23. Matilde ora non c'è
«Sì, pronto?», è la voce familiare della nonna che mi scalda subito il cuore, l'anima, il viso, gli arti resi freddi a causa del gelo dal momento che sono sotto casa, con le gambe quasi nude e con solo un giubbotto di pelle a coprirmi le spalle.
Sto aspettando che Thalìa venga a prendermi, ci siamo messe d'accordo così: alle nove mi sarebbe passata a prendere, dopodiché saremmo andate a caricare a bordo Roona, la sua migliore amica, e infine ci saremmo messe in marcia alla volta dell'Autorimessa, luogo stabilito per incontrarci con il resto del gruppo.
Purtroppo sono scesa in anticipo e ora sto facendo i conti con il freddo infernale di novembre, la sottile nebbiolina illuminata dai fanali delle auto e il gelo alle gambe causato dall'indossare dei miseri collant venti denari per di più strappati sulle ginocchia, come se un anello o il pezzetto in rilievo di un unghia delle mani fosse rimasto incastrato.
Ma non me ne lamento, vado ad ascoltare una cover dei gloriosi Nirvana, non vado ad ascoltare un'opera lirica — nonostante ne avrei una certa voglia.
Per ingannare l'attesa, dunque, ho deciso che avrei potuto richiamare nonna Fauste, ho deciso che questo era il momento adatto. Anche perché, soprattutto, conoscendo la tabella di marcia della nonna ancora non dovrebbe essere andata a letto ed è un dettaglio davvero, davvero rilevante visto che abita in piena montagna.
«Ciao, nonna! Troppo tardi per una telefonata?» replico con voce allegra, emulando una corsetta sul posto al fine di procurarmi un po' di calore.
Non azzardo nemmeno a specchiarmi sui vetri scuri delle macchine parcheggiate in fila davanti al mio palazzo tanto sono più che sicura di avere naso e guance arrossati, mandando a benedire il sottile strato di cipria che mi sono applicata minuti fa.
«Affatto, Tilde, affatto! Anzi, aspettavo con trepidazione la tua chiamata. Immagino che Adele ti abbia riferito che ho qualcosa d'importante da dirti» mi fa lei dall'altro capo del telefono, a chilometri e chilometri di distanza lontano da me.
«Assolutamente sì, e visto il tuo essere misteriosa non ha potuto accennarmi uno straccio di nulla» annuisco senza che la nonna possa vedermi, ridacchiando.
«Ho piacere a rivelare io certe cose, ci tengo particolarmente» si giustifica Fauste e me la immagino, proprio ora, con un sopracciglio inarcato e la mano posata sul fianco sinistro.
«Dai, spara» la incito arrivando a piegare persino le ginocchia, cercando di non farle intirizzire.
Devo essere uno spettacolino divertente per coloro che camminano a piedi sul marciapiede e per colore che guidano passandomi davanti.
«L'idea è questa, ti propongo di venire a passare la settimana di Natale qui a Livigno, insieme a me e a tuo nonno, insieme a tuo zio Julian e ai tuoi cugini» spara la novità mia nonna con un'evidente eccitazione nella voce, ora capisco perché ci teneva a dirmelo lei stessa in persona.
«Oh cavolo, questa sì che è un'ideona!» esclamo sinceramente felice, un'ondata di gioia m'investe appena la mia mente realizza tale proposito, «Effettivamente i miei cugini mi mancano... soprattutto nonno Bert e il freddo glaciale delle montagne».
Già, mi manca combinare qualche casino tipo spillare di nascosto la riserva di birra del vecchio Jakob con mio cugino Abner, di un anno più grande di me, mi manca collaudare snowboard sulle piste da sci con Elia, e mi manca anche andare a pattinare sul ghiaccio con Krishna.
Krishna... che ha solo dieci anni ma cresce a vista d'occhio, sicuramente verrà alto come zio Julian. Dio, che nostalgia.
«Se ti fa piacere, Tilde, puoi portare anche la tua amichetta dai capelli variopinti» Fauste arriva a menzionare Marta e mi fa quasi svenire dal giubilo.
«Cazzo, sì!» mi viene spontaneo accettare senza far caso alla piccola parolaccia che ha appena lasciato la mia bocca, «Sono sicura che Marta accetterà di buon gusto! Considerami già lì con voi! Mi raccomando, preparami tutti i tuoi manicaretti più buoni».
«Ausgezeichnet, meine Tilde!» esclama Fauste in tedesco, il che fa capire la sua palese felicità, «Sarà il tuo regalo di Natale per noi il tuo arrivo. Ti cucinerò tutto quello che vuoi, ti farò ritornare a casa con dieci chili in più!».
Pochissimi istanti dopo i miei occhi incrociano i fari della macchina di Thalìa, che si sta fermando esattamente dinanzi al mio portone di casa, dinanzi al marciapiede dove la sto attendendo da qualche minuto.
«Fantastico, nonna. Adesso devo proprio andare, ma ci risentiamo per stabilire i dettagli» tento a malincuore di chiudere il collegamento prendendo atto che è ora di andare.
«Buon sabato sera, Tilde. Non sfasciarti troppo» mi saluta la nonna con una grassa risata.
Appena salgo a bordo dell'abitacolo riscaldato dell'auto di Thalìa, una sensazione di appagamento mista a rilassamento mi pervade dalla punta dei capelli sino alle dita dei piedi. Mugugno di vero piacere mentre mi allaccio la cintura di sicurezza e mi metto comoda.
Un dolce odore di miele e lillà mi accoglie con meticoloso riguardo.
«Complimenti per l'abbigliamento, Atena» mi fa notare Thalìa con in volto un sorriso furbetto, «ricordi quasi Courtney Love» e va a esaminare con gli occhi il mio vestiario nascosto sotto il giubbotto di pelle, ovvero un top di pelle nera che va a circondarmi il collo e lascia scoperte sia le spalle che una metà di schiena, una gonna di jeans strappata sempre di tonalità nera e delle Vans da skateboard stra-vecchie, rispolverate per l'occasione, addirittura scarabocchiate con l'uniposca.
Inoltre si va a soffermare sui miei capelli, disordinati volutamente con una sana botta di phon e una piccola dose di gel.
«Stanotte sono come un'ombra» esordisco piuttosto orgogliosa facendo finta di atteggiarmi, indicando poi il pesante ombretto nero che sono andata ad applicare sopra le palpebre e il pesante rossetto nero che ho passato sopra le mie labbra.
Questa sera ho proprio voluto esagerare, ho detto "chissene importa".
Davanti allo specchio del bagno ero piuttosto soddisfatta tanto quanto irriconoscibile, sembro decisamente un'altra Matilde.
«Non hai paura del buio, vero?» mi domanda Thalìa con una nota di arcano, immettendosi nuovamente nel traffico cittadino del sabato sera.
