31. Libiam ne lieti calici








Marta.




Lo faccio o non lo faccio? Mi sembra ovvio, devo farlo. Oh no, non è così ovvio invece! Magari non devo farlo.

Forse meglio analizzare i pro e i contro. Sì, una persona intelligente, saggia e giudiziosa ci penserebbe a fondo prima di fare qualcosa; non che io sia saggia o quantomeno giudiziosa, però d'intelligenza posso vantarmene fino alla fine dei miei giorni.

Indubbiamente, a volte, i momenti in cui bisogna comportarsi con equilibrio e ponderando a dovere gli eventi futuri ci travolgono eccome, dunque si è quasi obbligati a far uso di un minimo di senso di assennatezza, anche se non rientra nei nostri parametri consueti. Basti strappare un foglio da un quaderno, tracciare con una matita una linea nel mezzo più precisa possibile e scrivere in ambedue i lati.

Sì perché. No perché.

Ed è ciò che sto facendo esattamente adesso. Ho strappato un pezzo di carta dal mio quadernone ad anelli, fregandomene di averne lasciato quasi metà attaccato al sostegno, e con un impeto degno Darth Maul ho preso una matita dal portapenne sopra la scrivania e ho disegnato una linea non troppo dritta nel punto preciso del foglio a righe.

Tutt'ora sono impegnata a scrivere con una calligrafia non troppo ordinata le due concezioni alle quali dovrò affidare tutto il mio intelletto e il mio raziocinio. "Sì perché" a sinistra, "No perché" a destra.

Intanto direi di cominciare dai "no perché", in quanto è proprio lì che si manifesta il senso di criterio (se davvero ne ho uno).

Comincio proprio da quella parte, forse quella che può essere definita la più complicata per certi versi, una via più tortuosa da percorrere rispetto alla sua controparte. Però è giusto affrontarla, è un atto legittimo che sarà in grado sicuramente di darmi la risposta concreta e corretta a questo immenso dilemma.

Sì, iniziamo dal "No perché"!

Non devo farlo perché, in primo luogo – anche se fino a ora non me n'è mai importato più di quel tanto, anzi quasi niente –, è il mio professore.

Professore prettamente di passaggio, sostituto della Pancrazio a tempo determinato, però pur sempre un mio professore. E scrivo il primo punto con un corsivo strascicato e con il mio solito tocco lieve, quel tocco che non attraversa il sottile strato del foglio, quel tocco che non riuscirà mai a bucare la superficie dall'altra parte, sul lato destro e accanto a un cerchietto colorato all'interno, tanto per dare un'idea di un elenco puntato.

Non devo farlo perché, naturalmente, gli darei soddisfazione.

Vedermi arrivare nel bel mezzo di un appuntamento, incontro, di un'uscita – o come cavolo sia meglio intenderla –, e dargli quel lampo sfuggente di compiacimento nel farmi beccare nell'esatto posto in cui si trova in dolce compagnia.

Già posso immaginarmi il suo sopracciglio inarcato, le labbra piegate in un sorriso sghembo e gli occhi traboccanti di impagabile vittoria. Faccio una smorfia rumorosa di disgusto e mi metto a scrivere il secondo punto, stavolta mescolando involontariamente corsivo e stampatello.

 
Non devo farlo perché non ho bisogno di rompermi nuovamente il cuore.

Perché, ridendo e scherzando, facendo i conti senza l'oste, non ho preso in considerazione l'eventualità che tutto ciò potrebbe rivelarsi un completo buco nell'acqua.

Anni fa, quando donai la mia verginità su un piatto d'argento a Damiano Corbaccio come una povera stolta e una povera idiota innamorata, non avevo minimamente ponderato l'eventualità di rimanerci fregata.

Nutrivo troppa fiducia nei ragazzi, davo loro il beneficio del dubbio, soprattutto a Damiano! Ma ero ingenua, ero innocente, ero sprovveduta, ero sedotta dall'idea dell'amore eterno, addirittura mi ci immaginavo sposata con lui, addirittura con tre figli. L'unica cosa che avrei fatto bene a prevedere, invece, fu un enfatico rifiuto e una bella dose di noncuranza da parte sua una volta usciti da sotto le lenzuola.

Ah, e ovviamente un'altra tacca aggiunta alla sua cintura delle conquiste.

Scuoto il capo sogghignando maleficamente mentre scrivo il terzo punto, ricordandomi di quando, un anno dopo, lo mandai in bianco dopo averlo attratto a dovere giocando con lui come il gatto fa con il topo. Lo lasciai di stucco quando vide in me una ragazza decisamente diversa, decisamente nuova ai suoi occhi, decisamente più furba e calcolatrice.

Al tempo non mi affezionavo a chi realmente mi amava, lo facevo con chi faceva il contrario. Era una sorta di risparmio sociale.

Quando si tratta di qualcuno che non ami non spendi tutto te stesso per egli. Io avevo speso tutta me stessa per quel cretino, in parte è grazie a lui se ho imparato la lezione. Comunque sia, quella è stata la mia vendetta.

Avrei potuto tirargli un calcio nei suddetti gioielli ora che ci penso. Però sono dell'idea che la tortura psicologica sia quasi superiore a quella fisica.

Ad ogni modo, se il professore dovesse spezzarmi il cuore sono sicura che avrei adottato metodi ben diversi da quelli di Damiano. E infatti sottolineo con decisione questo terzo punto, il più importante della lista credo.

Non devo farlo perché mi mostrerei deliziosamente debole o patetica, andando a contrastare i miei ultimi comportamenti nei suoi confronti, tutt'altro che dolci, tutt'altro che interessati.

Alquanto da testa di cazzo con la "c" maiuscola.

Perché una via di mezzo, quando si tratta di genere maschile, io non so nemmeno che significato abbia!

Via di mezzo, cos'è? Si mangia? O meglio, si beve? È un nuovo film? Un nuovo videogioco?

Una risata da psicopatica mi esce dalle labbra appena metto il punto finale alla frase. Non so se valutarlo come fattore positivo il fatto che rida maniacalmente di me stessa.

Comunque realizzo che non ho altro da aggiungere nella sezione del "No perché", realizzo che fin'adesso ho scribacchiato quattro motivi. Non mi resta altro che passare all'altra sezione, quella accanto e quella, tra virgolette, più lugubre. Non più complicata dei "No perché", però avverto un pizzico di disagio in più.

Già, mi mette più angoscia scrivere di cose pazzoidi e prive di senso che quelle appunto razionali. Ma tuttavia devo farlo, mi sono imposta di valutare i pro e i contro e devo andare fino in fondo. Mancano ancora diversi minuti all'ora di cena, prima che mia madre mi chiami per sedermi a tavola. Ho ancora tempo.

Lentamente sposto la matita impugnata nella mano verso la parte sinistra ignorando con una smorfia il palmo esterno tutto sporco di grafite, uno dei drammi dell'essere mancini.

Decido anche di cambiare postazione, dalla sedia dinanzi alla scrivania mi trasferisco per terra sedendomi a pancia in giù, puntando i gomiti sopra la stoffa del tappeto a pochi centimetri da una piccola coccia di bonsai. Mi metto più a mio agio.

Sono in momenti come questi che desidero con tutta me stessa un pappagallo appollaiato sopra la mia spalla, un Antonio Vivaldi come quello di Matilde, soprattutto che sia in grado di fischiettare a memoria la colonna sonora di Star Wars o, meglio ancora, la Marcia Imperiale. O qualche strofa dei Pearl Jam.

Sospiro mentre ticchetto la punta leggermente sbeccata della matita sopra il pezzo di carta, mi mordo l'interno della guancia con insistenza.

