29. Quello che devo raccontarti
















Sul più bello, quando Leonardo è in procinto di mettersi a raccontare, mi squilla il cellulare, venendo interrotti come in quei film comici dove il momento saliente è proprio lì, servito su un piatto d'argento ma destinato a non avvenire.

Per cui mi vedo obbligata a interrompere il suo racconto dal momento che o potrebbe essere davvero mio padre – che magari ha avuto parecchio da fare al lavoro in quanto venerdì e soltanto ora ha la possibilità di chiamarmi –, oppure semplicemente Marta. E in entrambi i casi è doveroso e giusto rispondere. Contando che Marta potrebbe avere la carriera scolastica compromessa dopo questa serata... sarebbe sciocco da parte mia ignorarla.

Vado ad agguantare il cellulare mimando a Leonardo il chiaro gesto di cucirsi le labbra, in quello che è un muto avvertimento di rimanere in silenzio fin tanto durerà la chiamata.

In seguito constato che non si tratta né di Fabrizio, né di Marta, bensì di Diego. Porca puttana! L'avevo totalmente dimenticato. Mi maledico con ogni mia particella in corpo per aver scordato l'impegno preso con il mio amico.

«Cazzo, devo rispondere» dico con il tono di chi non ammette repliche e, sorprendentemente, Leonardo mi fa il regale cenno con tanto di braccio e mano che equivale ad un perfetto via libera.

Sono un po' combattuta, nonostante la curiosità mi divori a morsi strappandomi enormi pezzi di carne, comunque, mi vedo in dovere di rispondere a quella chiamata. Non la posso ignorare di proposito, non posso far questo a Diego, non glielo devo.

Né io, né Marta siamo attualmente reperibili, entrambe siamo sparite dalla circolazione, infatti provo a mettermi nei panni del mio amico e, come una rivelazione, capisco perfettamente. Lo capisco perfettamente.

Senza oltre indugiare accetto la chiamata, schiarendomi prima dovutamente la gola ed emettendo un lungo sospiro onde evitare di farmi prendere dal panico. Il cuore ha preso a battermi più veloce del normale, trattasi di pura e semplice ansia. Dopotutto, sono sempre in compagnia di Apollo, il Faccia da cazzo e mio acerrimo nemico. Normale che l'ansia mi avviluppi con le sue spire!

«Diego» parlo socchiudendo le palpebre al fine di non avere Leonardo davanti ai miei occhi, in modo da far sembrare più credibile la stronzata immane che gli dovrò per forza rifilare, a malincuore.

Accidenti... comincio a presagire un certo senso di colpa per non avergli neanche mandato uno straccio di messaggio d'avvertimento, dicendogli che nessuna delle due sarebbe andata questa sera a casa sua. Neanche per sbaglio.

«Matilde! Almeno tu hai risposto! Dio, che meraviglia» esclama Diego urlandomi dritto nell'orecchio, e me lo immagino con la mano tirarsi i dreadlocks dall'irrequietudine, «il cellulare di quella svanita di Marta è deceduto, rest in peace. È più di mezz'ora che vi aspettiamo, comunque! Siete letteralmente disperse. Che poi, oh, quando sparite ma dove siete finite nel Triangolo delle Bermuda?» grida come un'aquila.

Sono molto spaesata, infatti, sono incazzata con me stessa in primis ma lo sono anche con Marta. Due cretine irresponsabili, tutte e due. «Diego, hai ragione. Siamo delle persone di merda... stavamo appunto andando a comprare dell'alcol ma... ehm, è successo un contrattempo» balbetto incerta non sapendo che cosa diamine inventarmi, premendo con la mano sulla fronte come a sorreggermi la testa che da lì, poco a poco, sarebbe caduta.

Che diavolo gli dico? Che non sono potuta andare a far serata in compagnia di lui e gli altri perché momentaneamente mi trovo a fumare insieme ad Aspromonte? O che Marta ha preferito andare a mutilare gravemente il nostro prof. di storia dell'arte? Insomma, questa verità non è un granché da sentirsi dire.

«Contrattempo?» ripete Diego isterico, «Qui abbiamo un contrattempo! Ludovico e Yousef si sono messi a fare a gara a chi mangia più Kinder Brioss, mi stanno finendo la scorta della dispensa oltre che, a breve, vomiteranno sicuramente! Serve a me l'alcol, lo capisci? Inoltre c'è Thalìa nella mia camera... occorre che dica altro?».

