25. Dimmi come ti senti
A un certo punto ci fermiamo.
Non so dire con certezza quanti secondi siano passati, o minuti magari; mentalmente mi sono dimenticata di contarli, proprio è l'ultima cosa che avrei potuto quantomeno pensare.
Unico dettaglio di cui sono veramente sicura è che abbiamo interrotto quello che stavamo facendo, a dispetto di ogni logica e a dispetto di ogni promessa mantenuta.
A dispetto delle proprie appartenenze, quali appunto le nostre fazioni scolastiche, enormemente importanti per i nostri punti di vista. A dispetto dei nostri amici, che mai andrebbero a pensare che né io, né Leonardo saremmo capaci di questo, di mettere da parte l'odio e il reciproco rancore per qualche istante e di far aderire le nostre labbra suggellando un bacio maledettamente proibito.
Spegnendo temporaneamente le menti, chiudendo gli occhi e fare finta che il terreno di guerra, quale il Caravaggio, dove abbiamo le suole delle scarpe piantate non esista. È molto semplice a dire il vero, fare finta. E anche dimenticare.
È tutto squisitamente facile.
Poi, purtroppo, è ciò che accade nel dopo che frega.
Le palpebre degli occhi si riaprono, permettendo alle iridi di mettere a fuoco qualunque cosa si ha davanti, il cervello si riaccende e mette in moto di nuovo quei meccanismi di difesa e di autocontrollo che nella norma t'impongono tutti i giorni al fine di non portarti alla distruzione di te stesso. Da leggero come una piuma ti trasformi in una palla di piombo pronta a crollare e a ritornare per terra, saldamente.
Apro gli occhi, mi pizzicano un po' a causa del breve pianto di poco fa e del riabituarsi alla luce del corridoio. Posso percepire perfettamente gli ingranaggi della mia mente che ritornano alle loro complete funzionalità.
Vado a sfilare via lentamente i palmi delle mani dalle guance di Leonardo e Leonardo fa lo stesso togliendo le sue dalla linea della mia mascella.
Ci distacchiamo, io riabbasso i talloni dei piedi siccome mi ero addirittura alzata sulle punte pur di non perdermi un singolo attimo e una singola sensazione, lui fa un passo indietro mordendosi il labbro inferiore alquanto arrossato e passandosi una mano fra i capelli biondi oramai in disordine. La brillantina non ha potuto resistere all'impeto.
Entrambi abbiamo il respiro accorciato, affannato, entrambi dobbiamo ritrovare quale sia la maniera normale per inspirare ed espirare ossigeno; pare proprio che ce lo siamo scordati...
Mi schiarisco la voce quando sento le pareti della gola ruvide e roventi, e, senza alcuna vergogna e senza alcuna timidezza, mi metto a osservare l'espressione di Leonardo.
Anch'egli non indugia a guardare altrove, bensì incastra quasi con forza i suoi occhi ai miei.
Ci guardiamo, ci osserviamo a vicenda, forse ci studiamo per scorgere in uno di noi quale tipo di reazione possa venir fuori. E soprattutto quale di noi due ce l'avrà per primo.
Per ora, l'unica cosa che noto nello sguardo di Apollo del Classico è che non v'è lo stesso lampo di disprezzo e di menefreghismo di quando siamo usciti dagli Uffizi la settimana scorsa. E nemmeno quella gravosa nota di sofferenza e impotenza emersa fuori dal Blue Velvet.
Il suo è uno sguardo quasi... sereno. Assai intenso, vividamente pieno di un petalo di passione e di un merletto di tormento.
Uno di quei tormenti che ritrovi nei brani della letteratura classica, un po' come il Werther di "Die Leiden des jungen Werthers" di Goethe.
Una sensazione strana mi pervade appena m'imbatto in quel cipiglio così raro e così insolito. Normalmente gli occhi di Leonardo trasmettono tre emozioni: sufficienza, presunzione e mordacità intesa come pungente sarcasmo.
È inaspettato ciò a cui sto assistendo.
Non ne sono abituata dopo quasi cinque anni di convivenza sotto lo stesso tetto scolastico. Devo confessare, dunque, che Leonardo Aspromonte è ogni volta una nuova scoperta, una rivelazione.
«Apollo e Atena l'hanno fatto di nuovo» dichiaro schiarendomi la voce una seconda volta, abbassando lo sguardo verso le scarpe.
Già, c'è veramente dell'incredibile in questo secondo ed inaspettato bacio. Entrambi siamo sobri, entrambi siamo responsabili delle nostre azioni. Non c'è niente e nessuno da incolpare, men che meno qualche bicchiere di alcol in più o qualche canna.
Non trovo altra soluzione adatta se non quella di sdrammatizzare un po'.
«Apollo e Atena ultimamente sono diventati degli impeccabili maestri d'incoerenza» sottolinea Leonardo con sarcasmo, adottando lo stesso mio metodo di sdrammatizzare, accettandolo più che mai, «e comunque, potresti anche guardarmi mentre fra le righe mi accusi» aggiunge facendomi notare che ho smesso di guardarlo in faccia, appunto.
Mi pungo subito sul vivo con tale constatazione e senza indugiare oltre alzo prontamente le iridi, sorridendo in una maniera che appaia tagliente e perlopiù diretta. Di colpo mi ritrovo ancora una volta a stretto contatto con la sua eterocromia.