Prima di replicare con le giuste parole, allungo la mano verso la piccola manopola del volume della radio e alzo, alzo il tono finché non fa tremare le casse.
«Il buio vive dentro di me, per cui no, non ne ho paura» replico quasi urlando.
Dopodiché, aprendo ancor meglio il giubbotto di pelle, estraggo una fiaschetta di metallo con stampato sopra il logo dello Jagermeister dalla tasca interna di esso, sorseggiando una generosa quantità di vodka liscia. Mi manda letteralmente a fuoco le pareti della gola ma ciò non fa altro che elettrizzarmi.
«Fa' attenzione, misteriosa, perché l'inaspettato è sempre dietro l'angolo, nascosto nel buio. E comunque, già cominci a bere?» mi mette in guardia Thalìa guardandomi con la coda dell'occhio, usando una nutrita dose di sarcasmo.
Come se sapesse qualcosa che io stessa mi sforzo di ignorare.
«È stata una settimana lunga per me» spiego masticando per scacciare via il sapore del liquore, agitando la fiaschetta con attenzione, «minimo ne dovrei bere dieci di queste».
«Non ti farò la predica per questo. Sono solita a sbronzarmi anche io» fa lei con un sorriso più dolce notando la mia espressione mezza sofferente.
Successivamente scoppio a ridere, all'improvviso, dal nulla. Mentre osservo la mia fedele fiaschetta e mentre ascolto il suono del liquido che si muove al suo interno, penso a quanti soldi guadagnino coloro che producono alcol, appellandosi automaticamente e soprattutto ai problemi di vario tipo che affliggono le persone. Se ne approfittano, diciamo. E loro ci lucrano sopra.
Come il paparino di Leonardo, per esempio. Proprietario di una ditta intera, di un impero.
«Che gran testa di cazzo» proferisco ridacchiando, gettando il capo all'indietro e chiudendo le palpebre. È veramente esilarante una cosa del genere.
«Chi?» chiede Thalìa dubbiosa.
Ops, devo averlo detto a voce alta.
«Nessuno d'importante» ribatto sempre enigmatica, e in un certo senso mi piace. Essere imperscrutabile, impassibile, senza far trapelare nulla di ciò che si pensa delle proprie emozioni, delle proprie sensazioni.
Mistero totale, un'enigma per chi ti ha davanti, un'equazione complicata da risolvere. È un brivido che ti percorre la spina dorsale e ti elettrizza ogni arto.
Laira, stra-eccitata per la serata, si sarebbe fatta accompagnare dai suoi genitori all'Autorimessa, ovviamente mirando alla moto di Diego per recarsi al Madama Butterfly successivamente.
Ovvio, meglio un passaggio da parte sua che da parte di Thalìa oppure di Yousef.
L'orologio che tengo legato al polso destro segna le nove e mezza spaccate quando entriamo ufficialmente nel parcheggio sterrato dell'Autorimessa Stravagante.
La macchina di Thalìa è l'ultima a entrare dentro di esso; tutte e tre siamo le ultime ad arrivare nella destinazione prestabilita. Poco male, l'importante è essere qui.
Thalìa arresta la propria vettura precisamente accanto alla moto da cross di Diego senza sprecarsi in un parcheggio in retromarcia.
Diego, per l'appunto, è in piedi accanto al suo amore a due ruote, con il gomito poggiato sul manubrio e l'altro braccio impegnato a consumare una sigaretta.
Egli indossa un pesante giubbotto dello stesso colore della notte e i suoi dreadlocks sono liberi dall'incastro di un elastico, rossicci come non mai. Marta, Marco e Ludovico sono invece giunti con la macchina di Yousef, sempre parcheggiata vicino alla moto di Diego.
Laira, dulcis in fundo, è stata accompagnata da suo padre e per l'occasione si è infilata due mollettine, con una fragolina incollata su entrambe le superfici, su tutti e due i lati della chioma fresca di taglio. Un gesto ben studiato tanto da farla trasformare in una piccola Lolita, infatti non manca all'appello il Chupa Chups già scartato al gusto alla ciliegia, deduco.
All'appello mancavamo soltanto io, Thalìa e Roona.
Ma adesso eccoci qua, pronte e cariche per la serata giunta alle porte!
Appena smontiamo dalla vettura, aprendo le portiere e poggiando le suole delle scarpe sul terreno, con la coda dell'occhio, analizzo la situazione corrente e alquanto ironica.
Ebbene, la piccola Laira osserva Diego con sguardo sognante mentre si gusta il suo lecca-lecca, Diego si mangia con gli occhi Thalìa non appena si accorge che è finalmente arrivata e Thalìa, be', Thalìa è all'oscuro di tutto quanto. Non sa di far parte di un recente triangolo amoroso, neanche lontanamente.
Sicché, nel contempo che mi porto alla bocca una Winston accendendomela, mi sfugge un'altra risatina poiché una circostanza così umoristica è davvero rara. Oltretutto, mi concedo un altro sorso dalla mia fiaschetta personale.
Questa sera non mi sono posta alcun limite, alcun confine, questa sera mi limito a far spallucce e a ridere, almeno quando rido la mente non pensa, non opera, non lavora. È, come dire, più facile in questa maniera.
Mi avvicino a Ludovico, quindi, con entrambe le mani occupate, anch'egli intento a fumare una sigaretta.
«Perché ridi?» mi chiede inespressivo, senza la velata traccia d'un sorriso o d'una smorfia.
«Rido perché il mondo è un posto bellissimo e pieno di variabili» replico con un occhiolino, «il trucco è saper guardare con attenzione».
«Siete leggermente in ritardo, madamigelle» interviene sarcasticamente Diego con un beffardo sorriso, spegnendo la sigaretta giunta a più della metà contro la terra appena umida del suolo. Ovviamente alludendo alla sottoscritta, a Thalìa e a Roona.
«Una madamigella» comincio a parlare sottolineando con un sopracciglio inarcato la parola "madamigella", «non è mai in ritardo».
Tuttavia qualcuno non presta attenzione né a me, né al mio attuale e tagliente spirito satirico. Marta è totalmente assente, le braccia incrociate al petto, serrate contro un giacchetto color viola scuro, e i capelli tutti cadenti sul suo volto, chino di propria volontà verso il basso.
Molto probabilmente, quasi sicuramente, la sua mente è proiettata altrove, lontano da quel parcheggio sterrato dell'Autorimessa. Molto probabilmente sta pensando a Lunanuova, sta pensando al giovane professore e al suo presunto appuntamento con Ilda.
Un pensiero amaro, ahimè. Un pensiero bruciante affligge la sua psiche un po' troppo debole per sopportare, forse.
Rimango completamente di merda quando mi accorgo che non ho niente di intelligente, sensato o divertente da dirle per risollevarle il morale, o quantomeno per strapparle una risata da quelle labbra così spente e tristi. Quasi che sembrano fatte di pietra visto il rossetto incredibilmente scuro che le abbellisce; non nero come il mio, ma sulla tonalità siamo di lì.
