30. Ora prova a conviverci













Ho sempre giudicato bene, in verità, le persone che, a un certo punto della loro esistenza, spalancano le braccia al fine di sfilarsi quella pesante coperta intrisa di bugie, menzogne, pressioni e soprattutto false facciate.

Coloro che si liberano di punto in bianco di un qualcosa che le frenava, che impediva loro di guardarsi allo specchio e sorridere al vero riflesso di se stessi, privo di qualsivoglia maschera imposta dalla società. Coloro che un attimo prima si stropicciano gli occhi per via del sole accecante e l'attimo dopo si ritrovano a urlare davanti a un'intera città, gridando ai quattro venti ciò che davvero pensano, ciò che davvero sentono, come stanno in verità i fatti.

Quelli che, in un certo senso, si ribellano alle ferree prassi istituite dagli altri, quelli che si ribellano a ciò che hanno costruito per compiacere e assecondare chi li circonda. Li giudico più che bene io, li stimo e provo per loro un profondo rispetto.

È un po' come far avviare una rivoluzione all'interno di noi: una salda e sicura direzione verso un cambiamento radicale – però, purtroppo, non è detta che possa durare per sempre, infatti si sa, potrebbe rivelarsi un processo sia a lunga durata, sia rapido.

Ad ogni modo, non è un qualcosa di facile e che viene a comando, non tutti riescono a fare i conti e a tirare le somme con i propri pensieri e le proprie idee, non tutti riescono ad abbassare la testa e a ammettere "no, con questo modo di riflettere non mi piaccio", "no, comportandomi così mi sembra di sbagliare", "no, vorrei agire diversamente", "no, basta nascondersi, basta mimetizzarsi", "sì, da oggi sarò un qualcuno di diverso".

Non è facile ammettere certe cose con se stessi, non è facile autoanalizzarsi scoprendo che persino dentro di noi abbiamo delle falle, degli errori, dei difetti da correggere.

Gli audaci ci riescono, gli intrepidi ce la fanno, i temerari osano. I codardi retrocedono, i vigliacchi falliscono, gli incerti rimangono statici nelle loro dinamiche senza futuro e senza cambiamento, destinati a essere succubi del prossimo fino a che non si fermeranno quei famosi dieci minuti per rendersi conto dell'errore che stanno trascinando dietro da troppo tempo, gravoso come un macigno.

Come ho detto, non è un qualcosa di facile, niente a che vedere con i modi di dire "facile come bere un bicchier d'acqua" o "facile tanto da poterlo fare a occhi chiusi".

Altrimenti, diamine, lo farebbero tutti. Non sarebbe più un qualcosa da ammirare e da prendere come esempio.

Non avrei mai pensato di poter affermare un concetto del genere ma... Leonardo c'è riuscito.

Leonardo ci ha inizialmente provato durante quel periodo, a suo dire, del terzo anno; in quel frangente è stato un processo breve, sbrigativo, lavativo, senza troppo impatto sulla sua persona.

Poi però ci ha riprovato, in questo venerdì di questo gelido novembre del corrente 2014, Leonardo ha spalancato le braccia togliendosi di dosso quella zavorra che, ipotizzo, si porta appresso da eccessiva durata. Leonardo ha preso per prima volta dopo chissà quanto un'enorme boccata di libertà, un immenso respiro di sollievo.

Infatti si può meravigliosamente notare dalle sue labbra semi-aperte anziché serrate, come solitamente è avvezzo a tenerle, dalle sue iridi sì fredde e distaccate dettate da quel colore così siberiano, però intrise di quell'emozione calorosa e tiepida che ti fa capire dello sforzo immane cui è stato appena sottoposto.

Per Leonardo non è stato banale raccontarmi ciò che avvenne fra me e lui, ciò che io ho da sempre ignorato e mai ricordato, ciò che lui ha vissuto e tutti i dì condiviso soltanto con sé e con nessun'altro. Però, in cuor suo, sapeva che era giusto farlo, sapeva che era un qualcosa che doveva compiere.

E c'è riuscito.

Ha portato a termine la sua missione.

Il ragazzo dai capelli biondi stringe con presa quasi eccessiva la mia mano, mai lasciata un solo attimo durante la sua narrazione. Sentiva il bisogno di aggrapparsi a qualcosa – a qualcuno – per non perdere la lucidità. Sentiva la necessità del tocco fisico, del calore delle mie dita intrecciate sulle sue.

Per tutto l'arco della sua storia non ho aperto una singola volta la bocca, non ho osato minimamente sfilare via la mano, l'ho lasciato sfiorarla e carezzarla a suo piacimento, quasi che mi ci sono crogiolata in quell'affettuosità così intrinseca e indubbiamente esclusiva. Riservata solamente e unicamente a me. Mi ha fatta sentire speciale, lo ammetto.

Un po' difficile in realtà, però facendo a questa maniera mi sento in pace con Matilde, sento di fare la cosa giusta. Ora non rimane altro che assorbire fino all'ultima parola pronunciata del suo ricordo, inglobare il tutto ed esaminarlo con la dovuta minuzia e il dovuto criterio. Questo è ancor più difficile, perché ciò che mi ha detto Leonardo è veramente un qualcosa di forte, inaspettato e intenso allo stesso tempo.

Cazzo... allora quella volta in quel vicolo buio e freddo non è stato il primo bacio che ci siamo scambiati.
Ma perché io non ho memoria affatto di questo evento? Me la ricordo la festa che diedero i Rappresentanti d'Istituto alla fine del mio terzo anno, mi ricordo che nonostante la mia avversione per l'altro indirizzo trovai quella circostanza divertente, e ricordo anche che assimilai diversi bicchieri di alcol e che a un certo punto caddi in una sorta di abisso colmo di abbattimento, repulsione verso il genere umano e nausea per la falsità che regnava dentro quella palestra, con tutti noi che ballavamo e ci divertivamo a suon di musica.

Diego si era preso cura di me in quanto io ero in tutto e per tutto una persona delirante e sofferente. Diego pure era all'apice dell'ubriachezza, ma ciò non gli impedì di scortarmi in un luogo isolato, sicuro e lontano da tutto quello che mi stava facendo momentaneamente impazzire.

In quel delicato periodo post-centro, malgrado tentassi in ogni modo di resistere e tenere duro al mondo reale, bastava anche una banalità a farmi ricrollare. E Diego questo lo sapeva più che bene, non sarò mai in grado di ripagare questo debito nei suoi confronti.

Ecco, ricordo solo fino a qua, fino al punto in cui il mio amico mi ha depositata sopra il grande materasso per il salto con l'asta. Poi vuoto totale, è come se una gigantesca gomma da cancellare sia passata e ripassata in quel lasso di tempo facendone svanire ogni associazione e ogni percezione.