«Diego, scusami, veramente, anzi, scusaci. A Marta le si è rialzata la febbre e... e... io sono dovuta andare da mio padre al ristorante, aveva bisogno di me e mi è passato dalla mente di avvertirti» mento lottando con una sofferenza che cresce a dismisura, è una fitta intercostale ogni parola che pronuncio.

So quanto Diego potrebbe diventare nervoso in una situazione delicata come Thalìa che si trova nel perimetro della sua stanza.

Mentre mi mordo il labbro per non dire qualche altra parola di troppo sento Diego sospirare dall'altro capo del cellulare. Un lungo sospiro. E stavolta me lo immagino piegare il collo quel tanto da poterlo scrocchiare e infilarsi la mano libera nella tasca dei jeans. È il movimento involontario di Diego quando cerca in tutti i modi di tranquillizzarsi, oramai l'ho focalizzato a memoria.

Spesso e volentieri mi dimentico di quanto anche quelli che mi circondano siano umani come me. Esattamente come la sottoscritta, tutti perdono la testa dopo essere stati sotto pressione, e, sempre come la sottoscritta, tutti si sottopongono a sforzi per riprendersela.

Molto probabilmente – anzi, sicuramente – il ragazzo avrebbe voluto entrambe le sue amiche al suo fianco, questa sera. Gli avremmo semplificato, magari, il sorriso, la battuta ironica da rifilare nel momento più adatto, gli avremmo rasserenato l'animo... forse anche con due semplici chiacchiere fra amici. Gli amici, questo genere di cose, lo fanno.

Invece Diego si è ritrovato con quel mastino privo di pathos di Ludovico, che di questioni di amicizia è letteralmente il principiante dei principianti, con quel flemmatico di Marco, che per carità, è un buon amico anche lui, ma a Marco delle ragazze non importa un tubo, non rientrano nei suoi odierni interessi, e con le due ragazze delle quali una sta procurando al diretto interessato un attacco epilettico.

Con me e DarthMart sarebbe stato più a suo agio, e provo un grande rimorso per questo.

«Tranquilla, Mats. Darò un'occhiata nella riserva di vini di mio fratello, sperando che non mi spezzi il collo in caso dovesse scoprirmi» proferisce Diego aggrappandosi all'ultimo ramo, ovvero quello di suo fratello maggiore Raffaello, che, con il fatto che ricopre la carica di chef in un ristorante molto rinomato della città, ha buon gusto in fatto di vini, per cui ne tiene un mobile ben rifornito a casa.

«Cazzo! Devo andare! Ludovico ha vomitato addosso a Marco e a Yousef è andato di traverso un pezzo di merendina! Dovessi sentire le sirene della croce rossa o dei pompieri sappi che sono diretti a casa mia! Ci vediamo a scuola» mi spiega rapidamente Diego con voce allarmata, visto che la serata ha preso una piega alquanto "vomitevole", letteralmente.

Mi ritrovo a trattenere una risata dal momento che sento le urla schifate di Marco dall'altra parte, in sottofondo. Mi trattengo poiché mi sentirei di mancargli di rispetto, però m'immedesimo nella scena ed è troppo esilarante.

«A domani, Diego» lo saluto chiudendo la telefonata, leggermente più serena, dalla voce Diego non sembrava arrabbiato e ciò rappresenta una vittoria per me.

Di colpo mi metto a ridere senza ritegno, ignorando l'occhiata tagliente di Leonardo che mi sta riservando senza nemmeno avere la grazia di camuffarla.

Addirittura mi vado a stendere con la schiena sopra il muretto, piegandomi all'indietro lentamente, e finendo per osservare il cielo sopra le nostre teste non troppo visibile a causa dell'inquinamento luminoso. A Livigno vedere le stelle di notte è uno spettacolo mozzafiato, peccato non avere lo stesso panorama anche a Firenze, un vero peccato.

«Perché ho degli amici così? Io non me li merito» mormoro ridacchiando con una nota più amara, deglutendo un groppo d'aria e di residui di fumo.

«Così come?» domanda Leonardo sporgendosi appena per avermi meglio sott'occhio, come se gli importasse sinceramente d'un dettaglio simile.

Ne rimango molto lieta di questa sua curiosità, affatto irritata. In un altro contesto gli avrei risposto "Non sono affari tuoi" oppure "Non puoi permetterti domande del genere", mentre, in cotal caso, ho il permesso di replicare diversamente, addirittura con tono morbido.