Devo farlo perché mi piace.

E penso sia il dettaglio più importante, più importante di quelli che andrò a segnare. La consapevolezza di questo sentimento non è poco quando si tratta di me. È un bel passo avanti. Vado a scribacchiare il punto in totale stampatello, probabile segno che lo voglio rendere più significante, da catturarmi la completa attenzione una volta stilata la lista.

Devo farlo perché, insomma, la verità è che mi urta oltremodo la soglia del sistema nervoso saperlo con una come Sara Bellante.

Come già ribadito li vedo troppo diversi, non due che possono soddisfare alla grande il detto "gli opposti si attraggono".

No! Una come Sara e uno come Emilio proprio nemmeno con un algoritmo matematico potrebbero risultare compatibili.

Sara, avvenente e sensuale, è sempre in modalità "cacciatrice" e onestamente mi secca assai che la sua preda sia proprio lui! Se proprio deve interpretare la parte della preda allora che si scelga una cacciatrice diversa. Sara non è all'altezza di Emilio.

"Dio mio... ma ti senti cosa stai pensando?", mi sussurra la voce della mia coscienza beffarda, "Sei gelosa marcia".

«Be', cosa ti aspettavi? Che l'avrei elogiata con dei complimenti?» parlo a bassa voce finendo di scrivere il secondo punto. Ora, oltre che ridere di me stessa, mi parlo addirittura, come se ci fosse una seconda presenza in questa stanza silenziosa.

Devo farlo perché lo vorrei per me.

Ed è la cosa più egoista che potessi ponderare/volere/ottenere; dettata, forse, in parte dalla mia giovane età –  perché diciamocelo, diciotto anni rappresentano sì la maggiore età, ti rendono ufficialmente adulto agli occhi della società, però fondamentalmente si è ancora immaturi per certi aspetti, ancora attaccati con morbosità alla fase adolescenziale la quale è difficile separarsene per sempre.

Vogliamo tutti diventare grandi eppure ci sarà, ad ogni modo, una piccola parte di noi che vuole continuare a crogiolarsi nell'irresponsabilità e nella paradisiaca dimensione bambinesca. Un po' come la poetica del "Fanciullino" di Giovanni Pascoli: in ogni uomo è presente un fanciullo in grado di percepire la realtà con animo ingenuo e con sguardo limpido, tuttavia il fanciullo non riesce a cogliere della logica nei rapporti o nelle cose.

Io lui lo vorrei per me. Con amarezza sono costretta a scrivere tale punto sulla metà apposita.

Devo farlo perché lo voglio per me. La conferma del mio egoismo riportata al presente indicativo, abbandonando quella forma un po' scomoda quale il condizionale.

«Marta, Marta... così non va» mormoro sorridendo senza motivo, portando a termine lo schema con il quale poi avrei deciso come agire.

Le due metà hanno uno schiacciante pareggio, quattro motivi di là, quattro motivi di qua. Nessuna che sovrasta l'altra. Un nulla di fatto praticamente.

Mi tiro su a sedere a gambe incrociate scostando tutta la mia chioma argentata su di una spalla e mi metto a mordicchiare la punta della matita, in preda all'inquietudine.

Adesso non mi resta che aggiungere il motivo che sancirà un vincitore, un solo ed unico motivo da sovrascrivere in una delle due parti.

E siamo di nuovo lì; lo faccio o non lo faccio? Che devo fare? Sta a me decidere chi far salire sul podio del trionfatore, soltanto mia è la decisione.

Non devo farlo perché così la mia comfort zone rimarrebbe intatta, io concluderei il mio ultimo anno al Caravaggio con serenità e senza incappare in problemi di alcun tipo, soprattutto quelli a livello sentimentale.

Non riscontrerei in alcun modo un cuore spezzato e una mente corrotta da emozioni superiori. Andrei all'Università e non avrei un perché a farmi guardare indietro, alle mie spalle. Non correrei nessun rischio.

Devo farlo perché altrimenti lo perderei.

E cosa è più importante? Rimanere al sicuro dalla scia degli eventi oppure impedire a quel qualcuno di sfuggirti sapendo che potrebbe causarti del male? Meglio non rischiare e rimanere statici pur sapendo di convivere con il rimorso oppure meglio osare senza sapere il verdetto finale però sapendo che in qualche ci hai provato?

Dannazione, mi sembra che sia passato letteralmente un secolo da quando Marta Brunori ha rischiato alla cieca per qualcuno. Nemmeno ne ho più la memoria di un gesto simile, ammesso che sia mai avvenuto.

Fanculo, e va bene! Vorrà dire che se il mio cuore andrà in mille pezzi un'altra volta allora mi affiderò a Matilde e a Diego per farmelo ricomporre.

Mi affiderò ai miei genitori, sempre che li metta al corrente di una cosa tanto delicata come questa. Mi affiderò a Emma, che è pur sempre mia sorella maggiore, pur sempre con più esperienza di me. Mi affiderò a Firenze e alla sua unica magia di farti dimenticare le cose reali soltanto osservando Ponte Vecchio da lontano. Mi affiderò al presente, il solo ed eccezionale rimedio per le delusioni, non tanto al passato che sarebbe un costante rivangare e rivangare di ricordi e sensazioni dolorose, non tanto al futuro che si rivela la maggior parte delle volte incerto e nebbioso.

Quasi che provo una sorta di pena per lui, povero presente... sempre eclissato dal passato e dal futuro. È etichettato come un terzo incomodo.

Pertanto poggio per terra la matita accanto a me e rimango con gli occhi sbarrati e fissi sopra ciò che ho scritto fino adesso.

Alla fine è deciso. A quanto pare abbiamo un vincitore. A quanto pare ha trionfato il "Sì perché".

Cinque motivi hanno surclassato i quattro del "No perché". Cinque motivi ora implicano che io debba fare qualcosa. Devo.

L'ho persino detto a Matilde, sparita chissà dove, scrivendole un messaggio, non posso tornare indietro, non posso cambiare idea. Ormai ho scelto quale sarà il mio destino.

Faccio per lanciare da una parte il foglio senza neanche avere la benché minima preoccupazione di dove andrà a finire, sistemandomi al centro della camera in una posizione da meditazione zen. Serro gli occhi e mi metto in modalità raccoglimento da jedi.

Devo meditare un attimino, ho bisogno di concentrarmi, prepararmi mentalmente prima di mettermi all'opera. Rifletto proiettando il mio pensiero alla sera prima, a come io e Lunanuova siamo caduti per terra nel dietro le quinte del teatro.

Quando mi sono lanciata con tutto il mio peso addosso a lui gli ho fatto perdere inesorabilmente l'equilibrio in quanto non si aspettava una mossa del genere da parte della sottoscritta. Sono finita sopra il suo petto, invischiandolo con la sostanza appiccicosa che intenzionalmente avevo acquistato prima di andargli a tendere un'imboscata, tuorlo e chiara.

Subito dopo ci siamo osservati in silenzio tombale ed io ho inteso velocemente che la posizione era piuttosto ambigua, per non dire imbarazzante!

Emilio completamente disteso e io a cavalcioni sopra di lui, e con le mani gli andavo a serrare i polsi tenuti oltre i suoi capelli, mi ci sono aggrappata per avere un appiglio durante la caduta. Nessuno di noi due ha osato muovere un muscolo – quasi ho sospettato avessimo smesso di respirare – tanto la situazione era tesa.

Infine è successo l'inevitabile, come se non avessi avuto più il controllo: mi sono messa in modalità blocco di ghiaccio a mo' di autodifesa per una situazione equivoca come quella, fuori dalle righe, e mi sono tolta via velocemente senza neanche guardarlo in faccia. Non ho osato.