Non ricordo minimamente Leonardo che mi sussurra che sono sprecata per un indirizzo come l'Artistico, che se fossi stata al Classico le cose sarebbero andate diversamente, soprattutto non ricordo il suo posare le labbra sopra le mie. Niente di niente. Nessuna sensazione, nessuna lampadina accesa.

Un po' me ne rammarico, a essere onesti.

Magari ogni sorta di legame, di situazione, di dinamica, di evento sarebbe potuto andare diversamente se avessi rimembrato, o perlomeno se avessi saputo!

Di colpo riprendo a sbattere le palpebre, che a quanto pare mi sono scordata di quanto sia vitale una funzione del genere. Sbatto le palpebre come se mi avessero appena tirato in faccia una gelida secchiata d'acqua, ricomponendomi appena visto che son caduta in completa e totale trance, tipico mio comportamento di quando sprofondo nel rimuginare.

È più forte di me, la bolla mi inghiottisce portandomi in una dimensione superiore quale quella della mia testa. Sarei capace di ignorare chiunque, persino coloro che ho citato, il che spiega il mio elevato estraniamento dalla realtà.

Comunque, quando riprendo le mie normali facoltà sensoriali, posso osservare con limpidezza la figura di Leonardo ancora seduto composto dinanzi a me. La mia mano stretta nelle sue, le sue gambe che mi sfiorano appena i lati dei ginocchi incrociati, il suo volto inclinato percettibilmente verso sinistra intento a scrutare ogni mio minimo movimento.

Siamo ancora qua, sopra questo muretto, con la mezzanotte passata da un pezzo e con il rispettivo odio che man mano va ad affievolirsi. Almeno è quello che riesco a sentire, quello che sto provando io.

Chissà mai quello che sta lontanamente pensando lui. E vorrei domandarglielo, dico sul serio, ma attualmente sono oltremodo bloccata, non saprei da dove cominciare, non saprei con quale parola, frase, sia meglio esordire. Ho paura di rovinare il momento, le parole possono distruggere – come anche aggiustare –  in un solo attimo anche il più solido e corazzato castello.

«...Be', di' qualcosa» esordisce Leonardo dopo aver rumorosamente deglutito per attirare la mia attenzione, percorrendo avanti e indietro la linea della mia cicatrice.

Un brivido mi parte da essa per poi percorrere tutto il braccio, finendo poi nel collo e terminando sulla lunghezza della spina dorsale. Al che sospiro, alzando ed abbassando le spalle. Mi scosto una ciocca di capelli dietro l'orecchio e ricambio il suo sguardo metà afflitto. Lotta per non darlo a vedere, solo che sta per essere sopraffatto.

«Tu» apro finalmente bocca e do fiato alle corde vocali, un lieve pizzicore m'invade le pareti della gola, «mi hai disprezzata, fatta passare per una nullità, screditata quotidianamente, detestata, derisa, umiliata, odiata come se non ci fosse un domani» parlo lentamente senza cedere di voce, «perché ti ho sconvolto l'esistenza e senza neanche volerlo».

La mia è più una constatazione dei fatti più che una domanda. Sto tutt'ora realizzando.

«Era la sola maniera che avevo per conviverci, Matilde. Non potevo fare altrimenti. Averti davanti ogni singolo giorno, per tutta la durata dell'anno scolastico, vederti girovagare per i corridoi del Caravaggio, per il cortile, vederti sempre un tutt'uno con quelli del tuo indirizzo e sapendo ciò che avevo condiviso con te non mi ha lasciato chissà quale altra scelta!» si difende Leonardo contraendo la mascella, sta intridendo ogni termine con lo stesso tormento che fuoriesce dalle sue iridi limpide e dalla profondità infinita.

«La scelta ce l'avevi. Venire da me, parlarmi a quattrocchi, affrontare la situazione. Magari potevi usare la scusa dell'ubriachezza e mandarmi al diavolo subito dopo, dubito che ne avrei fatta una tragedia! Al tempo un rifiuto amoroso non sarebbe mai stata la mia priorità come ben sai!» esclamo tirando su con il naso, allargando gli occhi.

«Hai rotto l'anima a tutto l'Artistico al completo e solo per ripicca verso di me?» aggiungo infine con tono scettico, poiché ancora faccio fatica a credere a una cosa simile.

«Venire da te» ripete Leonardo facendo un sogghigno sprezzante degno del suo vasto repertorio, lo dice come se fosse un qualcosa di impensabile, di inaudito, «parlare con una ragazza dell'Artistico e dirle che l'avevo baciata... un gesto un po' azzardato e insensato per il Leonardo di quel periodo. Rischiare che tu lo dicessi a Falco, a Marta o a chissà chi altro... si sa, un sussurro nelle mura di un liceo diventa un qualcosa urlato al megafono alla fine».

«Pensavi che me ne sarei andata in giro a vantarmene? Mi spiace, risposta errata» taglio corto sfilando la mano una volta per tutte e incrociando le braccia al petto, lottando contro l'impulso di andarmene.

No, io rimango qua! Ad affrontare la situazione come una persona matura! Una volta tanto devo prendermi le mie responsabilità.

«No, non ho pensato assolutamente quello. Non sei mai stata quel tipo di persona da quando che ti sei lasciata con Pomerani. Ho solo preferito tutelarmi, ho preferito omettere un pettegolezzo che avrebbe fatto gola anche al più invisibile e insignificante degli studenti, che avrebbe mandato in subbuglio tutta la scuola» mi spiega Leonardo alzando appena la tonalità, giusto per sovrastare la mia.

«Tutelarti... dalle prese in giro, dalla vergogna, dal pentimento, dall'esilio sociale che ti avrebbero riservato i tuoi amici se solo avessero saputo a quale livello ti sei abbassato» ribatto tagliente e con una punta di amarezza, siccome il livello a cui si è dovuto abbassare sono io.

«Non mi sono abbassato a nessun livello, Matilde, dannazione, ma come puoi essere così venale?!» urla stavolta Leonardo, sbottando come esattamente faccio io nelle situazioni di sotto pressione, addirittura gesticolando con le braccia.

Mi lascia basita questo suo innaturale sbracciare, lui è sempre posato e composto in qualsiasi situazione, dalla più normale alla più assurda.

«Ma cosa credi? Che ogni volta che ti davo contro provavo piacere? Sì, all'inizio era così, mi sentivo potente, impenetrabile, invincibile, convinto di aver sopraffatto una sensazione che a un qualcun'altro avrebbe potuto mandare in pappa il cervello. Però, quando ti ritrovi a portare dentro un ricordo del genere, è più che normale che prima o poi sarebbe sbucato fuori dal nulla e rovinando tutto il tuo idillio interiore. Quindi no, dopo un po' ho smesso di sentirmi appagato ogni volta che sputavo acredine su di te, per cui dovevo sfogarmi in qualche modo e quale miglior scarica di rabbia se non quella di rifilarla a voi dell'Artistico, l'indirizzo nemico per eccellenza?» prosegue agguerrito più che mai, evidentemente non si è ancora liberato del tutto di quella pesante e opprimente coperta.