«Così comprensivi, così limpidi e così schifosamente dolci con me» spiego stringendomi nelle spalle e sorridendo in automatico, «ho mentito di nuovo» poi sospiro.

«Se ti rammarica così tanto, richiama quella zecca di Falco e digli che sei con me» suggerisce Leonardo con voce un po' infastidita, per non dire schifata.

«Ecco perché ti detesto così tanto, perché sei un testa di cazzo di prima scelta, grazie per avermelo ricordato» pronuncio acida, rinsavendo forse anche un pochino. Togliendomi di dosso quel sorriso da idiota e ricomponendomi.

«No, che non mi detesti» mi corregge lui con un po' troppa sicurezza per i miei gusti.

«Oh sì, assai! Se riprovi a chiamare "zecca" il mio amico ti spengo la sigaretta in un occhio!» lo minaccio rabbuiandomi.

«Scusami, preferisci "parassita"? Magari "piccolo tossico"? O, volendo essere gentili, "fattone"? Come vedi per Falco i sinonimi sono molteplici» ribatte Leonardo con una semplicità e sufficienza aberranti. Riconfermandosi il perfetto stronzo quale egli è.

«Poi sono io quella che ricomincia, eh?» osservo delusa, mettendomi in piedi sul muretto con un movimento ben studiato e scavalcando la figura di Leonardo, per poi mettermi a camminare sopra quella superficie precaria e ristretta.

«Quindi, automaticamente, sono una zecca anche io. Una parassita. Una piccola tossica. Una fattona, volendo essere gentili» recito imperterrita con la rabbia che risale dalle viscere, antica e potente, e con le antenne anti-Leonardo che ritornano alla loro completa funzionalità.

Dopodiché mi sento tirare per il giacchetto, quel tanto da non farmi perdere l'equilibrio e poi cadere; voltandomi mi trovo Leonardo in piedi anche lui sopra il muro, aggrappato con la mano alla stoffa del mio indumento che mi osserva in silenzio.

«Be', che fai?» gli faccio un po' insoddisfatta dal brevissimo istante in cui ero più alta di lui, momentaneamente.

«Se te ne vai sarà stato inutile tutto questo» sussurra Leonardo abbassando lo sguardo, incredibilmente timido.

«Se me ne vado stavolta è per colpa tua, non mia» sottolineo senza farmi incantare dal suo spettacolare e raro candore.

So bene di essere dura e rigida in questo istante, ciononostante so pure di stare facendo la cosa giusta, a grandi linee. Se io sono in grado di tollerare Midorin, Costanza e, a tratti, persino Leonardo stesso, perché lui non può tollerare Diego? Con me pare ci stia riuscendo benissimo!

«Matilde, ti prego, mettiti nei miei panni. Non è che magicamente io provi amore incondizionato per l'Artistico» biascica Leonardo con fatica, le parole sono roventi sulla sua lingua.

«Mi stanno stretti i tuoi panni» replico fredda e categorica, come una ghigliottina che cala inesorabile sulla testa d'un condannato.

Tuttavia rimango immobile, non me ne vado. «Se vuoi parlare con me, se vuoi che io ti ascolti, allora devi abbassare il livello della tua stronzaggine e alzare quello dell'apertura mentale. Pensi di poterci riuscire? Io dico di sì. Sei uno studente del Classico, rappresenti l'emblema dell'intelletto, dell'ingegno e del sapere. Dovrebbe essere un gioco da ragazzi tenere la mente ben spalancata, per te» dichiaro con serietà, senza scivolare maldestramente nella trappola del melodramma. E una volta tanto, mi sento soddisfatta di me stessa.

Leonardo è allora che rialza la testa per guardarmi negli occhi. «Pensi davvero questo?» si ritrova a domandarmi lievemente sorpreso.

Al che faccio spallucce, so di averlo impressionato ma ci tengo fermamente a non mostrarmi troppo gratificata.

«È la verità, solo uno sciocco ne dubiterebbe. Per cui sii più tollerante, Leonardo. Come vedi è l'ingrediente principale per la ricetta di una perfetta convivenza» parafraso voltandomi del tutto verso la sua figura, sicura di essere stata più che chiara.

«In poche parole, mi chiedi di sopportare» riconosce alzando le sopracciglia, riluttante. Ci rifletto un attimo al fine di soppesare il significato corretto dei due sinonimi al meglio.

