimi per leggere quelle due righe, facendo saettare le pupille da sinistra verso destra e viceversa. Contrae la bocca in una smorfia di sdegno e aggrotta la fronte al contempo, portandosi il dito indice e il pollice contro il mento. Un bel punto interrogativo le spunta proprio sopra i capelli da fatina.
Poi, finalmente, riporta la sua attenzione su di me, abbandonando lo schermo e la chat di Messenger. Stavolta la sua è un'espressione guardinga.
«Come mai quel cretino è fra i tuoi amici di Facebook?» mi chiede inarcando un sopracciglio.
Ma come? È davvero questa la prima cosa che vuole sapere?!
«A essere onesta non sapevo nemmeno di averlo in lista, sicuramente devo averlo aggiunto nel mio raptus da nuova liceale in primo anno. E poi mi sono dimenticata di cancellarlo a tempo debito... ma non è questo l'importante, andiamo!» le spiego velocemente, scuotendo il capo. «Senti, possiamo andare in camera tua? Tuo padre mi sta simpatico ma non mi va di fargli sapere del perché abbia Leonardo Aspromonte fra gli amici di Facebook» al che aggiungo, implorandola con gli occhi.
«Come no, vieni» acconsente Marta, capendo il mio punto di vista.
Mi fa strada — anche se ormai conosco casa sua come conosco mia madre e mio padre — per raggiungere il suo piccolo spazio privato.
Uno spazio costellato di poster di Star Wars, di poster di anatomia delle piante e di fogli A4 e piccole tele, entrambi ricoperti dei suoi splendidi e delicati disegni.
La sua stanza ha quel che non so che di mistico che riesce a farti imbambolare per qualche minuto, facendomi perfino dimenticare il tuo nome.
Sul pavimento, sopra il legno del parquet, vi è disteso un largo e variopinto tappeto asiatico dalle mille e mille cuciture, ognuna diversa dall'altra, imbastite in numerose righe verticali. È il nostro posto prediletto sia per studiare, sia per fumare, sia per ubriacarci quando serve, sia per parlare di quanto siamo insoddisfatte del mondo e della società. Preferiamo di gran lunga questo tappeto alla morbidezza del suo letto.
Per ogni superficie c'è posta una piantina con il proprio vasetto; il bonsai ficus e il bonsai olmo sono senza dubbio i miei preferiti, non che mi dispiaccia la sua carinissima piantina carnivora. Tutte loro hanno il proprio perché e una propria bellezza racchiusa.
È una camera quasi esotica, quella di Marta, finché alzi gli occhi e t'imbatti nei poster di Luke Skywalker, dell'Impero e di Darth Vader , allora sì che tutto quell'esotismo finisce per essere ridotto in miriadi di brandelli. Ma non mi azzardo minimamente a giudicarla, lei è fissata con Star Wars, io sono fissata coi film cult degli anni novanta.
Non è una novità se nella mia camera ci s'imbatte in un poster di Mia Wallace stesa sul letto a fumare la sua storica sigaretta, in un poster di Fight Club oppure in un poster di Edward mani di forbice.
Rappresenta il mio piccolo angolo di paradiso — personale, intimo, che spiega la mia essenza senza dover spendere vocaboli o frasi inutili, di troppo. Là dentro non c'è nessuno che mi giudica. Solo io ho quel potere, soltanto io ne sono la sovrana.
«Hai altro da dirmi oltre chiedermi il perché abbia Leonardo come amico?» esordisco sedendomi sopra il tappeto, in uno dei cuscini che Marta è solita a tenerci.
«Sì, scusami. Sai che è comunque bizzarro, no?» annuisce lei imitandomi, accomodandosi accanto a me a gambe incrociate.
«È stra-bizzarro! Ma purtroppo non è questo il nocciolo della questione» esclamo rabbrividendo all'idea di Leonardo Aspromonte nell'elenco dei miei amici virtuali, effettivamente fa strano.
«Già. Ad ogni modo mi par di capire che, stando a quello che ti ha scritto, abbia un certo rancore per la lingua lunga che ci ha riferito del suo colloquio con Gandolfo. Il che spiega che se venisse a scoprire che l'artefice è Laira, gliela farebbe pagare. Non so come, ma so che gliela farà pagare» proferisce la mia amica pensierosa, una smorfia apprensiva le affiora sulle labbra.
«Appunto. Io e te ci cuciremo con filo di ferro la bocca e metteremo anche un chiodo sulle nostre lingue, se necessario. Solo io e te sappiamo di Laira, giusto?» convengo io mimando il gesto del cucirsi la bocca.
«Uhm, Diego sa che la soffiata ce l'ha fatta una ragazza di terzo...» spiega lei grattandosi il collo.
«Con Diego ci parleremo, ma preso com'è da questa faccenda dei Rappresentanti se ne sarà scordato. Ci scommetterei dieci euro! E poi Diego non farebbe mai la spia a uno del Classico, figurarsi a Leonardo poi. Mai!» dichiaro tranquilla, abbassando le palpebre con delicatezza.
«Dobbiamo parlare anche con Laira, allora! Deve sapere in quale situazione si è andata a cacciare» esige Marta battendosi un pugno sulla coscia, molteplici anelli dalle molteplici pietre risaltano sulle sue dita sottili.
«Lo faremo, di nascosto. Non dobbiamo insospettire nessuno» confermo io mentre che appoggio lo zaino al mio fianco.