«Sai com'è... non vorrei inciampare nuovamente nelle tua labbra» sentenzio volutamente provocatoria.
«Inciampare?» ripete Leonardo aiutandosi con un sopracciglio inarcato. È piuttosto scettico dinanzi a questa versione dei fatti.
«Sì, esatto! Ah-ha, cosa credi che non abbia capito la tua tecnica?» esclamo ad alta voce come una maniaca e con tanto di tremarella all'occhio destro, andando a premere il polpastrello dell'indice contro il suo petto vestito di gilet.
«La mia tecnica?» ripete nuovamente, stavolta leggermente confuso e non più scettico. Lo dimostra la sua fronte corrugata.
«Come sei bravo a fingerti tonto» replico canzonatoria, il dito sempre premuto nello stesso punto, «l'ho capita la tua tecnica per manipolarmi e rendermi mansueta».
«Ti rendo mansueta? Davvero ho questo potere?» è la sua domanda che mi arriva dritta dritta come una freccia nel petto.
Addirittura si permette di sbattermi in faccia un sorriso di vittoria!
Per tutta risposta strabuzzo gli occhi, sospirando, e faccio per sistemarmi le bretelle dello zaino sulle spalle, anche se quest'ultime sono in posizione perfetta.
«Meglio la quiete alla tempesta, eh?» affermo sforzandomi di non alzarmi di nuovo sulle punte dei piedi per averlo meglio sott'occhio.
«Be', se ottengo questo risultato lo faccio più spesso» asserisce Leonardo alludendo chiaramente al bacio di poco fa, abbassando lievemente il capo per venirmi più vicino.
«Non devi provarci mai più!» sibilo irremovibile senza neanche sbattere le palpebre.
«Non mi sembra ti abbia dato fastidio» dichiara lui con disinvoltura facendo spallucce, «il che spiega due possibilità: o sei talmente frustrata da farti annebbiare la mente con un bacio di chiunque, come quello del tuo amichetto per esempio, oppure sei totalmente, incondizionatamente partita per me».
Tali parole m'investono come farebbe un tram, con la differenza che anziché rompermi tutte le ossa, mi distrugge definitivamente la psiche.
Sbatto ripetutamente la palpebre, più veloce del dovuto.
Sono incredula e indignata allo stesso tempo e nemmeno mi preoccupo di nasconderlo, anzi, lo esterno anche fin troppo bene. Il problema è ciò che avviene all'interno.
Avverto quello strano pizzicore che si percepisce quando le proprie orecchie sentono la dura e inaccettabile verità. Avrei preferito non ascoltarla allora!
«Hai perso quella tua lingua velenosa?» richiama la mia attenzione Leonardo, facendomi notare che non sto dicendo nulla, che sto rimanendo in silenzio.
E non vorrei credesse troppo al detto "chi tace acconsente" .
Per cui mi viene naturale folgorarlo con gli occhi, incupendomi visibilmente. Devo difendermi in qualche modo.
«Tu non mi piaci, Leonardo. Non rappresenti l'ideale di ragazzo per me, anzi, sei esattamente il contrario, e se speri che cada ai tuoi piedi come le ragazzine del tuo indirizzo ti sbagli. Io non sono un gioco, non sono un fenomeno da baraccone per far ridere i tuoi amici» dichiaro gelida con una grande ed immensa tristezza addosso.
Perché fondamentalmente è vero, se i suoi amici scoprissero che Leonardo ha fatto quello che ha fatto con me, riderebbero di me, non di lui. Si congratulerebbero con lui, per aver giocato con me come una povera ingenua, per avermi manipolata chissà per quale motivo, forse per noia.
Lui la scamperebbe, io no. E Matilde Castellani non sopporterebbe una cosa del genere, non un affronto simile.
Devo essere categorica, devo disegnare una linea da non scavalcare, devo dimostrarmi ferrea. Anche a costo di passare per testa di cazzo.
«E in tutto ciò non ho ancora cambiato idea riguardo la gita. Io combatterò per Edimburgo» concludo ritornando finalmente coi piedi per terra.
Il dolore è stato lancinante, lo ammetto, ma perlomeno ho adottato la filosofia della ceretta: uno strappo e via.
Mezz'ora prima delle sei del pomeriggio il cellulare mi squilla, esattamente nel bel mezzo del completamento di una tavola per discipline progettuali, quindi stavo studiando in pratica.
Prima di accettare la chiamata noto che si tratta di Jevanni, il mio "capo", e giudico la cosa alquanto strana visto che è lunedì e non è il giorno del mio turno al cinema. Spero si tratti di un'emergenza, deve trattarsi di un'emergenza perché ho come il sentore che mi stia telefonando per propormi qualche altra ipotetica uscita.
"Ti prego fa che Jevanni abbia bisogno di qualcosa di serio, di qualcosa di serio, di qualcosa di serio!", pondero mentalmente digrignando i denti per poi subito rispondere.
«Sì?» dico incrociando le dita e accantonando da una parte la matita per disegnare.