Tuttavia me ne sto in silenzio ad ascoltarlo, sentirlo spiegare, ascoltare il suo punto di vista, provo a mettermi nei suoi panni che forse non sono stretti come pensavo, anzi, forse anche troppo larghi per me.

«Ogni volta che sentivo affiorare qualcosa, ogni volta che il mio cuore aumentava il battito, allora studiavo qualcosa con cui potervi colpire: una soffiata a Gandolfo, una parola offensiva a qualche d'uno, infamarvi, farvi sentire inferiori... qui sì che le opzioni sono tante» proferisce pacandosi poco a poco.

«Per colpa di questa tua non accettazione mi sono affettata una mano» sussurro sciogliendo le braccia dall'intreccio al petto, andando poi a stringere con delicatezza la mano con cui avevo colpito lo specchio dell'Arcadium, «per il tuo punzecchiarmi senza fine, per il tuo voler per forza portare le persone all'esasperazione».

«Credimi sulla parola, non pensavo che avessi ancora problemi a gestire la tua collera. Sono rimasto scioccato, quella volta» confessa Leonardo con serio dispiacere, venendo avanti con il bacino al fine di avvicinarsi.

«Ce li ho, ebbene, non come prima, però ancora ce li ho» lo metto al corrente con mezzo sorriso piuttosto sadico, «non andranno mai via, mai! Saranno sempre parte di te, che tu lo voglia o no».

«Alla festa di Halloween infatti ho cercato d'impedirtelo. Di farti del male» mi ricorda con la più piena delle ragioni, a quando mi stavo scorticando volontariamente la pelle delle mie braccia.

«Lo so» proferisco guardando da un'altra parte, avverto gli occhi che mi pizzicano. Cattivo segno. «Se sentivi affiorare qualcosa e il cuore battere più forte allora potevi impegnarti di più e cercare qualcuno che riuscisse a rimpiazzarli» aggiungo mentre mi metto a rimirare l'interno di una finestra illuminata al secondo piano di un palazzo là vicino.

Dico questo non perché sia masochista o chissà cos'altro, ma perché le mie orecchie hanno il sottile desiderio di sentirsi dire delle parole in particolare.

Una sorta di conferma, una dimostrazione ai miei dubbi. Devo verificare se Leonardo abbia intenzione di dirle oppure no.

«L'ho fatto» è la risposta di Leonardo che giunge a me senza esitazione, infatti sono perfettamente a conoscenza di tal dettaglio.

«Ho tentato, ho provato, ho cercato di alienare quelle sensazioni con degli effimeri atti carnali. Non ho mai nutrito neanche lontanamente la speranza di trovare l'anima gemella, è un qualcosa che tutt'ora reputo sopravvalutato, però ho sperato che perlomeno cancellassero il mio stato d'animo. Molte ragazze, le quali diverse impressionantemente splendide, sono passate per il mio letto, nessuna è rimasta nella mia testa. Scopavo, mi sbarazzavo per un'ora o due degli oscuri pensieri e poi ecco che il circolo ricominciava» dichiara scompigliandosi i capelli con fare frenetico.

La sua chioma bionda in quelle condizioni disordinate è decisamente meglio di quando è tirata indietro con la brillantina, gli dà una certa aria da ragazzo scapestrato, bizzoso e indomabile.

«Sei molto chiacchierone stasera» gli faccio presente trattenendo un sorriso, tuttavia un angolo della bocca si arcua verso l'alto e mi vedo costretta a inarcare un sopracciglio tanto per dare alla mia espressione un'aria qualunquista.

Lo osservo di traverso, cercando di non farmi beccare totalmente in flagrante.

Leonardo profila il capo in mia direzione, intercettando il mio patetico tentativo di non farmi vedere. Scorge immediatamente quel mezzo ghigno stampato sulla mia faccia e non si fa attendere una smorfia simile da parte sua.

«Oramai ho iniziato. Non avrebbe nessun senso tirarsi indietro» osserva guardandomi con intensità mista a serietà.

E ho solamente un'ultima domanda da fargli, la domanda da un milione di euro, la domanda che più mi sta a cuore adesso. Alzo il mento a mo' di provocazione, cosicché da darmi l'impressione di starlo a rimirare dall'alto verso il basso.

«Se non avessi mandato la foto a Olivia, tu mi avresti detto tutto questo?» scaglio il mio dubbio come un coltello, ora sta a lui se farsi colpire o afferrarlo con maestria emulando un ninja.

Leonardo sostiene la mia occhiata indagatoria, standomi a pochi centimetri di distanza. La mia è una domanda davvero semplice e altrettanto semplice è la risposta.

«Sicuramente non l'avrei fatto oggi, forse neanche fra un mese» replica con sicurezza, «non so quando onestamente, ma so per certo che l'avrei fatto. Come ho detto, non è facile convivere con questa sensazione. E poi, mi pare che a livello fisico ti abbia già accennato gran parte della questione».

Faccio in modo di alzarmi in piedi, accogliendo dell'aria fredda nei miei arti arroventati.

«Mi fanno male le gambe» mi giustifico dandogli le spalle e agguantando una sigaretta.

«Ti fanno male le gambe?» ripete Leonardo sarcastico però senza alzarsi, e meno male!

«Sì, lo trovi strano? Io no, è da parecchio che siamo appollaiati qui! Inoltre si è fatto un casino tardi, domattina abbiamo scuola» borbotto mentre con mano tremante tento di accendermi la Winston che tengo a fior di labbra.

«Se fossi andata da Falco avresti sforato anche di più e forse avresti caricato pure una bella sbornia» asserisce lui con convinzione ed io non posso far altro che incassare il colpo.

Ha dannatamente ragione, se avessi passato la serata a casa di Diego ci saremmo sicuramente ubriacati, avremmo riso come matti delle stronzate più assurde e avremmo tirato fino alle tre del mattino. A volte abbiamo anche sfiorato le quattro.

«Non sono affari tuoi» dico una frase che ora, tecnicamente, non ha più valore per uno come Leonardo.

Finalmente la sigaretta si è accesa e non perdo tempo a prenderne un tiro, anzi due.

«Sei proprio un osso duro, tu eh?» sogghigna Leonardo alle mie spalle.

«Mio padre dice che sono molto testarda, sì» annuisco consapevole delle mie capacità.

«Tuo padre ti ha mai detto quanto sei contraddittoria, enigmatica e fin troppo timorosa?» mi chiede con un certo tono lascivo.

«Non sono timorosa» ribatto con certezza, tenendo a mezz'aria la mano con la sigaretta incastrata fra le dita.

