26. Il primo passo verso l'accettazione
È la terza volta che provo a chiamare Marta, è la terza volta che ricevo in automatico la segreteria della sua compagnia telefonica.
In piedi, accanto al registratore di cassa, con lo sgabello allontanato di qualche centimetro, imperterrita non demordo, non desisto.
Riprovo in un quarto tentativo nonostante sia bene a conoscenza dello strano rapporto che ella ha con il suo cellulare: si scarica ogni tre per due rimanendo spento anche per giorni interi, tanto a Marta non interessa avere dietro costantemente un apparecchio elettronico, è un qualcosa di normale secondo la sua prospettiva.
Tuttavia, anche se ne sono a conoscenza di tal dettaglio, so più che bene, adesso, che in questa circostanza delicata non è un caso bensì un'azione più che voluta e premeditata.
Il che spiega che Marta non ne vuole sapere di parlare, tanto meno con me.
Lo spegnimento del suo telefono è un indizio palese e categorico, me lo ha lasciato in modo che capissi e che lasciassi perdere.
Ad ogni modo, io non mi sarei mai data per vinta, non avrei lasciato perdere. Avrei chiamato la mia amica anche cento volte in fila se necessario. In nome della sua amicizia avrei staccato la testa di Leonardo per poi consegnargliela come pegno – e come scuse.
Per lei avrei mosso mari e monti addirittura, perché Marta se lo merita, perché è colei che rientra in quella categoria che le permette di essere una "privilegiata" ai miei occhi.
Sono la prima ad ammettere che, forse, non glielo avrei raccontato di quel secondo bacio, perlomeno non subito. Avrei aspettato qualche settimana, ancora usufruendo dell'avverbio "forse".
Io stessa so con chiarezza di essere caduta in tentazione – non serve alcun cartello di riferimento o alcun annuncio virale per spiegarlo – e in errore, mettendo sfrontatamente da parte la mia affezionata e gentile etica e dimenticando i miei gravi ed onnipresenti pensieri, le mie idee riguardo l'altra fazione nemica.
È quasi una novelletta comica, anzi, tragi-comica dal momento che in questa situazione coesistono insieme aspetti comici con altri drammatici!
Matilde Castellani, colei che rappresenta e incarna gli ideali dell'Artistico e Leonardo Aspromonte, colui che rappresenta e incarna gli ideali del Classico; due figure totalmente opposte che non sanno fare altro – non possono fare altro! – se non quello di nutrire dell'odio viscerale reciproco e con la stessa intensità. Entrambi eletti Rappresentanti proprio per via di questa ancestrale disputa, proprio per essere posizionati in prima linea affinché potessimo "cambiare" le dinamiche di tutto.
Io, che non esiterei neanche per un momento ad avviare e dirigere una manifestazione generale addirittura per un dettaglio impercettibile come quello della gita dell'ultimo anno.
Leonardo, che non indugerebbe oltre a fare la spia su qualche e ipotetico atto illecito da parte dell'Artistico pur di farcela scontare in qualche modo.
Appunto! C'è dell'immane, quanto grave, comico/tragico sul fatto che ci siamo ritrovati con le medesime labbra incollate! E neanche per sbaglio, sembrerebbe!
Voglio dire, dov'era quel fottuto odio in quell'esatto momento? E l'antipatia? E l'intolleranza? E il risentimento? Per non parlare dell'ostilità? L'ostilità dove si era cacciata in quel maledetto istante?
Dove cazzo stavano tutte quelle cose?!
Marta, magari, non ha tutti i torti a essere incazzata marcia con me dal momento che sono in torto schifoso, colpevole senza neanche la prova contraria. Non v'è bisogno.
«Mati, domani non occorre che vieni. Carlos ha chiamato e ha detto che, braccio ingessato a parte, ti sostituisce volentieri, restituendoti il favore» mi richiama la voce Jevanni dall'Altro Mondo quale l'interno della mia testa, facendomi ridestare magicamente.
Mi spiega a grandi linee il piano del giorno dopo sempre sfoderando la sua solita e innata bontà verso di me, che fin da quando ricordo mi riserva con un pizzico di eccessivo visto che non faccio chissà cosa per meritarmela. Gli piaccio, e questo per lui è un motivo sufficiente.
Io posso sentirmi in colpa fino alla morte per ciò, ma tanto le cose non cambieranno, almeno per adesso.
«Ah... uhm... okay» biascico dopo averlo osservato con un'espressione assente per qualche secondo, sbattendo le palpebre rapidamente senza volerlo, «ringrazialo da parte mia, è stato il minimo che potessi fare» deglutisco ricordandomi che è buona educazione abbozzare un sorriso quando qualcuno è gentile con te, incrociando poi le braccia al fine di nascondere il cellulare.
E anche perché non voglio dar lui strane idee sul mio attuale stato d'animo, non mi piace farlo sapere ai quattro venti, sono piuttosto riservata per quanto riguarda il dolore e il tormento interiore.
Però, a dispetto del mio fintissimo sorriso – finto quanto una plastica al viso superati i sessant'anni –, Jevanni fa due piccoli passi in avanti al fine di avvicinarsi al bancone in marmo dove svolgo il mio lavoro qui al cinema. Egli si gratta nervosamente il lobo dell'orecchio destro, precisamente nel punto dove spicca il suo spesso orecchino a forma di cerchietto da pirata. E ne va anche alquanto orgoglioso.
Il look alla Jack Sparrow è un punto focale del suo stile.
I suoi occhioni mi scrutano con un che di bonario e di premuroso, tanto che capisco che il mio falso sorriso ha funzionato ben poco. Vuole fare qualcosa ma ha timore di essere inopportuno conoscendo a grandi linee il mio carattere, si intuisce dalla sua postura irrigidita e dal suo far saettare le iridi prima a destra e poi a sinistra prima di soffermarle definitivamente su di me.
«So bene che le persone troppo curiose t'infastidiscono però...» infine sceglie di tentare, tentare di aprire una conversazione con la sottoscritta e cercare di capire cosa c'è che mi affligge, coraggioso da parte sua e oltremodo dolce, «va tutto bene? Un'ora fa non ho potuto fare a meno di sentire la discussione fra te e la tua amica. Dal bancone del bar si sente praticamente ogni cosa» mi domanda comprensivo e per niente ficcanaso.
Nessuna traccia di malizia.