Poi ho raccolto il cartone delle uova e dandogli le spalle gli ho detto con tono categorico e tagliente, «È stato un errore venire qui. Mi scusi. Si dimentichi tutto». E me ne sono andata ignorando sia il saluto di Silvio, sia il tentativo di Emilio di farmi fermare.

«Brunori!» ha gridato dietro di me con voce indecifrabile.

Ma ovviamente non mi sono arrestata affatto. Ho seguito a tirare dritta con il cuore che mi batteva a mille e con la consapevolezza che avevo svalicato un muro troppo alto, con tanto di divieto d'accesso. Era da un sacco di tempo che non sentivo una sensazione del genere, infatti mi era salita talmente la paura che non ho saputo gestirla optando per l'unica via sensata: la fuga.

La mascella mi si contrae appena si conclude tale rimembranza, come se ci fosse stato un tremito nella Forza. Riapro gli occhi e realizzo che stasera mi giocherò il tutto e per tutto. Stasera andrò al Teatro Verdi con la speranza di impedire qualcosa, una sorta di Suicide Squad alternativa.

Andrò ad uno dei teatri più belli di Firenze, se non "il" più bello, e proverò a stroncare quella coppia sul nascere, a costo di mettermi una parrucca e d'impersonare nuovamente la cugina Maria Antonietta.

Dovrò muovermi da casa con largo anticipo visto che siccome sprovvista di biglietto non potrò entrare, sono costretta ad aspettarli fuori come un cane da guardia. Poco male.

Sul sito del Teatro Verdi ho controllato a che ora inizia lo spettacolo e posso confermare di avere tutto il tempo di questo mondo, soprattutto contando che nella mia famiglia è uso e costume cenare quando tramonta il sole (quasi!).

«Marta! La cena è in tavola!» infatti sento gridare dai meandri della cucina mia madre, oltre la porta chiusa a chiave della mia stanza.

Puntuale come ogni sera. È come se una sorta di timer fosse impiantato nella sua gabbia toracica, pronto a scattare ogni qualvolta che si arriva alla soglia delle sei e tre quarti. Lo trovo di un'incredibilità assurda.

Mi alzo velocemente senza farla sgolare una seconda volta, mi stiracchio facendo scrocchiare sia le ginocchia sia le spalle un po' intorpidite e abbandono la mia camera al fine di dirigermi al cospetto di un piatto caldo.

Questa sera in casa Brunori si mangia trota al cartoccio con pomodorini e patate, non posso che spalancare la bocca mostrando del serio appetito. Il pesce è uno degli alimenti che preferisco, ancor più della carne. Si vede che è sabato.

Prendo a sedermi comoda a tavola prestando l'attenzione sullo schermo del televisore sintonizzato sull'Eredità, uno dei programmi più amati in famiglia; quando eravamo piccole io ed Emma facevamo a gara con papà a chi sapesse rispondere correttamente, le risate erano assicurate, sia per la viva competizione sia per gli sfondoni che puntualmente proferivamo.

Papà, a volte – la maggior parte delle volte –, faceva finta di sbagliare appositamente la risposta, dando così la possibilità a me e a Emma di schiacciarlo a dovere, e di canzonarlo a suon di linguacce subito dopo. Un vero e proprio rito, una ricorrenza paragonabile a quando l'Italia scende in campo ai Mondiali. Ah... bei tempi erano quelli, proprio belli.

«Stasera esco» esordisco con una certa noncuranza, dondolando il piede mostrando un lieve tanto quanto spiccato senso di agitazione.

Ho piacere a informare Regina e Lucio dei miei spostamenti, soprattutto quelli del sabato sera;  nonostante i miei diciotto anni lo vedo come un sinonimo di legame indissolubile fra me e loro.

I miei non mi hanno mai imposto chissà quali restrizioni durante il corso della mia adolescenza; avendo una figlia maggiore si sono, diciamo, ammorbiditi e hanno lasciato più estensione ai miei "spazi".

Inoltre, mio padre, Lucio, ha avuto una giovinezza alquanto turbolenta, per cui ha una certa credenza la quale reciterebbe che ognuno è giusto che affronti e faccia le proprie esperienze, le più possibili. Che ne faccia sia tesoro sia lezione di vita da passare a una eventuale futura generazione. Secondo lui vietare di fare qualcosa peggiora ulteriormente le cose oltre che il rapporto genitore-figlio.

Chiaro e limpido che non è che mi abbia infilato in bocca una sigaretta o che mi abbia incitato ad assumere atteggiamenti trasgressivi e irregolari, ha semplicemente lasciato che gli eventi facessero il loro corso dandomi successivamente la morale di ciò che è stato giusto e di ciò che è stato sbagliato, facendomelo provare in maniera diretta sulla mia persona.

Ad esempio non mi ha mai e poi mai messo in croce per gli strambi colori cui ho tinto i miei capelli. È un'educazione equilibrata la sua, secondo me. Lo reputo decisamente un buon genitore, un buon padre.

«Dove te ne andrai stavolta di bello?» fa eco mia madre mentre si serve per prima il suo piatto, lasciando che papà rimanga imbambolato di fronte alla figura sorridente di Fabrizio Frizzi in veste di sostituto di Carlo Conti.

«A teatro» la informo facendo spallucce, addentando un grissino prendendolo dal centro-tavola.

«A teatro come l'altra volta?» ripete l'altra con un sopracciglio inarcato, «Cosa mi ruberai stavolta dall'armadio?».

«Uhm, forse il tuo tailleur di Elisabetta Franchi» ipotizzo prendendola in giro, anche se devo ammettere che quel tailleur è veramente delizioso e tremendamente adatto per andare a teatro!

Regina Minareti ha buon gusto in fatto di abbigliamento, è in grado di abbinare qualsiasi indumento in modo impeccabile e lo stesso anche mia sorella. Io faccio quello che posso, possiamo dire che vado a periodi.

«Quello della laurea di Emma o quello della cresima di tuo cugino Martino?» chiede lei pensandoci sopra, prendendomi realmente sul serio.

«Quello della laurea di Emma, ovvio! Sembravi un confetto caramellato il giorno di quella cresima. Molto meglio il classico nero, il rosa non mi dispiace però averci il completo intero di quel colore è troppo!» sentenzio severa assumendo un'aria impassibile.

Mia madre poi mi passa il vassoio con il pesce, lasciando di proposito papà per ultimo visto che si è messo addirittura a mangiarsi le unghie dall'ansia per aver sbagliato risposta.

«Sono un po' gelosa di quel tailleur, effettivamente. E comunque ero un confetto molto attraente, per di più caramellato» asserisce Regina spruzzando un po' di succo di limone sopra la sua porzione.

«Mamma mia, che grullo! È evidente che la risposta giusta fosse Gabriele D'Annunzio! Ma secondo te chi l'ha scritta "La pioggia nel pineto"? Leopardi? Ma guarda un po' che bischero il l'è!» esclama in perfetta cadenza toscana Lucio battendo la mano sulla tavola facendo tremare persino le bottiglie e facendo sussultare sia me che la mamma, ovviamente riferendosi al concorrente in gara. Anche se ce lo saremmo dovute aspettare, ogni sera è sempre così. Normale routine.

«Andrai con Matilde?» mi domanda la mamma guardandomi di sottecchi.

«Ehm no, andrò con Thalìa» le rifilo una cavolata giocando la carta della seconda amica, ripiegare sempre su Matilde potrebbe causare sospetti. E tutto voglio meno che causare sospetti ora come ora!