«Questa notte ho proprio voglia di devastarmi come si deve» proferisce di punto in bianco Marta scuotendo il capo, le labbra stavolta ridotte in una smorfia di puro disprezzo.
Come se avesse bevuto tutto d'un fiato il succo di un limone appena spremuto. Le iridi gelide e prive di qualsivoglia calore.
«Musica per le mie orecchie!» esclama gioiosamente Diego anticipando una mia eventuale risposta, andandole di buon grado a circondarle le spalle con il braccio.
E comunque, avrei detto la stessa identica cosa.
Meno male che Diego è con noi, meno male che Diego esiste, altrimenti sono più che certa che sia io, sia Marta, saremmo spacciate. La realtà e le dinamiche degli eventi ci avrebbero spazzate via in un lampo, incapaci l'una di supportare l'altra. Ringrazio mentalmente Diego per questo, lo ringrazio davvero tanto socchiudendo con devozione le palpebre.
Quindi interviene Laira, scattando con un piccolo saltello avvicinandosi a entrambi, e anche osservando con bramosia il braccio di Diego incollato al giacchetto di Marta, «Anche io ho voglia di devastarmi». Intende in tutti i modi fare colpo sul mio amico.
Sicché scoppio a ridere nuovamente dopo aver gettato all'infuori una boccata di fumo, «Oh sì, vedrai che devasto» commento sventagliandomi con la mano.
Tutti i miei amici mi lanciano un'occhiata alquanto stranita, mi guardano come se mi fossi bevuta il cervello non riuscendo a comprendere il motivo di tutto questo ridere da parte mia.
Esattamente, non hanno chiaro lo schema della situazione. Eppure Marta ce lo avrebbe anche se solo non fosse infognata psicologicamente nella ragnatela di Emilio Lunanuova.
Nel frattempo dall'ingresso dell'Autorimessa escono fuori al freddo e al gelo tre ragazzi, di cui uno dalla faccia piuttosto familiare. Decisamente familiare.
Per l'esattezza, si tratta di nientepopodimeno che di Gabriele.
Evidentemente ha avuto una mezza nostra stessa idea di passare il sabato sera qui. Non sono stupita di ritrovarmelo qui, infatti. Dopotutto, questo era il suo luogo, il nostro luogo.
Appena ci passa di fronte, lanciando occhiate ai ragazzi che incontra per il proprio cammino verso la macchina, mi riconosce in un battito di ciglia e non manca affatto di farmi dono di un saluto. Che io, per sincera e dovuta educazione, ricambio anche con un discreto trasporto. Discretamente più del dovuto, dettato dai miei movimenti leggermente fuori dalle righe.
Non per questo mi viene da sentirmi in colpa, sia chiaro.
«Anche lui ti ha baciato?» sento ringhiare Ludovico accanto a me, che scruta Gabriele da capo a piedi con espressione tutt'altro che amichevole.
«Oh, lui ha fatto molto di più» replico sarcastica continuando ad osservare le spalle del mio ex ragazzo, alludendo a fatti più piccanti di un semplice bacio avvenuti in un passato che appare così lontano. Non curandomi dell'interesse di Ludovico nei miei confronti, né quantomeno di farlo arrabbiare ulteriormente.
«Ma... vecchia storia, passato insabbiato» aggiungo velocemente colta da un lampo di euforia, distogliendo l'attenzione da Gabriele scuotendo il capo, «entriamo allora? Ho voglia di rum e pera!» esclamo rivolgendomi a tutto il resto dell'adunata, strofinandomi i palmi delle mani con espressione oltre ogni dire maliziosa.
Il biglietto d'ingresso per la serata speciale al Madama Butterfly ha un prezzo modico di cinque euro, per cui ognuno di noi estrae dal proprio portafoglio una banconota che corrisponde all'importo, alcuni affidandosi anche a monetine ritrovate in qua e in là sulle tasche dei jeans, dei giacchetti, sotto i sedili delle auto, o ancor meglio sopra i cruscotti.
Io e il mio numeroso gruppo arriviamo decisamente puntuali per l'inizio dello spettacolo, che comincia intorno alle dieci e mezza, minuto più, minuto meno.
Fino a poco fa ce ne siamo stati seduti bellamente ai tavoli dell'Autorimessa, con bicchieri svuotati alla velocità della luce e posacenere saturi di rimasugli di sigaretta posati disordinatamente sopra la superficie di legno. Per quasi un'ora abbiamo spento i nostri cervelli e i nostri pensieri, aggrappandoci quasi con disperazione a quell'appiglio altrimenti conosciuto, rinomato, come sabato sera o week-end.
Nessuno, dico nessuno, ha parlato di qualcosa di serio, nessuno ha intrattenuto un discorso pesante e
coscienzioso.
Persino Diego, che il novanta per cento delle volte ha voglia di intrattenere conversazioni di politica, di società, di attualità, dei vari sistemi dei vari paesi, si è buttato di testa nel mare delle risate, della pochezza culturale – un gramo modo di dire, chiaramente – e dello sballo.
Persino Marco, che è l'animo posato, equilibrato e indifferente del mucchio, si è distaccato soltanto per oggi dalla sua vera natura per abbracciare una personalità che non gli appartiene.
Tutti noi l'abbiamo fatto, di abbracciare una personalità che a stento facciamo fatica a riconoscere.
Abbiamo indossato la suddetta maschera che una volta indossata ti crea simpatico e piacevole agli occhi degli altri, ti rende un alter-ego dedito a proteggere il vero te stesso e ciò che conservi all'interno del tuo guscio.
Confesso, amaramente, che cotale maschera è un po' larga da indossare, mi crea un leggero disagio e malessere interiore nello sfoggiarla, poiché chiaramente la vera Matilde non v'è nella parete esterna. C'è una ragazza sconosciuta che non fa altro che ridere, sbraitare a battute idiote, sicuramente poco intelligenti, esibirsi in movimenti audaci che vanno ad accozzare con quelli naturali e quotidiani, c'è una ragazza sconosciuta scialba, piatta e banale.
Scontata.
"Eppure è stata una mia scelta, l'ho deciso da sola, ho fatto tutto quanto di testa mia", rifletto fra me e me in un lampo di pausa tra uno sghignazzo e l'altro, nell'esatto istante in cui il mio corpo si blocca, in cui i miei occhi si soffermano sul niente e rimangono spalancati, in quell'istante in cui mi dimentico che lo sbattere delle palpebre è un movimento involontario e non so proprio come fare perché troppo concentrata sul movimento stesso.
È come se andassi in tilt.