Oh, be', allora ha sentito tutto. Ha assistito a tutto. C'è poco bisogno che io abbozzi sorrisi fasulli e orrendamente ipocriti.
«Molto probabilmente sarebbe una bugia se ti dicessi di sì, che va tutto bene» replico io spostandomi appena con le gambe ed emettendo una risatina sottile, non riuscendo a fare a meno di battere il tallone per terra come a dare sfogo alla mia sofferenza e impotenza, «no, non va bene niente».
E finalmente dico la verità altrimenti, giuro, sarei scoppiata.
«Wow, sono sorpreso» enuncia Jevanni comprensibilmente colpito dalla mia risposta così sincera, senza tentativi di aggirare la questione per poi finire con una battuta del cazzo inutile e che non avrebbe portato a nulla. «Mi aspettavo un "Sto bene, Jevanni, non preoccuparti". Non mi hai mentito» fa notare il giovane allargando le labbra e i baffi in un caldo e amichevole sorriso, ancora non crede alle sue orecchie.
Al che mi ritrovo a imitarlo, a imitare le sue labbra allungate e con gli angoli rivolti verso all'insù, in cotal frangente più morbidamente e tendente al delicato.
L'ho fatto felice, con così poco.
«No, non l'ho fatto. Il tuo "va tutto bene" è stato sincero, c'era dell'interesse vero dietro, non è stato pronunciato con superficialità. Dunque non ti sei meritato una risposta fasulla per di più da presa in giro» dichiaro tirando su con il naso e guardando i lacci colorati delle mie scarpe, uno giallo e uno nero con tanto di teschi.
«Hai voglia di piangere?» mi domanda Jevanni cauto conoscendo a memoria il mio scarso autocontrollo e quanto sia responsabile non punzecchiarmi più del necessario.
«Non immagini quanta» bisbiglio io dicendo ancora una volta la verità.
Che senso avrebbe fare il contrario, a questo punto? Oramai con il piede sulla fossa ci sono entrata.
«Ma non è il luogo adatto questo, e forse nemmeno il momento» continuo pensandoci meglio.
Rammento che mi trovo nel mio luogo di lavoro, con il mio capo e con qualche eventuale cliente che potrebbe uscire dalle sale del cinema da un momento all'altro. Sarebbe sconveniente in primis e poco professionale in seguito.
«Piangere non fa di te una persona debole, Matilde» sottolinea con serietà Jevanni, inclinando appena il capo tentando di riacciuffare il mio sguardo sfuggente.
«No, infatti. Però voglio che sia una mia decisione quando farlo» espongo io pacata senza alzare gli occhi, anzi, socchiudendo appena le palpebre poiché avverto gli occhi pizzicare appena.
«Non è qualcosa che puoi controllare. Un po' come gli incassi dei film, non si possono gestire» asserisce egli per darmi conforto.
«Faccio del mio meglio per restare in equilibrio. Ho paura che se cadessi poi non mi rialzerei più. Sai... "seduto" è una posizione alquanto comoda» recito sperando di essere più che chiara possibile, stavolta serrando del tutto le palpebre e facendo un respiro profondo.
Oh, eccome se lo so. Eccome se so quanto sia comoda.
Quando ti "siedi" è immensamente complicato rialzarsi, rimettere tutto il peso di sé stessi sulle proprie fragili e stanche gambe.
Si sta fin troppo bene "seduti" , è quello il dramma.
Deprimersi, affliggersi, autocommiserarsi, scoraggiarsi per qualsiasi cosa, anche la più banale.
È ciò che ho provato mentre me ne stavo dietro il massiccio e lindo vetro della finestra a Villa dei Pini, dalle nove del mattino fino alle cinque della sera, mentre osservavo apaticamente il mondo andare avanti soggetto all'entropia e infine all'inevitabile decadimento.
Non ero soggetta a pensieri e considerazioni particolarmente felici, in quel periodo, mentre quelli ricorrenti erano sicuramente cupi, lugubri, tristi. Era come se sentissi una complesso di violini suonare una ballata malinconica e senza fine solo per me.
Non avevo mai pensato seriamente al suicidio, ma inconsapevolmente lo stavo mettendo in atto rifiutando la vita, rifiutando di nutrire il mio corpo.
Oramai era un'abitudine ferrea, un ciclo a cui non avevo scampo, fare diversamente sarebbe stato sbagliato dal mio contorto punto di vista.
La prova inconfutabile erano le ossa spaventosamente sporgenti: le scapole che parevano essere resti di ali tagliate, la gabbia toracica così in rilievo da poterla carezzare con le dita come fosse stata un'arpa, il bacino accentuato tanto sembrava innaturale, la mascella spigolosa che si contraeva e metteva in evidenza la forma del cranio alla minima smorfia.
E poi c'erano le occhiaie, sempre onnipresenti. E le labbra emaciate e vitree. E le dita delle mani scarne, consumate. Le unghie più corte del normale poiché mangiucchiate di continuo, tanto da far fuoriuscire il sangue e mordendo minuscoli brandelli di carne quando quest'ultime erano giunte al termine.
Infine la pelle, essa era pallida ed esangue, a tratti smunta.
Matilde era letteralmente un cadavere vivente. Spenta. Zero voglia di vivere. Comoda nella sua posizione "seduta".
La mia giornata era organizzata così... mi svegliavo, mi osservavo a lungo allo specchio della camera tanto per realizzare se la figura riflessa desse cenni di movimento – di vita –, poi andavo con passo lento alla bordo della finestra e guardavo all'esterno. Osservavo gli alberi frusciare, gli uccelli volare, gli insetti ronzare.
Villa dei Pini non è situata in piena città, bensì immersa in un piccolo angolo verde appositamente per la quiete dei pazienti, non solo per quelli affetti da disturbi alimentari visto che la struttura non ospita soltanto quelli. Dunque era facile trovarsi più nella natura che nell'ambiente urbano.
Eppure, quando mi sporgevo alla finestra, sul davanzale di marmo grigio e freddo, sceglievo l'opzione dello stare "seduti", dell'abbandonarsi alla depressione e all'afflizione.
Io non reagivo, Matilde non reagiva, credevo di non esserne capace.
Mi ero arresa al mio destino, al mio crudele quanto insistente meccanismo mentale, perverso. Sapevo che dovevo essere aggiustata, il problema è che non ero sicura di volerlo davvero.