«Pà, vuoi che ti chiami Frizzi a mangiare la cena per te?» mi rivolgo poi a papà offrendogli il vassoio che afferra lasciando la mano a mezz'aria.

Sia io che Regina rimaniamo a osservarlo con sguardo allibito, curiose di quanto sarebbe stato in quella posizione assurda e scomoda.

«Prendi il mio telefono se lo vuoi chiamare. È sopra il caminetto» replica egli senza nemmeno aver captato il senso della mia frase. Meglio lasciar perdere in questi casi!

Mi metto a mangiare questa cena più che deliziosa, pensando seriamente a quel tailleur di Elisabetta Franchi che giace inerte e depresso dentro l'armadio della mamma. Magari non potrò entrare a teatro, però posso fare proprio una bella figura.















Prima di uscire di casa ho sistemato al meglio la mia persona.

Siccome il mio intento è quello di risultare quantomeno perfetta e ineccepibile, e al tempo stesso autorevole e solenne, mi sono preparata come mai ho osato fare. Appunto, nemmeno per la laurea triennale di Emma. Dovessi fallire, questa sera, voglio fallire con classe ed eleganza.

Infatti, prima di aver varcato la porta di casa e aver percorso i gradini al fine di raggiungere la mia auto, ho aperto YouTube guardando un tutorial che spiegava la procedura di una treccia fasciante, lasciando così i capelli che caschino all'indietro fluenti e luminosi.

Mi sono sorbita cinque interminabili minuti di una ragazza che spiegava mossa dopo mossa i vari intrecci da fare. In conclusione, dopo provare e riprovare, sono riuscita nell'intento di ottenere una bella acconciatura fai da te.

Bisogna ammettere che mi donano i capelli agghindati così, quel che è vero è vero.

Dopodiché ho lavato adeguatamente i denti e il viso, incipriandomi a dovere e sfumando di ombretto argentato e nero la palpebra mobile, disegnando uno sfavillante effetto smokey eyes. Inutile dire che il risultato finale assieme alle mie iridi verdi è più che magnetico.

Avrei potuto raggelare/conquistare chiunque con quello sguardo.

Poi sono passata al rossetto, scegliendone uno tonalità carne opaca, ho preferito non esagerare più di quel tanto.

Infine mi sono infilata il tailleur della mamma e un paio di scarpe con un tacco moderato e con la punta di Michael Kors, di proprietà di Emma e lasciate ingenuamente a casa, incustodite. Si sentivano troppo sole poverine, dovevo fare qualcosa.

Ho l'aspetto di una vera regina di ghiaccio, in carne ed ossa, quasi che mi sono intimidita da sola allo specchio.

«Alla meno peggio potrei sempre usare queste scarpe come shuriken per ninja, potrei piantarle sulla fronte della Bellante, e anche di Lunanuova dovesse essere necessario» ho borbottato davanti al mio riflesso nel contempo che sistemavo la giacca sopra i pantaloni.

Ho questa dote dello sdrammatizzare nelle situazioni più estreme, io e il sarcasmo – o satira, come ha sottolineato ieri sera il caro Emilio –  siamo una cosa sola, fusi in un solo corpo.

Ad ogni modo mi trovo nel luogo dell'incontro, del loro incontro, del nostro incontro.

Sono davanti all'entrata del Teatro Verdi, poggiata contro il muro e con gli occhi rivolti verso la strada normalmente trafficata da qualsivoglia mezzo.

Le luci delle vetrine accese si rispecchiano nei miei occhi e mi danno un'inspiegabile sensazione di compagnia. Il portone d'entrata del teatro è spalancata, persone su persone man mano arrivano per entrare all'interno. Alle mie spalle torreggia una locandina color rosso scarlatto e a caratteri cubitali e dorati spicca il titolo "LA TRAVIATA" di Giuseppe Verdi", un'opera che ha del sensazionale. E confesso di invidiare coloro che avranno modo di assistervi a breve, li invidio assai. Come invidio anche il semplice entrare dentro questo rinomato luogo.

Il Teatro Verdi, da che mondo è mondo, è un qualcosa di storico per Firenze: al proprio interno può vantare ben ottocentosei posti in platea, una cifra ben superiore rispetto al Teatro Don Chisciotte, più centotrenta posti in galleria e più cinquecentosettantasette posti nei palchi.

La struttura è da togliere il fiato, una volta ci venni assieme ai miei zii e ricordo di essere rimasta letteralmente incantata dalla maestosità di quella sala. Oro e rosso sono le tonalità di spicco, sia per poltrone, sia per i drappi e il parquet contribuisce a dare quella sensazione di antico e di insormontabile, quasi che sembra di vivere in un'altra epoca e non nel ventunesimo secolo.

Okay, ora sto davvero rosicando, tanto che ho preso a strofinare i denti gli uni con altri. Devo mettermi a fumare una sigaretta altrimenti rischio di passare per un cane con la rabbia.

Fortuna vuole che mi sono preparata diversi drum questa mattina durante la lezione di Lunanuova dunque nemmeno devo perderci tempo. Apro la scatolina di metallo con lo stampo dei Pearl Jam ed estraggo drum e accendino, un contrasto totale con il mio abbigliamento ricercato.

Accendo la cicca e ne prendo un tiro andando a riflettere a come avrei potuto esordire all'arrivo dei due piccioncini.

Avrei parlato direttamente a Emilio ignorando di buona lena la Bellante? Avrei offeso in tutte le lingue del mondo la mia prof. di educazione fisica e avrei mandato a quel paese Lunanuova? Avrei, oppure, afferrato per un braccio lui e lasciato di stucco e confusa lei? È un bel da farsi.

«Accidenti, che coincidenza trovarvi entrambi qui» provo a parlare e la voce che mi viene fuori è somigliante a quella della mamma di Pingu, troppo grave e decisamente esilarante. Riproviamo.

«Wow, che piacevole sorpresa» stavolta somiglio a una lecchina di primo ordine.

Bugiarda, col cazzo che è una piacevole sorpresa trovarli lì. Riproviamo ancora!

«Mamma mia, due piccioni con una fava, anche voi a teatro? Il mondo è piccolo» e in questo caso sibilo come una serpe avvelenata, il fumo mi esce attraverso i denti.

Realizzo che sta andando di male in peggio questa missione suicida; se non so cosa dirgli come cavolo mi muovo dopo? Che diamine faccio? Lo rapisco? Rubo il biglietto di Sara ed entro insieme a Emilio? Gli pianto davvero un tacco in fronte? Fanculo, fino a mezz'ora fa sembrava l'idea migliore del mondo venire qui a sabotare l'appuntamento.

Invece l'unica cosa vera e concreta è che farò la figura della bambina e della ridicola. Sulla lista non l'ho scritto questo come motivo del "No perché".

"Invece sì che l'hai fatto", mi ricorda la vocina della mia coscienza, "hai scritto che saresti stata patetica".

Perfetto! Allora ne ero perfettamente consapevole!

Marta, Marta... proprio non vuoi imparare mai, eh? Proprio non vuoi bene al tuo cuoricino... è ovvio che finirà a pezzi anche stavolta.

«Ma che fottuta coincidenza del cazzo!» borbotto sfinita di tutto questo stress, stringendomi nel lungo giaccone che va a coprire il mio tailleur.

«Ma che curiosa coincidenza davvero» una voce arriva dalla mia sinistra interrompendo la mia burrascosa autocommiserazione, «Brunori, anche tu a teatro, chissà perché non mi stupisco».

Mi giro in direzione di colui che ha pronunciato questa simpatica frase, affilando gli occhi e gettando il drum spento dentro il secchio dell'immondizia.