«E soprattutto tu non dare troppo peso all'opinione di Leonardo, ho notato il tuo sguardo quando mi hai mostrato il messaggio. Te la prendi troppo per nulla» aggiunge lei con quella pacatezza tipica di coloro che hanno la ragione dalla medesima parte, abbassando dolcemente lo sguardo. Quello sfavillio verde rivestito dalla coltre fosca delle ciglia, lunghe, sinuose, che danno la percezione di nero merletto.
«Ha chiamato Diego "zecca" e Marco "zombie"... avrebbe appioppato un soprannome del cazzo anche a te, ma questa volta ha deciso di evitarlo per chissà quale motivo!» esclamo colta sul vivo, alzando la voce senza che me ne renda conto.
Ma come fa Marta a non prendersela? Se solo penso che lui ha soltanto osato nominare i miei amici mi sale una rabbia di quelle talmente cocenti che potrei incendiare qualsiasi cosa, chiunque, con una sola e semplice occhiata.
Ci risiamo.
"Calma, Matilde. Stai serena, pacata, tranquilla, pacifica. Pensa a John Lennon".
«Non m'importa, poteva anche chiamarmi "vomito argentato" o "rimasuglio di spazzatura". Ma sinceramente non me importa un accidente. Per me Leonardo non conta niente, di conseguenza conta niente anche tutto quello che pensa e dice» tenta di farmi ragionare con la sua solita fermezza e giustizia, imparzialità esemplare, «scommetto che anche Marco la pensa così».
«Aspetta che venga a saperlo Diego! Poi vedrai che guerra che verrà fuori» ribatto citando l'altra faccia della medaglia, l'opposto di Marco, Ares furente.
«Okay, senti, adesso tralasciamo. Ho visto che ancora non hai risposto e una risposta va data, suvvia! Apriamo quella chat e facciamo le persone educate e civili» propone DarthMart indicando il cellulare stretto fra le mie dita, i tendini così contratti che pare si vogliano strappare da un momento all'altro. «Non m'importa dei nomignoli che ci affibbia, però mi rode del fatto che in qualche maniera ci abbia minacciato. Se fosse per lui ci farebbe scomparire addirittura dalle schede di voto» continua a dire e stavolta il tono s'inasprisce.
«Tranquilla, so già come rispondere. Mentre venivo da te ci ho riflettuto adeguatamente» la rassicuro facendole l'occhiolino — la rabbia che sento scivolare via come pioggia su gelidi vetri.
Sblocco per l'ennesima volta il cellulare e la chat sta lì, nella sua orribile esistenza.
Scrocchio entrambi i pollici delle mani prima di iniziare a digitare la replica perfetta, la replica che avrei dovuto scrivere buoni minuti fa.
Io, 15:09
- Già, io, la mia amichetta Marta, la zecca di Diego e lo zombie di Marco abbiamo preso la splendida decisione che poi tu hai "scoperto", a quanto sembra. Ma tranquillo, sei l'ultimo dei nostri pensieri, se ci candidiamo non è per fare un "dispetto gnegne, ripicca gnigni a te e ai tuoi amici!". È per dare voce anche all'altra metà del Caravaggio. Una voce giusta.
Termino di scrivere, sollevo le dita e allungo il braccio in direzione di Marta affinché possa prendere l'apparecchio e avere lo schermo in bella vista.
«Gliel'ho appena inviato, spero non ti dispiaccia» enuncia Marta con un sorrisetto decisamente beffardo e le pupille che suggeriscono un che di provocazione.
«Per niente» la rassicuro.
«E ora che abbiamo sistemato il dio Apollo, vogliamo dedicarci al come far recuperare il tre di storia dell'arte a Marta Brunori?» suggerisce infine assieme a un profondo sospiro, talmente lungo che pare una raffigurazione teatrale.
«Non vedo perché no! Prendi il libro, io tiro fuori i miei appunti» annuisco esibendo ciò che è un divino sorriso di vittoria.
Uno è sistemato, adesso tocca a Lunanuova.
Prima di dedicarci con anima e corpo alla materia di Lunanuova, io e Marta decidiamo di portare a termine prima i compiti d'inglese della professoressa Drago, svolgendo tutte e quattro le pagine degli esercizi che ci ha assegnato.
Ce la caviamo niente male con la sua materia dal momento che siamo fissate col vedere i film e le serie tv in lingua originale; la prof. apprezza tantissimo questa nostra filosofia di unire l'utile al dilettevole.
Inoltre, sempre io e la mia amica, abbiamo sperimentato sul campo andando a Londra l'estate di quest'anno, fermandoci un mese. Abbiamo chiacchierato senza problemi, abbiamo parlato fluentemente un buon inglese — il segreto è non pensare troppo a ciò che si vuole dire.
Dopo aver chiuso la copertina dei nostri libri d'esercizi in via del tutto ufficiale, siamo passate veloci come la luce alla materia temibile esercitata dall'oscuro professore. Ho indicato a Marta ogni singola frase che avevo sottolineato e che avevo ripetuto prima dell'imminente interrogazione, pagina dopo pagina; poi le ho messo davanti il quadernone ad anelli con i miei riassunti, in grafia ordinata e priva di qualsivoglia sbavatura.
Le ho spiegato che sarebbe stato geniale sorprenderlo portando un argomento a piacere, esponendolo in maniera impeccabile, magari preparandosi un discorso in precedenza, magari.
Quindi, oltre che a guidarla nei meandri meravigliosi dell'Espressionismo sentendomi come Virgilio con Dante, l'ho convinta a studiarsi uno degli argomenti affrontati proprio all'inizio del mese – e anche uno dei più belli in assoluto –, Henri Matisse. Sarà il suo asso nella manica, sono sicura che la porterà dritta dritta nelle spire di un bel voto. O perlomeno dignitoso.