Il percorso è stato indubbiamente lungo, pieno di ostacoli e di ricadute desolanti, però le persone che amavo – che amo – erano lì per me: Adele, mia madre, Fabrizio, mio padre, zia Angelica, Diego, Marco, ogni tanto anche Veronica e Yousef, persino mia nonna Fauste e mio nonno Ariberto erano venuti fin da Livigno per starmi accanto, percorrendo ben cinquecento chilometri di viaggio con la macchina.
E Marta.
Marta era sempre lì per la sua migliore amica. Mi portava i cd dei Clash, dei Queen e di Caparezza.
Mi portava libri da leggere fra i quali Il Miglio verde di Stephen King, dal momento che King era uno dei miei scrittori preferiti.
Mi portava una bustina di M&M's unicamente blu e gialli, sapendo che quei colori mi stimolavano la voglia di mangiarli.
E ovviamente mi portava i gossip del Caravaggio, piccanti e non. Mi raccontava di Leonardo e delle sue trovate per far andare noi dell'Artistico nella merda.
In breve Marta coltivava la mia mente con amore e dedizione e costanza. Non si sarebbe data per vinta finché non sarebbe cresciuto di nuovo qualcosa di rigoglioso e vitale dentro di me.
«Matilde...» mi richiama ancora una volta la voce squillante di Jevanni, mettendomi stavolta una mano sulla spalla superando la soglia del bancone della cassa, «stai piangendo» dice con sensibilità mentre mi guarda con un piccolo sorriso sull'angolo della bocca.
Oh. Cavolo. È vero. Sto piangendo. Non me ne sono accorta per niente.
Tiro su con il naso, stavolta per un motivo ben preciso e più che ovvio, e a dispetto della situazione sorrido seppur con tristezza. Avverto le guance bagnate dalle lacrime, che alle loro spalle hanno lasciato copiosi rigagnoli.
«Posso andare in bagno? Potrei metterci un po'» mi ritrovo a chiedergli il permesso strofinandomi con foga entrambi i lati del volto, una voce spezzata giunge alle mie orecchie. La mia.
Jevanni annuisce alla mia richiesta, naturalmente. Fa per togliere la mano dalla mia spalla lasciandomi la libertà di muovermi e dunque suggerisce, «Fa' con calma».
Il martedì che segue decido di cominciare la giornata con "Under pressure" dei Queen e David Bowie, premendo con forza le cuffie extra-large nelle orecchie anziché optare per la solita "Rock the Casbah".
Non è un caso che abbia scelto questa canzone, no, anzi, la mie scelte musicali non sono mai un caso, c'è sempre un'accurata e minuziosa selezione dietro.
In questo frangente ho preferito "Under pressure" poiché già il titolo è tutto un dire, per di più, be', perché ha una connotazione fortemente sociale; tratta di un tema quale l'amore verso a sconfiggere come unico mezzo di salvezza il male incastrato nell'animo umano.
L'amore che ti esorta, ti sfida, a prenderti cura delle persone sull'orlo del baratro e ti convince che sia cosa buona e giusta salvare il modo di prendersi cura di noi stessi.
Questa è quello che mi trasmettono le parole di Mercury e Bowie mescolate assieme, è una semplice interpretazione personale che tuttavia non trovo sbagliata, che tuttavia riesce a darmi la carica per affrontare una giornata come questa insieme alla solita sigaretta mattutina.
Questo martedì che segue Marta non viene a scuola. Il suo banco rivolto verso l'esterno, accanto al mio, è vuoto e silenzioso.
Ad ogni modo, non sono inquieta, non mi batte forte il cuore per colpa della fottuta ansia, bensì ho capito quanto sia giusto e rispettoso lasciarle il suo spazio. Quando la mia amica sarà pronta parleremo e chiariremo, diversamente le cose non andranno, questo è un giuramento solenne che faccio con me stessa.
La canzone che ho ascoltato prima di entrare al Caravaggio mi accompagna per tutta la mattinata, in un certo senso, è come se la sentissi risuonare oltre le mie cuffie, oltre i muri dell'istituto sino ad arrivare in quinto D, la mia classe.
«Marta come mai non c'è?» domanda Diego mentre va a occupare il posto vicino a quello di Marco, suo compagno di banco, lanciando per terra lo zaino con poca grazia e constatando l'assenza della ragazza.
Non è una domanda vera e propria rivolta a qualcuno in particolare, quindi chi avrà la risposta sarà indifferente per l'esito.
Marco si limita a fare spallucce prima di allargare la bocca in uno sbadiglio piuttosto lungo, sinonimo che abbia dormito poche ore questa notte probabilmente per ripassare i testi della sua band. Non ha la risposta che richiede Diego.
«Be', avrà voluto imitare il tuo atteggiamento ribelle da primo anno!» lo prende in giro il ragazzo dai dreadlocks rossi assestandogli una gomitata che fa sì che Marco si dia una risvegliata come si deve, «Vorrà farsi bocciare» continua marcando sul vecchio ragazzo che una volta era egli, costantemente avvezzo a fare assenze oltre che a non rispettare mai gli orari scolastici, ossia tutto ciò che lo ha condotto alla bocciatura in tronco.
«Come se questo potesse farmi incavolare... è vero, ero un cazzone svogliato e senza futuro in primo anno» ammette con calma Marco senza prenderla sul personale, sapendo di dire la verità.
Diego rimane un po' deluso dalla reazione dell'amico, lo si capisce dalla lieve smorfia di disappunto creatasi sul suo volto; non c'è troppa soddisfazione nel canzonare Marco, poiché Marco ne esce sempre illeso da questo genere di amichevoli scontri verbali.
Dopodiché, prima che la campanella della prima ora suoni, entra in classe Ludovico, ovviamente senza giacchetto, con i capelli lievemente umidi, gli orecchini a cerchio che si muovono a causa dello scrollare del capo al fine di togliersi le goccioline d'acqua e la sempre presente collana a catena chiusa con un lucchetto attorno alla gola.
La borsa a tracolla tenuta come se fosse un sacco di patate da lanciare chissà dove.
Un gesto normale se si tratta di Ludovico.
Egli si ferma poco dopo la soglia della porta dando veloci occhiate prima al suo banco vuoto accanto a quello di Yousef, il suo compagno, e successivamente verso quello di DarthMart.
Ci mette pochissimi secondi a realizzare l'attuale situazione, sicché senza neanche chiedere né a Yousef se l'idea gli vada bene, né a me, l'enorme ragazzo abbandona bellamente l'amico e si siede accanto alla sottoscritta senza mancare di fare un baccano assurdo strisciando la sedia.
