24. Il sole sorge comunque












Sono sola. In un qualsiasi vicolo umido e freddo, rischiarato da uno scarso barlume proveniente da un lampione.

C'è più buio che luce. La mia figura è immersa completamente nell'oscurità, nessun lembo di pelle illuminato, nessuna ciocca di capelli baciata dal chiarore.

Tengo la schiena seminuda poggiata contro il muro umettato e decisamente gelido, i brividi che non tardano ad arrivare, la pelle d'oca che affiora precisa sulla superficie delle braccia. Tuttavia non posso fare altrimenti, devo appoggiarmi assolutamente a qualcosa oppure sono più che sicura che il mio equilibrio non sarebbe rimasto tale.

Mi ritrovo a stringere i denti, evitando di farli battere gli uni con gli altri, unisco i palmi marmati delle mani tentando in tutti i modi di ignorare il battito accelerato del mio cuore e del mio respiro che si è tramutato da lento a velocissimo.

Non è sufficiente, riesco a sentire comunque il pulsare ripetuto rimbombarmi nelle orecchie, mi appare così forte, così insopportabile. Devo fare qualcosa per distrarmi, devo inventarmi qualcosa, qualsiasi cosa. O altrimenti una bella crisi di nervi non mi sarà di certo risparmiata.

Strizzo con vigore le palpebre tanto da sentire dolore, mi mordo il labbro inferiore per riflettere con maggiore lucidità, per quello che mi è permesso. Mentalmente decido di fare un esercizio, un esercizio che in passato mi è stato utile al fine di calmarmi e di riacquistare un lieve autocontrollo sia mentale che fisico.

Devo fare seriamente ordine mentale e riprendere uno straccio di controllo visto che sono assai agitata attualmente, più che certa di non rispondere delle mie azioni.

L'esercizio è molto semplice, facile da eseguire e il risultato è equamente sorprendente: devo elencare ogni cosa vera che accade nella mia vita, ogni verità che rappresenta e descrive me stessa. Niente bugie, nessuna menzogna.

«Okay, Matilde...» comincio a parlare con la voce che è assurdamente tremante e vacillante, un timbro così basso era da tanto che non usciva dalle mie labbra, «comincia dalle cose semplici, quelle che sai che sono vere» recito a memoria, un pizzico di nostalgia mi assale fin da subito.

Il trucco di questo esercizio è quello di parlare a voce alta, non bisogna pensarle le cose, bisogna dirle. È un dettaglio assai importante, un passaggio da non sottovalutare. Se si ignora, allora l'esercizio è quasi da considerarsi nullo.

«Mi chiamo Matilde Johanne Castellani, Johanne datomi da zio Julian in onore della sua iniziale. Ho diciotto anni. Adoro il cinema, la buona musica e i film cult degli anni novanta. Ho due grandi amici, DarthMart e Diego. Sono una persona combattiva, spesso rabbiosa e una vera testa di cazzo con me stessa, anche con gli altri ma soprattutto con me stessa. Adoro anche l'arte, adoro Firenze, non vorrei vivere da nessun'altra parte se non a Firenze. Odio le discoteche, eppure ero proprio lì stasera» seguito a recitare ogni particolarità che mi rappresenta, lentamente e deglutendo facendo una pausa fra una frase e l'altra. Mi strofino le mani nel mentre.

«Sono una persona incoerente e ferisco troppo gli altri. Sono una perfetta egoista. Odio Leonardo e il Classico. Avevo l'intenzione di trovare il vero amore, trovare qualcuno compatibile con me eppure ho approfittato di Ludovico. Odio Leonardo però... è successo qualcosa...» continuo a parlare come se avessi ingoiato un limone intero con tanto di scorza, la voce e gli occhi prossimi all'ennesimo pianto.

Già, è successo qualcosa.

Poi blocco la frase, evitando di andare avanti.

Una pungente fitta proprio sulla bocca dello stomaco mi costringe a serrare le labbra, mi fa piegare un due. Sono costretta a chinarmi in avanti, allontanando la schiena dal muro di pietra, e senza riuscire a ricacciare il conato all'indietro butto all'infuori una nutrita parte dell'alcol che ho ingerito questa sera. Vomito cercando di non far finire tutto quello schifo sopra le scarpe e sopra la gonna, mi libero di un qualcosa di troppo.

Dopo aver tossito ed essermi passata il polso sopra la bocca al fine di pulirmi in qualche maniera, lotto con ogni possibilità contro il bruciore che è appena emerso nelle pareti della mia gola. Mi sento in procinto di sputare fuoco come un drago.

Strizzo nuovamente le palpebre e senza smettere di tossire mi vado ad aggrappare al muschio che fa capolino dalle rientranze del muro.

«È successo qualcosa che non doveva succedere» concludo il mio esercizio con un lamento decisamente sofferente, come se avessi appena recitato un incantesimo proibito di magia nera.

Mi pulisco ancora una volta le labbra sbaffate di rossetto nero, fregandomene dell'aspetto di merda che sto sfoggiando, poi apro il tappo della fiaschetta che tenevo saggiamente infilata sull'elastico della gonna e getto via il liquido che si trova all'interno. Lo faccio finire tutto quanto per terra, bagnando il cemento sotto i miei piedi.

Dopodiché riavvito il tappo al medesimo posto e, affranta come non mai, mi lascio cadere al suolo infischiandomene di sporcarmi. Fondamentalmente, ora come ora, non m'importa un accidente di niente.

Potrebbero sbarcare gli alieni, potrebbe scoppiare le Terza Guerra Mondiale, potrebbe aprirsi un cratere e inghiottire Firenze in un solo colpo e non batterei ciglio. Il che è tutto un dire, il mio livello di sconvolgimento deve essere praticamente schizzato alle stelle.

Tremo di freddo ora che ho appena rigettato, ammetto di aver fatto una stronzata epocale ad aver abbandonato il giubbotto al Madama Butterfly. Spero sinceramente che Marta me lo recuperi prima di andarsene, in quanto io non ho la minima forza di muovermi da qui, tanto meno di mettermi in marcia alla volta del locale. Fuori discussione.

Dannazione, che situazione del cazzo.

E il bello è che non sono in grado di uscirne, di reagire. Mi sono fatta travolgere completamente dagli eventi, non ho provato in nessun modo a difendermi. Quasi che mi vien da dire "ben mi sta".

Le suole delle mie Vans strisciano con movimento strascicato sopra il cemento intriso di alcol, piego le ginocchia quasi sino al petto tentando di raggomitolarmi per non provare quel brivido insopportabile. Con un gesto meccanico, mi porto le dita della mano sinistra proprio all'altezza della fronte. Premo i polpastrelli contro la pelle ghiacciata di essa eseguendo una lieve carezza, dove poco fa era incollata la fronte di Leonardo, nel punto dove si era irradiato un insolito calore.

«Non sai da quanto tempo è che ti odio», è ciò che ha pronunciato egli con una certa sofferenza.

No, forse effettivamente non lo so. Non so da quanto tempo lui mi odi. A questo punto non ho la minima idea di quel che pensare. Sembra che tutto quello di cui ero sicura adesso sia svanito, non valga più.

Improvvisamente, come se le mie orecchie si fossero attivate soltanto adesso - oltre che udire il battito veloce del mio muscolo cardiaco -, dalla finestra aperta di una casa qui vicino mi giunge scandita e soave "Who wants to live forever" dei Queen. Una compagnia niente male per chiunque li stia ascoltando.

Mentre sto sentendo il testo di tale melodia, non posso fare a meno di riflettere se il mio destino sia già stato deciso come afferma quest'ultima.

Questo mondo ha un solo dolce momento messo da parte per noi, ma il mio quand'è che arriverà? Quand'è che mi farà onore di abbracciarlo?