«Esatto, sì. Tolleranza, sopportazione. A te non influisce sulla tua esistenza il fatto che Diego "fumi, sniffi, buchi", e tanto per essere cristallini, Diego non si buca, il mio era un esempio. Lo tolleri, senza che lui rompa le palle a te e viceversa. La tua libertà finisce dove comincia quella degli altri... molti fanno finta che questo non conti» asserisco sedendomi nuovamente a gambe incrociate, mettendomi comoda, capendo che le acque si stanno stabilizzando senza affogare nessuno.

«Però al Caravaggio la filosofia è quella, lo sai» mi ricorda Leonardo imitandomi e sedendosi allargando le lunghe gambe oltre il muro, lasciandole a penzoloni in ambedue le parti, posizionandole ai miei lati.

«Dappertutto c'è quella filosofia, per questo il mondo va male, perché non siamo più in grado di tollerare. Tutti si sentono migliori di tutti, tutti che si sentono in dovere di dire quello che pensano imponendola come unica ragione, tutti che ad ogni minimo problema sono pronti a far scattare il dito accusatorio. Vogliamo provare a fare del nostro meglio, noi?» sostengo cercando di mangiucchiarmi le unghie con tanto di smalto.

Leonardo, notandolo, mi porta via la mano dalla bocca, studiandone sia la pelle rosicchiata e le piccole tracce di sangue secco, sia la cicatrice dovuta al pugno tirato allo specchio dell'Arcadium.

«Del nostro meglio?» ripete carezzando la pelle in rilievo, di quella che fu una ferita sanguinante causata proprio dal sottoscritto.

«È un qualcosa di positivo secondo me» confermo annuendo e tentando di tirare via la mano, involontariamente infastidita da quel tocco così intimo e soprattutto in quel punto preciso. Ma invano. Leonardo se la tiene ben stretta.

«Il che ci riporta a quello che devo raccontarti» dice il ragazzo con voce profonda, senza abbandonare i miei occhi.

E per la prima volta, penso che Leonardo abbia delle iridi molto belle.

«Raccontami» lo incito dopo aver preso un bel respiro, lasciando la mia mano in quelle di Leonardo.

«Come ho detto prima che ti chiamasse... Diego» pronuncia con grande sforzo il nome di Diego, rendendomi comunque orgogliosa di quel piccolo passo avanti, «questo che sto per dirti è accaduto alla festa di fine anno. Il terzo anno. Quando prendemmo la decisione di allestire la palestra con dell'attrezzatura musicale, delle luci stroboscopiche e nastri colorati per celebrare la fine della scuola e l'inizio dell'estate. Quando ancora al Caravaggio non esercitavamo il potere supremo. Quando il nostro odio era sì cosa normale, ma non ancora viscerale e intenso come quello di oggi. Quando ancora ero in pace con me stesso».








Andando indietro, e giustamente il punto di vista è tutto di Apollo.

Leonardo Aspromonte è da sempre stato quel genere di persona che viene volontariamente o involontariamente guardata.

Io da sempre lo sono stato.

Da sempre il mio bell'aspetto mi ha semplificato ogni genere di cose. La mia altezza elevata, sopra le righe, i miei lineamenti scolpiti ed angelici che possono nient'altro che far invidia al David di Michelangelo – per non parlare poi delle mie iridi così limpide e profonde –, i miei capelli dorati che richiamano inconsciamente il campo di grano cantato da Fabrizio De André, e le labbra piene, carnose, che incantano centinaia e centinaia di ragazze.

Ho sempre potuto vantare di quella tipologia di eleganza, armonia e bellezza degne delle divinità greche, che al liceo Classico vengono studiate con dedizione. Sono sempre stato a conoscenza della straordinaria bellezza che mi è stata donata, e sarebbe stato da ipocrita affermare il contrario.

Sono sempre stato perfettamente consapevole di questa mia "dote" ereditata squisitamente, in gran parte, da mio padre Furio. Da giovane, era la mia fotocopia: stessi ciuffi di capelli dorati, stessi occhi, stessi zigomi, addirittura le stesse sopracciglia.

Da mia madre Lucrezia ho preso invece le movenze delicate, l'amore per la lettura e l'abilità di camuffare con maestria le proprie emozioni, poiché ella considera la totale apertura emotiva un pretesto per essere più vulnerabili. E tenendo conto dell'importanza e del prestigio che gravano sul nome della nostra famiglia, i membri devono essere in grado di far conoscere il meno possibile di sé – e con ciò s'intende i punti deboli – al prossimo.