Per fortuna la gomitata di Marta mi riporta alla realtà, mi riporta all'interno del Madama Butterfly, un locale che richiama i vecchi pub italiani di quando entrambi i miei genitori avevano la mia stessa età: piacevolmente vecchio, retrò, interamente di legno, le assi sotto i piedi che scricchiolano, il bancone pieno di bottiglie di vecchi liquori impolverati, il palco largo quanto basta da accogliere una cover band come la Nevermind Tribute Band.
Mi riporta all'odore di cuoio di stivali da motociclista, rum invecchiato, sughero e vari profumi provenienti dalla pelle delle persone.
Ora sono qui. Ora mi trovo qui. Ora non sono altrove e soprattutto non sono sola.
Sono un po' ubriaca, me ne rendo conto.
Sono alquanto spavalda, troppo spavalda, dal momento che Ludovico mi cinge con il braccio il contorno delle spalle e io non faccio nulla per farglielo togliere. Fosse stata qui la vera Matilde, amicizia o non amicizia, gliel'avrebbe fatto cavare in men che non si dica perché non troppo avvezza al contatto umano se non quello del semplice bacio sulla guancia di saluto, del rapido abbraccio e del tenersi per mano — ma quello succede soltanto con Marta, a volte con Diego.
Indosso la sua maschera, ora Matilde non c'è. Che mi piaccia o no.
Finalmente la band, composta da quattro giovani ragazzi sulla venticinquina, inizia a suonare.
Apre le danze con la classica e inimitabile "Smells like teen spirit" e rimango di sasso, il cuore mi perde un battito quando le mie orecchie captano la sua voce così maledettamente simile a quella di Kurt Cobain.
Ad ogni modo, appena il frontman comincia ad agitare con parsimonia il capo e a dar fiato alle corde vocali, tutta la mia combriccola – me compresa – prende a cantare a tempo con quest'ultimo e con enorme trasporto. Praticamente ognuno di noi conosce a memoria il testo, eccetto forse Ludovico, che non ne vuole sapere di aprire bocca.
La nutrita folla di nostalgici del signor Cobain è veramente elettrizzata dall'esibizione, tanto che saltellano con trasporto e battono le mani a ritmo delle note. Non c'è nessun insoddisfatto dentro questo locale, tutti ben felici di aver speso quei cinque euro nel biglietto d'ingresso. Forse avrebbero pagato anche di più. Io avrei pagato di più.
Marta, praticamente brilla quanto me, afferra per le mani Marco e Yousef e tutti e tre improvvisano un balletto. I capelli argentati della mia amica, legati in due treccine piuttosto lente, spiccano e splendono sotto le luci soffuse della pista. Si agitano e vanno in ogni dove, danzano anch'esse a modo loro. Quasi ipnotizzanti.
Diego, Thalìa e Roona si prendono per le spalle, come si suol fare ai concerti, e cantano a squarciagola saltellando imitando la folla. Una bellezza osservare anche i dreadlocks dei primi due e le lunghe miriadi di treccine di Roona che si muovono assieme ai loro piccoli balzi; soprattutto i giganti orecchini a cerchio che hanno indosso le due ragazze dalla pelle scura.
Quanto a me, io sono nel bel mezzo di Ludovico e Laira: Laira un po' delusa dalla scelta di Diego di rimanere al fianco di Thalìa e Roona, Ludovico che si lascia guidare dai miei movimenti.
Laira, testarda com'è, cocciuta all'ennesima potenza, testa dura come la roccia, in men che non si dica si fionda in direzione del trio tutta impettita. Senza smancerie e senza giri di parole s'infila nel bel mezzo dei due, dividendoli e prendendo a saltare anche lei. Così, con noncuranza, come se fosse così naturale un gesto del genere.
Solo Laira Visparelli avrebbe potuto.
Sicché mi viene da ridere così tanto che rischio di perdere l'equilibrio e di cadere. Eh già, rido talmente con gusto che lancio la testa all'indietro e vado in balia della forza di gravità, come se avessi una calamita attaccata alla schiena.
Frega assai di spaccarmi il cranio, no?
Ludovico comunque mi riacchiappa di netto striscio, esattamente come nei film guarda caso, e io non faccio altro che aggrapparmi al suo collo, onde evitare di scivolare nuovamente via.
Le iridi scure di Ludovico si riflettono sulle mie, di conseguenza, impudenti e profonde, prive di qualsiasi pellicola di menzogna. Gli occhi di lui non mentono mai, sono sempre veri, non nascondono mai niente, non ci provano nemmeno. Per questo mi sento tremendamente in colpa quando essi mi scrutano sino alle viscere.
Sono troppo sinceri.
«Mi dispiace, Ludovico» scelgo di sussurrargli all'orecchio avvicinandomi a lui appena finisce la canzone, «so di piacerti ma... non voglio illuderti inutilmente». Mi trema la voce sotto scroscianti e calorosi applausi. Mi trema la mascella.
Rapidamente la band riprende subito a suonare una nuova canzone, passando stavolta a "Drain you", e vengo sovrastata ancora dalla musica.
Per cui se una nuova canzone è appena iniziata, allora io è più che giusto che mi rimetta in piedi, in equilibrio, e riprenda le redini della serata.
Riprendo a saltellare, canticchiando le parole della canzone che naturalmente conosco e bevendo dalla fiaschetta riempita a dovere dal barista dell'Autorimessa. La vodka delle nove era bella che finita prima di arrivare al Madama Butterfly.
Successivamente, dopo aver bagnato le labbra con del bruciante liquido alcolico, un flash di una macchina fotografica mi acceca la vista, segno che il fotografo del locale ha gentilmente scattato una foto a me e a Ludovico.
"Una vera opera d'arte", penso ironicamente mentre ingurgito dell'altra vodka.
Comunque sia, il flash della fotografia che mi ha illuminato il volto ha fatto sì che un qualcuno di molto familiare mi potesse riconoscere e mi potesse correre incontro, con gioia aggiungerei.
Mia zia Angelica mi strangola in una morsa di puro amore fraterno, senza far attenzione alla mia preziosa fiaschetta e al suo prezioso contenuto. I suoi capelli rossi invadono di punto in bianco il mio raggio visivo.
«Matilde!» mi urla sull'orecchio facendo in modo di farsi udire oltre al chiasso intorno a noi, «Ma che felicità trovarti qui! Significa che i giovani d'oggi hanno ancora orecchio per la musica!».
Fa addirittura il gesto di asciugarsi una finta lacrima via dall'occhio.
Angelica, ora che ho modo di vederla per bene, ora che ha sciolto la morsa del suo abbraccio burrascoso, noto che ha la sua chioma fiammeggiante legata in una spessa e disordinata treccia fissata con un laccio di cuoio.
Indossa una t-shirt dei Nirvana, appunto, stretta in un nodo tattico fino all'altezza dell'ombelico e una gonna a pieghe nera, identica alle divise delle scuole private. Però più corta, naturalmente. In totale stile Angelica Castellani.