Fino a ora non è che abbia vissuto dei momenti chissà quanto magici e rosei.

"Who wants to live forever?
Forever is our today
Who waits forever anyway?".

Così finisce la canzone — l'eternità è il nostro presente, ma chi aspetta in eterno?

Devo forse attendere in eterno per avere questo dolce momento messo da parte per me? Oppure devo sbrigarmela da sola, con le mie uniche forze?

Dopodiché il cellulare che tengo accuratamente incastrato nella tasca della gonna si anima, prende a vibrare dal momento che l'ho privato della suoneria.

Nel contempo che lo estraggo appuro che è mia zia Angelica, e si starà chiedendo quale fottuta fine io abbia fatto visto che sono scomparsa magicamente dal Blue Velvet.
Rispondo alla chiamata tirando su con il naso, facendo un rumore tutt'altro che educato.

La voglia di parlare con qualcuno pari a zero.

«Matilde! Ma dove sei? Sei letteralmente sparita» mi chiede come previsto mia zia, il sottofondo della musica alta impera nel ricevitore.

«Sono fuori, al freddo e sola» dico la verità senza mezzi termini, facendo spallucce, «voglio andarmene a casa». Ne ho abbastanza del fuori, ne ho la nausea.

«Ti vengo a prendere» mi rassicura nonostante la voce allegrotta, «dimmi soltanto dove sei e io ti riporto a casa».

Dopo averle spiegato a grandi linee il luogo in cui mi ritrovo con le chiappe spiaccicate in terra, riattacco la breve telefonata. Abbandono il cellulare sopra le cosce e getto il capo all'indietro, spalancando le iridi verso il cielo totalmente buio e costellato di qualche piccola stella. Nemmeno riesco a vedere la luna.

«Hai ragione, Freddie» proferisco lasciando sfuggire un singhiozzo, «hai sempre avuto ragione... ma se io avessi paura? Se io avessi paura che cosa dovrei fare?».








Mi sveglio di soprassalto, il mattino seguente. Come se qualcuno mi avesse strattonato con violenza il cerchietto che ho sulla narice del naso, come se qualcuno mi avesse artigliato la carne della guancia, come se qualcuno mi avesse stretto le mani intorno alla gola.

Un risveglio piuttosto brusco, raro se si parla di me.

Stessa sensazione di quando fai quel tipico incubo in cui cadi da un'altezza decisamente elevata e avverti in tutto e per tutto la velocità della caduta, impatto al terreno compreso. O come la sensazione nella quale sei inseguito da un qualcosa di terrificante ma purtroppo hai le gambe pesanti come piombo, al modo di quando ce le hai immerse nella neve fresca o nell'acqua.

Mi sveglio aprendo gli occhi di colpo, spalancandoli con uno scatto, eliminando l'appiccicume dettato dal trucco e dal sonno. Facendo rapidamente due più due posso confermare di trovarmi nel mio letto, dentro la mia stanza, dentro casa mia.

Angelica deve aver fatto un lavoro coi fiocchi nell'avermi condotta fino a qui senza complicazioni.

Ad ogni modo, ho la mia adorata e calda trapunta sino all'altezza del mento, coperta e rannicchiata come un ghiro in vista del letargo. L'unica e singola pecca è che sono esattamente con i stessi vestiti con cui sono uscita la sera precedente.

Gonna, calze strappate, top, scarpe comprese. Non mi sono tolta niente, sono rimasta tale e quale. Nemmeno la buona creanza di sfilarmi via le Vans, dovevo essere parecchio in coma...

Appena mi viene l'impellente bisogno di dire qualcosa, di pronunciare anche la più piccola delle imprecazioni, avverto un'immensa sete, una vera e propria frenesia incontrollabile.

Necessito di acqua. Di pura e fredda acqua limpida.

In secondo luogo la sensazione che percepisco è quella del bruciore pazzesco alla gola, il medesimo di ieri notte e che a quanto pare non ha accennato a sparire durante il mio dormire. Non oso descrivere le condizioni della mia testa, ho paura a dar loro un senso compiuto. Dico solo che me la sento talmente pesante che può benissimo essere paragonata a quella della statua di Lorenzo Il Magnifico posizionata vicino all'ingresso della Galleria degli Uffizi. Paragone più accurato non c'è.

Infine ho un serio impulso di far pipì.

Infatti, senza indugiare oltre, mi levo di dosso il calduccio delle coperte e schizzo in bagno come una saetta. Le gambe che quasi improvvisano una corsa tanto me la sto per fare addosso.

Spalanco con così tanta foga la porta del bagno che essa va a sbattere contro la parete. Ma non me curo, l'unica cosa importante ora è quella di slacciare la cintura per sfilare la gonna e svuotare la vescica.

Dopo aver portato a termine la delicata missione, mi riabbottono come meglio posso e avanzo fino alla volta del lavandino.

Apro il rubinetto dell'acqua fredda e mi chino affondando i denti sul getto, esattamente come Dracula affonderebbe i denti in un collo umano. Lascio che il liquido restituisca vita alla mia gola, bevo quasi fino a scoppiare.

Una volta essermi riempita a sufficienza giro il rubinetto in verso contrario e, finalmente, alzo il capo verso lo specchio, dedicando completamente l'attenzione alla riflesso su quest'ultimo.

Una sconosciuta, un'estranea mi fissa con gli occhi sbarrati. Uno zombie in stato pietoso, a volerla raccontare tutta.

Ho veramente un aspetto orribile, per non dire raccapricciante, terrificante.

L'ombretto nero che mi ero applicata con ferrea dedizione sopra la palpebra mobile è sceso e si è mischiato per tutta la circonferenza dell'occhio insieme al mascara. Il rossetto, dello stesso colore dell'ombretto, si è mummificato sopra le mie labbra oltre che essersi sbaffato verso gli angoli — ripeto, stesso aspetto del Joker però in chiave dark.

Santo iddio, i capelli... l'aspetto dei capelli è il peggio del peggio.

Vado a toccarmeli con le dita per verificarne la consistenza e constato che sono appiccicosi e sporchi oltre ogni dire, per non parlare della puzza di fumo e alcol che emanano.

Mi sento come appena uscita da uno sfrenato rave inglese. Tanto per fare un esempio lampante sono identica alla Mia Wallace di Pulp Fiction dopo l'iniezione di adrenalina, con tanto di frangetta e ciocche rosa pallido.

«Faccio proprio schifo» dichiaro allo specchio dinanzi a me, parlando direttamente con la sottoscritta.

Sì, esatto, faccio proprio schifo. E devo assolutamente farmi una doccia.

Però prima è di vitale importanza che faccia una cosa: controllare il cellulare.

Ho sempre questo brutto vizio di non chiamare mai il giorno dopo che accade qualcosa di... fuori dalle righe. Sono sempre gli altri che si preoccupano per me, ed è un qualcosa di cui non ne vado particolarmente fiera.

Per cui me ne ritorno in camera, stavolta procedendo con più calma, e recupero l'apparecchio riposto sopra il lato del comodino verso al letto. Vi trovo due chiamate perse da Diego, quattro di Marta, più svariati messaggi su WhatsApp fra cui anche da parte del gruppo dei Rappresentanti d'Istituto.

Appunto, non è che Marta ha trovato quattro chiamate perse da parte mia, no, sempre il contrario.

Sbuffo rumorosamente mentre mi gratto il capo, aprendo man mano le varie notifiche. Lascio perdere per qualche secondo le telefonate che avrei dovuto fare senza se e senza ma, andando a premere con il dito sopra la chat con più messaggi, ovvero quella dei Rappresentanti, quasi da considerare la più importante adesso.

Con l'attenzione al massimo focalizzo la frase più basilare, ossia quella che devo leggere con scrupolo.