Lucrezia ripeteva spesso e volentieri le parole di Machiavelli, "Ognuno vede quel che tu pari. Pochi sentono quel che tu sei", aggiungendo poi "decidi tu quello che far vedere".

Di fatto teneva morbosamente a entrambi i suoi figli, considerava me e Michelangelo i suoi gioielli più luminosi, dimostrandosi molto gelosa di noi, ogni volta che si mostrava l'occasione ci difendeva a spada tratta. Non sopportava l'idea di vederci infelici, avrebbe dato l'anima per noi.

Con ciò, non solo già all'epoca ero bello – a dire degli altri – da far male, ma ero anche assetato di sapere, di tutto ciò che poteva contribuire a saziare la mia mente, soprattutto quando la conoscenza diveniva un'arma a doppio taglio per il medesimo vantaggio. Diceva Benjamin Disraeli, "Di regola, l'uomo che ha più successo nella vita è colui che ha più informazioni". E io l'avevo preso alla lettera.

Ero diventato qualcosa di irraggiungibile; delizioso all'apparenza come il Paradiso e meravigliosamente misterioso e dannato come l'Inferno.

Avevo tutto ciò che desideravo e avevo tutti ai miei piedi. Ero inarrestabile. Mi consideravo al livello di Dorian Gray, però dall'effigie italiana e tutto meno che innocente – decorato dei fili bronzei della personalità di Lord Henry Wotton.

Ero adorato da chiunque: dai professori, i quali stravedevano per me, da Gandolfo in persona, cui era affascinato dalla mia impeccabile bravura nel conversare di argomenti attuali e non, dai miei amici più stretti, che mi ritenevano senz'altro un modello da seguire, e dai restanti studenti della scuola. Fatta eccezione per l'Artistico, ovviamente degli esseri immondi come loro non potevano e potranno mai, neppure lontanamente, comprendere una mente brillante come la mia.

Nutrivo solo odio verso di loro e mostravo in loro presenza totale indifferenza e sincero disprezzo, allo stesso modo e senza far distinzioni. Tuttavia io osservavo, senza dare nell'occhio naturalmente, mia madre mi aveva ben insegnato a non mostrarmi troppo interessato, quel sano pizzico di distacco e menefreghismo era di vitale importanza.

Studiavo i volti, i modi di fare, le frasi, le parole delle persone che mi circondavano e non mi facevo mai scoprire, mai. Sapevo quando era il momento adatto per voltare il capo dall'altra parte. Ero un veterano.

Nessuna ragazzina poteva bearsi di quella soddisfazione. Il semplice atto del "guardare" era un qualcosa che non regalavo a nessuno, lo reputavo un qualcosa di troppo rilevante addirittura più di un banale atto carnale. Di quello ne avevo a mio piacimento.

Ma gli sguardi erano troppo preziosi per me.

Comunque non mi risparmiavo dall'osservare, no, era quasi un dolce passatempo per me, come il sorseggiare del fresco e costoso champagne al Forte d'Alabastro.

Avevo la coerenza di ammettere con me stesso, in silenzio tombale, che qualche – addirittura se non numerose – ragazza fosse sprecata per l'Artistico. Persino qualche ragazzo. Giudicavo le loro menti, la loro immaginazione e la loro bellezza affermando che erano elementi sperperati per quell'indirizzo.

Pensavo che Elia De Angelis, del terzo F, avesse una buona educazione musicale, sapeva il segreto di ogni spartito e di ogni nota, sapeva distinguere una melodia ben fatta da una pietosa.

Pensavo che Christian Tortoioli, sempre del terzo F, avesse la stoffa per fare il modello, quasi che in bellezza era simile a me.

Pensavo che Beatrice Melillo, del terzo E, vantasse gusti impeccabili in fatto di libri, dato che ogni settimana la beccavo a leggere un classico diverso, all'intervallo, sottolineando i punti focali con la matita.

Pensavo che Matilde Castellani, del terzo D, fosse una creatura splendida, una bellezza particolare – unica – nonostante fossero cuciti addosso a lei delle comuni e scure iridi castane. Pensavo fosse una ragazza spontanea a dispetto degli stereotipi imposti dal contesto liceale.

Aveva una vasta conoscenza in campo cinematografico e artistico. Si diceva avesse qualche serio disturbo mentale quale la depressione, problemi con il cibo e cattiva gestione della rabbia; eppure s'impegnava a conviverci al meglio, li amministrava tentando di non farsi sopraffare.