«Matilde! Sai che non ti chiamerei mai se non si trattasse di un'emergenza» esclama la voce irrequieta di Giovanni dall'altro capo del telefono, «ebbene, mi dispiace un'infinità dovertelo chiedere ma... potresti sostituire Carlos? È caduto dalla bicicletta per venire qui e purtroppo si è rotto un braccio. Ho provato a chiedere a Violetta ma è stata irremovibile, dice che ha troppo da studiare per poter fare una sostituzione così improvvisa».
Carlos è il terzo ragazzo che lavora all'Arcadium nei giorni in cui non lo facciamo né io, né Violetta. Per l'esattezza copre i turni di lunedì, mercoledì e sabato, ed è l'unico dei tre a non andare scuola dedicandosi pienamente al proprio lavoro.
«Ha troppo da studiare, eh?» ribatto sarcastica osservando il mio compito che stavo eseguendo, poiché anche la sottoscritta stava studiando!
«Lo so, lo so, avrai da studiare anche tu però lei ha l'esame tra qualche giorno, e dannazione quanto è isterica. Pensavo potessi chiudere un occhio, almeno per stavolta» piagnucola disperato Giovanni, impaurito da quell'assenza, «salvami, Matilde! Sarò in debito con te, per qualsiasi cosa».
Oh. Per il fatto che Jevanni abbia appena dato dell'isterica a Violetta già mi sta facendo ammorbidire. Inoltre il mio capo è troppo buono come il pane per farmi un dispetto come il venire al lavoro nei giorni non prestabiliti. Accettare mi sembra quasi doveroso.
Mi rifiuto di aiutare le cattive persone, non il contrario.
«E va bene, verrò» acconsento grattando la crestina a Vivaldi, beatamente appollaiato sulla mia spalla, ha piacere a farmi compagnia mentre svolgo i compiti scolastici. «Dammi solo quindici minuti, massimo venti, per prepararmi» aggiungo guardando i leggins e la felpa di pile che ho addosso, tipico abbigliamento da casa.
«Ti amo, Matilde! Dico davvero, io ti amo!» gioisce Jevanni quasi rendendomi sorda da un orecchio, tanto sono costretta ad allontanare il cellulare, «Ti dedico un quadro e lo appendo accanto ai poster».
«Dacci un taglio. Te lo faccio volentieri un favore» replico con gentilezza e ridendo della sua allegria.
«Ci vediamo tra poco. Ancora mille grazie. Ma che dico, duemila grazie, tremila e anche più!» mi saluta egli prima di riattaccare.
Ora, oltre che cambiarmi, devo anche mandare un messaggio a Marta, tra pochi minuti dovrebbe venire a casa mia per riportarmi il giacchetto dimenticato in Aula Magna, e spiegarle che anziché guidare fin qui deve recarsi direttamente al cinema.
Be', il problema non è affatto quello. Il problema è il dover infilarmi un paio di jeans gelidi come l'Antartide.
Ed eccomi qua, seduta sullo sgabello di morbida stoffa dietro la postazione cassa del cinema.
Puntuale come se fosse il mio turno del martedì sera. Inutile spiegare che Jevanni mi ha letteralmente strangolata in un abbraccio appena sono entrata all'interno, inutile aggiungere che ha giurato di essere mio debitore per il resto della sua vita. Il bello di Jevanni è proprio questo, l'essere drammatico e appassionante esattamente come un film del grande cinema.
È un tutt'uno col suo lavoro, e non posso che ammirarlo per ciò.
Il calore emesso dall'impianto di riscaldamento si propaga per tutta l'ampiezza del locale, risvegliandomi dall'intorpidimento causato dal freddo fuori da qui. Una goduria poter star comodamente seduta così e crogiolarmi beata.
Stavolta dalle casse appese al muro fuoriesce la colonna sonora di Ritorno al Futuro.
Per cui di che mi lamento? Sono al caldo, in buona compagnia musicale, in uno dei miei luoghi preferiti e nel frattempo che la gente venga ad acquistare il biglietto mi leggo distrattamente la biografia dei Queen su Wikipedia.
Tengo le gambe accavallate una sopra l'altra, sbadigliando di tanto in tanto, e lo sguardo chino sul display che faccio scorrere man mano con il polpastrello.
Appena arrivo a leggere della loro collaborazione con David Bowie, all'improvviso, la mano di Marta sbatte sul ripiano di marmo dove è posizionato il lettore cassa facendomi decisamente sussultare dallo spavento, nell'altra mano vi è stretto il giacchetto dimenticato. Non mi sono per niente accorta del suo arrivo, men che meno della sua presenza di fronte a me.
Dopo aver sobbalzato come un piccolo coniglio impaurito, mi vedo costretta a dedicarle tutta la mia attenzione, chiedendo silenziosamente perdono a Freddie Mercury.
Come per magia smetto anche di udire la melodia.
L'espressione di DarthMart è così irritata, per non dire inviperita, che sono costretta a impegnare tutti i cinque sensi in sua direzione. Devo farmi spiegare il perché di questa entrata di scena così plateale.
«E va bene. Adesso basta», tuttavia Marta mi precede ed apre la bocca prima di me, parlando appunto con una nota parecchio acida nella voce. «Ora esigo la verità, Matilde!» esclama gettando all'infuori dal naso una grande quantità d'aria.