Yousef, dal canto suo, rimane assai perplesso nonostante preferisca rimanere con la bocca chiusa poiché sa già che è un caso perso, si limita soltanto a scuotere la testa.
«Ciao, amica» mi saluta Ludovico facendo passare qualche secondo prima di guardarmi dritto negli occhi, utilizzando il suo solito tono cavernoso e senza chissà quale emozione.
Rimango impalata a osservare la figura di Ludovico senza rispondere subito, le labbra appena dischiuse poiché sto respirando attraverso di loro. Sto riflettendo sul dettaglio quale il mio atteggiamento nei suoi confronti lo scorso sabato.
Ricordandomi alla perfezione del mio bacio forzato, del mio avvinghiarmi al suo collo e ai suoi capelli disordinati. Sebbene il giorno prima lo avessi evitato di proposito, al fine di non creare momentanei disagi, tutt'ora lo guardo come se fosse una delle cose più naturali del mondo.
Mi sento serena e tranquilla, nessuna anomala tempesta di pensieri nella mia testa, nessuna vergogna nello scrutarlo in maniera diretta.
Ludovico non sembra incazzato con me, per niente rancoroso.
Dunque mi ritrovo a increspare la bocca in un sorriso affettuoso, ignorando i visi sconvolti e stupiti di Diego e Marco seduti dietro di noi, e a rispondere «Ciao, amico».
All'intervallo non consumo la merenda. Non mi viene dal cuore di mettere fra i denti qualcosa di commestibile, e con ciò mi accorgo che ho saltato sia la cena di ieri sera sia la colazione di stamani.
Okay, non c'è bisogno che mi allarmi dal momento che non ho effettivamente appetito, non mi sto rifiutando di mangiare intenzionalmente.
Non ho fame e basta. E non mi piace forzarmi a fare qualcosa che non mi va.
Sicché non vado a mettermi in coda al bar, preferisco andarmi a fumare una sigaretta in compagnia di Thalìa e Roona, all'esterno del Caravaggio.
«Pronta e carica per l'Assemblea di venerdì, allora?» mi fa Thalìa mentre rosicchia due fette di pancarrè con in mezzo la marmellata, in piedi intenta oltretutto a piegarsi con le ginocchia al fine di combattere il freddo.
«Carica e pronta a urlare "dracarys" in caso qualcosa dovesse andare storto» ridacchio facendole l'occhiolino, citando la parola in valyriano che Daenerys Targaryen ordina al drago per sputare fuoco.
«Se Aspromonte dovesse fare qualche battuta antipatica tu lascialo perdere, non dargli la soddisfazione di vederti fuggire via, Atena!» mi consiglia la ragazza afroamericana per il mio bene, alludendo alla mia fuga del giorno prima.
«E noi non vogliamo vederli soddisfatti e compiaciuti, giusto?» interviene Roona con un sorriso furbetto e un sopracciglio inarcato, agitando il capo al fine di scacciare all'indietro la lunga coda composta di scure treccine.
«No, non direi» replico ricambiando il sorrisetto prima di andare a prendere un altro tiro dalla Winston che tengo incastrata fra l'indice e il medio.
E appena getto all'infuori il fumo che ho inspirato facendolo giungere ai polmoni, vengo colta all'improvviso da quella particolare e inconsueta sensazione di sentirmi osservata da qualcuno.
Un'indicibile sensazione di paranoia imprevista e repentina mi attanaglia per tutta la lunghezza della spina dorsale fino a raggiungere l'apice della nuca.
Meccanicamente mi volto e non vedo altro che la moltitudine di studenti – di primo, di secondo, di terzo, di quarto e di quinto – che trascorrono beatamente l'intervallo delle dieci e venti.
Eppure... ho quell'insolito timore che stiano parlando di me e che con gli occhi mi stiano in qualche modo squadrando. Forse sto delirando, la realtà è in una maniera, ma quella che vedo io, quella distorta, è ben diversa.
No, no, no, loro mi stanno guardando, loro stanno spettegolando su di me, lo percepisco osservando le loro labbra muoversi e allungarsi in sorrisi di scherno e di giudizio avventato.
Mi stanno giudicando.
Il respiro mi diviene veloce quando so con certezza che ieri mi sono scambiata effusioni amorose con Leonardo, dentro le mura della scuola. Magari qualcuno di essi ci ha visti e messo in giro la voce di conseguenza. E se così fosse sono letteralmente morta.
Mi terrorizzo all'idea a tal punto che getto via la sigaretta consumata a metà, andando contro i miei fedeli principi, e me ne vado via usufruendo di una scusa patetica.
«Io ritorno in classe... ho dimenticato... ehm, i soldi per il caffè. Devo ritornare in classe» cincischio velocemente verso le fronti aggrottate di Thalìa e Roona. Nemmeno le lascio replicare alla mia frase.
Ho troppa fretta di svignarmela via. Questa sensazione è orribile da sopportare, mi sento colpevole e giudicata all'ennesima potenza. Non come la sensazione che ho provato quando mi sono ritrovata appesa alla bacheca della scuola la mia fotografia, no, questa è molto più potente, molto più intensa e pungente.
Questa mi crea un serio disturbo.
M'incammino alla volta della mia aula tenendo la testa ben china verso il basso, non voglio incrociare un'occhiata di troppo, tanto l'ansia e la paranoia mi stanno divorando come un condor divorerebbe la carne di un animale morto fino all'osso.
"Ti hanno vista, Matilde. Sanno tutto. Non hai via di scampo", mi sussurra una vocina sottile interiore che purtroppo non posso fare a meno di ascoltare.
Digrigno i denti cercando di non mettermi a urlare di andarsene via, resisto.
Le uniche cose che riesco a vedere sono i miei piedi vestiti delle Dr. Martens Sinclair che camminano con una velocità inaudita, uno dietro l'altro, in un movimento ritmico. E il suolo esterno del Caravaggio prima, terra ed erba, sostituito poi con il granito dei gradini e il marmo del pavimento dell'interno.
Purtroppo non faccio attenzione a chi mi si dovesse parare davanti, succede quando ti ostini a volgere gli occhi in un'unica direzione. E infatti finisco proprio dritta addosso a un qualcuno di reale e massiccio.
Lo spettacolo è terrificante appena vado ad alzare finalmente le iridi.