Midorin Classico, 8:45

- Domani pomeriggio abbiamo la riunione a scuola alle 15:30. Dobbiamo discutere dei temi da affrontare all'Assemblea di venerdì.

Ecco, è questo il messaggio importante.

I restanti non sono altro che risposte di consenso da parte di tutti i Rappresentanti: Diego, Giulio, Elettra, Thalìa, Marta, Giordano e così via... tutti hanno dato l'okay.

Tutti tranne me e tranne Leonardo. Siamo gli unici che ancora non hanno scritto uno straccio di risposta.

Dal momento che ho appena letto quanto necessario, è giusto che invii qualcosa alla conversazione.

Rispondo con l'emoji del dito indice e medio alzati, povera di parole... è che, onestamente, ora non sono tanto in vena di chiacchiere e frasi inutili. Scelgo la via dell'indispensabile.

Dopodiché, con un lungo sospiro, apro invece la conversazione di DarthMart; in essa mi spiega che ha recuperato il mio giacchetto – per fortuna! – e mi chiede dove sia scomparsa ieri sera. Come prevedibile.

Mi mordo il labbro guadagnando qualche minuto prezioso prima di scrivere qualsiasi vocabolo. Vige un irreale silenzio dentro casa, segno che mia madre è uscita chissà dove – magari a prendere un dolcetto per il dopo pranzo oppure a fare colazione al bar con qualche sua amica –, un silenzio così penetrante che quasi mette terrore.

Poi mi ricordo saggiamente che il sabato prima le mie orecchie sono state soggette a musica assai elevata e che, quindi, per la restante mezza giornata posso essere considerata sorda come una campana. Non riesco a percepire i rumori più lievi e più delicati, se non quello spiacevole e irritante fischio dovuto ai timpani stremati.

All'improvviso il mio volto viene illuminato dai raggi del sole del mattino, ciò mi costringe a distogliere lo sguardo dal display e a lanciarlo oltre il vetro della finestra, proprio sui tetti delle case, sulla strada sotto il mio palazzo dove già miriadi di auto, motorini e autobus scorrazzano senza sosta.

Osservo la magnifica palla dorata e gigante che fa capolino con timidezza fanciullina in questo freddo mese, ormai sorta da un po'.

Automaticamente mi viene da sorridere. Un sorriso mi affiora sulla superficie delle labbra sporche dandomi l'aspetto di qualche creatura malefica.

Mi avvicino con calma verso la finestra e lascio che i raggi tiepidi mi illuminino il viso, che gli restituiscano se non altro un po' di colore. Ultimamente è quasi sempre smorto, pallido, cadaverico. Della sana luce non può far altro che giovarmi.

È davvero piacevole, devo ammetterlo, crogiolarsi sotto il sole. Mi regala questa sensazione a dispetto di tutto quello che mi è accaduto la notte precedente, è come se volesse tirarmi su di morale.

"Ma pensa un po'... comunque, e nonostante tutto, il sole sorge ugualmente. Qualsiasi evento, buono o cattivo, sia avvenuto", rifletto interiormente senza smettere di sorridere senza motivo.

È veramente incredibile di quanta speranza sia in grado di infondere. Incredibile che ce l'abbiamo sotto gli occhi tutti i dì, la speranza. E noi la ignoriamo quasi a volerle fare un dispetto.

Allora mi decido a scrivere a Marta. Le scrivo di venire qui da me con il giacchetto dimenticato tra venti minuti, il tempo di farmi una doccia e di riacquistare un aspetto più umano, e di fermarsi a pranzo.

Perché Marta Brunori si avvicina parecchio al concetto di speranza per me.









Appena chiudo lo sportello della Yaris, il lunedì seguente – il giorno del giudizio –, dopo averla parcheggiata al solito posto al Caravaggio vedo Marta, Diego e Marco che vengono incontro alla direzione mia e di Laira, dall'altra parte della vettura.

I tre mi stavano aspettando, ne sono sicura.

Lo capisco dal fatto che Marta poco prima era seduta a gambe incrociate sulle scale anti-incendio, dal fatto che Marco abbia gettato via un mozzicone di sigaretta finita di essere consumata e Diego, be', di lui lo capisco dal fatto che mi sta accogliendo con un sorriso senza precedenti.

I miei amici più cari si raccolgono intorno a me per poi farci esibire in un magnifico abbraccio di gruppo, stretto stretto. Caldo, con i loro vari profumi che si mescolano alla perfezione.

«Buongiorno» mi sussurra DarthMart all'orecchio, riscaldandomelo con l'alito.

«Buongiorno a voi» ripeto affondando il naso nel collo di Diego.

Questo abbraccio sta a significare che il nodo che ci lega è stato visibilmente ristretto dopo la serata di sabato. Ognuno di noi si è dovuto sfogare a modo suo, ognuno di noi si è distaccato in qualche modo dal terreno ed è volato via per qualche ora.

Ne avevamo bisogno, era necessario e soprattutto inevitabile. Dovevamo... staccare la spina.

Ma ora eccoci qua, in piedi e in forze più che mai. Vigorosi, pieni di energia, pieni di speranza.

«Pronti per il compito di storia dell'arte?» domanda Marco dando quel tocco di serietà al nostro saluto.

«Più che pronta. Aiutando Ludovico a studiare ne ho imparate più io che lui» faccio presente inarcando un sopracciglio mentre sciolgo la morsa dai miei compagni.

Dopodiché mi tocco rapidamente le due piccole trecce a spina di pesce che mi sono fatta prima di uscire di casa, al fine di verificare di non averle rovinate.

«Io copio» dichiara Marta facendo spallucce con palpabile menefreghismo, «oppure rispondo a cazzo».

«Ahia ahia, qui qualcuno non ha studiato» la canzona Marco come è solito a fare, dandole un pizzicotto sulla guancia arrossata dal freddo.

«Ho studiato, testa di minchia» ribatte ella scacciando via la mano di Marco, «lo faccio perlopiù per vendetta».

Successivamente Laira, che ha comunque assistito a tutto al nostro abbraccio di gruppo senza emettere un fiato, ne approfitta per salutare Diego. E conoscendola come colei che non si vergogna di nulla, non mi stupisco affatto quando si sporge verso il mio amico fino a schioccargli un bacio sulla guancia.

Gesto che Diego vede come semplice atto di amicizia.

Rimango invece stupita, più che mai, del particolar dettaglio che nonostante le dinamiche di quel famoso sabato sera, Laira non si sia accorta minimamente che Diego sia partito per Thalìa, che abbia preso il treno di sola andata per lei. Non lo sospetta neanche.

Ha dell'incredibile questa situazione, dell'inverosimile. Come, d'altronde, anche la scia degli eventi che mi ha travolto senza darmi la possibilità di accorgermene questa ultima settimana.

Ad ogni modo, l'unica cosa che posso fare è stringere il capo fra le spalle, faccio spallucce. Non posso fare nient'altro, non mi è possibile.

A volte è meglio arrendersi e lasciar correre, no?

Sicché tiro fuori una sigaretta, tanto per cambiare, e me l'accendo incastrandomela fra le labbra. Una sigaretta è capace di farti dimenticare quasi tutto.

«Allora» esordisco infilando il braccio sinistro sotto il gomito dell'altro, impegnato a tenere la Winston, «come la facciamo scontare a Claudio?» domando agli altri con serietà tornando a questioni più significative.

E sinceramente credo di averli presi proprio contropiede dal momento che non rispondono di getto. È chiaro che non si aspettavano una richiesta così di punto in bianco da parte mia.

Nel frattempo, passano a pochi metri da noi, dopo aver varcato il grande cancello del Caravaggio – neanche ad averle chiamate con l'altoparlante –, Olivia, Viola e Isabella.