Altrimenti l'ho autorizzata a tirargli dritto in faccia libro e quaderno messi insieme, cosicché da cancellare da quel faccino angelico quell'espressione in continuo essere mortifera e crudele.
L'orologio che tengo legato al polso destro segna le diciassette e quindici del pomeriggio, ed è l'orario perfetto per fare merenda, assimilare zuccheri. Alle diciassette e quarantacinque avremmo ripreso le redini dello studio: io come insegnante, Marta come allieva.
Per questo piccolo riposo DarthMart ha preparato un tè verde bollente versato in tazze dagli orpelli asiatici — di quella lontana ed eterea delicatezza giapponese —, un toccasana mentre ci lasciamo cullare dal suono della pioggia, minuscole goccioline scorrono sulla superficie liscia della finestra, lasciando scie al loro passaggio.
E, giusto per mettere qualcosa sotto i denti, ha riempito una ciotola di una quantità smisurata di M&M's.
Entrambe riverse sopra il tappetone — io con un cuscino sotto i gomiti, Marta con un cuscino sotto la schiena — mangiucchiamo gli M&M's con aria quasi svogliata, e io ne scelgo con cura il colore. Blu e giallo, le tonalità che mi permettono di sgranocchiare quello snack che tanto ho temuto, che tanto mi sono trattenuta addirittura dal guardare.
Blu e giallo — convinzione che avere uno schema mi avrebbe aiutato ad accettare, convinzione che scambiavo per mera concessione a me stessa.
"Niente blu e giallo? Perfetto, allora non si mangia", mi ripetevo spesso.
«Secondo te Emilio Lunanuova ha Facebook?» pronuncia la mia amica a testa in giù, il proprio cellulare tenuto in alto grazie alle sue braccia distese.
«...Lunanuova non mi pare un tipo da Facebook. Cosa t'interessa vedere?» replico inarcando un sopracciglio, un dubbio atroce che fa capolino dal quel dei miei pensieri. Dubbiosa perché — di prassi — "voglio vedere se X ha Facebook" è sinonimo di "voglio farmi i cazzi suoi e sficcanasare nella sua vita quotidiana".
«Nemmeno tu sembri un tipo da Facebook e se è per questo nemmeno io, eppure ce l'abbiamo entrambe! Ci siamo iscritte addirittura lo stesso giorno» mi fa presente con una risatina di scherno, rimettendomi in mente il giorno d'estate dell'anno in cui avevamo concluso il primo superiore, il giorno afoso in cui ci siamo iscritte impaurite in quel sito così tanto famoso e così tanto misterioso.
Facebook, ai tempi, era un qualcosa che se ce l'avevi ti rendeva automaticamente fico. Ancor di più se avevi MSN.
Io e Marta eravamo spaventate ed elettrizzate al tempo stesso, scariche di adrenalina percorrevano le nostre membra — spaventate perché l'idea di mostrarci al resto del mondo grazie a una fotografia incollata su in alto a sinistra dello schermo ci faceva immane terrore, elettrizzate perché avrebbe voluto significare che anche noi potevamo far parte del gruppo dei "fichi" e di conseguenza avremmo potuto partecipare alle chat, avremmo potuto essere taggate nelle fotografie, avremmo potuto sbirciare le foto del ragazzo che ci interessava... una bella giornata quella, sì.
Bella e buffissima. Piacevole ricordo che s'inalbera dentro la mente, radici di luce e di allegria che si propagano ovunque, istigando gli angoli delle labbra a piegarsi all'insù.
«Cosa t'interessa vedere?» ripeto stavolta non nascondendo quel tono da "ti ho scoperto".
«Voglio cercare dettagli sulla sua vita privata ed eventualmente sputtanarlo in caso mi ridesse un tre» mi spiega DarthMart lanciandomi un'occhiataccia, «è curiosità la mia, Mats. Cosa va a pensare quel tuo cervellino contorto?».
«Mah, siccome sei sempre una che non si fa mai gli affari degli altri e non si mette quasi mai a cercare qualcuno nemmeno per la minima curiosità su Facebook...» alludo tenendo volontariamente lo sguardo lontano dal suo; in primis perché so che la sto prendendo di proposito in giro e in secondo luogo perché son sicura che mi stia guardando male.
Quei suoi occhi... sono fiamme e gelo al tempo stesso. Nessuno sarebbe in grado di resistere sotto quell'intensità, nessuno.
«Matilde» pronuncia lei come volevasi dimostrare, il tono di voce contrariato e con una nota di ammonimento, «ti faccio mangiare il mio cactus per intero. Non sparare stronzate».
«E io t'infilo la spada laser su per il culo! Oh, andiamo! Stai cercando Lunanuova su Facebook, questa è nuova... e la rima non era prevista» esclamo con vivacità, mettendomi seduta sulla ginocchia.
«Non osare mettere in mezzo le spade laser, nemmeno se si tratta delle mie chiappe! E comunque sì, sono solo curiosa, voglio vedere che tipo è al di fuori del Caravaggio» asserisce mentre mi fa il dito medio, mandandomi a fanculo con aggraziata eleganza.
«...per poterlo sputtanare in caso ti dovesse riappioppare un tre» finisco per lei, ripetendo le sue stesse parole di prima.
«Esatto» afferma Marta tirandosi su e mettendosi seduta a gambe incrociate. Siamo faccia a faccia.