Mi ritrovo a osservare la mia amica con sguardo perplesso, del tutto sorpresa dal suo arrivo così brusco e soprattutto dal suo tono vocale.
Aspettavo l'arrivo di Marta, sia chiaro, ma non in questa maniera! Cavolo, per poco non mi metto a urlare!
Blocco velocemente il display del cellulare sbattendo con vigore le palpebre. I capelli argentati della mia amica sono disordinati, pare quasi che si sia messa a correre pur di muoversi e venire qui. Dopodiché, con calma, afferro il mio giacchetto e lo appoggio sulla superficie della cassa. Non voglio assolutamente fare movimenti bruschi.
«Ciao, Marta. Benvenuta all'Arcadium» replico ironica inarcando un sopracciglio.
Mi aspetto una risposta da parte sua, eppure non accenna a proseguire il discorso, né tanto meno a sorridere. Anzi, sembra che si stia aspettando qualcosa da me, che dica o aggiunga qualcosa. Marta rimane con le labbra sigillate, serrate in una smorfia di stizza.
«La verità di cosa, esattamente?» continuo, e confusamente inoltre.
Perché Marta non sputa il rospo e basta? Che abbia combinato qualcosa inconsciamente facendola di conseguenza arrabbiare? Mi sono dimenticata di qualcosa di importante? Le ho fatto un torto?
Insomma, non comprendo il perché della sua espressione accigliata e così irata verso la sottoscritta.
Marta si morde il labbro tanto è irritata, e conosco il significato di quel gesto.
Pensa che la stia prendendo per il culo, che la stia prendendo in giro!
Oddio, davvero io non so di cosa sta parlando e soprattutto non so giustificare questo suo comportamento! Sono totalmente all'oscuro di ciò che le sta passando attualmente nella testa.
«Se è vero che sono la tua migliore amica, come hai ribadito diverse volte, perché non mi racconti niente? E soprattutto per quale motivo mi hai mentito?» dichiara Marta aspramente, incurvando gli angoli della bocca verso il basso.
Dopo aver sentito tale frase, inarco ancor di più il sopracciglio, ancora non riesco a collegare.
«Ma se sai vita, morte e miracoli della mia banale esistenza!» esclamo meravigliata, pure con una certa enfasi, «E poi quando ti avrei mentito? Nei miei ricordi non risulta una cosa del genere. Si può sapere che hai?».
Io le avrei mentito? E su cosa dal momento che l'ultima volta che si è presentata a casa mia con Diego e Ludovico al seguito le ho fatto una confessione con la "c" maiuscola? Narrandole praticamente ogni dettaglio!
Al che Marta scoppia in una risatina scettica e – quasi stento a crederci – sadica.
Non sono stupita della crudeltà, poiché quella ce la mette sempre nei suoi sguardi minatori e nelle sue risate diaboliche, sono stupita perché la sta riservando a me. La sua migliore amica. È l'ennesima stilettata al cuore della giornata questa.
«Mi hai mentito eccome» insiste ella convinta, «hai sparato una stronzata epocale a casa tua venerdì scorso. Hai fatto intendere di quanto disprezzo nutri per Aspromonte... eppure, oggi, dopo che te ne sei andata dalla riunione non hai esitato a farti manipolare di nuovo. Perché ultimamente "manipolare" è divenuto sinonimo di "limonare"».
Ed ecco che incasso il suddetto "brutto colpo" dei Pokémon, ecco che la verità è saltata fuori una volta per tutte.
I miei occhi a quel punto si spalancano dal terrore. Ora sì che capisco il perché Marta mi abbia aggredita a questo modo.
Ci ha visti, nel corridoio.
«C-c-ci hai visti?» deglutisco balbettando, a stento ricordando di come si faccia a parlare in maniera sensata.
Contemporaneamente sono sbiancata e la mia temperatura corporea è scesa di mille gradi. È appena successa l'apocalisse.
Ci ha visti.
«Già, vi ho visti» ripete Marta sarcastica, «ero venuta a cercarti per venirti in aiuto dopo che Leonardo si è alzato. Sapevo che eri arrabbiata e non volevo che facessi qualcosa di cui poi ti saresti pentita. Quando ho visto la scena ho capito che era troppo tardi dal momento che non facevi niente per separarti da lui. E pensare che Diego voleva venire a controllare, gliel'ho impedito io e sono andata al suo posto» scoppia nuovamente a ridere, però niente crudeltà, solo delusione.
Un altro colpo al cuore.
«Marta, t-tu hai frainteso... è vero, ci siamo baciati ma...» tento di giustificarmi in qualunque modo, solo che non mi viene nulla di intelligente e di consono da dire.
«Ma... è stato un errore? Oh, io non credo. Lo si capisce quando un qualcosa è un errore, fidati quello un errore non lo era» m'interrompe Marta tagliando il mio vano e ridicolo tentativo di farmi spiegare. «Un errore è stato ammettere davanti a te che provo qualcosa per Lunanuova, anche se non so cosa. Però perlomeno io l'ho ammesso e sono in pace con me stessa. Tu non solo racconti balle agli altri ma ti fai pure guerra interiormente. La sai una notizia flash?» confessa sporgendosi oltre il bancone, avvicinandosi al mio volto devastato dal dispiacere e dal rimorso, «Più menti più la verità si solidifica fino a farti sprofondare insieme al suo peso».