Olivia, appena scorge la mia figura nella sua traiettoria visiva, sobbalza come se avesse visto un mostro dai lunghi e affilati artigli. Abbassa lo sguardo, facendo cascare di proposito le sue splendenti ciocche bronzee davanti al volto, in modo da nascondersi. Accelera il passo infine, desiderosa di fuggire via da lì e dalla mia occhiata palesemente e crudelmente divertita.

Le sue amiche non possono far altro che starle accanto, senza però fare a meno di esibire sguardi dubbiosi e perplessi.

«Scappa, piccolo coniglietto, scappa» mormoro senza farmi sentire dai miei amici con un sorrisetto malefico.

È evidente che al Blue Velvet l'altro giorno non mi ha vista, era troppo ubriaca altrimenti se la sarebbe svignata sul posto o magari si sarebbe nascosta dietro il suo biondo cavaliere senza macchia e senza paura.

«Io dico di bucargli le ruote della sua macchina» propone Diego riportandomi con l'attenzione su di lui, con un braccio alzato.

«Bel modo di vendicarsi. Proprio maturo» commenta ironico Marco, sarcasmo gratuito il suo.

«Io l'avrei castrato. Fai due conti, Marco...» replica Marta con un sopracciglio inarcato e gli occhi incendiati mentre osserva qualcosa oltre le mie spalle con espressione omicida.

Mossa dalla curiosità mi volto ed ecco che arriva con tanto di lungo e nero giaccone Lunanuova. I lunghi capelli corvini al vento, che si muovono al ritmo dei suoi passi.

«Molto maturi entrambi» insiste Marco schioccando le dita.

«Falla finita, Marco, nessuno dentro quella scuola è maturo e responsabile» intervengo io roteando le iridi, stufa di tutto questo finto perbenismo.

«Patriarchi non lo è stato di certo» obietta Diego irritato.

«Appunto» sentenzia Marco, finalmente soddisfatto della frase di Diego, «volete essere idioti e teste di cazzo come lui? E poi bell'esempio che dai dopo aver letto il libro di Thalìa!» appura indicando il petto di quest'ultimo, sempre sul tono dello scherno.

Arma affilata e asso nella manica di Marco.

«Smetti di fare lo scassapalle!» borbotta Diego con una smorfia, «Non invoco alla guerra e allo schiavismo, voglio solo dare una lezione a chi se lo merita» si difende.

Al che Marco scuote il capo, schioccando la lingua, «Sono i valori ciò che contano, caro Diego» ridacchia spensierato, per niente toccato dalla voce innervosita dell'amico.

Pochi istanti dopo la lezione di vita di Marco, come Olivia, è il turno di Lunanuova di passarci accanto a distanza di pochi metri. Naturalmente non può far finta di non vederci e quindi con un cenno della testa esordisce un saluto, per poi parlare.

«Buongiorno, ragazzi» dice con non troppo sentimento, quasi di fretta.

Tuttavia, per sua sfortuna oserei dire, Marta coglie la palla al balzo, battagliera come un gladiatore.

Fa un passo in avanti, sorpassandomi.

«'Giorno a lei, professore. Ha passato un buon fine settimana?» gli domanda sfrontata e con un sorriso che non so dire se sia angelico o... demoniaco, alludendo senza se e senza ma all'ipotetico appuntamento del professore.

Un po' come il gatto di Schrödinger, potrebbe essere avvenuto oppure no. Entrambe le opzioni sono da tenere in considerazione.

Lunanuova si blocca dopo che Marta gli lancia quella frecciatina decisamente provocatoria e tagliente. Alza il mento senza farsi prendere dal panico, l'espressione indecifrabile. Il nostro prof. di storia dell'arte è dannatamente bravo a mascherare le proprie emozioni; quasi quasi gli chiedo se mi dà qualche lezione.

«Un normalissimo fine settimana come tanti altri. Grazie per l'interessamento, Brunori» risponde con pacata educazione, addirittura arrivando ad abbozzare un piccolo sorriso, decisamente piccolo, «il suo?» poi aggiunge.

«Uhm» Marta fa finta di pensarci su sfregandosi la bocca, «lievemente alcolico e purtroppo sono andata in bianco» proferisce con un sadismo eclatante, marcando malignamente le ultime parole, «mi auguro che lei sia stato più fortunato», e per concludere in bellezza il colpo basso.

A quel punto Diego non riesce a trattenere una risata, questa volta Marta l'ha detta grossa.

A Lunanuova non sfugge la presa in giro di Diego dettata dal suo sghignazzare; si appresta a lanciargli un'occhiataccia gelida, lo fulmina sul posto.

«Falco, io spero che avrai da sbellicarti dal ridere anche dopo che avrai davanti a te la verifica» dichiara pungente il professore al proprio allievo.

«Io sono sempre preparato, stia tranquillo, prof.» lo rassicura Diego con un occhiolino e il pollice verso all'insù. Non teme Lunanuova per un accidente.

«Staremo a vedere» sibila Emilio di conseguenza, riprendendo ad avanzare alla volta del Caravaggio. Ma prima si rivolge nuovamente a Marta, che lo sta fissando con ostinazione. Uno sguardo tutt'altro che bonario.

«Io in genere non sono fortunato, signorina Brunori» le dichiara, «ci vediamo in classe per la verifica, chi arriverà in ritardo andrà dritto dal preside, per quel che possa valere la sua autorità».








Come accordato con gli altri Rappresentanti d'Istituto e Consulta, dopo la fine delle lezioni e dopo aver lautamente pranzato, ci ritroviamo qualche minuto prima dell'ora prestabilita per la riunione nel cortile del Caravaggio in attesa di entrare all'interno.

I primi ad arrivare in assoluto siamo io e Diego, poiché abbiamo mangiato un pezzo di pizza in una pizzeria qualsiasi insieme dopo aver riaccompagnato a casa Laira.

DarthMart ha preferito ritornarsene a casa dicendo che è giusto passare del tempo anche con i propri genitori, soprattutto se i genitori in questione ti vogliono bene e non sono degli stronzi come la maggioranza.

Prima di varcare la soglia d'entrata io e Diego ci fumiamo la consueta sigaretta del dopo pranzo, uno sfizio oltre che una vera distensione di nervi. Ci vuole sapendo quello che ci attenderà lì dentro.

Per cui ci sediamo comodamente sotto gli archi, con le zip dei giubbotti tirate su sino al mento e le sigarette usate come unica fonte di calore.

«Mi auguro che quando saremo seduti e riuniti come neanche al Congresso di Vienna, non comincino a fare battute inutili quei dannati Perfettini» esordisce Diego abbassando gli occhi, osservando le proprie scarpe leggermente sporche di fango.

«Tu lascia correre» cerco di sdrammatizzare utilizzando un tono di voce spensierato e allegro, facendo buon viso alla cattiva inquietudine dentro di me, «siamo assieme ai professori e a Gandolfo, facciamo bella figura, ti va?».

Perché, a essere onesti, ho un po' di paura.

«Devo mettermi in modalità "non vedo, non sento, non parlo"?» propone allora Diego schernendomi.

«Quasi. Parlare devi, conversando con le parole giuste» acconsento mascherando un principio di ansia abbozzando un mezzo sorriso.

L'impulso di svignarmela a casa è tanto! Di svignarmela via e basta.

Successivamente vediamo giungere sempre più vicina Midorin, che, come ci nota seduti sotto gli archi dell'entrata, alza il braccio coperto da una mantellina ricamata con disegni orientali e ci fa cenno di saluto.

I suoi sottili capelli castani sono coperti da una delicata berrettina color celeste pallido, il taglio corto gli fuoriesce di poco da quest'ultima, solleticandole la mascella.

«Buon pomeriggio, ragazzi. Bella giornata per essere novembre» dice alludendo a questo sole splendente, come sempre educata e composta a dispetto dell'indirizzo che frequenta, per niente altezzosa, per niente spocchiosa.