«L'hai trovato?» chiedo dopo un piccolo lasso di tempo di pausa, andando a tastare nelle tasche del giacchetto in cerca del mio pacchetto di sigarette.
«Oh yes!» mi risponde senza alzare lo sguardo dallo schermo, «Non ha nemmeno il profilo con la privacy, posso aprire la sua immagine», e lo dice come se si trattasse di un miracolo con tanto di luce divina.
«Fa' vedere» taglio corto con la Winston fra le labbra, allungando la mano in attesa che mi dia il suo cellulare.
Marta mi passa l'apparecchio e quando lo giro verso di me rimango piacevolmente sorpresa.
L'immagine del profilo ritrae il nostro professore in una tenuta assai singolare quanto pittoresca. I suoi lunghi capelli corvini sono i primi a essere presenti, lucenti e bui come notte liquida, poi l'attenzione viene proiettata verso un foulard rosso opaco legato attorno al collo e a un mantello di pelle color baio. Nella fotografia è immortalato con espressione seria, quasi solenne, senza l'ombra d'un sorriso. Nemmeno il più piccolo accenno.
Ma nonostante l'assenza di riso e gioia nei suoi lineamenti, comunque non viene oscurata la sua evidente bellezza. Armonia di sembianze umane, perfettamente mescolate al contorno del volto e al colore delle pupille, connubio raro e sublime da ammirare. Poiché lo è, è un qualcosa di sublime.
«Non è effettivamente malaccio, il prof. . Compensa la sua stronzaggine con la bellezza» faccio spallucce dicendo la verità e restituendo il telefono a una Marta con gli occhi totalmente fuori dalle orbite. Il verde delle iridi la fa sembrare più schizzata del solito.
«Hai notato solo quello? Non hai notato altro?» sottolinea ella quasi tremando dall'eccitazione.
«Che gli dona persino un mantello di pelle?» azzardo a pronunciare mentre mi accendo la Winston.
«Che recita a teatro, il bastardo! Riconosco lo sfondo che ha alle spalle e quello è sicuramente un set teatrale, è anche travestito» esplode DarthMart come se avesse appena realizzato una scoperta sensazionale, infilando il viso dentro quel piccolo schermo, «e comunque preferirei largamente avere come professore Harrison Ford o Malcolm McDowell ai tempi di Arancia Meccanica. Meglio loro, mille volte» aggiunge dopo essersi resa conto troppo tardi della mia battuta, guardandomi di traverso.
«Non male Harrison Ford. Comunque che cosa t'importa se fa teatro? Anzi, da questa informazione cosa ne ricavi? Proprio non ti capisco, DarthMart» roteo gli occhi di fronte alla sua inspiegabile euforia, tirando su in tiro dalla sigaretta e buttando fuori il fumo.
«Che appena avrò in mano la lista dei suoi spettacoli andrò a vederlo a teatro, portandomi dietro una cesta di pomodori maturi per tirarglieli addosso appena entrerà in scena. Easy» mi spiega Marta agitando l'indice. Una certa aria saccente le spunta in volto.
«Dopo sì che ti ricovereranno per instabilità mentale. Ritorna a pensare al tuo Alex DeLarge, piuttosto» le suggerisco ironica.
«Uhm, a proposito di ragazzi e di Alex DeLarge... confesso che un po' mi manca il sesso. Dico così perché siamo in contesto di "ragazzi", giusto?» confessa ella sdraiandosi nuovamente per il tappeto, con lentezza, quasi si stesse stirando i muscoli.
Caspita... solo pochi minuti fa stavamo parlando di Lunanuova e della sua doccia di pomodori. Adesso siamo magicamente passate all'argomento "sesso"?
Marta sa essere maliziosa quando vuole, ma guarda caso non riesce a mostrare questo lato quando davvero serve. Anzi, quando è davanti a un appetibile ragazzo interessato a lei l'unica cosa che le riesce di fare è diventare fredda come la neve della montagna che attecchisce sulle vette più alte. Di conseguenza intimorendo il povero sventurato, per poi fargli patire le pene dell'inferno.
La conosco da tempo, ormai, Marta.
La mia Marta... Marta ha paura di amare, ha sviluppato un certo terrore verso l'amore nel giorno in cui lo ha fatto per la prima volta con il ragazzo di cui era innamorata persa.
Lei troppo invaghita di lui, lui troppo noncurante dei sentimenti degli altri. Lei troppo sincera, lui troppo immaturo. Lei così felice di quel giorno speciale, lui così felice di aver aggiunto un'altra tacca alla sua "cintura".
Lei così candida, lui così mostro. Lei così se stessa, lui così ritratto di anonimo contesto liceale.
In parole povere ne rimase distrutta, Marta fu ridotta in tanti e molteplici piccoli frammenti — troppi per essere riuniti e riaggiustati fra di loro, troppe identità vennero create, troppo discordanti per essere intersecate una seconda volta — a tal punto che prese ad andare a letto con chiunque le andasse a genio.
Senza remore, senza interrogarsi in istanti di riflessione.
Non era sinonimo di "facili costumi", era sinonimo di annichilimento, di insicurezza, di perdita del proprio io, di umiliazione, demolizione delle proprie credenze. E io non l'ho mai giudicata per questo; l'unica cosa che potevo fare, che ho fatto, è stata quella di convincerla a smettere, perché non era quello il modo giusto per dimenticare o di vendicare un torto.
Altrimenti avrebbe davvero perso se stessa per sempre — io non volevo affatto che Marta Brunori diventasse un'altra persona per colpa di un coglione.