Mi giro lentamente, ho intenzione di causare un bel taglio profondo mentre lo guarderò.

«Professore» recito melodiosa, gli occhi ancora riversi verso il basso, «anche lei qui» faccio per dire ma poi di colpo m'interrompo. Di colpo. Sono costretta.

Mi viene naturale zittirmi quando poso le iridi sulla sua figura fasciata dal solito giacchetto scuro con cui viene a scuola; forse potrebbe anche essere diverso, ma la differenza è minima.

«... da solo?» pronuncio a a mezza voce incredula della scena che ho davanti.

Emilio senza accompagnatrice, senza Sara! È solo, è solissimo, con le mani infilate nelle tasche e i capelli corvini liberi al vento, lo sguardo penetrante e indubbiamente divertito.

«Esattamente come lei» mi fa notare egli senza smancerie. Sì, be', io non avevo appuntamento con una sventola pazzesca! Cazzo, Sara non c'è!

«Io... sto aspettando...» comincio a spiegare ma invano poiché lui m'interrompe.

«Esposito? Stavolta ha deciso che sia un hobby di buon gusto il teatro?» mi chiede sogghignando, prendendomi in giro.

«No, stavolta Marco non c'entra» continuo a spiegare ma vengo nuovamente interrotta.

«Allora la tua compagna di banco Matilda» prova a indovinare Emilio, sbagliando oltretutto il nome della mia amica.

«È Matilde» lo correggo guardandolo storto, «e comunque no, nemmeno lei sto aspettando».

«Allora chi sta aspettando, di grazia?» tenta un'altra volta, facendolo apposta di spezzarmi le frasi a metà.

Faccio sempre in tempo a togliermi un tacco! Le uova in compenso sono una piacevole rimembranza.

«Qualcuno che è in ovvio ritardo» enuncio con fare decisamente irritato, «e lei?» meglio far finta di niente, «Non è in compagnia di nessuno?».

«Non che siano affari suoi, Brunori, ma no, non aspetto nessuno» replica Emilio lanciandomi un'occhiata palesemente di sfida.

Rimango interdetta dalle sue parole. Sara Bellante per certo l'ha invitato ad andare a teatro, li ho uditi personalmente stamani. Impossibile che lui gli abbia detto di no se è qui. Impossibile che lei abbia dato buca a lui.

C'è qualcosa di strano in questa situazione. Meglio non abbassare la guardia.

«N-neanche... n-neanche la professoressa Bellante?» azzardo a domandargli balbettando senza volerlo.

Lunanuova inarca di rimando un sopracciglio, perplesso sia dalla mia insolenza sia dal mio sapere degli "affari suoi", riservati. «Come fa a sapere di Sara?» infatti è ciò che pretende di sapere.

«Il Caravaggio è grande, le voci girano in fretta» mi difendo subito utilizzando la carta dei pettegolezzi, che di norma è infallibile.

«In fretta davvero contando che il tutto è avvenuto nell'arco di una mattinata» ipotizza Emilio non bevendosela del tutto.

«Quel che è fatto è fatto, professore. Dunque, cos'è? La raggiungerà a breve oppure si è sfortunatamente ammalata?» dichiaro spazientita incrociando le braccia al petto.

«Per i miei gusti sei troppo curiosa, Brunori» mi fa notare il mio professore seppur con tono... dilettato, «per la gioia dei pettegolezzi del Caravaggio, scuola composta in maggior parte da inetti, ho gentilmente rifiutato l'invito della mia collega. Tuttavia lei ha insistito a donarmi due biglietti per questa opera, in quanto ha asserito che con lei sarebbero andati sprecati. Al contrario con me sarebbero stati ben spesi, riconoscendo la mia indubbia passione e dedizione per il teatro».

«Ha rifiutato?» mormoro spalancando senza volerlo la bocca dallo stupore, sbattendo le palpebre come una cretina che ha appena visto Yoda scendere in terra.

Lunanuova ha declinato l'invito della Bellante. Mi sento scoppiare il cuore.

«Già. Ma non ho potuto rifiutare una serata come questa, soprattutto con un'opera come la Traviata e in un teatro come il Verdi. Ovviamente restituirò i soldi a Sara che ha gentilmente speso, saldando il debito» espone facendo un passo in più in avanti, colmando la nostra distanza.

Emilio, vedendo che ho proprio deciso di fare lo sciopero del silenzio, riprende nuovamente a parlare. «E lei? Ancora non mi ha detto chi sta aspettando».

«Io...» do fiato alla bocca che scopro uscirmi flebile come un gattino appena nato, «io stavo aspettando Thalìa, ma evidentemente avrà avuto un ripensamento e dovrò cambiare programma, i biglietti ce li ha lei» mento tentando di spiegare la mia presenza qua, ancora avvolta nel mistero.

Però adesso dovrei approfittarne! È da solo, senza la presenza della sua accompagnatrice e per di più con un'aria propensa alla leggerezza e al trastullo. Dovrei fare la mia mossa! È la mia occasione, l'occasione d'oro di una vita.

«Forse è meglio che vada». Ma che cazzo ho appena detto?

Ma perché? Perché devo sempre fare la difficile e la sfuggente? Magari la verità è che non ho le palle, oh sì, sono una codarda del cazzo. Non è Matilde qui la codarda, la codarda sono io.

«Io ho un biglietto in più che andrebbe sperperato a vuoto se non trovo qualcuno che abbia l'intenzione di usarlo» mi ferma Lunanuova dando fiato alle corde vocali, sempre con le mani in tasca, «magari potrebbe usarlo lei. Sono due biglietti che implicano due posti su un palco, una visuale più che buona».

«Vuole farmi venire a teatro insieme a lei?» formulo la domanda credendo di star sognando, pur tuttavia mantenendo un contegno calibrato. Evitiamo di esplodere in urla di giubilo, sarebbe sconveniente.

«È quello che le ho appena proposto. Sta a lei decidere, Brunori» Emilio fa un mezzo sorriso, il tipico sorriso che fa quando sta per mettere in atto un'interrogazione in classe, «o dovrei chiamarla Maria Antonietta?».

Dopodiché Lunanuova estrae la mano destra cui tiene stretto appunto il biglietto che a quanto pare è destinato alla sottoscritta, offrendomelo.

Rimango a studiare quel pezzo di carta per qualche buon secondo, ancora diffidente di quell'evenienza.

«Fanculo» proferisco artigliando il ticket e superando la figura di Emilio a passo spedito, alla volta dell'entrata, preferisco che non veda il rossore sulle mie guance dettato dal suo chiamarmi Maria Antonietta.

«Non tollero le parolacce» mi rimbecca seguendomi a passetto.

«Non siamo a scuola, professore, si rilassi» gli faccio presente mentre porgo il biglietto a una signora che si occupa di controllare gli ingressi, «siamo nel mondo esterno, qui non contano note, richiami, rapporti o brutti voti. Potrei recitarle tutte le offese in fiorentino e lei non avrebbe alcun potere su di me».

«Potrei vendicarmi una volta ritornati al Caravaggio, prima o poi dobbiamo rimetterci piede» allora ribatte inflessibile, calandosi di nuovo nelle vesti del professore di storia dell'arte.

«Allora farà bene a portarsi un ombrello. Ieri le uova, domani chissà».













La spalla di Emilio va a sfiorare inesorabilmente la mia, entrambi seduti su due morbide sedie di legno di noce e velluto rosso dall'aspetto antico.

Emilio indossa un maglioncino di Ralph Lauren con le maniche arrotolate fino ai gomiti ed una camicia bianca al di sotto di quest'ultimo, con il colletto che fuoriesce dandogli decisamente un bell'aspetto.