«Allora perché mi dài le spalle? Tuo padre ti ha detto anche che è una forma di maleducazione dare le spalle agli altri?» è ciò che mi domanda facendo vacillare il mio temperamento, «Non è affar mio neanche questo?» mi anticipa prima che possa rispondere proprio a cotale maniera.

Come se mi avesse appena letto nel pensiero. Maledizione.

«Non mi va di guardarti. Siamo in un paese libero. Se non voglio guardarti non ti guardo» affermo irremovibile, strisciando la suola della scarpa contro il cemento sciupato del muretto.

«Nemmeno dopo che ti ho detto tutto quello che c'era da dire?» mi fa con quel tono di scherno, già, mi sta proprio prendendo in giro.

«Soprattutto per quello, faccia da cazzo!» esclamo contrariata.

«Dunque vuoi ignorarmi per il resto dei tuoi giorni» ipotizza lui.

«È una probabilità. Puoi iniziare a farci i conti tranquillamente» sbuffo tirando un altro tiro dalla Winston, «e comunque, non ho ancora detto che ho smesso di odiarti».

«Ti cito Shakespeare, ovviamente chiedendo perdono alla moltitudine di poeti e scrittori italiani. Amami o odiami, entrambi sono a mio favore. Se mi ami, sarò sempre nel tuo cuore, se mi odi, sarò sempre nella tua mente» recita Leonardo con quell'enfasi che fa sì che io mi volti nuovamente verso di lui.

Egli è rimasto nella stessa posizione di prima, con le gambe penzolanti ai lati del piccolo muro, l'unica differenza è che ha portato entrambe le braccia posteriormente, premendo i palmi delle mani sopra la superficie e gettando il capo all'indietro. Si è messo più "comodo".

E, ovviamente, mi osserva con quella sua occhiata strafottente e altezzosa dal dietro delle sue lenti da vista.

Cavolo. Cosa si aspetta che gli dica? Cosa si aspetta che faccia? Che mi butti nelle sue braccia dicendogli smancerie varie e sdolcinatezze degne di una di primo anno?

Dannazione, io ho paura. Esatto, mio padre non mi ha mai detto che sono fin troppo timorosa dal momento che non ho mai fatto nulla per farmelo dire!

È una rarità che io abbia timore di qualcosa. Ormai, a diciotto anni compiuti, ho già individuato e analizzato a fondo le mie potenziali paure: ho paura di far scontare colpe di cui io sono l'artefice agli altri che non c'entrano niente, ho paura della matematica poiché i numeri provano un senso di repulsione verso di me, ho una paura incontrollabile di deludere o ferire le persone cui tengo, e ho paura delle interrogazioni a sorpresa.

Ecco, queste sono le mie paure, paure comuni, che molte altre persone provano e non ne fanno un dramma troppo grosso.

Ma adesso, dalla confessione di Leonardo in poi, sto avendo paura. Non so cosa fare, non so cosa dire, o meglio, non so cosa sia giusto o sbagliato dire e fare.

Da una parte c'è Leonardo Aspromonte, che mi ha grossomodo fatto una dichiarazione bella e buona, dall'altra c'è quella dannata scuola – una scuola del cazzo, perdonate il francesismo –, che non esiterebbe a farti passare il minimo degli errori.

«Sai qual è una delle cose che più adoro fare, Leonardo?» mi rivolgo al ragazzo che non ha smesso per un singolo attimo di riservarmi la più intensa delle occhiate.

«Posso ipotizzare, però preferisco che sia tu a dirmelo, d'altronde non ti conosco così a fondo» pronuncia accennando un sorriso più morbido.

«Adoro fare discorsi con me stessa, sono talmente incoerente che mi contraddico da sola» gli spiego ridacchiando lievemente, gettando all'infuori il fumo che avevo inspirato dentro i polmoni.

E siccome vedo la fronte di Leonardo corrugarsi in un'espressione confusa decido di continuare, «Lasciami parlare con me stessa, devo interpellare diverse parti di me, capisci? È così, ho paura e prima di dire o fare qualcosa che poi si potrebbe rivelare sbagliato vorrei rifletterci».

Leonardo alza entrambi le sopracciglia dopo che mi sente parlare. «Hai paura?» mi fa mentre in quattro e quattr'otto si rimette in piedi, ritornando ad essere nuovamente e spaventosamente più alto di me.

«Sì, un po'» ammetto con ormai le carte in tavola belle che scoperte.

Il ragazzo si sistema le pieghe del suo cappotto delicatamente, e, sempre delicatamente, flettendo il dito indice mi posa la punta sopra il mio naso, percorrendone la forma e la lunghezza. Carezzandolo sino all'apice. L'ennesimo gesto che mi causa un brivido tutt'altro che di fastidio.

«Non avevi paura dopo che ci siamo baciati» fa presente con voce soffice.

«Uhm, ero disorientata la prima volta, ed ero incazzata la seconda» sottolineo prendendo l'ultimo tiro dalla Winston, facendo attenzione a non bruciarlo con il mozzicone ardente, «certo che di paura non ne avevo. Però adesso è diverso, se per te uno sguardo conta più del sesso per me una parola conta più di un bacio. Se sai coglierne il significato».

«Dovrei lasciarti chiacchierare con le altre Matilde che stanno dentro di te?» mi chiede Apollo con un che di divertito, per nulla arrabbiato o deluso, «Non so se posso fidarmi».

«Sono parecchie, magari una di loro merita fiducia» articolo e infine soffio il fumo dritto nel suo volto, in un tacito e futuro avvertimento di provocazione.











«Che gran rottura di cazzo, neanche quest'oggi mi è preso un infarto nel sonno» biascica DarthMart alla fine di uno sbadiglio, con la sigaretta pre-lezioni accesa e tenuta in bella vista stretta nella mano.

Acida e pungente come un concentrato acido nitrico.

«Stamattina ho pensato "Voglio ammazzarmi gettandomi sotto il Freccia Rossa dell'una" e sapete cosa ha risposto il mio senso del dovere? "Idea geniale"» invece mugugna Diego, anch'egli sbadigliando per le poche ore di sonno alle spalle e premendo la schiena contro il muro umido del Caravaggio con tanto di zaino.

«Ma fanno sempre così?» mi domanda atono Ludovico accanto a me, ovviamente senza giacchetto e con la catena al collo che scintilla sotto i raggi non troppo caldi del sole.

Due occhiaie spiccano non indifferenti dalla sua faccia perennemente apatica e passiva.

«Se ti riferisci alla loro voglia pazzesca di suicidarsi, be', è un qualcosa di nuovo anche per me» dichiaro mentre osservo i miei due amici alle prese con i loro pensieri funerei, funerei esattamente come le loro espressioni.