Per fortuna è ritornata a essere la solita DarthMart, fissata con Star Wars e con la sua mania di tingersi i capelli; l'unico sfregio che tutt'oggi porta sulla propria pelle è questo, il fatto che non sappia più approcciarsi con un ragazzo. Il fatto che non voglia nessun tipo di legame affettivo. La inesorabile paura di rimanerci fregata come la prima volta e di ricadere nel circolo vizioso della sregolatezza e dell'eccesso.
Paura di essere plasmata sotto le mani di qualcun'altro, mani estranee — e lei ha molto a cuore la Marta del presente, ne custodisce gelosamente ogni sfaccettatura, negandosi agli altri.
«Ti manca il sesso?» ripeto a pappagallo leggermente stranita.
«Sì, insomma, non si può negare che sia un'attività da abbandonare al cento per cento. In alcuni momenti mi viene voglia di fare sesso, ebbene sì» conferma Marta con semplicità, «a te non manca?».
«A essere onesta, da quando mi sono lasciata all'inizio del terzo anno con Gabriele e dopo aver avuto quello pseudo-qualcosa la scorsa estate con quel ragazzo inglese non mi è più venuta chissà quale voglia di farlo. Preferirei non andare a letto con nessuno ma soltanto con quel qualcuno cui avrò stabilito un legame profondo. Voglio farlo con qualcuno che davvero amo e non un qualcuno per quale ho solamente un'ossessione... per Gabriele è stato così, ricordi?» dico facendo qualche piccola pausa di silenzio fra un vocabolo e l'altro.
Mamma mia, ne è passato di tempo da quando mi sono lasciata con Gabriele... mi sono messa con lui in secondo anno, ed ero letteralmente fissata con lui.
Frequentava il quinto anno dell'Artistico quando ci siamo fidanzati; Gabriele Pomerani era proprio il ragazzo più ambito del nostro indirizzo, quasi inarrivabile. Era l'alternativo per eccellenza, innamorato di V per Vendetta, dei graffiti alle pareti, della musica di Bob Marley, Tupac e dei Sex Pistols, innamorato di ogni cosa riguardante la rivoluzione cubana. Odiava qualsiasi contatto tecnologico, l'omologazione, il non sapersi valere per quello che sapeva fare e che amava.
Usava portare quattro dreadlocks nei suoi lunghi capelli biondi — come bruciati dal sole —, quando legava la chioma e i restanti li lasciava liberi essi ondeggiavano armoniosi sopra le sue larghe spalle. Era di ideologia piuttosto utopica e al cento per cento contro il capitalismo e l'oppressione, non nascondeva il suo interesse per l'anarchia.
A noi ragazze dell'Artistico faceva lo stesso effetto che fa Leonardo con le studentesse del Classico. Quando uno come Gabriele Pomerani ti metteva gli occhi addosso, il che era seriamente un miracolo visto che aveva un carattere molto particolare e complicato, avevi motivo di essere la persona più felice della Terra.
Io ero partita di testa per Gabriele, da quando misi piede dentro il Caravaggio per la prima volta. Contai i giorni da quando avvenne. Lo vidi e non me lo tolsi mai più dai pensieri, per l'appunto ne ero talmente fissata che diventò un'ossessione, non tanto amore.
Me lo imposi come obiettivo: quando frequenti danza classica t'imponi a priori un obiettivo, che sia quello fisico o che sia un qualcos'altro, l'importante era avere uno scopo. In primo anno era già in atto, il mio obiettivo, ossia perdere peso, dimagrire.
Mi vedevo orrendamente grassa. Portavo avanti la mia missione in silenzio, ostentando sorrisi e felicità inesistente, mescolandola con immensa bravura a vestiti sgargianti e capelli variopinti, a parole intrise di miele e a svariati tentativi di rassicurare gli altri sulla mia salute. E quando mi interessai a Gabriele feci di lui il mio obiettivo finale. Sarei arrivata a raggiungere il peso perfetto e solo allora sarei potuta essere degna di lui.
Poiché i numeri, per me, rasentavano l'ideale di perfezione proibita. Pian piano ne stavo ottenendo l'accesso — e sapevo che quell'accesso era destinato a pochi eletti.
...Quale sciocca ragazzina che ero...
«Eccome se lo ricordo...» mormora Marta, anche lei immersa in quella melma di ricordi poco piacevoli, oscuri, tutt'altro che gioiosi.
«Già, per cui sarà quel che sarà. Chi lo sa, magari conoscerò la persona giusta prima che finisca l'anno, magari la conoscerò quando compirò vent'anni o magari la conoscerò fra trent'anni suonati. Non importa, voglio aspettarla, voglio sapere com'è questo misterioso amore» ammetto facendo una risata sincera, per sdrammatizzare. Devo sdrammatizzare.
«Dovrei anche io ragionare un po' come te, solo che ho paura... paura che a un certo punto metta le ragnatele là sotto» mi dà ragione DarthMart scoppiando a ridere quando termina la frase, indicandosi le proprie parti intime.
Sfacciata.
«Prima che faccia una battuta troppo sconcia anche per noi due, vorrei ritornare a storia dell'arte, per cortesia!» esclamo con vigore, mimando il verso di chiudermi la bocca come una zip.
«Sì, ottima idea, idea eccellente» la mia amica mi dà la sua approvazione, raccattando le nostre tazze giapponesi ormai vuote al fine di riportarle in cucina. «Ti ha risposto Leonardo?» s'informa poco prima di varcare la soglia della stanza.