I nostri giacchetti se ne stanno appesi all'appendiabiti alle nostre spalle, mostrando così il mio completo – o meglio della mamma – di Elisabetta Franchi.

Tengo le gambe accavallate e come sempre muovo in preda all'agitazione un piede, scrollandolo in su e in giù. Mancano ancora venti minuti all'inizio dello spettacolo e il teatro, imponente e maestoso come esattamente lo ricordavo, si sta velocemente riempiendo.

Frasi, parole, voci indistinte disseminate animano quell'ambiente caldo e accogliente. Anche se non sono una che recita sul palco lì al centro posso confermare che questo posto mi piace, mi rasserena, ora capisco della passione profonda del mio mio professore, della sua dedizione a tutto che circonda questo mondo di luci, suoni, colori, battute, improvvisazioni, pathos e spettatori.

Con la coda dell'occhio guardo il profilo di Lunanuova, che con attenzione scrutatrice esamina ogni persona e ogni cosa; siccome tiene la ciocca dei capelli dietro l'orecchio scorgo piacevolmente una voglia dalla particolare forma a trifoglio proprio al lato dell'orecchio destro, un particolare che in classe avrei mai potuto notare.

Sto quasi per aprire bocca per rompere il ghiaccio quando il suo cellulare seguita a vibrare sulla tasca del suo giacchetto nelle retrovie. Egli si preoccupa di rispondere, e sicuramente subito dopo l'avrebbe spento.

«Natascia, sono a teatro, avrei dovuto spegnere il cellulare. Che cosa vuoi?» dice rimanendo in piedi alle mie spalle.

Natascia? Un'altra spasimante? Ilda, Sara e ora Natascia... ma quante donne ha ai suoi piedi quest'uomo, buon dio?

«E va bene, domani a pranzo. Ci sarò» lo sento pronunciare aguzzando l'udito origliando sfrontatamente, e meno male che io sono una che si fa gli affari suoi!

Me ne compiaccio, di questa Natascia però ha accettato l'invito a pranzo! Alla facciaccia mia, di Ilda e di Sara. Ma allora perché è voluto venire a teatro con me?

«Dovrebbe spegnere il cellulare anche lei» mi fa presente Emilio rimettendosi di nuovo a sedere alla mia sinistra, sistemandosi il colletto.

«È già spento, anzi, oserei dire morto con la batteria scarica» lo informo con una certa espressione compiaciuta, probabilmente sono una delle poche giovani che lascia che il proprio telefono si smorzi del tutto per forza maggiore, senza premunirmi di metterlo sotto carica.

«Buon per lei» sogghigna l'altro stringendosi le mani sopra i pantaloni.

E va bene, non riesco a resistere, la curiosità mi sta uccidendo. Devo fare in modo di farlo parlare! Voglio sapere di questa new entry quale Natascia.

«Ha per caso informato la Bellante che ha accettato un altro appuntamento?» domando con indifferenza fingendo di guardare giù in platea, rimirando varie persone vestite di tutto punto.

Tuttavia, nonostante non stia guardando in faccia il prof., mi pianta i suoi occhi addosso. Immagino vi sia un'espressione sorpresa sul suo volto.

«Si fa sempre più impertinente, Brunori» asserisce sconcertato, «tutta questa curiosità da dove viene fuori?».

«Solidarietà femminile» racconto la cazzata delle cazzate, la stronzata del secolo.

Io solidale con la Bellante? Potrei ridere fino a Natale.

«Che cosa le andrà a dire? Che andrò a un romantico pranzo con mia sorella maggiore?» lo sento ridere lievemente divertito dalla mia affermazione.

Sorella? Natascia è sua sorella? Ma da quando Emilio ha una sorella? Mio dio, che figuraccia colossale!

Forse è meglio se mi rimetta il giacchetto e tolga il disturbo da lì, praticamente gli sto dando prova di essere la regina delle cretine, altro che di ghiaccio.

«Ha una sorella?» mi ritrovo a chiedere evitando di buona lena i suoi occhi.

«Ne ho due in realtà, gemelle, entrambe più grandi di me, e non nascondo che sia un vero inferno sopportarle tutt'oggi» mi spiega Lunanuova in maniera del tutto tranquilla. Uhm, forse potrei permettermi di guardarlo adesso.

«Mi dispiace» mormoro sinceramente dispiaciuta per la gaffe, «non avrei dovuto...».

«... trarre le conclusioni affrettate? Un comportamento tipico di una giovane liceale, non mi stupisco» m'interrompe la frase a metà. E non posso che dargli ragione. Sono stata troppo avventata.

«Se lei non fosse così avaro di spiegazioni» dico facendo spallucce.

«Sono una persona cui piace la riservatezza. Non è un qualcosa che rientra nei miei parametri quello di raccontare la storia della mia vita a chiunque. I fatti personali devono rimanere tali» sottolinea con fermezza, facendomi pure sentire in colpa.

Nessuno meglio di me può capire quanto sia bello ed importante l'essere riservati, senza sbandierare ai quattro venti i cavoli propri.

Io adoro la riservatezza, al Caravaggio non do la minima soddisfazione agli altri di sapere informazioni su di me, mi piace rimanere avvolta in una nube di mistero. Dunque non posso biasimare Emilio.

«Ha ragione, professore, mi scusi» chino il capo in segno di resa.

Adesso mancano solo dieci minuti all'inizio dell'opera e quasi tutta la sala si è riempita. La spalla del mio accompagnatore ha ripreso a sfiorare la mia, una piccola scossa elettrica mi pervade la spina dorsale.

«Perché se n'è andata ieri sera?» sento che mi chiede dopo aver fatto un sospiro.

Diamine, speravo in segreto che non avesse ritirato fuori l'argomento imbarazzante che volentieri avrei scordato.

«Perché ho ben pensato che fosse anche fin troppo disagiante per me e pure per lei» racconto la verità voltandomi verso di lui, un po' di coraggio è giusto tirarlo fuori.

«Disagiante? Perché l'aver inventato di chiamarsi Maria Antonietta, di essere mia cugina e di presentarsi con l'intento di tirarmi addosso delle uova cosa era?» si mette a ridere il mio professore quasi scettico della mia risposta.

Un sorrisetto malefico mi affiora fra le labbra, irritata dalla sua sfacciataggine palesemente copiata dalla mia. Sbatto con lentezza premeditata le palpebre prima di togliergli l'assiduo dubbio.

«Era una vendetta a nome di tutto l'Artistico» enuncio con voce morbida e zuccherosa come il miele, «non creda che fossi lì per lei, non si senta troppo importante».

«Uhm, non è che riesca a crederci più di quel tanto. Come nemmeno ho creduto alla fandonia che lei stesse aspettando la signorina Obi Malek, io penso che sia qua per un'altra ragione» mi espone Lunanuova con un'occhiata carica di provocazione.

Deglutisco di fronte alla sua affermazione più che autentica.

Abbindolare uno della mia età è semplice, abbindolare uno più grande per di più professore è tutto il contrario, e ora comincio a farmene una ragione. «E se anche fosse? Dove sarebbe il problema?» gli faccio alzando il mento intenzionalmente.

«Il problema è che sarebbe tempo perso, signorina Brunori» è ciò che dice con una certa serietà il professore, una frase quasi intrisa anche di tristezza, «è da qualche tempo che non mi fido più del genere femminile, niente di personale ovviamente. Però so riconoscere i miei limiti e mi sembra giusto farglielo sapere».

Ho appena smesso di respirare.

«Perché?» farfuglio piombando totalmente nella confusione.