Però per Marta è facile da immaginare il perché: il rendez-vous con Lunanuova la sera prima deve averla scombussolata un pochettino. Per Diego, eccetto la serata "vomitosa", non so cosa potrebbe avergli reso pessimo l'umore tanto da volersi ammazzare sotto il Freccia Rossa dell'una.

Già, oltre che i miei grattacapi devo anche risolvere quelli dei miei amici, e che grattacapi!

«Avevo anche io la voglia di suicidarmi ieri sera, dopo che Mister Incredibile ha deciso che fossi un buon bersaglio per giocare al tiro del vomito!» commenta Marco sarcastico ravvivandosi i capelli riccioluti, senza dargli un ordine preciso, lanciando un'occhiataccia schifata appunto a Ludovico.

«Ringrazia piuttosto che Yousef non sia morto soffocato!» interviene Diego roteando gli occhi, «E, piuttosto di nuovo, pensa a me che ho dovuto pulire quello schifo per terra. Con le mie stesse mani. Poltiglie su poltiglie di Kinder Brioss puzzolenti» recita rabbrividendo al ricordo.

«Non fare la femminuccia» lo riprende Ludovico gettando all'infuori una densa nuvoletta di aria.

«Sono un cazzo di schizzinoso verso il vomito degli altri, permetti?» tuona Diego puntandogli il dito contro.

«Diego, perché stamattina volevi buttarti sotto il Freccia Rossa?» interrompo il loro diverbio rivolgendomi al mio amico.

«Non è ovvio?» allarga le braccia il ragazzo coi dreadlocks con enfasi, «Non so più che cazzo fare, Matilde. Thalìa era lì in camera mia ieri sera, con Roona è vero, ma con una qualsiasi e semplice scusa l'avrei potuta portare in disparte, parlarci un po' e dirle... qualcosa», conclude senza urlare il suo interesse per Thalìa Obi Malek ai quattro venti.

"Oh, come ti capisco, Dieghito", penso dentro di me comprensiva.

«Invece niente, proprio col cazzo che abbia osato fare una piccola mossa! Me ne sono stato lì, a bere come un alcolizzato di cinquant'anni e a fare da arbitro a quei due idioti, guardandoli mentre s'ingozzavano di merendine. Una dietro l'altra» sbotta alla fine Diego, addirittura piegando le ginocchia e imprecando mentalmente contro il terreno sotto di noi.

«Alla fine chi ha vinto?» s'intromette Marta sbadigliando un'altra volta.

«Ho vinto io» le toglie la curiosità Ludovico alzando la mano come se fosse in classe.

Diego fulmina con le sue iridi grigie prima Marta e poi Ludovico, poi di nuovo Marta e poi di nuovo Ludovico. «No, dico, ma vi sentite? Ma chi cazzo se ne importa di chi ha vinto?!» urla esasperato.

«A Marta evidentemente importa» lo corregge Marco con naturalezza.

«Bene, noto con piacere che non ve ne frega un accidente di me, continuo a sostenere l'ipotesi di buttarmi sotto il Freccia Rossa! Tante grazie, begli amici!» continua a sbraitare Diego in preda ad una visibile crisi isterica.

«Che cos'è tutto questo baccano? Pare stiate facendo una di quelle vostre manifestazioni per legalizzare la vostra amata cannabis» arriva una voce alle mie spalle, maschile e tremendamente beffarda.

Sia io che Ludovico ci voltiamo, in quanto siamo gli unici che non hanno davanti a loro la splendida ed idilliaca visuale.

Ullallà, un gruppetto alquanto interessante è al nostro cospetto. Un gruppetto composto da Giulio Viviani – colui che ha pronunciato tali parole gentili e sature d'amore –, Costanza, Camillo Bernardeschi, Alberto e, dulcis in fundo, il re.

«Ma voi dovete sempre apparire come delle ombre?» gli fa tagliente Diego come se non avesse minimamente sentito le parole di Giulio.

«'Giorno, Signora dei Sith» Alberto fa un cenno del capo a DarthMart che per tutta risposta arriccia il labbro superiore e lo ispeziona quasi fosse Jabba the Hutt.

Ovviamente non manca Ludovico e il suo guardare in cagnesco la figura di Leonardo, paragonabili a due galli da combattimento, con la differenza che Leonardo mai si abbasserebbe ad usare le mani.

Non ha mai dato il minimo accenno a voler ricorrere alla violenza, nemmeno quando Diego ogni tre per due lo ha afferrato per il colletto della camicia. E sono state alquanto numerose quelle occasioni.

Camillo sta quasi per aprire bocca e sparare una stronzata ma fortuna vuole che Costanza si faccia avanti e mi afferri per un braccio, «Devo scambiare due parole con Atena» si giustifica risparmiandosi di udire domande inutili e irritanti.

E con ciò mi fa allontanare dai due schieramenti, trascinandomi dietro di lei. Mettiamo la giusta distanza fra di noi e loro, quella giusta distanza che permette che possa parlarmi senza dover per forza sussurrare come il Ragno Tessitore di Approdo del Re.

«Allora?» mi chiede piantandosi di fronte a me con le braccia incrociate e un sopracciglio inarcato.

«Allora, cosa?» ripeto facendo finta di non aver capito, arrossendo appena.

"Allora?".

Allora, cazzo, ha saputo di me e Leonardo! Quella linguaccia lunga e biforcuta! Gli avevo chiesto categoricamente di non dire niente a nessuno, nemmeno ad Alberto! E probabilmente ad Alberto glielo avrà sicuramente detto, è un fratello adottivo per lui quell'Alberto Del Bianco del cavolo.

Che se lo portasse alla dannazione!

Ma che bisogno c'era di sputare il rospo con Costanza? Ho una buona opinione di lei, questo lo confermo, però non ho mai detto che posso fidarmi ciecamente!

Chi mi dà la garanzia che non appena se ne presenti l'occasione possa usare una notizia del genere per i propri interessi? O magari spettegolandone con Diana o Letizia Ilardi, e poi si sa come va a finire con i pettegolezzi... verrà fuori che io e Leonardo ci abbiamo dato dentro in quello stanzino alla fine del terzo anno!

Un pettegolezzo che avrà lunga vita dentro quella scuola, ne sono certissima!

«Allora perché l'hai fatto? Non è affatto da te, Atena» commenta Costanza soffocando una risatina incredula.

«Puoi essere più specifica? Ultimamente faccio un sacco di cose che non sono da me!» ribatto nervosamente rosicchiando un'unghia infischiandomene dello smalto spalmato sopra, guardandomi intorno.

Costanza fa un sospiro spazientito, non è abituata evidentemente a spiegarsi più di quel tanto. Poi sposta il proprio peso da una gamba all'altra, sporgendosi appena verso di me.