Scuoto la testa in segno di diniego, «Negativo. Avrei sentito la notifica».
Ma tanto per essere sicura voglio controllare se abbia almeno visualizzato il mio messaggio. E vengo esaudita, il dio Apollo ha visualizzato esattamente venti minuti dopo il mio invio e non s'è preoccupato di darmi un responso.
«Ma ha visualizzato» la avverto anche se non credo che con questa notizia ci possiamo fare chissà quanto.
«Tipico» alza le iridi al cielo, per niente stupita.
«Marta» richiamo di punto in bianco la ragazza dalla chioma argentea.
«Che c'è?».
«Mi raccomando, non dobbiamo assolutamente, per nulla al mondo, fare il minimo accenno a Diego di questa faccenda. Chiaro?» le lancio un'occhiata d'intesa, mista anche a una punta acuminata di severità.
«Stavo per dirtelo io» è la sua risposta.
«Stamani ti vedo più sicura di te» si complimenta la mamma dal sedile del passeggero, osservandomi con la coda dell'occhio e con un che di inquisitorio — sempre accorta a ogni mio movimento.
Tutto sommato, ha pienamente ragione; non sono affatto tesa e i nervi non li sento aggrovigliati come l'altra mattina. Non ho frasi da ricordare per un'ipotetica interrogazione a mettere radici per la testa.
Nessuna ansia da prestazione, nessun cuore che freme come il battito d'ali d'un uccellino, nessuna goccia di sudore freddo, nessuna distrazione, nessuna angoscia in generale. Niente che possa distogliere la mia attenzione/concentrazione dalla strada, dalle mie mani ben strette sul volante, dagli specchietti retrovisori e dal contagiri.
Questo martedì mattina potrei anche guidare per ore se solo lo volessi, lo farei con serenità e priva di pesi sull'animo.
Mi sento così leggera — batuffolo di cotone che volteggia nel vento — e al tempo stesso carica, pronta a bruciare di fiamma viva; guidare la macchina è una qualcosa che ho scoperto di adorare, lo reputo un attimo di fugace evasione, un piccolo limbo sospeso fra due metà, concezione di realtà e di sogno.
Persino Alessandra, la mia tenera insegnante di guida, si è congratulata con me, ha detto che è un piacere trovare un giovane talento naturale come il mio, la reputa una certa soddisfazione personale.
«Stamani non ho alcuna interrogazione, si vede» la correggo con un sorriso radioso a decorarmi gli angoli delle labbra, esalando un sospiro di liberazione.
«Stamani nessuno ha osato suonarti il clacson contro, una vittoria!» mi schernisce la mamma allungando il palmo della mano verso di me, le dita ben distese, in attesa di un batticinque.
E la accontento subito, ricambiando con un bel cinque memorabile. Un flebile attimo di felicità da condividere.
«Festeggerei volentieri stasera ma, ahimè, lavoro» dichiaro fingendomi triste e mimo il gesto di asciugarmi una lacrima invisibile proprio sopra lo zigomo.
«Che film ci sono stasera?» mi chiede Adele con gentilezza.
«In Sala Uno c'è Guardiani della Galassia, in Sala Due c'è Sin City e nella Sala Tre Annabelle» la informo dopo aver riflettuto per qualche secondo sulle locandine che Giovanni – il proprietario del cinema Arcadium dove svolgo il lavoro di cassiera – si è occupato di affissare nelle apposite vetrine all'esterno del locale.
«Probabilmente io e una mia collega verremo a vederci qualcosa. Forse Sin City, non è nel mio genere Guardiani della Galassia e non ho affatto voglia di horror, Annabelle bocciato a priori» mi spiega la mamma con quel suo tipico tono da eterna bambina.
«Vieni con chi vuoi. Più gente porti, più Jevanni guadagna, più dà le mance a me» dico con espressione furbetta, chiamando il mio capo con l'epiteto con cui l'ho simpaticamente rinominato.
«Ci penserò».
Una volta arrivata nella strada dove si trova il liceo Caravaggio posteggio la Yaris al solito angolino, tirando il freno a mano e lasciando la marcia in folle, dando modo alla mamma di scendere e di risalire dalla parte del conducente.
Prendo lo zaino dai sedili posteriori prima di mettere i piedi per terra e ho la premura di stringermi ancor più la sciarpa attorno al collo, avvolgendola con accortezza e liberando dall'incastro i miei capelli in balìa di un caos tutto loro. Più tardi li avrei legati se avessero continuato a rimanere indomabili.
Quando mi sono svegliata ai primi chiarori dell'alba, i miei ciuffi rosei somigliavano a un grazioso nido di merli, annodati deliziosamente insieme, ciocca su ciocca — apparivano carini e armoniosi nel loro disordine —, quindi ho preferito evitare anche di sfiorarli appena con la spazzola.
Tuttavia un elastico per le emergenze me lo sono comunque portato dietro, infilato sul polso.
«Ci vediamo all'uscita, ma'. Stavolta niente scherzi e niente improvvisate. Marco non è un taxi» la ragguaglio puntandole contro il dito, una velata minaccia, riferendomi alla circostanza del giorno prima.
«Promesso, finisco a mezzogiorno e trenta come sempre» mi giura lei solennemente, «all'una e trenta sarò qui ad aspettarti», e infine abbandona il sedile del passeggero per andare a occupare quello su cui vi ero seduta io sino a pochi secondi fa, chiudendosi dietro lo sportello e abbassando il finestrino con il solito fischio che non fa presagire nulla di buono.