Dico davvero, Midorin Ayasaka è una delizia per gli occhi. È bellissima e candida nella sua semplicità eterea.

«Ciao, Midorin» rispondo di conseguenza con un sorriso stavolta genuino, «il freddo è un po' sopra le righe ma si sta bene tutto sommato. Questo sole aiuta davvero. Allora, pronta per la nostra prima riunione?».

"Davvero le stai chiedendo se sia pronta? Sembra proprio che questa sia più adatta a te, Mats", mi sussurra la vocina interiore bastarda oltre ogni dire. Mi schiarisco la voce per zittirla.

«Assolutamente sì!» esclama con la sua vocina melodiosa paragonabile al trillare di tanti campanellini, battendosi le mani coperte dai guanti, «Sono arci-curiosa di sentire le ipotetiche mete per la gita».

Cazzo... dovremmo discutere anche della gita. Ora sì che vado nel panico sapendo come boicotteranno le nostre città i signorini.

«La nostra prof. di inglese proporrà Londra e Edimburgo, intanto abbiamo due valide opzioni» la informa Diego dopo aver aspirato dalla sigaretta.

«Be', in tal caso, noi avevamo intenzione di proporre Berlino e Parigi» commenta senza malizia Midorin, «scommetto che sarà un bel dibattito. Sarà una sfida all'ultimo sangue» ironizza.

Okay, Midorin può ironizzare quanto le pare – lei è palesemente la mosca bianca del suo gruppo – ma io una punta d'irritazione l'avverto comunque, nonostante cerchi in tutti i modi d'ignorarla!

Sicuramente i Rappresentanti del Classico faranno carte false per non scegliere né la città inglese, né quella scozzese. Potrei giocarci il mio vinile dei Led Zeppelin.

Il cellulare di Midorin prende a vibrarle nella tasca dei pantaloni e dunque è costretta a rispondere. Si preme l'apparecchio contro l'orecchio alzando un piccolo lembo del copricapo e replica sapendo già chi c'è dall'altro capo.

«Sono già qui, sono arrivata» è quello che le sento dire dopo aver aperto la telefonata, «muovetevi ad arrivare, mancano pochi minuti».

La forza dell'abitudine mi porta ad avvicinare le unghie delle mani ai denti, con l'impulso di mordicchiarle fino al sangue. A dispetto dello smalto che le ricopre, non c'è santo che tenga, comincio a mangiarmele dall'ansia che purtroppo non sto riuscendo a gestire.

Con chi sta parlando Midorin?

«Va bene, a tra poco» ripete prima di riagganciare.

E neanche ad avermi letto nella mente ella mi incatena con i suoi incantevoli occhi a mandorla e dice, «Leonardo, Giulio ed Elettra stanno arrivando. Mi raccomando, niente litigi, niente scenate, niente sfuriate, niente del vostro storico odio. Oggi siamo qui per il Caravaggio, nessuna distrazione».

E lo dice con fare perentorio, che non ammette alcun tipo di replica. Con un accento incredibilmente giapponese. Quasi che mi fa venire i brividi.

Come la ragazza termina la frase, ecco che vedo arrivare il trio suddetto provenire dal parcheggio. Tutti e tre vicini: Elettra al centro, Leonardo e Giulio ai suoi lati come due guardie del corpo.

I capelli semi-dorati-semi-castani di Elettra risplendono sotto i raggi del sole, la frangetta le copre la fronte tanto da farle avere due occhi profondi e felini, in grado di mettere in soggezione.

Appena li vedo camminare verso la nostra parte mi sento subito, a colpo di fulmine, la gola secca. Come se mezz'ora fa non avessi bevuto una bottiglietta d'acqua e mezzo. È secca, brucia, è infuocata.

Per risultato a ciò mi vedo obbligata a gettare via la Winston ancora non finita. Un gesto indubbiamente strano da parte mia, io odio interrompere le cose a metà, provo un disprezzo spropositato.

Però questo è un caso di estrema necessità, di forza maggiore.

«Ehm... ehm...» mi schiarisco la voce una seconda volta, divenuta stranamente roca, quasi irriconoscibile, «tranquilla, non ne ho la minima intenzione» dichiaro a Midorin con un evidente battito del cuore accelerato.

Diamine, sembra voglia uscirmi dal petto!

Dunque mi alzo in piedi stando attenta a non perdere l'equilibrio, facile quando comincia a prendermi l'ansia a questi livelli, afferro Diego per la manica del giubbotto e lo trascino con poca grazia via con me. Lo voglio trascinare dentro al Caravaggio, voglio assolutamente entrare.

Diego, per starmi dietro, si alza in piedi a sua volta, tanto che non gli lascio nemmeno terminare la sua sigaretta.

«Ma che cazzo, Matilde!» esclama contrariato guardando tristemente il mozzicone incompleto cadere per terra.

«Non fare il polemico, voglio prendere i posti migliori» mento scuotendo la testa. Proprio una cazzata più assurda di questa non potevo inventarmela.

Voglio prendere i posti migliori.

"Andiamo, Matilde... questa era seriamente da principiante".

Oh be', contando che la verità è tutt'altra cosa posso comunque confermare che meglio che abbia pronunciato questa stronzata anziché l'inverso. Decisamente meglio.

Non mi va di guardare in faccia Leonardo, non mi va, non mi va e punto.

Sì, ho scelto la via di fuga e allora?

Nessuno mi metterà in croce per questo. E neanche Diego.

Fanculo, dovrò passare con lui l'intero pomeriggio, ho diritto a tagliare la corda se posso!

Quindi ci rechiamo velocemente – ebbene sì, sto quasi per mettermi a correre per la scuola – nell'Aula Magna situata a ovest del Caravaggio, nello stesso piano del Classico.

L'istituto è vuoto e silenzioso, quasi che sembra di essere in un mondo parallelo.

Appare così innaturale ai miei occhi e alle mie orecchie, abituati a vederlo sempre pieno, gremito di persone che vanno a destra e a sinistra, satollo di rumori e schiamazzi. Innaturale trovare i corridoi deserti, inconsueto non vedere facce antipatiche e voci fastidiose.

L'Aula Magna è, come ogni rispettabile Aula Magna, imponente, grande, di superficie vasta e con il soffitto alto. Infatti quest'ultimo comprende anche il piano superiore, il piano dell'Artistico, con la differenza che è assente il secondo pavimento.

I muri di essa sono color del bronzo, poltroncine di pelle morbida sono disposte in file ordinate sia a destra che a sinistra. Un lungo tappeto nero fa da corridoio per tutta la sala, passando nel mezzo delle poltroncine. E, per par condicio, per questione di uguaglianza, a sinistra sono disposti quadri di importanti autori, scrittori, poeti e filosofi, a destra sono appesi copie di quadri di famosi pittori, artisti e scultori.

Metà per il Classico, metà per l'Artistico.

E così sono tutti felici e contenti.

Inutile spiegare che a sinistra vi siedono i Perfettini durante le assemblee, e a destra sediamo noi. Ci dividiamo anche in questo, nessuna scusa.

Appena superiamo la spessa porta d'ingresso, già aperta per l'occasione, troviamo in cima all'Aula Magna al cospetto dell'enorme e lungo tavolo di legno, dove avremmo dovuto sedere nelle future assemblee noi e gli altri Rappresentanti, la professoressa Drago, il professor Lunanuova e due docenti del Classico, Vemini e Corolli, oltre che chiaramente il preside.

«Benvenuti, giovani» ci accoglie calorosamente Ottavio Gandolfo vedendoci entrare, sfoggiando un eccentrico completo viola prugna con ricami dorati e addirittura un foulard legato intorno alla gola.

«Sorprendentemente puntuali, guarda caso» commenta acido Lunanuova, non mancando di fare una risatina di sdegno.