«Ma questo non è il biondino di ieri mattina» commenta dopo aver osservato a lungo e con minuzia il volto e la figura imponente di Ludovico, piuttosto delusa azzarderei, «dove l'hai lasciato Jude Law Junior?» mi rimprovera quasi con sguardo critico.
«Potrei farti la stessa domanda!» ribatto di rimando stordita dall'alcol e ben allegrotta, per niente con sdegno come avrei risposto in una situazione normale, «Dove l'hai lasciato il tuo uomo di cultura?» alludo al tizio con cui l'ho incontrata alla Galleria degli Uffizi.
Al che sulla faccia di mia zia si allarga un enorme, luminoso e furbo sorriso. Gli occhi le prendono una piega quasi felina, da predatore.
«Andato! Non c'è più!» esclama tutta felice, mimando il gesto di un qualcosa che svanisce, schioccando le dita, «Ora c'è Titòu, un bel francesino!» racconta orgogliosa ella, tirando di peso al proprio fianco un giovane dai scuri capelli ricci e il naso all'insù.
«Io non esco più volte con lo stesso uomo, dovresti saperlo!» aggiunge Angelica facendomi l'occhiolino, «Saluta mia nipote Matilde, Titòu» continua rivolgendosi al presunto francesino, dandogli una piccola gomitata incitandolo.
Usando anche un certo accento francese. Era una "r" moscia quella che ho appena sentito?
«Piacere di conoscerti, Mathildà» si presenta Titòu con un accento affatto italiano, agitando la mano e sorridendomi come se si fosse appena fumato una canna.
«Allora? Il biondino dove lo tieni nascosto?» insiste Angelica dopo aver dato un morso alle labbra di Titòu con fare bramoso, spingendolo poi via.
Sicché faccio spallucce, arricciando appena le labbra, ignorando il lampo improvviso di romanticismo da parte di mia zia, «Andato anche lui. Ora sono con i miei amici» spiego ridacchiando, senza aver premura di nascondere dalla sua vista la mia fiaschetta.
«Sembrano delle belle persone» ammette Angelica dopo aver donato loro una rapida e fugace occhiata, dopodiché, scoppia a ridere sguaiatamente non riuscendosi a trattenere ulteriormente, «le belle persone le riconosci subito... sono quelle che non frequenti!» confessa con sarcasmo.
Ovviamente mi metto a ridere assieme a lei, essendo la sua risata assurdamente coinvolgente e dannatamente contagiosa come un virus. Tanto che sono costretta ad appoggiarmi al suo braccio, altrimenti rischio di perdere l'equilibrio di nuovo.
«Shhhh. Prometto che non dirò al mio fratellone di quanto siamo ubriache fradice» borbotta la zia portandosi il dito indice goffamente dinanzi alla bocca, senza smettere di sghignazzare. Palesemente ubriache tutte e due.
Poi, senza minimo ritegno, ella afferra Ludovico per la mano e lo fa ballare insieme a noi.
Io, mia zia Angelica, la sua nuova avventura Titòu e Ludovico, tutti e quattro impegnati a ballare nel peggior modo possibile, seppur tanto esilarante. Ludovico non emette una singola parola, si lascia trascinare dall'esuberanza di mia zia, nessuno ha scampo con lei.
Quando la band comincia a suonare "Rape me", Titòu lo vedo avvicinarsi ai sottoscritti dopo essersi dedicato per qualche istante al display del suo cellulare, ed egli si mette a gridare che un suo amico li ha appena invitati a raggiungerlo al Blue Velvet, una discoteca decisamente conosciuta e rinomata di Firenze. Famosa per il suo arredo, per i suoi specchi e per le sue luci totalmente blu. Blu ovunque.
Titòu ci informa che li farà entrare lui visto che ha un tavolo prenotato all'interno.
«Che stiamo aspettando? Andiamo!» ci precede Angelica accettando di buon grado.
E senza attendere una risposta da parte mia e di Ludovico ci afferra entrambi per mano, come due bambini, incitando Titòu ad agguantare la mia libera. In questa bislacca e singolare posizione, tutti e quattro usciamo e abbandoniamo il Madama Butterfly e la serata a tema Nirvana, avviandoci verso questo Blue Velvet, poco lontano lì.
Ci immergiamo nella notte, dentro i vicoli stretti e poi larghi e poi nuovamente stretti di Firenze. Della bellissima e magica Firenze. Corriamo, corriamo all'impazzata racimolando ossigeno dentro i polmoni, ansimando e gettando all'infuori nuvoline di calore.
«Previsioni del tempo per stanotte: buio. Buio continuo per tutta la notte con ampia luce diffusa nella mattinata» urlo al vento visibilmente euforica e fuori di me grazie a un'improvvisa quanto innata gioia, i capelli scompigliati nel freddo frizzante e pungente di novembre.
Corriamo come quattro squinternati, con le nostre risate che si alternano a vicenda. «Quel farabutto d'un George Carlin!» riconosce zia Angelica, boccheggiando per il movimento rapido degli arti inferiori.
«Dovremmo correre così anche per i corridoi della Galleria degli Uffizi!» fa notare Titòu felice di quel cambio di programma, «Come nel film Bande à part», facendo riferimento all'epica corsa per i corridoi del Louvre.
«Tua zia e questo tizio sono proprio schizzati!» riflette Ludovico senza comunque essersi opposto al cambio di serata, con un – oh mio dio – mediocre sorrisino sull'angolo delle labbra. Esattamente a destra.
«Mio Ludovico, oh, mio Ludovico» grido fregandomene di svegliare chi abita nelle case che costeggiano i vicoli, «sono schizzata anche ioooo!».
Dinanzi all'entrata del Blue Velvet, ovviamente – neanche ad averlo calcolato in precedenza –, troviamo subito un armadio di buttafuori con tanto di occhiali neri e braccia posizionate inesorabilmente incrociate davanti all'addome. Posizione inflessibile e intimidatoria.
Ma non c'è timore alcuno da parte nostra dal momento che Enrico, il presunto amico di Titòu, ci permette di entrare sussurrando al buttafuori che noi quattro siamo insieme a lui e al suo gruppo già all'interno della discoteca.
In pochi attimi, quasi che neanche me ne rendo conto di primo acchito, forse dovuto all'ebbrezza dell'alcol, siamo catapultati dentro quella meraviglia interamente blu.
Personalmente non rappresenta i miei gusti ma visto che sono in compagnia di mia zia e visto che mi hanno fatta entrare praticamente gratis chiuderò un occhio!
Con l'altro occhio, quello che mantengo metaforicamente aperto, studio l'ambiente attorno a me nella maniera più lucidamente possibile, per quello che le mie attuali capacità motorie e visive mi permettono.
Il Blue Velvet sembra essere fatto interamente di ghiaccio, quasi che pare di ritrovarsi all'interno di un igloo.