Sono finita addosso ad Alberto, neanche ad averlo premeditato!
Il ragazzo è persino in bella compagnia: Giulio Viviani, Claudio Patriarchi, Camillo Bernardeschi e, ovviamente, Leonardo. Non manca nessuno. I cinque bellocci del quinto A al completo.
Essi mi scrutano come se avessi appena commesso un reato impronunciabile.
«Castellani, attenta a dove cammini. Potresti finire addosso a uno dell'anti-droga se non tieni gli occhi bene aperti, poi sì che sono cazzi amari» mi ragguaglia Alberto prendendomi volutamente per il culo, il ghigno che sfoggia ne è la prova inconfutabile.
Comunque non presto attenzione alla battuta e neanche alle risate dei suoi amici alle spalle, sono troppo presa a concentrarmi per non mettermi a urlare dalla paranoia e dalla pressione a cui sono sottoposta. Addirittura nemmeno degno di un'occhiata Leonardo.
Sto letteralmente sudando freddo.
«Sei sola oggi? Dov'è la tua dolce metà dai capelli elfici?» insiste Alberto accennando curiosità e riferendosi a Marta.
«Non è qui» sussurro stringendomi le mani su loro stesse e conficcando le dita sulla carne con forza, nonostante la scarsa lunghezza delle unghie. «Fatemi passare» poi mormoro decisa a non cercare lo scontro verbale, non ne sarei in grado di saperlo affrontare ora come ora.
«Fammi indovinare, l'hanno colta in flagrante e l'hanno messa dentro!» azzarda Camillo battendo i palmi delle mani e parandosi accanto ad Alberto, impedendomi così di avanzare.
«Fatemi passare, cazzo!» esclamo allora facendomi spazio con una spallata contro Del Bianco e il simpaticone di turno.
«Ehi, Fattona, non scambiarci per birilli da atterrare!» mi grida quel testa di cazzo di Claudio alle mie spalle, dopo che li ho tutti superati a passo spedito.
«Vi ho scambiati per dei coglioni, ecco cosa ho fatto!» ribatto ad alta voce senza voltarmi.
«Matilde!» mi richiama quella voce familiare quale quella di Leonardo, costringendomi a fermarmi, bloccandomi a pochi metri più avanti.
«Sì?» faccio alzando il capo e guardando con bramosia la rampa delle scale che conduce al piano dell'Artistico, «Cosa desidera il dio del Classico dalla Fattona dell'Artistico?» replico mettendomi a ridere della mia stessa affermazione.
Meno male che non hanno modo di vedere la mia smorfia.
«Ti sono cadute le sigarette» m'informa dopo una pausa di silenzio.
"Sigarette" è la parola magica per farmi girare di nuovo verso la direzione del gruppetto affiatato, appena pianto i piedi nel giusto modo ho dinanzi a me Leonardo con il braccio teso e la mano intenta a reggere il mio pacchetto un po' stropicciato di Winston, in bella vista.
Deglutisco senza dar fiato alle corde vocali e senza perdere tempo mi muovo fino ad afferrarle per poi allontanarmi neanche avessi paura di prendere la scossa dalle sue dita.
«Attenzione a dove le fumerai. Sei un Rappresentante, devi dare l'esempio ai più piccoli oltre che ai tuoi pari. E dal momento che sono un Rappresentante anche io non esiterò a fartela pagare» mi spiega con voce gelida, nessuna traccia della morbidezza e della passione del giorno precedente.
Ma anche io che cosa mi aspettavo, d'altronde?
«Non abbassare la guardia allora. Potrebbe accadere il contrario» sibilo io pensando per l'ennesima volta al detto di mia nonna.
"Inutile fare programmi o auto-convincers di qualcosa. Tanto poi andrà sempre al contrario di come volevi tu".
Nel pomeriggio ricevo un messaggio da parte di Marta.
Mi spiega che non è venuta a scuola perché momentaneamente è a letto con l'influenza ma che comunque ha intenzione di rimettersi in tempo per l'Assemblea. Ha aggiunto che ancora non vuole parlare e mi chiede di pazientare ancora qualche giorno.
Inoltre ho contattato Jevanni e gli ho spiegato che avrei largamente preferito lavorare anche questa sera e rimanere a casa giovedì, in quanto sentivo il bisogno impellente di svagarmi e di tenermi occupata con qualcosa.
E siccome non ho la compagnia della mia migliore amica, mercoledì e giovedì sono due giorni che fondamentalmente scorrono piuttosto veloci, le cinque ore passate a scuola non sono pessime come mi sono aspettata, Diego, Marco, Ludovico, Thalìa, Yousef, Laira, Veronica, insomma, la compagnia non mi è di certo mancata.
Ho provato ovviamente a evitare con anima e corpo il mio nemico, preparandomi al contempo a dare il meglio di me all'imminente Assemblea. Devo essere preparata al cento per cento. Sarà la svolta decisiva per decidere la meta della gita e devo essere al massimo delle mie forze e della mia concentrazione, messa a dura prova ultimamente...
La scelta deve ricadere a tutti i costi su Edimburgo e non su Berlino, tanto per una soddisfazione personale, non tanto perché disprezzi la Germania. In fondo è una nazione molto bella anch'essa, soprattutto le sue città ricca di storia e di bellezze da vedere. Però ora mi sono imputata sulla città scozzese e niente potrà farmi cambiare idea.
Giovedì sera, proprio agli sgoccioli di quell'apatico dì, ricevo un altro messaggio di Marta.
Nel mentre che guardo al computer Il grande Lebowski stesa comodamente sopra il letto e con Vivaldi che sonnecchia sopra la mia testa.
In quel frangente ha preferito i miei capelli alla mia spalla... e che ci vuoi fare? È un pennuto viziato il caro Antonio.
DarthMart, 21:01
- Vieni qui.
Leggo quelle due semplici e brevi parole seduta stante, poco dopo aver sentito il cellulare vibrare.
Ecco, ci siamo. Marta è pronta ad affrontarmi, è pronta a chiarire.
Senza perdere tempo prezioso balzo giù dal letto – dopo aver delicatamente tolto via Vivaldi dal capo e averlo condotto sulla spalliera di legno del giaciglio –, mi sfilo alla velocità della luce il pigiama infilando successivamente una gonna di jeans, presa a caso dalla sedia a dondolo disordinata e piena di panni di ogni tipo, un maglione marrone castagna e i stivali neri alti fino al ginocchio, infischiandomi anche di mettermi i collant. Non m'importa tanto vado di fretta.