«Tsk, come se alla loro età noi fossimo stati degli orologi da taschino» lo corregge sarcastica Valeria Drago, scuotendo la testa e facendo tintinnare automaticamente i vistosi orecchini, visibili oltre i suoi lunghi capelli biondi, «sei più polemico di mia madre, Emilio».

«Io ancora non ho nemmeno trent'anni, inutile che dici "alla loro età noi eravamo"» replica Lunanuova alquanto piccato.

«E io ne ho trentasei suonati. Cosa vorresti insinuare?» sibila la Drago con le iridi color cioccolato accese.

«Su, su, su, su, siete tutti giovani e belli, me compreso» interviene Gandolfo mentre estrae la sua fedele lente d'ingrandimento per strofinarla contro la giacca al fine di pulirla.

Caspita, non sapevo se la portasse dietro quotidianamente, «Pensiamo a cose serie come il futuro di questa scuola. Dove sono gli altri vostri colleghi?» ci domanda direttamente.

Sto quasi per aprire bocca quando vengo interrotta.

«Qui» mi arriva la voce di Leonardo alle mie spalle, precisa e lineare.

Profonda e grave.

E infatti constato che sono tutti qui, una volta voltata in loro direzione. Marta, Ang Louis, Thalìa, Jeanine, Giordano e Chiara compresi, coloro che non ho visto arrivare all'esterno poco fa.

Ebbene eccoli qua, i dodici Rappresentanti al completo.

Mi ritrovo a osservare la figura di Leonardo, senza riuscire a farne a meno, che avanza inesorabile verso il grande tavolo dove fra pochi istanti ci siederemo. Noto anche che sulla metà di destra camminano i miei compagni, nell'altra metà camminano i ragazzi dell'altro indirizzo, esattamente come sono disposte le poltroncine.

Le due storiche fazioni pronte a cooperare per il bene comune, mettendo da parte le divergenze e i vari dissapori.

Un po' difficile, anzi togliamo il "po'"; difficile visti i trascorsi dell'ultima settimana. Parlando perlomeno per me stessa.

Vuoi vedere che alla fine quella a sbottare sarò io e non Diego?

Cavolo, mi auguro seriamente di saper reggere la situazione. Con questa ansia non so se riuscirò a rispondere delle mie azioni, soprattutto con questo cuore che batte all'impazzata e questo mio respirare veloce come un uccellino.

«Siamo tutti. Non manca nessuno» conclude Leonardo una volta al cospetto del preside, che insiste a guardare attraverso quella lente per vedere se è venuta linda e pinta come si deve.

È quasi esilarante vedere la pupilla di Gandolfo più grande della norma, rispetto all'altra.

Dopodiché Leonardo mi dà un'occhiata, fugace ma perforante.

«Non manca nessuno» deglutisco tanto per confermare.

«Ebbene, cominciamo» sentenzia Gandolfo, facendoci cenno di occupare i nostri posti a sedere.







La riunione, a dispetto delle mie funeste e catastrofiche previsioni, si svolge tutto sommato in linea civile e largamente al rallentatore.

Esatto, tutto mi appare come se andasse al rallentatore ai miei occhi: le voci, i movimenti, le frasi, come se al posto dell'Aula Magna del Caravaggio ci fosse una bolla gigante che racchiude tutti noi al suo interno.

Non so, forse è per colpa del riscaldamento che getta all'infuori tutto quel calore, o forse è per colpa che non vorrei trovarmi assolutamente qui con queste persone, soprattutto con una in particolare.

Deve trattarsi di un meccanismo di difesa della mia mente.

Ad ogni modo, nonostante la lentezza delle dinamiche, discutiamo con decoro e cortesia di un'eventuale autogestione in vista dei giorni prima delle vacanze di Natale – di quali attività proporre e di come organizzare la sicurezza dal momento che siamo noi stessi studenti a supervisionarci senza i professori –, discutiamo dell'informare gli alunni della scuola sulle varie date delle manifestazioni dei prossimi mesi, discutiamo che togliendo cinque minuti all'intervallo si potrebbe tranquillamente uscire prima – e ciò è da proporre all'Assemblea di venerdì per ascoltare le numerose risposte –, parliamo di suggerire delle attività pomeridiane come il corso di scacchi, il gruppo di lettura dei libri classici, il corso di musica e il corso di giornalismo, parliamo di organizzare veglioni in locali e discoteche adatti e adatte alle possibilità degli studenti.

Praticamente analizziamo punto per punto stipulando i pro e i contro; Lunanuova scribacchia con una penna a sfera sopra il suo fedele quadernone ad anelli le varie cose che è giusto appuntare, Gandolfo ascolta con attenzione ogni proposta nonostante continui a giocherellare con quella benedetta lente d'ingrandimento, la Drago non perde una singola parola che fuoriesce dalle bocche dei suoi colleghi rivali, soppesandole come si deve.

Contro le aspettative, ancora non siamo giunti ad alzare una sola volta la voce, i toni sono rimasti sempre pacati durante questa ora suonata.

Il bello, però, deve comunque arrivare.

Dobbiamo discutere anche dell'argomento scottante quale la gita. Per l'appunto quando raggiungiamo la parola "gita" l'aria, nonostante il riscaldamento mandato a tutta birra, si scalda ulteriormente.

Ognuno di noi cambia posizione sopra la sedia con lo schienale di stoffa ricamata che sta occupando. Ognuno di noi aguzza l'attenzione all'ennesima potenza, si risveglia come da un torpore.

Persino ai miei occhi le dinamiche ora prendono una piega più veloce, il tempo pare sia ritornato a scorrere alla normalità.

«Molto bene. Ora passando all'argomento gita voglio esordire dicendo che come gli anni precedenti la partenza avverrà intorno alla metà di gennaio, giorno di più, giorno di meno» sottolinea Gandolfo scrivendo qualcosa su una pila di scartoffie, usando la lente per vederci meglio, «dunque non rimane altro che raccogliere le idee per le ipotetiche mete e proporle all'Assemblea» finisce di pronunciare con tutti noi presenti che pendiamo dalle sue labbra con sguardo bramoso.

Quasi che siamo colti da una specie di frenesia.

Si fa subito avanti Valeria Drago, la nostra prof. d'inglese, che, come concordato con noi e le altre due sezioni, propone le due città della Gran Bretagna.

Si sbottona il suo giacchetto vintage di camoscio marrone e pelo finto che fuoriesce dai bordi delle maniche e dai punti in cui si chiude il suddetto. Si sposta dietro le orecchie la miriade di capelli biondi che si ritrova e prende a parlare, «Caro preside, io e i miei alunni avevamo l'intenzione di presentare Londra o Edimburgo, in quanto una settimana di inglese farebbe bene a tutti. Inoltre Londra vanta della National Gallery, del Museo della scienza, dell'intramontabile Big Ben, dell'Osservatorio di Greenwich, del museo di Charles Dickens oltre che il pittoresco quartiere di Camden. Per quanto riguarda Edimburgo, un po' più lontana certo, ma anch'essa meravigliosa e piena di storia, c'è da vedere assolutamente il castello che impera la città, il Museo degli scrittori, la National Gallery of Scotland, la Galleria d'arte moderna, il Royal Botanic Garden e ovviamente le suggestive Highlands» termine la frase distaccando gli occhi dalla lista che si era preparata in precedenza dei vari luoghi probabili da visitare.

«Sicuramente due città divine e adatte per una gita di quinto. Soprattutto per unire due indirizzi come Classico e Artistico!» esclama tutto radioso Gandolfo, ignorando bellamente gli sguardi scontenti da parte nostra e da parte dei Perfettini — l'idea di partire insieme e di condividere il momento più bello dell'ultimo anno non fa impazzire proprio nessuno, «Grazie per le proposte, professoressa Drago» asserisce egli grato e annotando Londra ed Edimburgo su un foglio cerchiandole entrambe.