Il pavimento sotto le nostre scarpe ricorda in modo assurdo una distesa dura e lucida di ghiaccio, la sensazione è quella di scivolare dovessi commettere un passo sbagliato. Dal soffitto, a tratti arcuato, pendono eleganti e raffinati lampadari con delle finte candele e formati da materiale perlopiù di vetro trasparente e lavorato con cura.
I vari e numerosi divanetti collocati alle pareti sono interamente in pelle, tranne qualcuno che è di una sostanza più morbida, tanto che va a ricordare il velluto; dinanzi a essi vi sono dei tavolini a forma di cubetto di ghiaccio extra-large, tersi e con una luce illuminante al loro interno.
Dulcis in fundo, una sfera stroboscopica va a illuminare l'enorme fetta quale la pista da ballo, oltre che delle statue a grandezza d'uomo situate all'altezza delle spalliere dei divanetti.
È in tutto e per tutto una discoteca senza ombra di dubbio chic, raffinata e naturalmente di classe.
Una discoteca che purtroppo fa a pugni con la mia idea di locale, ma questo già l'ho detto, meglio evitare di ripetersi e di fare la polemica della situazione. Adesso ho intenzione di spegnere ancora una volta il cervello e di godermi la notte che viene.
Stop ai pregiudizi del cazzo e alle fissazioni di merda.
Mia zia Angelica, appena varcata la soglia dell'ingresso, piroetta insieme a Titòu verso il tavolo ove è seduto il gruppetto di Enrico, al fine di conoscere gli amici dell'amico. Un gesto senz'altro educato e cortese, diciamo necessario dopo un favore simile.
Nel frattempo, dunque, in attesa che Angelica e il suo bel francesino ritornino da noi, io e Ludovico ci piazziamo nel bel mezzo della pista da ballo al fine di scatenarci e di dare spettacolo.
Ci facciamo strada in mezzo alla calca delle persone presenti e ci posizioniamo nel migliore dei modi.
La musica del Blue Velvet è molto eclettica, molto varia, per cui si può confermare che è possibile danzare sopra le sue note senza alcuna fatica. Non v'è niente di complesso.
Mentre abbandono il corpo in totale balia della canzone, mi avvicino paurosamente al petto di Ludovico con la schiena, dondolando lentamente il capo e alzando ritmicamente prima una spalla e poi l'altra, e così via.
Ludovico, dal canto suo, ne approfitta della vicinanza per posare le sue labbra screpolate e gelide sul mio collo nudo e privo di veli. Vi ci lascia sopra un bacio veloce, quasi disperato, senza comunque allontanare la bocca dalla mia pelle bollente.
Nonostante pochi minuti fa dentro al Madama Butterfly gli abbia detto chiaro e tondo che non voglio illuderlo inutilmente, adesso, esattamente in questo istante, il suo gesto non sembra che io lo disprezzi chissà quanto.
Anzi, proprio non me ne frega un bel fico secco. Non me frega di niente, non me ne frega un cazzo né di lui, né di dove mi trovo, né delle persone intorno a noi vestite in modo diverso dal nostro, le quali innegabilmente mi squadrano per il mio abbigliamento eccessivo e fuori luogo, in contrasto con il luogo.
Pazienza, pace all'anima loro.
Mi squadrassero facendo del loro meglio, poiché sarà la prima e ultima volta che vedranno Matilde Castellani qua dentro.
Per rendergli la visione più chiara, ballo agitandomi maggiormente, ondeggio le braccia, scuoto i capelli rosei con le mani, socchiudo le palpebre, piego il collo, mi mordo il labbro inferiore. Do spettacolo.
E proprio mentre do spettacolo a coloro così differenti da me, in un secondo e rapido momento, quasi sfuggente, scorgo con la coda dell'occhio socchiuso un volto e una chioma decisamente familiari.
Così familiari che il mio cervello momentaneamente con la spina staccata li associa alla velocità della luce a qualcuno che conosco fin troppo bene!
Il volto appartiene a Leonardo, la chioma appartiene a nondimeno che a Olivia. Volto felino di lui, elegantemente affilato con due iridi glaciali, e capelli bronzei di lei, scompigliati di tutto punto come una ballerina di Burlesque.
Leonardo è seduto su una delle tante poltroncine blu scuro mentre Olivia, invece, è accomodata a cavalcioni su di lui, gambe aperte con fare signorile coperte a malapena dal vestito brillante pieno di lustrini, priva di scarpe e impegnata a limonarselo.
Mi rendo conto di aver rallentato con il mio ballo improvvisato, mi rendo conto di essermi messa a studiare quei due neanche avessi avuto di fronte due alieni. Sono ben sorpresa di trovarmeli qui, poiché sembra quasi che ovunque io vada io mi ritrovi Leonardo fra i piedi, sembra quasi che abbiamo due calamite ad attrarci nello stesso posto.
Persino lui è ben sorpreso di vedere me, Atena, in una discoteca così, accortosi da pochissimi istanti della mia presenza. Tanto che mi osserva con occhi sbarrati, lasciando che la sua Olivia gli rifili una scia di baci mielosi sulla mascella anziché sul labbro inferiore.
Tsk, per favore...
Quindi voglio dargli una prova.
Una prova che non sono assolutamente e minimamente lì per lui, che non lo sto oltremodo pedinando, né tentando di scattargli un'altra fotografia compromettente. Voglio dargli una prova concreta e schiacciante cosicché non possa fare storie il giorno seguente e il giorno seguente ancora.
Non voglio affatto sentirlo lamentare di un qualcosa che non mi riguarda e che è assolutamente falso.
Per cui prendo un respiro profondo, mi stampo sul volto un ghigno crudele prima di voltarmi verso Ludovico, il mio accompagnatore, lo afferro per le guance e lo bacio spudoratamente. Ludovico rimane di sasso, si trasforma in una statua. Non si aspettava di certo un gesto così da parte della sottoscritta. È sorpreso.
Ma poi il ragazzo realizza facilmente, realizza che le mie labbra sono davvero incollate alle sue, che non si tratta di un sogno o di una visione dettata dall'alcol, e, immediatamente, ricambia quel bacio con una foga inaudita, addirittura facendo passare le sue grandi mani attorno alle mie cosce e tirandomi su in braccio.
È un bacio per niente sentimentale, perlopiù qualcosa di fasullo e insipido.
Niente emozioni, niente battito accelerato del cuore, niente respiro affannato, niente insetto alare che si agita dentro lo stomaco. Nessun brivido lungo la schiena, nessuna passione, nessuna irruenza di desiderio. È come un gesto fatto lì per lì, come si ci stessimo annoiando e a tutti costi volessimo fare qualcosa; per l'appunto, so di star offrendo uno spettacolo coi fiocchi. Nulla di reale, tutto di finzione.