Sono in fibrillazione.
"Per fortuna che ho fatto il mio turno martedì all'Arcadium", penso mentre mi metto il giacchetto, "per fortuna che ho accettato la sostituzione di Carlos questo giovedì, informando naturalmente la mia amica in caso le fossero venute in testa strane idee... come questa".
Non dico a mia madre che sto uscendo; è stesa beatamente sul divano a pancia in giù, con la tv accesa e la bocca spalancata dalla quale fuoriesce un po' di saliva.
Tipico.
Sembra il ritratto umano di Marsellus, che appunto sta sonnecchiando sotto ai suoi piedi nell'identica posizione. Quasi da dovergli scattare una foto ricordo. Comunque sia non voglio svegliarla, è sicuramente stanca a causa del lavoro e dei ritmi a cui tutti i giorni si sottopone, si merita di rilassarsi un po' almeno la sera.
Per cui faccio un sospiro, afferro le chiavi della Yaris dal piattino apposito riposto sopra al ripiano di marmo vicino all'entrata, apro la porta di casa e la richiudo facendo poco rumore, anche per la gioia della lunga appendice nasale di mademoiselle Rossini.
Percorro i gradini con grazia tirando su la zip del giacchetto e già tremando dal freddo che sentono le mie povere e nude gambe.
Non faccio imbarazzanti incontri lungo il mio tragitto per raggiungere il piano terra, fortunatamente! Non credo che mi sarei appellata in nome della buona educazione e della famosa gentilezza.
Salto a bordo dell'auto parcheggiata di fronte al portone d'ingresso, mi allaccio alla bell'e meglio la cintura di sicurezza e metto in moto, partendo. Mi fiondo da Marta nel minor tempo possibile.
È un qualcosa che sento il bisogno di risolvere, devo risolvere. Devo raccontarle un bel po' di cosette, a quanto pare.
Devo raccontarle del Natale che intendo trascorrere a Livigno e dell'invito di mia nonna rivolto anche a lei, devo raccontarle di Costanza, che ella non è altri che la sorella minore di Ilda, devo raccontarle che mi sento orrendamente in colpa per non averle detto niente di quel dannato bacio; insomma, sono in astinenza da Marta, mi pare sia ovvio!
Inoltre, quasi dimenticavo, ho intenzione anche di parlarle del bacio dato a Ludovico.
In sostanza glielo devo, è giusto così.
Non ho neanche la paura di dover essere eventualmente giudicata, sono sicura che non accadrà contando che si tratta di lei.
In pochi minuti raggiungo il palazzo dove vive Marta, parcheggio quasi davanti all'entrata senza avere l'accortezza che forse avrei fatto incazzare qualche inquilino rubando loro il posteggio.
Mi precipito al campanello senza nemmeno avere il sano senno di chiudere le portiere, sono troppo presa dal rivedere la mia amica al momento. E dopo aver suonato un paio di volte mi risponde e mi apre il portone la stessa Marta in persona, evidentemente i suoi genitori devono essere usciti.
Salgo di corsa le scale, stavolta senza fare attenzione a non creare casino, qui sono fortunati, non ha una mademoiselle Rossini a rompere il suddetto cazzo ogni volta che commetti uno sgarro.
Salgo tutti i gradini necessari al fine di arrivare al piano dove si trova il suo appartamento e finalmente entro, trovando l'uscio socchiuso, un chiaro invito a fare da sola.
DarthMart è lì, appena varco la soglia di casa, chiudendomi la porta alle spalle.
È di fronte a me, non troppo lontana e in attesa del mio arrivo.
Ha due occhiaie lievi sotto le sue verdi iridi dall'aria stanca, un piccolo quanto fastidioso herpes formatosi sull'angolo destro delle sua labbra screpolate e ravvivate grazie al burrocacao, e i capelli argentati che non vedono l'ombra di una spazzola da qualche tempo.
Ha il tipico aspetto dell'ammalata, a conti fatti.
Io, in compenso, sono tutta trafelata e con le guance arrossate, i capelli arruffati nonostante la loro consistenza liscia e il volto privo di tracce di trucco. Un brufolo mi spicca quasi al centro della fronte, al limite della frangetta.
Fra tutte e due abbiamo, diciamocelo, un aspetto orribile.
Non apro bocca, mi sto accorgendo, non faccio altro che ammirare la figura della mia amica come se fossero anni interi che non la vedessi. È quasi la stessa sensazione, Marta mi è mancata da morire in questi giorni contati.
Visto che io non accenno a voler proferire niente di niente, ella ne approfitta. Lo capisco dal fatto che abbia alzato il mento all'insù, in preavviso che sta per dirmi qualcosa.
«Ho preso l'influenza per riportarti il tuo giacchetto del cavolo. Merito un grazie e delle scuse» mi fa presente con una pungente ironia, incrociando le braccia al petto e la voce particolarmente roca.
Dio, quanto avrei voglia di abbracciarla...
«Hai ragione, meriti più di un grazie e sicuramente una manciata infinita di scuse» convengo io annuendo, sentendomi di colpo ancor più colpevole di prima. «Come stai adesso?» poi le domando con un'espressione sofferente, da cane bastonato quasi.
Non è mia intenzione farle pietà, è solo che mi viene spontaneo.
«Adesso meglio. Ieri avevo la febbre a trentanove e tossisco ogni tre per due» tossicchia Marta infatti, dando prova concreta che quello che sta dicendo è vero.
Dopodiché la vedo spostarsi alla volta della cucina, ciondolando come uno zombie di The Walking Dead, e faccio per seguirla. Sopra il fornello acceso al massimo ha messo a bollire un bricco colmo d'acqua sicuramente per preparare del tè.
«Ma domattina a scuola vengo eccome! Non intendo perdermi la mia prima Assemblea come Rappresentante, a costo di calarmi anche venti Tachipirine da mille e trenta bustine di Oki» sentenzia severa dopo aver controllato a che punto fosse il bollore dell'acqua.
«Così poi vai in overdose di paracetamolo» mi prendo la libertà di scherzarci sopra, e nel frattempo ne approfitto per sedermi con la seggiola accanto alla stufa a pellet tutt'ora accesa e che emette un piacevole tepore.
«Sono pronta a correre il rischio» conviene Marta con astio, aspra come un limone acerbo.