«Altre idee?» poi domanda guardando dall'altro lato del tavolo. Quello del nemico.

Penso si sia inteso che il preside siede esattamente nel mezzo, facendo tipo da tramite fra le due metà.

Di conseguenza prende parola il professor Corolli, un tipo che ricorda Ernst Knam in tutto e per tutto tranne che per la parlata, quella è al cento per cento toscana. Addirittura porta degli occhiali simili al rinomato pasticcere.

«Noi avevamo discusso a proposito di Berlino e Parigi» esordisce sistemandosi meglio la montatura, «Berlino veste la carica di città ricca di storia, da vedere è senza dubbio il Museo Ebraico, l'Alte Nationalgalerie, il Memoriale, il Deutsches Historiches Museum, il classico Muro di Berlino, il castello di Charlottenburg e la maestosa Porta di Brandeburgo. Per quanto riguarda Parigi, beh, fa quasi concorrenza a Firenze in fatto di bellezza. Ovviamente cito il Louvre, il Museo d'Orsay, la Reggia di Versailles, l'Arco di Trionfo, la Torre Eiffel, il Museo Marmottan Monet, il Museo di Montmartre e per concludere l'incantevole via degli Champs Elysées. Inoltre faccio notare un dettaglio, per queste due città non serve il cambio di moneta, hanno l'euro come noi».

A questa constatazione e lunga lista, Gandolfo si gratta il mento con fare pensieroso e in conflitto interiore. Cazzo, è chiaro come un fulmine a ciel sereno che il Classico ha conquistato un punto a proprio favore. Il cambio da euro a sterlina è impegnativo, questo va ammesso. Più comodo utilizzare la medesima moneta.

«Effettivamente la Gran Bretagna è più cara rispetto a Francia e Germania. La sterlina ha un valore più alto, oltre che va tenuto in considerazione il cambio monetario» rimugina il preside facendo un quadro generale.

«Ricordo che gite a Londra sono sempre state fatte e sempre alla portata economica di tutti» ribadisce la Drago tentando di far pendere l'ago della bilancia verso le nostre opzioni, lievemente sorpresa dall'osservazione del suo collega.

«Vero anche ciò» ammette il preside annuendo.

«Lo scorso anno i quinti sono andati a Parigi» intervengo io, di punto in bianco, sentendone il bisogno lampante, «quest'anno potremmo tranquillamente optare per Edimburgo».

«Anche Berlino è una valida scelta. Perché non la Germania?» ribatte, ovviamente, neanche ad averlo chiamato in causa, Leonardo. Il tono alquanto sprezzante, nulla di nuovo.

Al che mi acciglio nonostante la immane difficoltà a guardarlo dritto in faccia.

«Perché non la Scozia? Scommetto che lo fai per farcelo apposta, proporresti persino Firenze stessa pur di darci contro» sentenzio a voce alta e grave, con sguardo basso e palpebre socchiuse, almeno posso affermare di concentrarmi meglio e non schizzare subito di testa.

Diego mi prende la mano sotto il tavolo, che tengo premuta con ostinazione contro la stoffa della salopette, e prova a calmarmi.

«Eccola che ricomincia» bofonchia Leonardo roteando le iridi azzurre. Ecco che qui la tensione si fa pesante.

«Suvvia, ragazzi, alla fine spetta anche agli altri vostri compagni scegliere, non fatene una questione di stato» tenta di sdrammatizzare Gandolfo con una risatina, incompatibile con l'espressione stampata in volto che ho io e Leonardo al contempo.

«No, nessuna questione di stato, è solo la gita del quinto anno, l'ultimo viaggio con i compagni di classe, l'ultimo momento fuori porta che passeremo insieme prima della maturità... quale questione di stato!» borbotto contrariata alzando stavolta gli occhi, «La verità è che pur di vederci scontenti fareste qualsiasi cosa» alzo gli occhi e li saetto verso l'altra metà.

«Perché? Voi non avete piacere a vederci scontenti?» dichiara Giulio ironico, «Perché non scegliere Berlino? Oh già, perché l'abbiamo proposta noi».

«Incredibile! Davvero incredibile!» esclamo incredula sorridendo, mentre decido di alzarmi dalla postazione.

Questo è veramente troppo per la mia sopportazione, per la mia pazienza.

«Castellani, dove pensi di andare?» mi domanda severo Lunanuova appena capisce che me ne sto andando.

«Ho un impegno» replico tagliente, allargando le braccia, «sceglietevela da soli la meta. Tanto sarà sempre il contrario di ciò che vorrà l'Artistico», e mi metto a camminare alla volta dell'uscita dell'Aula Magna, issandomi lo zaino in spalla.

Il sole è sorto comunque, è vero, ma la giornata è stata sempre una merda. Porca puttana, se è stata una giornata di merda.

Senza ascoltare le parole dette dietro le mie spalle con toni poco educati, avanzo spedita e evitando di guardarmi indietro. Supero alla grande il corridoio di poltroncine e la porta dell'Aula Magna, uscendo subito dopo nel lungo corridoio che costeggia le sezioni del Classico.

Muovo le gambe rapidamente, scuotendo il capo e sbuffando dal nervoso e dalla pressione che mi attanagliava lì dentro. È difficile mantenere il controllo quando vicino a te ci sono i professori, soprattutto una figura come quella del preside. Saggia decisione la mia quella di levare le brande e abbandonare la scena.

Tanto le decisioni più importanti erano già state prese, che senso aveva continuare a stare lì? Per ascoltare l'enorme flop delle nostre proposte?

Andiamo! È scontato che sceglieranno Berlino, non Parigi dato che è stata la città dell'anno scorso, ma Berlino sì, sarà Berlino la scelta finale.

Tutto questo mi fa ribollire il sangue, vorrei prendere a pugni il muro.

Giuro che se alla fine finirà a quel modo parto da sola per Edimburgo! Prendo l'aereo da sola, sto in albergo da sola e mi visito la città, udite udite, da sola!

Meglio soli che male accompagnati.

Sto quasi per superare la grande porta d'entrata del Caravaggio, quando una voce mi arriva alle orecchie, inconfondibile.

«Quella incredibile qui sei tu» mi fa Leonardo alle mie spalle. Quando mi giro verso di lui lo trovo che si ravviva i capelli dopo aver palesemente corso per raggiungermi.

Un sadico sorriso mi affiora sulla punta delle labbra, «Quando la smetterai di corrermi dietro, Aspromonte?» dico più velenosa che mai comunque evitando il suo sguardo diretto, «Sai già che la meta sarà Berlino, non ha senso che tu venga a sventolarmelo».

«Non scendi mai a compromessi tu, eh? Sempre con la miccia corta» fa notare serio, senza raccogliere la mia provocazione.

Un po' mi secca che non l'abbia fatto. In questo momento neanche immagina quanta voglia abbia di uno scontro aperto.

«Perché ne ho fin sopra i capelli di voi!» esclamo urlando come una pazza, ridendo addirittura, e tanti saluti alla promessa fatta a Midorin prima di entrare, «E ammetti che vi dà soddisfazione vederci sconfitti».

A quel punto Leonardo accenna un sorriso sadico quanto il mio, però molto più sfrontato e arrogante. «Lo ammetto, e lo sai bene. È quasi paragonabile a un orgasmo» dichiara con soddisfazione.

«Perfetto» e tutto ciò che dico prima di rimettermi a camminare, dandogli di nuovo le spalle.

Se lo paragona a un orgasmo buon per lui! Ah! Però non ce l'avrà ogni volta che vorrà, questo è bene che se lo infili bene in quella cavolo di testa!

«Sei incazzata?» insiste Leonardo senza cedere.