«Per un motivo non troppo interessante e che sicuramente neanche vorrà sapere. Oh, sta per cominciare lo spettacolo» conclude Lunanuova discostando gli occhi da me per poi rivolgerli verso il palco.

Le luci con la dovuta calma si attenuano al fine di smorzarsi del tutto e il sipario rosso bordeux prende ad alzarsi.

Nel frattempo un altro sipario invece è calato, su di me.












Matilde.





Faccia da cazzo, 18:21

- Al Centro Ippico, ho appena finito di allenarmi. Perché?



Leggo il messaggio di Leonardo una volta soltanto e tanto basta a farmi aumentare il respiro e la sudorazione.

È una sensazione cui è da tanto che non percepisco, è un qualcosa di strano risentirla unicamente adesso. La trovo un tantino opprimente però è come una ventata d'aria fresca nel deserto arido che è il mio cuore, succube della siccità e della totale mancanza di vita.

È vero, ho detto proprio ieri notte a Leonardo che prima avrei parlato della sua dichiarazione con le altre Matilde che convivono al mio interno, intavolando con loro una sorta di chiacchierata vera e propria, come se ci dovessimo sedere attorno ad un tavolo rotondo e sorseggiando prosecco al fine di discutere di un argomento serio quale la mia futura mossa da mettere in atto.

Già, gli ho detto proprio così.

Eppure mi sento una tale idiota ad averlo lasciato col fiato in sospeso in quella maniera, in equilibrio su una corda tesa fra la cima di due montagne quali la mia insicurezza e la mia indecisione. In fondo lui si è messo in gioco, ha rischiato il tutto e per tutto, mentre io ho preferito usare lo scudo anziché la spada per controbattere alla sua azione.

È anche vero, per contro, che io preferisco rifletterci al meglio su questioni delicate come questa, soprattutto se dall'altra metà c'è la persona che fino a ieri sprizzava odio da tutti i pori per me, come io per lui. Poiché è una questione principalmente ambigua e insidiosa che ho motivo in più per pensarci sopra.

Diciamo che la mia intenzione, come la stessa che hanno avuto Marta e Diego nello stesso istante poche ore fa, è quella di rassicurarlo come meglio mi è permesso. Devo dare a Leonardo almeno uno straccio di dimostrazione, altrimenti quella senza cuore e stronza sarò io.

Scrivo il testo del messaggio da mandargli sulla chat di WhatsApp; tutt'ora sotto il suo nickname decisamente carico d'inventiva spicca la parola "online", mi viene da ipotizzare che mi stia aspettando rifiutando di bloccare lo schermo in un gesto d'indifferenza, il cui la maggior parte delle occasioni è visto come tattica al fine di non farsi vedere pronti a pendere dalle labbra del prossimo. Mi allieta, parlando in tutta onestà.

Cammino avanti e indietro per tutto il perimetro della camera da letto di mio padre, premendo i polpastrelli contro il display appannato dal mio respiro irregolare.

Io, 18:26

- Vorrei parlarti.

Invio il messaggio che seduta stante viene visualizzato. Il senso di ansia non fa che aumentare, il che m'invoglia a fare qualcosa di sconsiderato e di scellerato.

Faccia da cazzo, 18:26

- Ora?

"No! Fra cent'anni vorrei parlarti, razza di bamboccio! Il ragazzo frequenterà anche il Classico ma intuito doppio zero come la farina!", serro le palpebre lievemente irritata dalla sua mancanza di presentimento.

Io, 18:27

- Sì, ora. Come posso trovarti?

Faccia da cazzo, 18:27

- Vieni qui al maneggio dove mi alleno, si chiama Centro Equestre Cavaliere Toscano, sai dove si trova?

Io, 18:28

- A grandi linee sì, ma tranquillo, uso Maps!

E chiudo il telefono andando di corsa a infilarmi le scarpe, legandole con una presa talmente stretta che ho timore di non slegarle più.

Mi fiondo al bagno per lavarmi i denti, la bocca impastata è una delle cose più fastidiose al mondo dopo che hai dormito, e per ravvivarmi i capelli del tutto indiavolati. Okay, l'aspetto non è dei migliori del mio repertorio ma poco m'importa, non c'è tempo per farsi una doccia e per cambiarsi.

Quando qualcuno vuole osare non c'è tempo da perdere in inutili quisquilie e cose frivole come i capelli o la maglietta che s'indossa.

Basta esserci con il corpo e soprattutto con la mente, questo è l'importante.

Io ho deciso di esserci, con tutta me stessa. Marta ha deciso di esserci per Lunanuova. Diego ha deciso di esserci per Thalìa. Questo sabato abbiamo scelto di osare un po' tutti quanti noi.

Nella casa di Fabrizio regna il silenzio, segno evidente che quest'ultimo sia andato al ristorante, oltretutto un biglietto scritto di suo pugno sopra il tavolo della cucina ha catturato la mia attenzione. Dice che, come volevasi dimostrare, è partito per andare a lavorare, che non mi ha voluta svegliare perché dormivo come un sasso e che al più presto vuole organizzare una rimpatriata con zia Angelica, tutti tre insieme.

Sarebbe un ritrovo da paura con i fratelli Castellani insieme alla figlia.

«Grazie per il pranzo, papà» mormoro posando il foglietto da dove l'ho preso, agguantando le fibbie dello zaino ed il giacchetto, con chiavi di casa e sigarette all'interno. «Ti prometto che non sarà come con Gabriele» aggiungo prima di aprire il portone di casa e uscire da là.









Arrivo all'entrata del Centro Equestre Cavaliere Toscano dopo quasi venti minuti e poco più.

Mi sembra inverosimile di esserci riuscita, soprattutto per via delle mie infinite imprecazioni agli impediti che sedevano dietro al volante, soprattutto per aver quasi investito due pedoni rimbecilliti che hanno avuto il buon cuore di sfidare la sorte e attraversare al di fuori delle strisce pedonali, soprattutto per quei cazzo di semafori perennemente fermi sul rosso quando si trattava di me e soprattutto per aver sbagliato strada più volte.

Google Maps non è sempre efficiente come vuol far credere, soprattutto quando il segnale internet ogni tanto andava via dal mio cellulare, facendo così arrivare la giusta indicazione troppo tardi.

E allora giù, altre imprecazioni poco consone ad una donzella, deludendo in segreto mia mamma e la sua fissazione che le parolacce di non rendono migliore una persona.

"Mammina, evidentemente devi farti una settimana al Caravaggio, poi ne riparliamo!", penso saggiamente annuendo a occhi chiusi.

L'ingresso del Centro Equestre è illuminato a dovere, l'enorme insegna in legno torreggia imperiosa sopra il tettuccio della mia Yaris.

Un viale costeggiato da un lungo steccato bianco in ambedue i lati mi da il benvenuto, steccato che va a formare due immensi recinti sia a destra che a sinistra. Al loro interno vi sono due gruppi di cavalli di colori e razze ben differenti fra di loro, ognuno con la sua particolarità, ognuno con la sua bellezza.

In fondo al viale vi è una casetta interamente costruita in mattoni che mi suggerisce l'idea che si tratti del Club, dove i vari cavalieri si ritrovano un volta finito l'allenamento per rilassarsi e dove vi conservano le coppe e le medaglie vinte nel corso degli anni.

Ogni maneggio rispettabile ne ha uno.

Sembra quasi di non essere a Firenze contando l'innumerevole quantità di alberi che mi circondano, per non parlare del terreno interamente in erba o in terra e sassolini. È come un piccolo angolo di paradiso.