Tutto cambiò a metà del terzo anno, nel mese di marzo, durante un'Assemblea.

Al tempo non avevamo totale comando del Caravaggio come ce lo avevano i Rappresentanti d'Istituto, al tempo i Rappresentanti erano classe 94', al tempo sedevamo sulle poltrone come studenti normali, Classico sempre a sinistra e Artistico sempre a destra. Tutto precipitò in quella mattinata.

Le classi stavano riempiendo lentamente l'Aula Magna, ma sia la mia sezione, il terzo A, sia quella di Matilde, il terzo D, erano già sedute comodamente sulla stessa linea orizzontale delle poltrone.

Come al solito io ero insieme ai miei amici e con Olivia, che ancora con lei non avevo consumato niente di niente, però le permettevo di girarmi intorno dato che era indubbiamente di bell'aspetto e mi piaceva la sua risata.

Ero particolarmente annoiato in quel frangente, ci si annoiava sempre prima di ogni Assemblea, dunque mi guardavo intorno insoddisfatto di nulla e di tutto, ignorando le occhiate ammiccanti sia delle più piccole sia quelle delle più grandi. Ignorando volutamente quelle di Aurelia Civichino, ragazza di quinto anno con cui avevo perso la verginità.

Finché non mi soffermai sulla figura di Matilde, seduta all'esterno e con Marta Brunori, Diego Falco e Marco Esposito alla sua destra.

Al tempo aveva i capelli tinti d'un blu elettrico, i quali la facevano risaltare a prescindere in quella sala, e se ne stava in silenzio senza ascoltare le chiacchiere dei suoi compagni. Era come assente.

Teneva le gambe ancora scheletriche ben distese dinanzi a sé, agitando nervosamente un piede. I ginocchi ossuti facevano capolino dalle calzamaglia che indossava. Da non molto era uscita definitivamente dal centro per disturbi alimentari: sarebbe stato strano se si fosse mostrata felice e piena di vita fin da subito.

Ad ogni modo, avrei tanto voluto sapere a cosa stesse pensando in quel momento; a mio dire sicuramente a qualcosa di tetro e cupo.

Purtroppo mi ero temporaneamente scordato della regola del voltarmi in tempo, tanto ero concentrato sulla ragazza, e dunque Matilde quando si girò verso di me mi colse in flagrante, beccandomi intento a studiarla con curiosità ed insistenza. Io nemmeno persi tempo a distogliere lo sguardo, non volevo fare la figura dell'idiota.

Matilde sostenne i miei occhi per un tempo che sembrò infinito, poi accadde l'inaspettato per un tipo come me. Arcuò le sopracciglia, corrugò la fronte e con aria scocciata mi mimò con le labbra, «Che cavolo hai da guardare?».

La prima volta che lei si rivolse a me.

Non ebbe nemmeno la presunzione di utilizzare una parolaccia come "cazzo", usò il semplice e informale "cavolo". Ne tenni conto di quel dettaglio.

Comunque fu uno schiaffo morale in pieno viso per me, che mi sarei aspettato un timido sorriso appagato affiorare sulla sua bocca e il ridacchiare con la sua amica di quella irripetibile eccezione.

Ebbene no – risposta sbagliata a una previsione ancora più sbagliata.

Matilde ritornò a guardare fisso davanti a lei, scuotendo la testa e mettendosi le cuffione che aveva intorno al collo sulle orecchie, per poi ascoltare la musica dall'iPod. L'espressione indecifrabile, modellata come creta in attesa che si seccasse a dovere, un tentativo di non mostrare quel qualcosa di troppo. Tentava di mascherare sofferenza e supplizio in una coltre di spessa di durezza e contegno.

E Matilde la sapeva lunga sul contegno, a quell'epoca.

Per il sottoscritto quella fu una sensazione nuova. In primo luogo, stupidamente, pensai che fosse senz'altro lesbica, ma poi mi ricordai del suo fidanzamento con Gabriele Pomerani, dunque la cosa si annullò come era venuta, in un batter d'occhio, spazzata via come granelli di sabbia. Piuttosto improbabile, effettivamente. Doppiamente la sensazione si fece strana.

Era la prima volta che una ragazza disprezzasse la mia attenzione; un'altra avrebbe pagato anche con il sangue tutto ciò, fosse stato quantomeno possibile, ipotizzabile.

E fu così che io, Leonardo Aspromonte, ottenni ufficialmente il mio primo due di picche, se così si può dire – e anche una fissazione bella e buona.