Ma sono sicura che esso lo stia riversando per il conflitto che avverrà domani e per le persone a cui dovremmo sedere vicino, non per me.
Successivamente cala il silenzio in quella cucina, si ode soltanto il crepitare della fiamma della stufa e l'acqua che è arrivata alla perfetta ebollizione.
DarthMart smorza il fornello e tira fuori due tazze dall'aspetto familiare – con sopra stampati il logo di Star Wars – dal mobile sopra il lavello, sapendo bene che avrei accettato di buon grado un sorso di tè caldo.
Facendo uso di un canovaccio apposito per evitare di bruciarsi, versa l'acqua bollente in entrambi i recipienti di porcellana e vi immerge due bustine al gusto di frutti di bosco, senza zucchero per sé e con una zolletta scarsa per me.
«Marta, mi dispiace» dichiaro prima che Marta mi porga la tazza, sentendomi in dovere di dire qualcosa e sicura che quest'ultima si aspettasse un minimo di scuse da parte mia.
Marta s'irrigidisce senza voltarsi, i gomiti piegati e le dita avvolte attorno al manico delle tazze, tuttavia si aspetta che io continui, che vada avanti.
«Io... io non so neanche spiegarti perché sia successo quel che è successo. Ero arrabbiata con me stessa, sapevo di aver sbagliato di nuovo e mi seccava persino pensarlo nella mia testa, figurati dirlo a qualcuno a voce alta» proseguo a parlare, rendendomi conto di quanto sia effettivamente facile.
«Credevo di essere più di qualcuno per te» sottolinea lei inflessibile.
«Sei più di qualcuno per me, Marta! Dovessi uccidere una persona saresti la prima a saperlo» obietto categorica, alzando di qualche tono la voce. Su questo non ci sono santi che tengano.
«Allora cos'è cambiato stavolta?» mi chiede calma con un sospiro.
«Che avevo paura di ammettere il mio sbaglio» replico grave.
«Quello non era uno sbaglio, Matilde» mi corregge l'amica, affermando la stessa cosa di lunedì, ripetendo quasi l'identica frase che aveva pronunciato al cinema.
«Se non era uno sbaglio allora cos'era?», è ciò che domando istericamente.
«Meglio di te nessun altro può saperlo» spiega finalmente voltandosi e porgendomi la tazza che afferro facendo attenzione a non scottarmi.
«Forse non voglio saperlo nemmeno io...» mormoro abbassando il capo.
«Ah, e ti sta bene rimanere col dubbio?» tossicchia ancora Marta come se si stesse per affogare.
Adesso avverto una punta d'irritazione colpirmi in pieno petto, mista a rassegnazione e un che di beffa.
«Andiamo, Marta, che domande fai?» borbotto seccata alzando gli occhi al cielo. Non tanto per Marta, ma per la domanda in sé per sé.
«Ti domando cosa diavolo ti passi in quella tua testolina contorta» mi espone sedendosi con la sedia di fronte a me, sorseggiando delicatamente la bevanda che per lei ora rappresenta un toccasana.
«Troppe cose» dico senza bisogno di rifletterci alcunché, «infatti, a volte, sfuggono al mio controllo».
«Di solito quando non vuoi fare qualcosa non lo fai» suggerisce Marta con nonchalance, «... la risposta è molto ovvia».
«Non c'è un cazzo di ovvio!» esclamo fulminandola con gli occhi senza volerlo.
Alla faccia che volevo chiarire con la mia migliore amica! Sono un vero asso, complimenti al mio autocontrollo del cazzo, mai una volta che mi dia un fottuto contentino.
Ma mi ricompongo subito, non tutto è perduto in uno schiocco di dita.
Faccio un lungo sospiro di palese tristezza e ritorno a guardarla come farebbe un'amica e non come una furia satanica.
Poi Marta, senza che io mi lo aspettassi, allunga un braccio e mi afferra la mano, quella dove sopra di essa vi sono le cicatrici causate dal pugno che diedi allo specchio dell'Arcadium.
Se la rigira con delicatezza, osservandola e sfiorando i solchi in rilievo, facendomi quasi solletico.
«È lo stesso ragazzo che ti ha portato a fare questo» sussurra senza distogliere l'attenzione, «lo stesso che non ci ha mai dato un attimo di pace da quando abbiamo messo piede in quel liceo, lo stesso che prova goduria nell'umiliarci, definendoci come straccioni da due lire, lo stesso che fa sì che questa assurda guerra vada avanti».
«È assurdo, infatti» asserisco tirando via la mano.
«Però è così» taglia lei corto con un mezzo sorriso.
«No, non è vero, non è così» mi ritrovo a digrignare i denti. La verità fa male, oh, fa male, fa sempre un fottuto male.
«È così, invece» insiste Marta senza demordere. Testarda come un mulo questa ragazza.
«E allora perché sono saltata addosso a Ludovico, sabato scorso, e l'ho baciato? L'ho baciato davanti a lui, già!» confesso quasi costretta dalla piega che ha preso la situazione, guardando la mia amica dritta in faccia che, ebbene, non rimane sorpresa dalla mia dichiarazione.
«Perché magari sei stronza...» opta facendo spallucce, «oppure perché volevi dimostrare qualcosa. Dimostrare a lui, e quando dico "lui" non intendo Ludovico» commenta seria terminando la frase.
«Oh mio dio, è peggio di quanto pensassi!» mi lamento facendo allusione alla verità delle parole di Marta.
Oh mio dio, ma che cazzo mi sta succedendo?
«Cosa è peggio? Io che sono cotta del mio professore o tu che...» dice DarthMart poi interrompendosi sul più bello, vedendo i miei occhi sbarrati, da psicopatica maniaca.
Ho inteso ciò che stava per dire e, credetemi, non era necessario che andasse avanti. Già è abbastanza difficile conviverci interiormente. Mi rifiuto di sentirmelo pure dire!
«Ho voglia di bere, di drogarmi e poi di morire sulle sponde dell'Arno» biascico ridendo come una psicopatica appunto, portando una mano davanti alla bocca, «anzi, sto diventando pazza, voglio un TSO urgente».
«Quelli che stanno impazzendo sono i Perfettini, non noi» riconosce Marta quasi controvoglia.
«Che vuoi dire?» le faccio con la fronte corrugata, perplessa.