Emetto un lungo sospiro dopo che Marta si ritrae all'indietro. Il cuore minaccia di uscirmi dal petto.
«Non ho voluto io tutto questo» mi limito a pronunciare sentendo che a breve sarei sprofondata in un attacco d'ansia.
Ed effettivamente è vero, è così, è la verità. La situazione è sfuggita al mio controllo senza neanche che me ne rendessi conto.
«Nemmeno io» conclude Marta scuotendo il capo, voltandosi dall'altra parte dandomi le spalle.
Fa per andarsene e prima di richiudersi la porta dietro di sé dice un'ultima frase, «Prego, per il giacchetto».
Dieci minuti precisi più tardi varca la porta d'entrata del cinema Costanza Notai, in completa e totale solitudine. Nessuno che le fa compagnia. Sola, come me.
Perché in questo momento mi sento dannatamente sola, come se fossi stata abbandonata.
Sto letteralmente una merda, accade sempre così dopo che io e Marta litighiamo; rare sono state le litigate fra me e lei, però devastanti. Per di più io sono alquanto sensibile quando si tratta di qualcuno a cui tengo.
Potrei litigare con tutto il Caravaggio al completo anche in questo preciso momento... ma non con chi amo.
Con loro soppeso tutto: parole, tono di voce, movimenti delle mani, delle braccia, degli occhi, della bocca. Non lascio nulla al caso, analizzo a fondo qualsiasi dettaglio poiché ogni dettaglio fa la differenza, grande o piccolo che sia.
Chiamatelo "cruccio", chiamatela "smidollaggine", oramai questa sono io, Matilde è fatta così e non credo che riuscirà tanto presto a cambiare in questo ambito.
Ad ogni modo, mi sforzo di concentrarmi sulla figura della mia nuova cliente, tentando di nascondere il mio stato d'animo tormentato e riservandole il solito trattamento che riservo ad una del Classico come lei. Sarcasmo a palate, sguardi sferzanti a migliaia.
Mi comporto nella maniera più normale possibile, fingo che Marta non sia mai venuta a restituirmi il giacchetto, fingo che non abbia mai baciato Leonardo. È difficile ma credo di poterci riuscire. Sono riuscita ad affrontare situazioni ben più complicate di questa, anche se meno assurde.
Ritorno a fissare Costanza.
Ritorno a fissare i suoi capelli castani legati in una elegante treccia che le ricade elegantemente sulla spalla, ritorno a fissare le sue particolari iridi color sabbia e la sua pelle di porcellana, le gote illuminate di un blush dorato.
Come mai è qua da sola? La Queen Bee non esiste che esca senza il suo reame al seguito.
«Ullallà, l'impavida Atena fa il turno anche stasera» mi canzona Costanza con un sorrisino provocatorio appena mi nota.
«Ullallà, Costanza Notai sola come un cane. Buffo» replico per contro cercando di apparire beffarda più che mai.
«Non c'è niente di male nello stare da soli, personalmente reputo che sia meglio venire al cinema in solitudine anziché in compagnia. Ti godi maggiormente il film» sentenzia per le rime la ragazza guardandosi intorno con aria annoiata, senza soffermarsi su niente in particolare. Lo fa, appunto, per noia.
Wow, non posso fare a meno di rimanere colpita dalla sua affermazione. Le piace venire al cinema senza nessuno intorno? Non l'avrei mai detto.
«In realtà dovevo venirci con mia sorella, ma sicuramente non ha fatto in tempo per quel dannato teatro» spiega successivamente ella mordendosi la guancia all'interno, è evidente la fossetta formatasi sopra la pelle.
«Hai una sorella?» le faccio interdetta. Un altro particolare che non avrei mai detto. Davo per scontato che Costanza fosse figlia unica.
«A quanto pare sì» mi toglie la curiosità seppur utilizzando una elevata dose di derisione, dandomi fra le righe della Bella Addormentata, «maggiore. Però evidentemente sono più importanti le sue prove teatrali che sua sorella più piccola» dice acida battendo la punta dello stivale dall'aspetto costoso sulla moquette.
Aspetta un attimo... Costanza ha una sorella maggiore, che fa teatro, e Marta la mattina che abbiamo avuto palestra mi ha mostrato una fotografia di Lunanuova assieme alla sua collega di scena, ovvero Ilda, la donna di cui Marta ne è particolarmente gelosa.
Ora non posso fare a meno di notare la stretta somiglianza fra Costanza e la sorella maggiore in questione.
Nella fotografia ricordo che ella aveva gli occhi celesti, a differenza di Costanza, però i lineamenti sono la chiave.
I lineamenti sono disegnati alla stessa maniera su entrambi i volti, stesso taglio delle labbra, stesso naso, stesso sguardo superiore a tutto e a tutti, per non parlare dei capelli, sia l'una che l'altra vantano di una folta chioma di capelli castano scuro, d'un riccio senza pari.
Quasi che sembrano provenire da un'altra epoca.
«Fammi indovinare» comincio a dire facendole un gesto con la mano, «Ilda, è questo il suo nome» recito leggermente incredula.