Matilde Castellani del terzo D aveva distrutto le mie sicurezze incastrate con cura e dedizione in una ferrea e impenetrabile maschera di disprezzo, altezzosità e cinismo in soli cinque secondi, con una sola frase e una sola smorfia. Il granello di sabbia al cospetto del deserto.

Mai potrò capire il perché mi fece fondere il cervello a quel modo. Eppure io ne risolvevo con estrema facilità, con ineluttabile naturalezza gli enigmi della matematica e della fisica.

I segreti per me perdevano del loro significato più arcano.

In reazione a ciò che avvenne, la sera stessa di quel giorno, praticai l'atto carnale – il sesso nella forma più cruda – per la prima volta con Olivia.

In qualche maniera non volevo accettare che avessi avuto pensieri poco consoni su una ragazza dai capelli blu, toccata e per di più dell'Artistico. Non potevo – mi rifiutavo – riconoscere un evento assurdo come quello.

Poi venne la fine del terzo anno. L'inizio dell'estate.

Ai Rappresentanti di quell'anno venne l'idea di organizzare una grande festa nella palestra del Caravaggio e, conoscendo Gandolfo, egli diede il via libera senza fare storie a patto che qualche docente avrebbe supervisionato la serata.

Alle dieci di quel dì le luci si spensero, la musica si accese e quantità elevate di alcol vennero introdotte furtivamente a quella festa, messe in scatole di succhi di frutta oppure mischiato a bevande gassate.

E i sensi si allentarono, e le volontà si irretirono, e i movimenti divennero più sciolti.

Tutti sembravano più simpatici quella sera, piacevoli da avere intorno. Era come se le antipatie, le ostilità e i malanimi reciproci fossero stati messi in pausa tipo la partita di un videogioco. Ognuno ballava con l'altro, senza rancore.

A un certo punto io mi allontanai dalla marmaglia sudata e appiccicosa per rifugiarmi nello stanzino degli attrezzi per la ginnastica, sempre odoroso di muffa e umido da far paura.

Entrai, rimanendo contento che non vi fosse nessuno a pomiciare, copulare o a drogarsi. Avevo quell'ambiente tutto per me. Sulla mia persona custodivo qualche pasticchetta, procurate da Claudio poco prima di entrare alla festa; solitamente non ero il tipo da droghe pesanti, ma quella sera volevo chiudere un occhio e godermela al cento per cento.

Richiusi la porta alle mie spalle, mezzo brillo, e barcollai fino al mega materasso adibito per il salto con l'asta, dalla consistenza fredda e confortevole, sedendomi con la grazia di un elefante. Sorrisi mentre estraevo dalla tasca del gilet il minuscolo sacchetto di plastica, tossicchiando per via della muffa.

La musica mi arrivava ovattata alle orecchie e, tutto sommato, un po' di tranquillità non mi dispiaceva.

Aprii la bustina con cura, portandomi sul palmo della mano una pasticca colorata dal simpatico logo a forma di granata. Avevo anche spalancato la bocca al fine di inghiottirla in un solo morso quando la porta dello stanzino si dischiuse con uno scatto che fece prorompere violentemente la musica al suo interno.

Poco dopo entrarono due figure oscillanti e ben più ubriache di me. Una ragazza dai capelli azzurro sbiadito e un ragazzo dai capelli rossicci arruffati, con un piccolo dreadlocks sul lato sinistro. Quest'ultimo sorreggeva la ragazza in condizioni un po' critiche e la scortò dentro lo stanzino con la dovuta cura. La mia pasticca di MD era volata via a causa dello spavento dunque ero oltremodo irritato dall'interruzione spiacevole.

«Ecco, stenditi qui, Ramona Flowers. Adesho Diego ti va a prendere dell'acqua... ammesso che ce ne shia» biascicò Falco dopo aver aiutato Matilde a stendersi nella parte opposta alla mia del mega materasso, letteralmente a quattro di spade.

Diego alzò lo sguardo e si accorse della mia presenza, senza mancare di squadrarmi a dovere. «E tu che hai da guarrrrdare, Aspromontagna? Se provi a sfiorarla anche con un dito ti riempio il culo di racchette da ping-pong» mi minacciò a stento reggendosi in piedi, mimando persino il gesto di quel determinato sport, «io faccio come Flashhhh. Torno shubito» pronunciò, credo, a Matilde per poi uscire dallo stanzino, lasciandoci soli a tutti gli effetti.