«In una sola mossa hai demolito la psiche di Olivia, l'hai allontanata in via definitiva, a quanto pare, dal suo amato Leo, hai spezzato il legame di amicizia, chiamiamola così, fra lei, Viola e Isabella, e per finire hai fatto bandire dalla scala sociale la povera Viola. Il tutto mandando una semplice fotografia. Sei un'ottima stratega, devo averti sottovalutata» racconta la ragazza del Classico leccandosi il labbro superiore con la lingua, come se si stesse gustando le parole uscire dalla sua bocca, «inoltre hai anche causato una scocciatura a me. Adesso Olivia mi sta inondando di messaggi» e mi mostra la schermata del suo cellulare strapiena di notifiche di WhatsApp, tutte a nome di Olivia.

"Mio dio, non ci ha scoperti, non ci ha scoperti! Leonardo è stato zitto! Costanza è all'oscuro di tutto!", urlo nella mia mente felice come una pasqua.

«Non è un atto da me, hai ragione, ma dovevo farlo e comunque è stata una ripicca verso Leonardo, non verso Olivia. Olivia, forse, ci ha solo guadagnato perdendo quella che dovrebbe essere la sua migliore amica» faccio presente con durezza, a dispetto dei miei pensieri all'esterno mi rivelo rigida come una statua di un museo, impassibile.

«Non ti è proprio andata giù la questione della gita, eh?» sogghigna Costanza guardandomi con curiosità.

«Non mi è andato giù il modo» la interrompo prima che possa aggiungere altro, «se non avessi avuto la fotografia gliel'avrei fatta scontare in un'altra maniera».

«E io che pensavo che volessi fargliela pagare a Olivia per quella questione della tua foto infamante...» dice l'altra fingendosi delusa.

«L'ho già risolta quella questione, anche se solo per metà» ammetto controvoglia, ancora con l'amaro in bocca per non essermi vendicata su quel testa di cazzo di Claudio.

E la verità è che non so nemmeno come fare, non conosco niente di lui, nessun punto debole, sembra quasi impenetrabile.

«Manca ancora Claudio, vero?» asserisce Costanza con il sorriso di chi la sa lunga neanche mi avesse letto nel pensiero. Infatti mi lascia interdetta.

«Sì, manca ancora Claudio» annuisco io con un sospiro.

«E non sai come fare con uno come lui» dà voce nuovamente alle mie riflessioni, un certo velo di malizia spunta dalla sua voce.

«No, non lo so» proferisco arrendevole, un po' infastidita da questa mia mancanza di "potere".

Infine Costanza Notai sfoggia l'espressione più serpentina del suo repertorio e anche la più compiaciuta. La ragazza crede moltissimo nelle sue capacità, ha un'alta considerazione delle sue strategie.

Alza il mento in un gesto che oramai per lei è qualcosa di automatico, di meccanico, e non come un cenno di sfida. Con questo suo modo di fare sta sulle palle a molte ragazze dell'Artistico e incute alquanto timore a molte ragazze del Classico, a differenza del trio di Olivia Costanza sa il fatto suo.

«Quella tua espressione non promette niente di buono» continuo a dirle osservandola di traverso.

«Prometterà qualcosa di buono» mi contraddice Costanza sorridendo, allargando ancor di più la bocca, le iridi le si illuminano di quella luce sadica e perversa, «Claudio merita di sentirsi una nullità una volta tanto. E per questo ne approfitteremo del veglione che si terrà a fine mese!».

Il suo entusiasmo potrebbe addirittura essere contagioso se solo non avesse quello sguardo maniacale e affilato come una lama medievale!

«Diego pensava di bucargli le gomme della sua auto» butto là con nonchalance.

«È evidente che Diego non abbia la benché minima classe!» sibila Costanza fulminandomi con gli occhi, «Comincia a fidarti di me, Atena, quando mai una del Classico vuole aiutare una dell'Artistico? Io ne approfitterei».













Il resto di quel particolare sabato scorre a una velocità piuttosto elevata: la prima ora la passiamo al laboratorio di architettura, con annesso sermone di Ferraresi riverso ad Antonio Degli Innocenti e alla sua poca mancanza di fede dettata dall'aver bestemmiato in classe per aver sbattuto il gomito sul cornicione della porta mentre rientrava dal bagno, la seconda ora la trascorriamo con la professoressa Francisi e le sue discipline progettuali, fortunatamente senza interruzioni di nessun tipo – né religioso, né politico, né satirico, né quant'altro –, all'intervallo mi nascondo insieme a Marta tatticamente nel luogo anti-studenti del Classico ovvero il retro del Caravaggio, la zona quasi più decadente dell'istituto, ma non senza prima aver beccato la prof. Bellante invitare il caro Lunanuova a una serata a teatro, che a detta di DarthMart deve aver spulciato senza ombra di dubbio il suo Facebook.

Altrimenti come saprebbe che quella è la più grande passione di Emilio?

Inutile sottolineare di quanto si sia incupita la mia amica.

Infatti nelle successive due ore di educazione fisica, durante gli allenamenti e le partite di pallavolo, Marta non ha mancato di incendiare la prof. con degli sguardi tutt'altro che amichevoli, facendo stranamente finire sempre la palla bianca in direzione sua, scusandosi per la mancanza di coordinazione.

All'ultima ora, invece, arriva la resa dei conti. L'ultima ora del sabato è tutta di storia dell'arte.

Emilio con sorriso malefico quanto tagliente ha tirato fuori dalla sua borsa di cuoio – diversa da quella dell'ultima volta – le nostre verifiche dello scorso lunedì, corrette e generosamente pennate di rosso.

Per me la soddisfazione c'è stata, mi sono beccata un bel nove, dimostrando quanto realmente tenga alla sua materia.

Per Marta... c'è stato un sei meno, ed è stato quel meno di troppo a farla alzare dalla sedia tutta impettita, a farla dirigere verso Lunanuova per poi dirgli con impertinenza, «Dovrei andare in bagno a fare un rito voodoo, mi da il permesso, prrrrrrrof.?».

Ha letteralmente ringhiato come un lupo, faceva paura.

Poi il tempo si allenta, comincia a scorrere con un ritmo più scandito.

Appena mi siedo a tavola per pranzare con mio padre le lancette dell'orologio alla parete rallentano, esattamente – a parer mio – per farmi godere degli attimi passati con il mio vecchio.

Un piatto fumante di risotto ai funghi mi implora di essere mangiato, e io, ghiotta come sono della cucina di papà, non indugio oltre. Cucchiaio dopo cucchiaio consumo quella delizia immaginandomi di avere dei baffi e di dovermeli leccare alla fine.

«Come va con il tuo libro, pà?» gli domando masticando lentamente degustando il sapore dei porcini.

Fabrizio prima di rispondermi mi versa dell'ottimo vino rosso sul calice accanto al mio piatto, assumendo una smorfia che sta a significare indecisione totale e infine si stringe nelle spalle.