«Allora ciao, buon lavoro» le auguro mentre afferro le fibbie dello zaino già incastrate contro le spalle, dondolandomi appena sulle caviglie.
«Buona lezione, Mati».
Nel contempo che comincio a incamminarmi verso il Caravaggio, approfitto per dare inizio alla mia consuetudine preferita — attraversando la strada mi accendo la sigaretta aspirando e assaporandone il primo tiro come se fosse il paradiso. La sensazione mi avvolge con finezza, spire morbide mi accarezzano le corde dello spirito, esse risuonano con splendida euritmia. Socchiudo persino le palpebre per godermi dell'attimo, lascio che il buio imperi sulle mie pupille. La paura di andare a cozzare contro qualche studente non mi sfiora nemmeno l'anticamera del cervello.
Uhm... anche perché, ora che ci presto attenzione... non c'è nessuno in mezzo al marciapiede e non c'è nessuno di fronte al cancello d'ingresso.
Per solito vi sono gruppi considerevoli di studenti intenti a parlare e a ridacchiare, alcuni perfino a disperarsi per via di qualche verifica e di qualche interrogazione.
Riapro di scatto gli occhi per guardarmi intorno e nulla, nessun'anima viva nel bel mezzo del mio cammino; ma dove sono tutti quei ragazzi? È impossibile che siano svaniti di punto in bianco.
Mi gratto la nuca con aria confusa. Che caspita succede oggi?
...C'è calma... troppa calma.
«Aspetta» dico rivolgendomi me stessa, realizzando poco a poco il vero motivo del perché di tutto questo mortorio, come se una sorta di mistero si stesse svelando pagina dopo pagina,
Questa mattina... questa mattina Diego si sarebbe inventato qualcosa per la faccenda Rappresentanti.
Cazzo! Che diavolo avrà combinato? Mio dio, spero che non abbia davvero incendiato i bagni dei Perfettini. O che non li abbia invasi con sostanze viscide di dubbia identità!
Inizio a correre — corro nel vero senso della parola — verso l'entrata principale del mio liceo, superando il cancello e gran parte del cortile fino a che, come avevo ipotizzato, una massa indefinita di teste adornate di cappelli e capelli non si para sotto il mio incredulo e sbigottito sguardo sbarrato. Iridi come spilli.
Una folla. Diego ha radunato una vera e propria folla dinanzi all'istituto — strepitante, oserei aggiungere!
Ma cosa urlano? Non riesco a capire. Devo fare in modo di avvicinarmi, a costo di beccarmi qualche spintone o qualche gomitata.
Devo vedere quello che ha combinato quell'Ares del mio amico!
M'immergo dentro quel nugolo di ragazzini, infilandomi fra i loro giacchetti e i loro zaini; il mio metro e sessantasei di altezza mi permette di sgusciare senza problemi alcuni, sono come un topolino, piccolo e veloce.
«Scusate! Permesso! Ma insomma, che diamine hai da saltare? Mica sei allo stadio!» borbotto seccata a un ragazzo che per poco non mi tramortisce con il suo irritante saltellare.
Ciononostante riesco a giungere a destinazione, in testa a tutta quella quantità spropositata di persone, ressa chiassosa.
Oddio.
Diego, ma che cavolo ti sei andato a inventare?
Quello che vedo ha dell'incredibile, veramente. Cioè, se stamattina avessi avuto l'influenza, avessi saltato scuola e me l'avessero successivamente raccontato sarei stata scettica al riguardo. Ci avrei riso sopra, molto probabile.
Il mio amico, quello che se ne sta lì in piedi di fronte l'ingresso principale, con le massicce porte di legno spalancate alle sue spalle, si è messo in testa — a mo' di copricapo — l'identico cappello che portava Che Guevara e addosso ha una felpa unicamente di colore bianco con su scritto a mano e a caratteri leggibili: "VOTATE DIEGO FALCO, VOTATE UN FUTURO MIGLIORE PER IL CARAVAGGIO".
E, assurdità delle assurdità, incastrato fra le dita della sua mano destra vi è un megafono. Uno di quelli che si usano ai cortei e alle manifestazioni.
Mi porto entrambe le mani alle labbra appena realizzo il tutto, premendo con una forza che non mi appartiene. Gli occhi allargati, nemmeno si ricordano il semplice meccanismo dell'alzarsi e abbassarsi. Sono a corto di fiato, un respiro si è incuneato attraverso le narici senza essere esalato, e le parole sono rimaste incollate sul palato, troppo lontane per essere modellate dalla lingua.
Addirittura mi è cascata la sigaretta per terra, andando a finire sotto le scarpe degli studenti. E vaffanculo pure a loro!
«Non votate unicamente per me, ma votate anche per Matilde Castellani, per Marco Esposito e per Marta Brunori!», l'urlo di Diego viene ampliato attraverso la bocca del megafono, per poi propagarsi in ogni dove sul cortile — andandosi a ficcare nelle orecchie di ogni presente —, inforcandolo nemmeno avesse le fattezze d'una spada dal contorno affilato. «Votate la voce del Caravaggio, votate per chi si batterebbe davvero per voi stronzi, votate chi porta alto l'onore del Che!».
Il mio nome e quello dei miei amici spuntano fuori dalla sua lingua battagliera, disperdendosi per il cielo cupo di questo martedì.
Sono stupita, è vero. Ma... ammetto che tutto questo è maledettamente elettrizzante. Vedere Diego "battersi", per me, una stronza. Per Marta, un'altra stronza. E Marco, lo stronzo finale.