«Come fai a saperlo?» domanda Costanza dubbiosa, squadrandomi con occhiata spocchiosa.
«Ehm, recita insieme al mio prof. di storia dell'arte. Lo so per questo, tuttavia ignoravo la parentela con te» le spiego senza cadere troppo nei dettagli, ovvero del fatto che Marta sia andata a ripescare una foto dal Facebook del suo professore.
Spero che a Costanza le basti come spiegazione, spero che non mi faccia ulteriori domande scomode. Non sono in vena di reggere ad una pressione del genere. Tuttavia abbozza un sorriso dopo una breve pausa di silenzio. Un sorriso più rilassato, sembrerebbe.
«Ho saputo della riunione di oggi. Non ti sei trattenuta dal fare la melodrammatica neanche stavolta» cambia discorso e ne butta là subito un altro, forse addirittura più spinoso del primo.
«Corrono veloci le voci dentro quella scuola» dichiaro provocatoria con tanto di ghigno, incrociando le braccia al petto.
«Le orecchie sono fatte per questo, per ascoltare. Poi sta alla mente cosa elaborare e scartare» afferma Costanza giocherellando con la piccola ciocca di capelli dopo l'elastico scuro, «sappi che non cambia la mia esistenza se fai la melodrammatica o meno».
«Wow, che maestra di vita» bofonchio roteando gli occhi per non scoppiare a riderle in faccia.
«Ti sembro una maestra di vita? Non conosco un controsenso migliore di me, fidati» ridacchia come se stesse parlando più a se stessa che a me.
«Io sono la regina del controsenso» sottolineo io facendo finta di vantarmi.
Non so per quale motivo ma sento il bisogno di... farla sentire meno sola.
Poiché Costanza, nonostante la sua grandissima popolarità al Caravaggio, in questo istante mi da proprio questa sensazione, che si senta sola, o magari solo incompresa, chissà.
«Tu sei la regina dell'accumulo, semmai. Dell'autodistruzione» commenta la ragazza dicendo l'evidenza, «dimmi come ti senti dopo aver saputo che nella maggiore delle ipotesi vi rovineremo la gita, dimmi come ti senti dopo essere stata giudicata da tutti solamente per un fugace pettegolezzo, dimmi come ti senti dopo dover sopportare tutta questa pressione» asserisce lanciandomi quella che si suol chiamare sfida, e bella grossa aggiungerei.
«Ti ha mandato qualche tuo amico a farmi questo terzo grado?» le domando guardinga, quasi pentita di essermi messa in modalità empatica per lei.
Ed ecco che grazie a questa mia domanda Costanza esplode a ridere. Una risata fragorosa, genuina, vera.
«Oh, dolce Atena, io ho tanti amici, dico sul serio. Ne ho così tanti che qualcuno mi sta persino simpatico. Tuttavia non bastano per farmi prendere ordini da loro» mi confessa divertita, «Costanza Notai non si fa manipolare da nessuno».
«Sai, Costanza? Non sei esattamente come credevo» asserisco quasi in un sussurro, sorridendole. Questa ragazza del Classico è incredibile.
«Nessuno è mai come credevamo» concorda lei, annuendo, «tranne te. Tu sei proprio come immaginavo e ti ammiro perciò. Ora fammi un biglietto per Sin City, quell'idiota di Ilda non arriverà più» conclude dopo aver dato un'occhiata all'orologio al polso.
Nel frattempo, un più che dovuto retroscena di Marta.
Appena mi chiudo con un tonfo rumoroso alle spalle la spessa porta di vetro del cinema emetto un lungo sospiro di tristezza, infinito, quasi senza fine, tanto sembra che non basti a farmi svuotare del malessere che ho dentro di me.
Strizzo le palpebre, impedendo a qualche impertinente e insistente lacrima di uscire via.
Non comandano loro, comando io.
Decido io quando mettermi a piangere o meno. E adesso non è il momento, non in mezzo alla strada e non con Matilde ancora a pochi metri da me.
Mi affretto ad allacciare il giacchetto fino al collo, poiché dalla foga con cui sono uscita di casa mi ero proprio dimenticata di abbottonarmelo. Di conseguenza ho affrontato il freddo senza la giusta protezione quale un generoso strato di lana e stoffa cucite assieme.
"Sconsiderata" potrei essere etichettata. Un altro aggettivo da aggiungere alla mia lista di difetti, di questi tempi divenuta piuttosto lunga.
Grazie al mio essere sconsiderata, e anche grazie alla mia lingua tagliente, sono andata ad affrontare la mia amica di petto, appellandomi all'effetto sorpresa.
Più che sicura che Matilde non si sarebbe aspettata un'entrata in scena del genere da parte mia. Non necessaria, forse, magari inutile alla causa, però ne sentivo il bisogno.
Io lo dovevo fare, anche se era sbagliato. Come quando ti senti quel sassolino del cazzo dentro la scarpa che preme inesorabilmente contro il piede. Dovevo togliermi quel sassolino del cazzo dalla scarpa; era un peso ingombrante e dovevo liberarmene.
La vera domanda giusta da pormi è... ho fatto bene o male ad affrontare la mia migliore in questa maniera così brutale?