Posso quasi reputarmi orgogliosa di me stessa.
Ludovico muove le sue labbra carnose con una certa brama, una certa forza bruta, non è delicato. Sembra quasi che per crederci debba costringersi a esagerare. Io non oso lamentarmi, non oso spostarmi di un sol millimetro, lo lascio fare, gli lascio libero arbitrio dal momento che la prima mossa è stata da parte mia.
Un sapore pesante di alcol s'incastra sulla mia lingua, sul palato, sulle gengive, il mio sapore misto a quello di lui. Entrambi saturi di liquidi alcolici e di caos psicologico.
Una volta che Ludovico mi rimette a terra, stacco automaticamente il contatto con la sua bocca, leccandola successivamente con la lingua al fine di verificare se il rossetto nero sia ancora lì. Non sembra essersi rovinato ulteriormente.
Dopodiché lancio uno sguardo oltre la figura di Ludovico, che sfoggia due iridi piuttosto fiammeggianti, verso il divanetto dove poco fa se ne stavano a pomiciare Apollo e la sua ancella preferita.
Rimango interdetta quando scopro che lui è sparito, volatilizzato, lasciando Olivia sola come un cane a scolarsi una bottiglia di prosecco sorseggiando direttamente dal collo.
L'espressione della ragazza è alquanto stanca, se non in procinto di abbandonarsi a un sonno senza sogni.
Ma dove cazzo è andato quel damerino da strapazzo? Io avrei offerto quella messinscena del bacio per niente?
Era la mia prova schiacciante e Leonardo doveva assistere, doveva! Non sopporto fare qualcosa per nulla, è uno spreco di fatica e di energie! E adesso lui non c'è, se n'è andato, ha persino abbandonato la sua lady fregandosene altamente.
Vaffanculo, mai che vada una cosa per il verso giusto!
Una tale rabbia prende a risalirmi come se fosse un conato di vomito, tanto da giungermi sino alle pareti della gola, tanto per essere chiari.
Improvvisamente, appena sto per rimettermi a ballare, mi sento strattonare all'indietro con una tale veemenza che quasi perdo l'equilibrio.
Fortuna vuole che non abbia scarpe pericolanti ai piedi.
Con effetto immediato vengo inghiottita dalla folla, in mezzo a tutta quella marmaglia di persone intrise di profumo, di lacca e di vestiti luccicanti, mollando Ludovico senza dire uno straccio di parola tanto sono disorientata.
Neanche il tempo di voltarmi per accertarmi di chi sia la colpa di suddetto "rapimento" che vengo presa in braccio di peso, issata sulla spalla vigorosa di qualche sconosciuto.
Lo sconosciuto prende a camminare facendosi largo fra il casino del Blue Velvet, ignorando i miei mediocri tentativi di oppormi. Mediocri, poiché sento un leggero fastidio alla pancia, sicuramente dovuto alla quantità spropositata di liquido alcolico ingerito in così poco tempo.
Non vorrei davvero vomitare perdendo quegli ultimi frammenti scarsi di dignità.
Pian piano realizzo che lo sconosciuto ci fa allontanare dalla sala blu ghiaccio, dalla folla e dalla musica, trasformandola in un suono ovattato a ogni passo avanzato.
I capelli mi cascano davanti al viso impedendomi di avere una visuale perfetta, una vera tortura. Comunque penso ci stiamo avvicinando all'uscita della sala, dove si trova il guardaroba.
Una volta coi piedi nuovamente per terra, come una comune mortale, mi ravvivo rapidamente la frangetta e mi sposto le ciocche rosa dietro le orecchie, mi strofino il naso e spalanco gli occhi per poter analizzare al meglio chi ho dinanzi.
«Tu» sibilo con voce sdegnata e carica d'odio, le palpebre aperte all'ennesima potenza tanto da apparire spiritata.
È stato lui, è stato proprio lui, è opera sua il rapimento.
Leonardo ha i capelli palesemente intrisi di sudore, il respiro irregolare, i primi tre bottoni della camicia bianca immacolata sbottonati e sporca del rossetto di Olivia esattamente all'altezza del colletto tutto spiegazzato.
Appena dopo averlo scrutato con attenzione, non riesco a trattenere una risata per quanto io sia irrimediabilmente incazzata e oltraggiata dalla situazione. Ritiro fuori la mia fedele fiaschetta e ci bevo sopra, infischiandomene del dolore lancinante alla pancia.
L'espressione di Leonardo è indecifrabile.
«Sul serio? Auditore? Quell'orso delle montagne?» ringhia egli incenerendomi con lo sguardo, spietato.
«Sul serio? Ancora Olivia? Quella stronza ipocrita?» lo cantileno per le rime senza smettere di ridacchiare.
Sono comunque ubriaca, è bene sottolinearlo.
Rido soprattutto per due cose: in primis, per la predica del signorino Aspromonte, inutile come un preservativo bucato, in secundis, perché mi sono appena specchiata sulla parete riflettente e sto appurando che ho un aspetto di merda.
Il mascara è quasi colato interamente e ho due occhi che ricordano un panda in via d'estinzione, il rossetto nero è sfumato verso sinistra dandomi l'aria da Joker, per non parlare dei capelli... talmente disordinati che pare abbia preso la scossa. Sono tornata dall'oltretomba.
«Perché cazzo siete venuti qui? Firenze è una città grande e non mi va di avere una Fattona fra i piedi anche il sabato sera!» esclama Leonardo ritornando al suo solito atteggiamento altezzoso e intimidatorio, affatto gentile.
«Credi che io voglia un Perfettino in mezzo alle palle, invece? Mio caro Apollo, è ora che tu faccia immersione in un lago di umiltà» ridacchio acida agitando il liquido dentro la fiaschetta, «e poi vedi di affogarci» concludo.
«Allora vattene!» urla egli fuori di sé, le iridi accese dall'impeto.
«Vattene affanculo tu!» ribatto urlando di rimando, senza timore.
E dopo questa performance di pure grida da pazzi psicopatici, ecco che arriva il Jolly.
«Che succede qua?» interviene Ludovico dopo averci finalmente ritrovati, accostandosi inesorabilmente accanto a entrambi. «Ti sta rompendo le palle, Matilde?» domanda a me però i suoi occhi sono proiettati verso Leonardo intente a fulminarlo, avvicinandosi paurosamente al suo viso.
«Me le rompe solo respirando, a dire il vero...» proferisco cupamente.
«Lasciaci soli, bestione. Non sono cazzi tuoi, ritorna dalla fogna da dove sei venuto» digrigna i denti Leonardo con occhiata ostile.
E a quel punto, dopo che le mie orecchie hanno sentito veramente troppo per i loro gusti, faccio un passo in avanti e tiro uno schiaffo in pieno viso... a Leonardo. Prima che Ludovico gli potesse spaccare il naso o la mascella.