«La trama è tutta qua dentro» e s'indica la tempia con l'indice, «ho solamente capito che a volte non bastano tutte le parole di questo mondo per spiegare qualcosa e farlo intendere agli altri come lo intendi tu» spiega esibendo un sorriso.

Una barba piuttosto incolta gli incornicia il contorno delle labbra, il mento e le spigolature della mascella.

«Potresti farmi dare un'occhiata, magari potrei darti qualche consiglio» suggerisco con cautela, non dimenticando di quanto ami la riservatezza mio padre.

«Non credo proprio, pulce, è una cosa che voglio risolvere da solo!» appunto declina Fabrizio con tanto di occhiolino.

E vabbé, almeno ci ho provato.

«Te lo farò leggere, una volta finito» aggiunge per poi alzare il calice in segno di brindisi.

«E sarà allora che ti cerchierò tutti gli errori come una grammar-nazi!» ribadisco lanciandogli un'occhiata sanguinaria e bonaria allo stesso tempo, alzando a mia volta il calice agitando il liquido rosso al suo interno.

«Cin» dice Fabrizio ridacchiando della mia faccia degna d'un villain di Tarantino.

Entrambi sorseggiamo in silenzio lasciandoci cullare – "cullare" per modo di dire – dalle notizie riportate dal TG1. Finché egli non riposa il calice delicatamente davanti a sé e mi guarda con quell'espressione che suggerisce che sta per farmi una domanda che potrebbe mettermi in imbarazzo.

«Di solito sei più chiacchierona» proferisce aguzzando lo sguardo inquadrandomi al meglio, «c'è qualcosa che ti turba», e non è propriamente una domanda!

«Uhm no, sto solo gustando questo magnifico risotto» faccio spallucce concentrandomi sulla figura alla televisione e prendendo una generosa cucchiaiata della porzione, troppa.

«Contando che hai diciotto anni, che vai ancora al liceo e che di grossi problemi ultimamente non ne hai, direi che i tuoi pensieri siano occupati da coloro che i padri delle proprie figlie temono di più... i ragazzi» pronuncia Fabrizio quasi sibilando l'ultima parola come se fosse una malattia, rabbrividisco pertanto, «in cuor mio spero sia al singolare».

«R-ragazzi?» balbetto costringendo la mia mano a posare il cucchiaio vuoto sopra il piatto, altrimenti altro che morbo di Parkinson, avrei fatto schizzare chicchi di riso in ogni dove per quanto mi stanno tremando le braccia!

Questo sabato si fa sempre più particolare, oserei dire anomalo. Ci mancava mio padre che mi parla di ragazzi all'appello.

«Un ragazzo» mi corregge mettendo ben in mostra il dito indice, «voglio sperare che ce ne sia soltanto uno».

«M-ma cosa te lo fa pensare? Potrei avere la testa occupata da chissà quali altri problemi! Perché deve essere per forza un ragazzo?» mento tentando di sviarlo almeno un pochino, effettivamente ha centrato in pieno il dilemma che mi sto portando dietro da ieri sera, però se non ne parlo con Marta – per adesso – figurati se ne voglio parlare con Fabrizio!

«Magari non ho semplicemente voglia di parlare» obietto pronunciando la frase a raffica, «magari ho timore delle interrogazioni, magari me la faccio sotto per via della maturità che mi aspetta alla fine del percorso scolastico con tanto di mirino, magari ho litigato con i miei amici, magari ho litigato con la mamma, magari sono depressa per via della guerra in Siria, magari sono stufa della mancata meritocrazia di questo paese, magari sono insoddisfatta della politica italiana, magari sono stanca per i turni al cinema o magari...».

«Nah, niente di tutto questo» m'interrompe papà non riuscendo a trattenersi dal ridere, «fosse stato uno di questi motivi avresti parlato eccome, ti saresti lamentata, Matilde».

Fanculo! Come sempre Fabrizio è quattro passi avanti a me.

Me ne sarei lamentata eccome della politica italiana, idem per la scuola e la maturità, indubbiamente per la guerra siriana. Di esperienza ne ho ben poca rispetto a lui.

Trasformo le mie labbra in un grugno di irritazione, semplicemente non mi va di riconoscere la sconfitta così in fretta.

«Dove sarebbe il problema in caso fosse come hai detto tu?» domando alzando le braccia al cielo.

«Scherzi? Nessun problema c'è. Solo che i ragazzi, alla tua età, ti fanno staccare il più delle volte la testa da dove è giusto che stia, ossia sul collo» mi fa notare papà poggiando il mento sopra il palmo aperto della mano, «te la fanno staccare, volare via e quando ritorna al medesimo posto, perché prima o poi ci ritorna quella piccola testolina, ti fa incassare tutto il dolore e la sofferenza che prima non riuscivi a sentire. Tutto qua. E lo stesso fate voi signorine a loro, è un circolo vizioso».

«Nessuno mi farà staccare la testa dal collo, papà, quello si chiama ghigliottinamento, Luigi Sedicesimo potrebbe confermartelo fosse ancora in vita! Anche Ned Stark potrebbe, ma a lui la testa l'hanno fatta saltare davvero» preciso dondolandomi con la sedia, «come vedi è qui, ben salda».

«La sensazione è più o meno la stessa quando avverrà, il ghigliottinamento» insiste lui con voce morbida, la voce preoccupata di un padre amorevole.

«Supponiamo che questo ragazzo ci fosse, ti giuro solennemente che la mia testa rimarrà esattamente al suo posto» gli prometto guardandolo definitivamente in faccia.

«Non fraintendermi, Mati, non voglio sembrarti uno scassacoglioni come sicuramente do l'impressione. Però io non dimentico di come è andata a finire con quel Gabriele, là sicuramente la tua testa non era al suo posto» mormora papà ricambiando il mio sguardo intensamente, nei suoi occhi il ritratto dell'apprensione è disegnato.

Un groppo mi si va a formare nella gola quando gli sento dire questo. Più che lecito il suo velato timore, più che lecita la sua domanda.

«È bastato un ragazzo per farti dimenticare chi eri, per farti dimenticare la normalità delle cose. Con questo non gliene faccio una colpa, lui non c'entra assolutamente nulla, tuttavia non siamo stati in grado di comprendere e gestire il danno per tempo» prosegue con il suo discorso che senza volerlo mi va a toccare il cuore.

«Non sei uno scassacoglioni, papà, a volte sì, ovvio, ma non è questo il caso» lo conforto con un mezzo sorriso, onde evitare di mettermi a piangere, «... ti rincuoro se ti dicessi che questo ipotetico ragazzo non mi sta facendo partire la testa bensì tutta me stessa?».

Ed è la prima volta che lo pronuncio apertamente, nemmeno con Marta sono arrivata a tanto.