L'ho lasciata senza parole, balbettava, non riusciva a ponderare una risposta sensata. E sono anche certa che l'ansia le sia salita a livelli inauditi, i suoi occhi sbarrati parlavano chiaro. Oltre tutto, un'altra cosa di cui vado sicura è che l'aver discusso barra litigato con lei mi abbia fatto un male assurdo.
Io e Matilde raramente abbiamo litigato per qualcosa di serio, forse è per questo che mi fa provare questa sofferenza palpabile l'averlo fatto.
In cuor mio, so che litigare con chi siamo affezionati è un sintomo umano, più che normale.
Per cui il fatto che mi faccia sentire così turbata, che mi faccia sentire questo male interiore, automaticamente fa comprendere che il bene che voglio a Matilde è vero e reale, onesto e incorruttibile. Io e lei non fingiamo in fatto di amicizia. Non ci sorridiamo in faccia per poi voltarci di spalle e affilare i coltelli, utili a pugnalare.
D'altro canto, mi sento indubbiamente ferita, Matilde mi ha tenuto all'oscuro di un dettaglio biblico e se non l'avessi vista con i miei occhi scambiarsi quel bacio con Leonardo probabilmente non l'avrei mai saputo.
Sarebbe rimasto un qualcosa di sepolto. Matilde non avrebbe ammesso di aver "sbagliato" una seconda volta.
In conclusione, ora sono decisamente arrabbiata e troppo piccata per poter riflettere a come ricucire questo attuale strappo. Dal momento che sono un essere umano anche io ho bisogno di tempo. Non qualcosa di esagerato come un mese, ma di qualche giorno, magari persino una settimana.
Fossi stata al posto di Matilde avrei capito e mi sarei messa in un angolino ad attendere, sapendo che ognuno reagisce in modo diverso dinanzi ai piccoli problemi della vita.
Dunque mi stringo le braccia al petto, sfregandomi le mani su di esse facendo sì che percepisca un po' di calore, e decido che un buon rimedio per questo freddo pungente è il classico tè caldo.
Me ne andrò da qualche parte, come un lupo solitario, berrò la mia bevanda e mi metterò a riflettere sulla mia insulsa esistenza, mi metterò a riflettere sulla mia codardia e sul mio girare intorno alle cose anziché affrontarle con maturità.
Esempio? Oh be', Lunanuova ne è l'esempio lampante. Emilio rappresenta egregiamente il significato della mia autodefinizione.
Mi affretto a salire a bordo della mia auto, mettendola successivamente in modo e guidando alla volta del centro, con l'intenzione di recarmi al Caffè delle Giubbe Rosse anziché all'Autorimessa.
Per il momento non voglio vedere visi familiari.
Dopo aver parcheggiato non troppo lontano dalla mia meta m'incammino lentamente alla volta del caffè e nel contempo estraggo un drum dalla mia fedele scatolina metallica con la scritta Jack Daniel's in rilievo, portandomelo alle labbra e accendendolo infine.
Sono anche tentata di ascoltarmi qualcosa dei Pearl Jam ma purtroppo non ho con me le cuffiette, ho giusto il portafoglio infilato nella tasca del giubbotto per via dei soldi e della patente e il cellulare infilato nella tasca dei pantaloni di velluto. Idem vale per il porta-drum, è un'abitudine oramai averlo sempre sulla mia persona. Ho portato dietro il minimo indispensabile tanto andavo di fretta.
Neanche la grazia di una borsetta.
«Fanculo!» esclamo anche un po' per dar sfogo al mio tormento, fregandomene altamente di essere fissata in malo modo dai passanti fiorentini e non.
Tsk, come se non avessero mai udito una parolaccia o un'imprecazione in vita loro! Ipocriti.
Velocemente raggiungo Piazza della Repubblica, come sempre – trecentosessantacinque giorni l'anno – piena sia di turisti che di cittadini. Mai vuota, mai deserta, costantemente illuminata e gremita di vita, quando ci metti piede è automatico il sorriso che spunta sulle labbra.
È un luogo che, a mio modesto parere, dà allegria.
È perfetto per tirarsi su il morale, soprattutto quando esso è andato a farsi fottere senza un domani. Sono nel posto giusto allora.
Supero a passo spedito, e senza neanche osare voltarmi, il Forte d'Alabastro. Come ho detto, voglio evitare visi familiari e soprattutto di merda.
Però, a quanto pare, oggi la mia grigia giornata non è ancora finita, è destinata a diventare del tutto nera.
«Ehi, fatina» sento una voce alle mie spalle, dannatamente conosciuta.
Rapidamente associo quel "fatina" al colore argentato dei miei capelli.
Oh sì, è sicuramente qualcuno che conosco, e che con tutto il cuore vorrei che fosse l'esatto contrario. Interrompo la mia marcia stile Anakin Skywalker e mi volto, per verificare se sia che penso oppure no.
E il mistero è risolto.
Adesso sento aumentare ancor di più il nervoso quando constato che dinanzi a me, vestito con un lungo trench di Burberry e con le iridi provocatorie, c'è Alberto Del Bianco, la dolce metà di Leonardo Aspromonte.
Diamine, se aumenta la furia che ho dentro... Quasi che riesco a mettermi nei panni di Matilde quando si avvelena col mondo intero.