Vedere Diego battersi per tutti gli stronzi che ogni diavolo di giorno si fanno guerra sotto il tetto di questo maledetto liceo. È quasi commovente.
«Come avrebbe detto il grande Guevara, hasta la victoria siempre! Votate chi ha a cuore il futuro della scuola e degli studenti, non votate chi sfrutta questo nome, Rappresentante d'Istituto, solo per farsi bello davanti agli altri, solo per una questione di potere e di forza da esercitare nel modo più sbagliato!» grida ancora contro lo strumento, ricolmo di entusiasmo ed effettivo spirito politico.
Cammina con passo veloce avanti e indietro, in modo che tutti possano vederlo, in modo che tutti possano imprimere nelle loro menti il suo messaggio.
È come essere al cospetto di una visione, come essere al cinema alla premiere di un film che aspettavi da tempo: da brivido.
Però, come esiste una determinata metà, ne esiste automaticamente anche controparte. L'altra metà che ancora non ha espresso voce in capitolo.
La metà i cui ideali vanno a collidere con i nostri.
Infatti Leonardo Aspromonte emerge dalla folla esattamente come ho fatto io, passandomi accanto e non senza rifilarmi una delle sue occhiate affilate — iridi sprezzanti e mai con un sentimento diverso dal rancore quando si tratta di noi, di me —, dirigendosi verso Diego marciando con fierezza e una sicurezza che spesso e volentieri lo contraddistingue.
La pesante giacca color alabastrino che sventola grazie alle folate di vento lo rendono ancora più implacabile della marcia stessa. I ciuffi dorati spettinati, disordinati quanto i miei, sfuggiti dalla presa della cera.
Senza tante smancerie e senza tanti complimenti va a sfilare il megafono dalla presa di Diego per appropriarsene e usarlo a suo piacimento. Si schiarisce la voce prima di parlare.
«Per dare un futuro migliore al Caravaggio non credo sia opportuno votare uno coi capelli ridotti a un nido di pulci e che mischia addirittura col caffè della "polverina bianca"», ed ecco che prende vita il suo discorso pungente, sferrato appositamente per ferire, parole sferzanti nella loro volontà di sadismo e disprezzo — sempre pronto a oscurare la fazione nemica, «Dovresti pagare dei sicari e mandarli in giro a minacciare gente affinché qualcuno voti per te, Falco! Anzi, affinché votino per quelli come voi!».
E quando dice "voi" mi lancia una gigantesca occhiata colma di disprezzo, troppa minuscola per riuscire a contenere tutta quella quantità. Talmente soffocante e rovente che quasi mi viene l'istinto di abbassare lo sguardo.
Quell'eterocromia del cazzo, in quella fottuta iride — è lei che contribuisce a rendergli gli occhi così intensi, quell'ostilità e perfidia che tanto gli si cuce impeccabilmente addosso, dettagli che gli si addicono.
Cosa dovrei fare? Dovrei intervenire, poiché ho tanta di quell'impressione che Diego sta per tirargli un pugno dritto sul naso? Dovrei dire qualcosa, magari? Controbattere? Avrei tanto di cui controbattere... nemmeno s'immagina il caro Aspromonte.
Sto per muovere un passo in avanti quando Thalìa mi precede, intromettendosi, quasi avesse avuto la mia stessa idea. Con lo stesso fervore strappa via il megafono dalle dita di Leonardo, pur tuttavia senza mancare di avere la buona creanza di sorridergli angelicamente — è alquanto inquietante mentre lo fa.
«"O siamo capaci di sconfiggere le idee contrarie con la discussione, o dobbiamo lasciarle esprimere. Non è possibile sconfiggere le idee con la forza, perché questo blocca il libero sviluppo dell'intelligenza". Così diceva Che Guevara. Non ci sarà alcun bisogno di sicari e spargimenti di sangue, gentile Leonardo! Mi auguro ne converrai» comunica Thalìa col suo famoso spirito pacifico ma al tempo stesso diretto e deciso, citando una frase di Guevara — il che spiega che persino uno studente dell'Artistico è acculturato quanto uno del Classico, al di là delle apparenze.
Quella ragazza è un qualcosa di indescrivibile, sono sempre più convinta di votare per lei. Voglio una come Thalìa Obi Malek a rappresentare il mio liceo.
Leonardo rimane impassibile di fronte al suo discorso, anche se non accenna ad abbassare minimamente il mento. Lo tiene ben alto, orgoglioso, l'intenzione di esibire cruda intimidazione. Palese atto di provocazione.
Ma una come Thalìa non raccoglie cose come le provocazioni, e questo deduco che Leonardo l'abbia capito, penso proprio che gli dia piuttosto fastidio.
«Beccati questa, signor Apollo dei miei coglioni» interviene a voce alta Diego, grazie alle mani a coppa che racchiudono le sue labbra.
In seguito si avvicina a una cassa collegata a un lungo filo interno, sicuramente attaccato a una presa del corridoio, andando a premere con teatralità sopra un lettore cd sempre collegato con un jack a quest'ultima; per di più quella è la cassa di Marco, quella con cui suona la chitarra elettrica. Deve avergliela sicuramente prestata per questa manifestazione fuori programma.
Appena Diego dà il via alle danze, l'ennesima sorpresa della mattinata non tarda ad arrivare. Con uno sbalordimento generale parte la canzone di Caparezza, quella che avrei volentieri dedicato a Leonardo ieri.
"Avrai ragione tu".
Be', allora Diego ti ringrazio per avergliela dedicata al posto mio.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top