«No!» urlo, per l'appunto, incazzata dando la prova effettiva contraria.

Brava, Matilde! Ottima mossa, veramente un colpo di genio.

«Lo ripeto di nuovo, sei incazzata?» riprova lui, a quel punto facendomi arrestare sul posto.

«Ma che cazzo di domande fai! Sì, sono furiosa!» sbotto di colpo senza voltarmi.

È talmente ovvio che sono furiosa, no, lui deve per forza esigere un bel cartello!

«Vuoi fare a pezzi qualcosa?» procede Leonardo senza sosta, assolutamente a suo agio dinanzi alla mia reazione esagerata.

«Sì, voglio fare a pezzi qualcosa» grido stavolta girando il capo verso la sua figura, le mani che fremono e bruciano.

«Vuoi sfogarti?» alza la voce come me.

Dalla rabbia che mi sta circolando per tutto l'interno del corpo mi sfugge persino qualche lacrima, non di abbattimento o tristezza. Di pura e semplice collera.

«Voglio sfogarmi» ripeto ringhiando.

Leonardo sta alimentando un incendio.

«Allora sfogati! Butta fuori ciò che hai dentro! Vomita tutto! Scarica la frustrazione! Fai scoppiare la bomba che è in te!» mi incita lui avvicinandosi pericolosamente a me, urlando talmente tanto da udire il rimbombo per tutta la scuola deserta.

«Io... io... come faccio?» mugugno senza sapere che fare, «L'unico modo è far del male a me stessa, conosco solo quello» proferisco incerta con gli occhi roventi.

Ed è così, l'unica maniera plausibile è questa. Solo facendo del male a me stessa posso sfogarmi, non posso fare altrimenti.

Poi Leonardo alza il mento in quello che ha tutta l'aria di rappresentare un gesto di sfida. Come se stesse per propormi qualcosa di impensabile e pazzesco.

«Colpisci me» mi ordina scandendo le parole, «colpiscimi come sabato notte al Blue Velvet. Colpiscimi come quando ho detto ad Auditore di tornarsene nella sua fogna» mi provoca, oh, eccome se mi provoca.

Il mio respiro è pesante, paragonabile a quello di un toro infuriato. A quello di un leone pronto a scattare.

«Non posso» mugugno di nuovo, valutando la sua proposta e decidendo che è assurdamente impensabile e pazzesca.

Leonardo sta tirando troppo la corda.

«Hai paura?» mi sbeffeggia rimettendo in mostra il sadico sorrisetto del cazzo, «Dai, avanti, colpiscimi!».

E poi, sorprendentemente, lasciandomi di stucco, mi spintona.

Proprio così, Leonardo mi spinge costringendomi a fare un passo all'indietro. Quasi perdo l'equilibrio siccome sono largamente presa contropiede.

Ciò mi fa ricacciare le lacrime da dove sono venute e mi fa arroventare ancora di più.

«Che cazzo fai?» ringhio osservando la distanza che mi ha fatto "percorrere".

«Reagisci!» sbotta Leonardo.

Molto bene! Reagisco! Come vuole il signorino Aspromonte, ai suoi fottuti ordini!

Muovo un passo in avanti e premo i palmi sudati contro il suo petto coperto da un gilet di lana nera, spintonandolo a mia volta. Spingo con tutte le forze, voglio rendergli il favore.

«Non devi azzardarti a toccarmi» sibilo una frase alquanto familiare, sbuffando contro i capelli finiti davanti al mio viso.

«Brava, così. Sfogati» si loda con me Leonardo, «e, comunque, poco coerente da parte tua dire una cosa del genere» dichiara beffardo, riferendosi a cose avvenute e che è meglio dimenticare.

Meglio seppellirle e metterci sopra una lapide. Ma poi con quale coraggio osa prendermici in giro? Le cose si fanno in due, che io sappia!

«Chiudi la bocca, Aspromonte!» grido serrando le palpebre, voglio evitare di vederlo, almeno per il momento.

«Colpiscimi, avanti. Mi odi, no? Per cui spintonami, tirami un pugno, quello che vuoi!» continua a sfidarmi, a voler mettere la mano sul fuoco.

Diamine, me la sta servendo su un piatto d'argento comunque.

«Ti colpisco!» dichiaro spingendolo come richiesto.

Spingo facendolo arretrare, tuttavia, non perde l'equilibrio. Quelle sue lunghe e infinite gambe rimangono ben dritte, non si piegano.

«Mi sfogo!» seguito a esclamare mentre lo spingo una seconda volta. Quasi quasi ci prendo la mano.

«Ti odio!» e do l'ultimo colpo appellando a tutta la buona volontà che è in me.

Lentamente la rabbia sta uscendo all'esterno, espandendosi ovunque. Lo dimostra la fronte imperlata di sudore e il respiro spezzato.

Anche la fronte di Leonardo è sudata, il caldo deve averlo invaso. Entrambi siamo a corto di parole, di cose da dire, sembra che le abbiamo esaurite.

Rimaniamo a osservarci in silenzio per qualche attimo, fino a che Leonardo allunga braccia e mani verso di me, afferrando i miei polsi coperti da un sottile strato di maglietta a righe — il giacchetto, naturalmente, è rimasto nell'Aula Magna.

Spero che Marta o Diego me lo recuperino anche in questa circostanza.

Senza farmi alcun tipo di male, mi attira a sé, seppur con un certo impeto.

Oh no, non ancora, non di nuovo, non una seconda volta...

Nei suoi occhi vedo con chiarezza il riflesso di quello che sta per accadere, neanche stessi leggendo il futuro.

Leonardo si china e mi bacia, preme le sue labbra con le mie per davvero! Un'altra volta!

E siamo al Caravaggio, che cazzo! Siamo a scuola, con dei probabili testimoni a poca distanza da noi.

Non è come lo scorso episodio, in un vicolo buio e privo di occhi indiscreti. No, qui siamo allo stra-grande scoperto.

Preme le sue labbra sulle mie e basta. Senza azzardare null'altra mossa.

«Sì, esatto, colpiscimi così» mi sussurra contro quest'ultime dopo essersi staccato, mordendole successivamente.

Lasciandomi senza ombra di dubbio senza pensieri, parole, congetture, riflessioni. Mi lascia scombussolata e confusa.

In questo frangente io non sono ubriaca, lui non mi sta ricattando, siamo entrambi sobri e consenzienti. Ed è per questo che ho paura.

"Cazzo, Leonardo mi ha appena mordicchiato le labbra!", è l'unica cosa che sto pensando al momento senza smettere di guardarle.

Sto forse sognando? Devo sicuramente aver perso il controllo e sono svenuta a quattro di spade per terra, non c'è altra spiegazione.

Ma poi lo rifà ancora, mi lascia un morsetto sul labbro inferiore che mi fa sussultare e mi fa capire che sono sveglia, sveglissima.

Nessun sogno, nessun incubo.

Leonardo delicatamente mi fa dischiudere la bocca e porta le proprie mani all'altezza delle mie guance. Piega il capo per far aderire meglio le nostre labbra ed ecco che si avvale dell'attimo perfetto per farvi entrare la sua lingua morbida e dal sapore indecifrabile.

Impossibile descriverlo come accade sempre e costantemente nei libri. Non si può.

«Ti stai sfogando?» mi domanda vedendo che non do segno di vita, allontanandosi di poco, appena appena.

Sento il suo respiro soffiare sopra la mia pelle, una sensazione da brividi. Mille sono i brividi che sto provando. Anch'essi impossibile descriverli a parole, poiché le parole sarebbero infinite.

Basta sapere che essi ci sono, brividi di... di... di... eccitazione, frenesia e appagamento.

Dunque, ahimè, mi ritrovo ad annuire alla sua domanda. E poi gli lascio totale, libero arbitrio.

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