Il drum – un altro, acceso subito dopo il primo – quasi mi casca via dalla mano appena realizzo la orribile realtà. Mi si sono gelate in gola persino le parole.
«Di corsa?» mi domanda lui mentre si allontana dal suo fedele locale per poi avvicinarsi a me, passo dopo passo.
«Del Bianco» dichiaro dunque, con tanto di ghigno sfrontato, neanche mi c'impegno, è del tutto naturale, «infelice di vederti. E non sono io che vado di corsa, sei tu che vai troppo a rilento».
«Quanta acidità per una domanda semplice e banale, dovresti conservarla per le cose utili» consiglia Alberto sogghignando a sua volta, però sinceramente divertito dalla mia reazione così sulla difensiva.
«Come l'Assemblea di venerdì, in tal caso» sorrido angelicamente prendendo una boccata di fumo, «mi fa piacere che tu ti reputi inutile».
"Razza di idiota", penso successivamente con crudeltà.
«Ho sentito che c'è stata un po' di tensione alla fine della riunione di oggi, stando in tema scolastico» Alberto ignora la mia ben evidente provocazione, «vi siete accoltellati per scegliere la meta della gita?».
Senza smettere di sorridere come un angelo malefico, non mi lascio soggiogare dalla sua frase di sfida, bensì mantengo la calma, cosa non da poco visto quanto accaduto e quanto sta accadendo.
«Se eri curioso di assistere alla scena potevi candidarti, molte novelline ti avrebbero sicuramente votato» proferisco tagliente alludendo alle ragazzine di primo e secondo anno.
Appena mi sente dire ciò, Alberto fa una smorfia di disgusto, «Io e la politica in generale, compresa quella scolastica, siamo due mondi opposti. Ben contento di non essere in mezzo alla vostra mucchia» spiega con il naso arricciato.
Come Alberto termina di parlare, un pensiero mi attraversa la mente come una stella cadente. Solerte, ma ben visibile e sicuramente d'impatto.
Alberto è stato onesto, voglio dire, mi ha detto la verità.
Eppure, avrei ben giurato che ad uno come lui gli sarebbero calzato a pennello il "comando". E che gli sarebbe oltremodo piaciuto.
«Buon per te» asserisco facendo spallucce, guardando altrove e senza abbassare la guardia. Mai abbassare la guardia.
«Be', buona serata qualsiasi cosa tu stia facendo» lo saluto infine dopo aver tirato l'ultima boccata di fumo che il drum mi permette.
«In realtà sono qui con i miei genitori per un aperitivo, ma non è che mi stia divertendo un granché» insiste Alberto impedendomi di andarmene.
«Allora va' a casa» gli suggerisco con più educazione possibile, anche se con un che di... stanco nella voce.
«Tu dove vai?» mi chiede senza preamboli.
«Da Darth Vader a farmi allenare nell'arte dei Sith» rispondo ironicamente ridacchiando come una pazza. Sto proprio impazzendo a quanto pare.
«Andiamo, Brunori, non fare la bambina» si prende la libertà di canzonarmi il ragazzo del Classico.
«Vado a prendere un tè. Da sola!» esclamo perentoria, decidendo di togliere la sua immane e ingiustificata curiosità e marcando l'ultima parola.
Ma cosa gli importerà mai? Alberto Del Bianco che vuol sapere che cosa fa Marta Brunori. È inquietante. Fuori luogo.
«Posso farti compagnia?» mi chiede Alberto gentilmente, abbandonando quel sorrisetto sfrontato.
Cazzo! Ma sto sognando? Cosa c'era in quei drum, dell'erba per caso?!
«Che cosa?» chiedo esterrefatta facendo finta di non aver sentito bene.
«Ti faccio compagnia. Ho voglia di una bevanda calda anche io, sono stufo dell'alcol freddo» mi ripete Alberto con calma e tranquillità, come tutto rientrasse nella norma.
Come se uno come Alberto Del Bianco si potesse senza problemi sedere a un tavolo di un caffè con Marta Brunori a sorseggiare tè bollente! In una dimensione parallela forse, ma dubito fortemente.
«Senti, benedetto ragazzo, se speri che ti passi qualche pasticca o della polverina ti sbagli di grosso. Evita di esercitare del finto perbenismo e va a casa» ribadisco velenosa, ripensando al mattino che Alberto fece quella "simpatica" battuta riguardo pasticche e droghe varie.
E dopo ciò me ne vado davvero. L'intento era quello di restare sola e sola voglio rimanere!
Pur tuttavia non vengo esaudita nemmeno adesso.
Mi accorgo che Alberto mi sta bellamente seguendo. Addirittura è entrato dentro al Caffè delle Giubbe Rosse dietro di me! Sembra quasi che siamo venuti insieme!
Per cui sono costretta a voltarmi di nuovo verso di lui, sono costretta a fulminarlo con gli occhi dato che ho finito i termini da pronunciare.
«Che c'è? Il Caffé non è tuo, posso entrare quanto te» mi ragguaglia Alberto con un furbo sorrisetto, assai sghembo.
«Stammi lontano» sibilo come un cobra.
«Come vuoi. Vorrà dire che prenderemo due tavoli separati» termina egli, con un divertito nelle iridi inspiegabile.
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