Ho evitato il peggio, come si suol dire, meglio uno schiaffo rumoroso che un pugno sanguinario.
«Non parlargli così» replico con voce tremante, lievemente scossa dalle sue parole così intrise di odio per qualcuno.
«Tsk» emette Leonardo massaggiandosi la guancia dolorante, «credevo che dopo ieri mattina non potessi cadere così in basso. Mi sbagliavo. Ora che ti sei fatta ficcare la lingua in gola da un Fattone come Auditore hai proprio toccato il fondo» termina di pronunciare crudele.
Stavolta non c'è nessuno schiaffo da parte mia, stavolta ci sono le mani robuste di Ludovico che afferrano il colletto della sua camicia e che lo sbattono al muro.
«Ti faccio sputare sangue, brutto figlio di puttana» urla Ludovico fuori di sé, mai visto perdergli il controllo a questa maniera.
Purtroppo il grido furente del ragazzo attira l'attenzione delle persone che ritirano i propri cappotti e di coloro che sono appena entrati. Così non va bene.
Leonardo rimane ad ogni modo impassibile, persino gli affiora un sorrisino sulle labbra, «Che cavalleria. Difendi la tua donzella. Faranno canti e ballate sul tuo ardore» sogghigna estremamente divertito.
Dopodiché, come ad averlo previsto, il buttafuori giunge a passo spedito in nostra direzione, costretto ad allontanarci dal Blue Velvet dal momento che stavamo per scatenare una rissa nel bel mezzo di una discoteca pubblica.
Tutti e tre ci ritroviamo immediatamente sbattuti fuori, al freddo di Firenze. Senza proferire parola. Tranne Leonardo, che è visibilmente arrabbiato e forse anche per giusta causa.
«Non ho niente a che fare con questi due!» esclama al buttafuori allargando le braccia, incredulo della piega che ha preso quell'insolito sabato sera. Si giustifica nonostante sia stato proprio lui a portarmi via da Ludovico.
«Vaffanculo!» borbotto scuotendo il capo, «Vaffanculo a te!» e indico Leonardo, facendolo voltare verso di me, «E vaffanculo pure a te!» stavolta indico Ludovico.
«Sei contenta di avermi rovinato la serata?» ridacchia Leonardo come se non rispondesse delle sue azioni.
E siccome mi sono indignata abbastanza e a sufficienza per oggi, giro i tacchi e m'incammino senza una meta ben precisa. Non importa dove vado. So solo che me ne devo andare, mi devo allontanare da quei due.
«Dove te ne vai?» chiede Ludovico alle mie spalle.
«Dove cazzo mi pare e guai a voi se mi seguite!» urlo fuori controllo, incrociando le braccia al petto al fine di coprirmi seppur inutilmente.
Neanche dieci secondi dopo sento dei passi dietro di me, il che mi fa strabuzzare gli occhi al cielo.
«Ludovico, sei davvero molto insistente» dico scocciata.
«Non osare paragonarmi a quel bestione» invece mi giunge all'orecchio il timbro vocale inconfondibile di Leonardo.
«Ti paragono a un dito sul culo. Così ti garba di più?» enfatizzo senza avere l'intenzione di fermarmi. «Non seguirmi, Leonardo» continuo sperando di essere chiara.
«A differenza di Auditore, io sono a conoscenza del tuo comportamento stupido e irresponsabile di fronte a situazioni delicate come questa» precisa il ragazzo riuscendo a tenere il mio passo veloce.
«Tante grazie, dottore, ma non ne ho bisogno» sibilo.
«Come quella volta che hai tirato un pugno allo specchio? Oppure quando ti sei lacerata la pelle da sola? In quei casi non avevi bisogno?» insiste Leonardo sapendo i miei punti deboli.
«Guarda caso era colpa tua» mi oppongo con veemenza.
«E del tuo autocontrollo di merda» continua lui, dicendo ciò che io stesso ometto intenzionalmente.
Per cui mi costringo ad arrestare di colpo la mia camminata spedita al fine di fissarlo dritto negli occhi, «Mi stai incollato per infierire, fammi capire?» gli domando con fervore.
«Anche se provassi a spiegare non capiresti...» sospira Leonardo con una nota amara, abbassando gli occhi.
«Allora se non ti sai spiegare fai dietrofront e torna dalla tua dolce Olivia» gli suggerisco facendogli sia l'occhiolino che un sorrisetto, riprendendo a camminare.
«Perché sei così drammatica, Matilde? Perché sei così complicata?» Leonardo riesce a farmi bloccare ancora una volta con una sola e semplice frase.
Perché sono così drammatica e complicata? Uhm, domanda interessante questa.
Me ne sto in silenzio per qualche secondo prima di replicare. Conto fino a dieci prima di dar fiato alla bocca, esercizio che dovrebbero fare tutti.
«Perché io non sono mai stata normale» parlo con voce calma e pacata, come se stessi narrando un fatto comune, «la testa non ha mai funzionato come doveva funzionare. C'è sempre stato qualche difetto... il rifiuto di mangiare, digiuni infiniti, la voglia di provare dolore, la rabbia perenne, la sensazione di soffocamento. È scontato che io sia complicata» gli rivelo liberandomi a tutti gli effetti di un peso, di un'incudine.
È vero, lo confesso senza guardarlo negli occhi e soprattutto con una nota di sofferenza, però lo confesso.
Tuttavia mi viene l'impellente bisogno di strapparmi i capelli o di graffiarmi per l'ennesima volta la pelle della gola e delle braccia, poiché mi sono scoperta e aperta al nemico. Ho il timore di aver fatto un errore.
Premo quel che resta delle mie unghie tinte di nero sulla superficie morbida e congelata dei polsi, con un mugugno procedo a causarmi quel dolore tanto conosciuto.
«No!» esclama Leonardo balzando verso di me e afferrandomi in tempo entrambe le mani, bloccando l'azione sul nascere.
Appena il suo calore invade i miei arti infreddoliti scoppio a piangere, sia per la tensione e sia per la frustrazione provata nei giorni precedenti. Un mix di tutto quanto. Me ne sto fregando altamente di mostrarmi debole e inerme al suo cospetto.
«Non mi è possibile sbagliare. E neanche a te» bofonchio tirando su con il naso.
Leonardo, lasciandomi incredibilmente e letteralmente stupita, poggia la sua fronte contro la mia, abbassandosi e senza parlare.
Preferisce il contatto alle parole.
Preferisce un contatto dannatamente proibito... per questo fa così male e mi crea malessere interiore e psicologico.
«Ti prego, continua a odiarmi» lo supplico con un lamento di morte, annusando con bramosia il suo odore così ammaliante.
«Non sai da quanto tempo è che lo faccio...» mormora Leonardo con la mia stessa sofferenza, come se gli costasse dirlo, come se stesse ricordando qualcosa che vuol a tutti i costi dimenticare.
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