«Dico che Aspromonte, l'Apollo del Classico, prende l'iniziativa e ti bacia. Bacia te che sei l'Atena dell'Artistico. E poi c'è Alberto Del Bianco che è voluto venire a prendere un tè con me. Anzi... lui si è preso una cioccolata calda, per l'esattezza. Questi sono proprio fuori di testa» mi racconta tossendo per la millesima volta, sprizzando veleno da tutti i pori.
«Alberto Del Bianco?» ripeto quasi strillando, «Cosa, come?!».
Non riesco a credere alle mie orecchie. Forse la effettiva sagra dei matti da legare e delle annesse stronzate era questa e non quella tenutasi a casa mia la settimana scorsa!
Mi vedo Marta annuire e la mia voglia di sbottare aumenta visibilmente, per tutto questo assurdo.
«Dopo la nostra discussione sono andata al Caffè delle Giubbe Rosse e sfortunatamente l'ho incontrato. È voluto entrare a tutti i costi con me anche se abbiamo occupato due tavoli diversi per mia ferrea intenzione. Non ha fatto altro che fissarmi e ridere per tutto il tempo, finché dal nervoso sono fuggita via senza neanche finire la mia bevanda» racconta ella sinteticamente, «devono essersi fottuti il cervello a furia di calarsi quelle pasticche del cazzo» conclude acida come non mai, mordicchiandosi un'unghia.
«Infatti lunedì scorso mi ha chiesto di te all'intervallo...» ricordo con chiarezza lo spiacevole incontro con tutto il gruppetto al completo dei galletti pomposi.
Ecco perché mi ha chiesto di Marta. Non che sia una cosa normale, di routine, anzi, tutto il contrario.
«Cioè, ma rendiamoci conto, cazzo» sputa velenosa Marta incredula dell'avvenimento, «che prendano gentilmente tutti la strada giusta e vadano affanculo».
DarthMart è turbata e adirata all'ennesima potenza, la comprendo perfettamente, anzi, meglio di me non potrebbe comprenderla nessun'altro.
Diego neppure e lo stesso vale per Marco. Sicché, per tranquillizzarla e per riportarla a uno stato d'animo più disteso, le sgancio la proposta di mia nonna di andare a Livigno per una settimana e passarci il Natale.
Come previsto, Marta prontamente si rasserena e si placa nello spirito, divenendo indubbiamente felice grazie a quella notizia magnifica. Il sorriso che le illumina il volto ne è la dimostrazione.
«Siamo amiche come prima?» poi avanzo il quesito cruciale, tenendo un occhio socchiuso.
«Siamo sempre state amiche, testa di minchia che non sei altro» mi risponde lei tentando di tagliare corto un'altra volta.
E questo è proprio il momento giusto, il momento perfetto per un abbraccio. Entrambe ci sporgiamo dalle rispettive sedie e ci stringiamo con forza ricucendo una volta per tutte quello strappo insignificante ma brutto da vedere.
La coperta dell'amicizia mia e di Marta è aggiustata, se non più bella di prima.
Faccio per godermi al massimo la mia dose di DarthMart dopo una lunga astinenza quando veniamo interrotte dal mio telefono che squilla.
Sono quasi tentata di ignorarlo, poi però la curiosità ha la meglio. Magari è mia madre che si è svegliata e si è accorta che non sono nella mia stanza. Sì, è giusto risponderle e darle una spiegazione credibile.
Appena estraggo l'apparecchio dalla tasca della gonna rimango basita dal vero responsabile della chiamata, che non è affatto mia mamma, non si tratta in alcun modo di Adele.
Contro ogni aspettativa il nome Faccia da cazzo mi riempie il raggio visivo mandando in subbuglio il mio stomaco oltre che la mia mente.
«È Leonardo» deglutisco incredula con la voce che mi muore in gola.
«E ora che cazzo vuole?» proferisce Marta maligna.
«Okay, ora lo scopriamo, è tutta la settimana che lo evito» le rivelo per poi accettare la telefonata.
Devo mantenere la calma, non devo perdere le staffe, devo rivolgermi a lui come una persona matura quale sono. Sì, Matilde Castellani è matura, seria e responsabile. Uhm... speriamo.
«Che vuoi?» esordisco alzandomi dalla sedia, non ce la faccio a stare ferma immobile.
Fortuna che non dovevamo chiamarci nei rispettivi telefono. Grazie al cazzo. Come sempre l'ennesimo gesto d'incoerenza da parte di entrambi.
«Wow, un tono proprio amichevole il tuo, l'emblema dell'educazione» replica la voce sarcastica di Leonardo arrivandomi dritta nell'orecchio come se fosse stato lì con me, tuttavia pacato e non in procinto di scoppiare come la sottoscritta.
«Leonardo, cosa diavolo vuoi? Fa' che sia importante da non poterlo scrivere per messaggio» ringhio spazientita, «ringrazia che ti abbia risposto».
«È decisamente importante quello che sto per dirti e ci tenevo a farlo a voce» commenta il ragazzo con un che di saccente nel tono, quasi strano.
Il che mi fa scattare il senso di allerta.
«Va' avanti» lo incito guardando Marta con la fronte increspata esattamente come le labbra.
«Ho parlato con Gandolfo e Nobilis stamattina. Sono d'accordo con me che la meta più idonea per la gita sia Berlino. Hanno anche contattato la Drago e il vostro prof. di storia dell'arte Lunapiena, Lunanuova, quello che è, insomma. E hanno dato il loro rispettivo okay» racconta inesorabile Leonardo, indubbiamente vittorioso, conosco fin troppo bene questa particolarità dato che ne usa parecchio e volentieri.
«T-tu che cosa...» balbetto senza credere a ciò che ho appena ascoltato.
«Domani all'Assemblea spiegheremo perché, ma intanto il più è deciso. Avete perso, Matilde, hai perso» affonda lui il coltello nella mia piaga sanguinante.
«Brutto figlio di puttana! Sei andato da Gandolfo da solo! Alle spalle di tutti! Come hai osato!» urlo fuori di me, senza riuscire a contenermi.
Di fatto non sono una persona matura, seria e responsabile. E sicuramente neanche Leonardo lo è.
Sento una risata dall'altra parte del telefono. «È come volevi tu, no? Io continuo a odiare te e tu continui a odiare me. Va tutto alla perfezione. Tutti felici e contenti» conclude Leonardo amaramente e ironicamente allo stesso tempo, «ti saluto. Ci vediamo domani all'Assemblea» e riaggancia.
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