Mi ricordo che lei era lì, riversa sulla stoffa fredda del materasso rosso scarlatto, coi capelli sbiaditi sparsi dappertutto e con il trucco colato come se avesse pianto a dirotto. Le braccia allargate a mo' di crocifisso.

Matilde teneva gli occhi aperti e guardava il soffitto, sembrava in trance. Non ero sicuro si fosse accorta di me. Respirava veloce e rumorosamente, si sentiva addirittura con la musica alta pur sempre ovattata.

«È tutto una bugia» mugugnò lei con sofferenza e voce rotta dopo qualche minuto di silenzio, «tutto, tutto quanto. Non voglio tornare di là, ho paura delle loro facce, dietro la pelle tirata in sorrisi fasulli. Tutti cercano di adattarsi. Però non si rendono conto affatto, nemmeno un po', che stanno mentendo a loro stessi. Alla fine saranno sempre e comunque soli».

Quasi sembrò che stesse piangendo, invece, il suo, era solo uno sfogo carico di desolazione e di tormento.

Mi accorsi di essermi avvicinato a lei, ignorando la patetica minaccia di Falco, mi sentivo attratto come una calamita. Osservavo il labbro inferiore di Matilde tremare e capii che era in balia di un conflitto interiore, ma non avevo idea di quello che fare per aiutarla.

«Anche tu sei solo, Leonardo» mi disse dopo essersi voltata verso di me, dopo avermi guardato con i suoi occhi penetranti e al contempo distanti. Infine chiuse le palpebre e si addormentò, almeno così realizzai di primo acchito.

Rimasi sconvolto e impressionato al tempo stesso della sua riflessione. Avevo avuto la prova inconfutabile che quella ragazza dell'Artistico era unica nel suo genere, una mosca bianca, ma anche uno striminzito ramoscello nel bel mezzo di una burrasca.

In apparenza lei era coraggiosa, audace, intrepida; fu come un supplizio averla vista così delicata ed esile e instabile. Roba che se avesse tirato un soffio di vento ci sarebbe stato il rischio di vederla volare via con esso.

Senza rendermene conto, mi ritrovai ad accarezzarle i capelli madidi di sudore, scostandoli dalla sua fronte. Le sfiorai le labbra violacee percorrendone il contorno, quelle stesse labbra dalle quali era uscita la frase che mi aveva fatto impazzire per tutto il resto del terzo anno.

Arricciai la bocca dinanzi al cerchietto infilato sulla narice del naso, di cui ne avrei fatto volentieri a meno in un volto grazioso come il suo. Infine mi avvicinai ancora di più a lei, quasi stendendomi accanto alla sua figura dormiente e le sussurrai nell'orecchio libero dalle ciocche celesti, «Sei sprecata per l'Artistico. Fossi stata al Classico le cose sarebbero andate diversamente».

E poi posai le mie labbra in quelle di Matilde, che scoprii essere gelide e dannatamente secche – doveva aver bevuto un bel po' quella sera, era evidente.

Andai contro l'etica e la morale che divideva i due licei a metà. Me ne fregai per un istante della filosofia di vita di mia madre. Abbracciai quel sottile spiraglio di breve, seppure intenso, attimo di ribellione che celava – incarnava – le due facce della stessa medaglia: un lato liliale, un lato fosco.

"Cosa potrà mai accadere, è soltanto un secondo", pensai senza dare troppo peso a quell'azione, e ingenuamente.

Perché poi me la portai avanti, mi risbucava dalla testa quando meno me lo aspettavo e mi faceva piombare in un vortice di biblica confusione.

Quasi subito mi staccai per via dell'inaspettata scarica di adrenalina che s'irradiò per tutta l'estensione dei miei arti, portandomi la mano davanti ai denti. Mi resi conto di aver fatto una cazzata incommensurabile, toccando il punto di non ritorno.

Eppure... era proprio quello, vero?

È proprio il punto di non ritorno che ci piace sfiorare con tutto noi stessi, che ci piace sfidare per vedere fin quanto, poi, siamo in grado di risorgere. Di trovare quel modo, di prima sensazione banale e che poi si palesa come il più enigmatico, per tornare indietro. Si mostra la sua vera natura.

Mi alzai, guardando per l'ultima volta la figura riversa di Atena e abbandonai lo stanzino. Da quel giorno la presi di mira come non mai, odiandola con ancor più sentimento, ma odiando me stesso maggiormente.

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