Il cancello d'ingresso al viale è aperto, dunque posso anche procedere.

Premo il piede sull'acceleratore rilasciando lentamente quello sul pedale della frizione e la macchina riprende a marciare a passo d'uomo, rispettando il limite di velocità imposto all'inizio della via. Il parcheggio lo si nota subito dal momento che posteggiate vi sono altre vetture, Jeep, pick-up e Range Rover perlopiù, finché i miei occhi non catturano la Volvo leggermente sporca di polvere di Leonardo.

Accosto la mia macchina vicina alla sua, tanto per andare sul sicuro e smonto atterrando su una superficie di brecciolino. Ed ecco che sono catapultata in tutto e per tutto nel regno dell'equitazione. Ovunque io mi giri rimango sempre più meravigliata da quel posto dove mai ci avevo messo piede.

La scuderia con gli annessi box dei cavalli e gli annessi paddock è collocata sulla sinistra, con una dimensione alquanto estesa e spaziosa e costruita interamente in legno. Dinanzi a me, qualche metro più avanti del Club, ci sono tre campi che potrebbero far invidia a quelli delle partite di calcio: uno adibito per il salto agli ostacoli, uno adibito per il dressage ed un altro al coperto, utile durante la stagione fredda e durante i giorni di temporale. A destra, per finire, altre varie recinzioni con molti altri cavalli al loro interno.

Un paio di camion per le trasferte sono immobili ai lati della staccionata.

Inutile dirlo, ma questo è uno dei migliore centri equestri che abbia mai visto. Somiglia quasi al ranch di Pine Hollow della serie tv Saddle Club che guardavo quando andavo ancora alle elementari. È un piacevole deja vu quello che sta annebbiando la mia mente per qualche secondo.

Successivamente la mia attenzione viene catturata da due ragazze che si stanno allenando insieme nel campo al coperto e dovutamente illuminato, mentre un uomo dall'aspetto di un dipendente tira al seguito tre cavalli al fine di rimetterli dentro i rispettivi box, un altro uomo ancora è impegnato a inforcare la paglia mettendola su una carriola, ignorando i tentativi di gioco di un simpatico golden retriever. Chissà dov'è Leonardo... non mi sembra di riuscire a vederlo.

Non mi resta che mettermi a cercarlo.

Per cui mi stringo addosso il mio giubbotto di pelle e comincio ad avanzare di qualche passo, avvicinandomi sempre di più al Club. I sassi scricchiolano sotto la suola delle mie Dr. Martens piene di righi e strisciate varie, una sottile aria gelida mi colpisce in pieno viso arrossandomi di sicuro la punta del naso. La mia chioma si va a scompigliare, ma non me ne preoccupo, più disordinati di così non possono essere.

«Cerchi qualcuno?» sento qualcuno che penso si stia rivolgendo a me, l'estranea spuntata da chissà dove.

È l'uomo con in mano il forcone ad aver parlato, che ha interrotto il proprio lavoro per qualche minuto.

«Ehm, in realtà sì, sto cercando Leonardo Aspromonte, si allena qui» gli spiego in breve sperando che sapesse indicarmi la direzione in cui devo andare.

«Ah sì, il tipetto proprietario di tre dei migliori cavalli qui al centro! Lo trovi alla veranda del Club» mi rammenta egli sbracciando verso le mie spalle, verso le mura in mattoni.

«Ti ringrazio» gli sorrido riconoscente e riprendendo a camminare. Almeno adesso ho una meta ben precisa da seguire.

Supero di buon grado un trio di ragazze vestite impeccabilmente con la divisa da cavallerizza – ossia aderenti calzoni a vita alta, maglietta bianca sotto di essi, giacca abbottonata come si deve, stivali lucidi in pelle nera alti sino al ginocchio e cap di ultima generazione – sedute su una panchina intente a ridacchiare fra di loro. Normalmente chi possiede un cavallo e chi fa equitazione come sport significa che può vantare una condizione economica agiata, diciamo.

Ho la netta sensazione di essere un pesce fuor d'acqua. Ma non mi lascio intimidire, sono qui perché voglio parlare con Leonardo e con Leonardo parlerò!

Continuo a muovere le gambe senza fermarmi e rapidamente raggiungo il cospetto del Club, e mi tocca ammettere di quanto sia oltremodo delizioso! Viene la voglia anche a me di iscrivermi per fare qualche lezione.

Lancio un'occhiata sulla veranda, costruita con del materiale a base di legno a differenza della struttura ospitante. E finalmente trovo il diretto interessato.

Leonardo è in piedi, poggiato al parapetto con i gomiti e chinato con la schiena, una gamba tesa sopra l'asse orizzontale e l'altra ben dritta, piantata a terra.

Anch'egli è vestito con la tenuta da allenamento, calzoni aderenti, stivali alti fino al ginocchio con tanto di speroni e maglietta a maniche lunghe bianca immacolata. I suoi capelli sono spettinati, evidentemente il cap deve averglieli sistemati a dovere.

Ora posso morire in pace, ora posso confermare di aver visto il dio Apollo con un paio di calzoni diversi da quello che è solito a portare ogni dì. Non sono i jeans, lo so, però non è male come inizio.

Sto per richiamare il suo nome per attirare la sua attenzione, quando dalla sua destra spunta fuori una ragazza che non avevo ancora scorto. Anch'ella vestita con la tenuta da monta all'inglese e con una lunga treccia che le va a sfiorare oltre le spalle.

È alta — più alta di me — e ha i capelli quasi che si avvicinano a una tonalità biondo scuro o a un castano chiaro.

La ragazza sta indubbiamente parlando con Leonardo, ho conferma quando lui muove le labbra e lei allunga le sue in un largo e luminoso sorriso, avvicinandosi paurosamente al suo fianco. Se fino ad oggi non avevo mai reputato Olivia e Leonardo una coppia apparentemente bella, be', adesso sono costretta ad affermare con amarezza che quei due vicini sembrano quasi perfetti, Leonardo e quella misteriosa ragazza con le gambe da fenicottero.

Mi mordo il labbro inferiore mentre rimango impalata a fissarli senza sapere come diavolaccio muovermi.

Perché Leonardo non mi ha detto che fosse in compagnia? Se me l'avesse detto avrei evitato di prendermi il disturbo. Mi sento una totale e patetica idiota.

Che ci faccio qui? Davvero volevo parlare con lui e dirgli... dirgli che cosa esattamente? Non mi sono preparata in alcun modo nessun tipo di discorso, nemmeno durante il tragitto per venire fin qua.

Oltre che idiota mi sento persino bipolare.

«La mia bravura è questa, di altalenarmi tra un'emozione e l'altra senza dover essere internata per bipolarismo» ridacchio fra me e me, sdrammatizzando un qualcosa nel profondo che mi sta facendo sentire immensamente triste.

Forse ho sbagliato a raggiungerlo. Avrei dovuto davvero conversare con le altre Matilde e sentire il loro parere.

"Se te ne andassi risparmieresti la delusione", mi sussurra crudele la vocina interiore.

«Già» le do ragione senza smettere di guardare la scenetta di fronte ai miei occhi, l'altezzoso e distaccato Leonardo che – tutto è in questo momento meno che altezzoso e distaccato – s'intrattiene anche con fin troppo trasporto insieme a un'altra ragazza.

Come ad averlo chiamato con la forza del pensiero, egli sposta i propri occhi verso il punto in cui mi trovo io e spalanca quest'ultimi appena si rende conto della mia presenza. Eppure sapeva benissimo che sarei arrivata da un momento all'altro.

E gli volto le spalle, dando ascolto alla voce di una delle Matilde di pochi istanti fa.

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