L'espressione di mio padre da affettuosa e piena di attenzione si trasforma in quella che ha tutto l'aspetto di un espressione sospettosa e guardinga. Quasi malfidata. «Che cosa intendi con "tutta te stessa"?».

Perfetto, ora gli faccio prendere un infarto, ne sono sicura. La mia era tutto meno che un'allusione sessuale! Fabrizio ha capito fischi per fiaschi!

«Sai che c'è? Forse dovrei lasciar perdere i ragazzi per sempre!» esclamo alzandomi di scatto dalla sedia, rossa come i papaveri di Van Gogh.

«No, non è vero, Mats. Dovrai lasciar perdere i ragazzi solo fino a quando io non sarò morto».














Mi risveglio inghiottita dal letto di mio padre che sono le sei inoltrate della sera.

Necessitavo di qualche ora di sonno in più visto che la notte precedente avevo dormito sì e no quattro ore. Sia per aver fatto tardi a causa dell'incontro con Leonardo sia per aver rimuginato e rimuginato all'infinito su passato, presente e futuro.

Di quello che è stato e di quello che accadrà, se io voglio.

Mi stropiccio gli occhi incollati ed intrisi di mascara, indubbiamente colato oltre le ciglia, sbadiglio e constato che ho un sapore oltremodo ripugnante in bocca, devo assolutamente lavarmi i denti o rischio di impazzire.

Non dico di avere un disturbo ossessivo compulsivo dell'igiene, però ammetto di tenerci un pochino, mi piace avere su di me la costante sensazione di essere pulita. Cosa che non avverto minimamente adesso.

Tossicchio rumorosamente un paio di volte, tosse più che altro secca, e volgo la testa verso la finestra ancora aperta che da su quella magnifica vista che è la Cupola del Brunelleschi, alle sue spalle una Firenze illuminata spicca in tutta la sua bellezza e maestosità.

Non riesco a trattenere un sorriso di ringraziamento.

È inutile, questa città non finirà mai di stupirmi e io non sarò mai in grado di ripagarle questo debito incommensurabile quale la meraviglia di ogni suo palazzo, di ogni sua chiesa, di ogni sua statua, di ogni sua via, di ogni sua collina.

Improvvisamente, mentre sono tutta impegnata a stiracchiarmi braccia e spalle, il mio telefono riposto sopra il comodino vibra diverse volte. Messaggi su messaggi.

Sicuramente saranno i miei amici che mi hanno data per dispersa, praticamente sono scomparsa per tutto il pomeriggio di un giorno importante quale il sabato.

Afferro l'apparecchio e sblocco il display. Ovviamente trovo una telefonata di mia Adele, che vorrà sicuramente sapere se ho intenzione di cenare qui oppure a casa con lei, e successivamente trovo tre messaggi: uno da parte di DarthMart, uno da parte di Diego ed uno da parte di Ludovico.

Comincio con il leggere quello della mia amica.


DarthMart, 17:04

- Qui l'ultimo accesso risale all'ora di pranzo... chissà dove sei sparita questa volta! Comunque volevo dirti che ho preso una decisione, stasera vado al teatro dove la Bellante ha invitato Lunanuova e scateno il finimondo. Non nel senso stretto... onestamente non so nemmeno io cosa fare! So solo che non voglio che Emilio esca con quella sventola di educazione fisica, sono troppo diversi, piuttosto lo preferisco con Ilda! Hai visto che pantera è quella Sara? Lui è troppo sofisticato per lei, troppo raffinato. È deciso, o la va o la spacca, Mats!



Mi porto una mano sulla fronte appena termino di leggere il messaggio.

Oh mio dio, ma è una missione suicida questa!

Marta ha scelto la morte, ho ben capito. Nonostante questo una cosa devo concedergliela, e cioè che finalmente ha preso una posizione, ha preso in conclusione una decisione ed è intenzionata a seguirla fino alla fine. A differenza di qualcuno di mia conoscenza.

Pertanto passo al messaggio di Diego, vediamo cosa mi ha scritto.



Diego, 17:42

- Non ce la faccio più. Ho riflettuto a lungo e sono giunto alla conclusione che non voglio buttarmi sotto il Freccia Rossa, voglio rischiare ma in qualcosa di più produttivo! LO FARÒ, STASERA DIRÒ A THALÌA QUELLO CHE SENTO PER LEI! Oserò, tenterò, sfiderò tutto ciò che mi sarà possibile. Al massimo sappi che dovrai venire a raccogliere i miei cocci in caso qualcosa dovesse andare storto... ti ho voluto bene, Matilde, addio.




E siamo a quota due.

Ecco che un altro dei miei amici ha preso una decisione. Ha scelto come agire, giocandosi il tutto e per tutto. Sembrerebbe che qua l'unica mummia sia io.

E infine leggo il messaggio di Ludovico, che da quanto ne so non penso debba fare chissà quale missione suicida/mortale.




Ludovico, 18:04

- Che fai?




Che faccio? Che farò mai? Mi struggo l'anima come sempre, mi demolisco la psiche a suon di preoccupazioni futili e seghe mentali non richieste!

Che faccio? Che cosa dovrei fare io? Marta si sta muovendo, Diego si sta muovendo, e io sono ancora qua immobile, in fase di stallo.

Che devo fare? Soprattutto... devo fare qualcosa?

"Sì, Matilde, porca puttana! Sarebbe anche l'ora!", mi urla la voce della mia coscienza.

«Tu fai silenzio» la zittisco innervosendomi, «fino a prova contraria tu eri quella che mi diceva che finché non sarei entrata in una taglia xs sarei stata nient'altro che una fallita».

"Ricorda che mi hai creata tu", mi rimbecca gentilmente la coscienza, "inconsciamente senti di fare qualcosa, allora fallo! Alzati e agisci".

Oh sì, devo fare qualcosa. Devo alzarmi da questo maledetto letto e agire. È tutto nelle mie mani.

Per cui, sapendo che avrei risposto ai miei amici subito dopo, vado ad aprire la chat con Leonardo, alias Faccia da cazzo. Deglutisco e, dopo essere rimasta imbambolata a osservare lo sfondo con Shoshanna e il Colonnello Hans Landa di Bastardi senza gloria per qualche buon secondo, prendo a muovere le dita al fine di scrivere il testo di un messaggio.

Un messaggio che io, Matilde, avrei dovuto inviare a lui che mi sta facendo dimenticare ogni cosa in cui sto credendo. Mi sento quasi arrabbiata nei suoi confronti poiché non ha alcun diritto di farmi sentire così, mi sento quasi soggiogata.

Però, ahimè, è un qualcosa che non posso controllare.

Non scrivo niente di esteso, anzi, sì e no due parole. Ma tanto bastano, ne sono sicura. Invio con sicurezza il messaggio, consapevole che l'avrebbe letto, senza se e senza ma.



Io, 18:11

- Sono io, sono Matilde. Dove sei?

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