20. Non sfogarsi è bene, sfogarsi è meglio
«Definisci il termine "Espressionismo"» è la prima domanda che rivolgo a Ludovico dopo ben due ore di studio suonate.
Parlo lentamente, cercando di non far risultare indecifrabile alcuna parola, cercando di essere comprensibile il più possibile.
Siamo comodamente seduti sopra il tappeto della mia camera, con il libro di storia dell'arte aperto – ovviamente verso di me – sul capitolo interessato e i miei vari appunti presi su fogli di carta svolazzanti sparsi ovunque.
Evidenti sono le sottolineature di matita e di evidenziatore, come anche le numerose freccette che stanno a indicare un "nota bene" fra un paragrafo e l'altro.
Tengo i gomiti entrambi poggiati sopra le mie cosce coperte dalla gonna di stamani, i palmi delle mani premuti contro il mento, le dita irrimediabilmente ghiacciate premute contro il piacevole tepore delle guance.
I capelli sono stati legati in uno chignon disordinato prima di mettersi all'opera; adesso qualche piccola ciocca rosa è sfuggita all'incastro dell'elastico.
Appollaiato sulla mia spalla destra c'è un attento e cinguettante Vivalducci, ci dona il piacere della sua compagnia.
Sono l'esatto esempio di una persona che sta in attesa di una risposta, con la speranza venga data quella giusta.
Insomma, non ho chiesto qualcosa di estremamente complicato, anzi! Ho chiesto la cosa più semplice dell'argomento.
È semplice sapere che l'Espressionismo, naturalmente, è una corrente artistica che nasce agli inizi del 1900 in Francia con i Fauves e in Germania con i Die Brücke. E che rifiuta il concetto di una pittura avversa al piacere del senso della vista, spostando la visione dell'occhio all'interiorità più profonda e nascosta dell'animo umano.
Non è difficile da capire.
E, soprattutto, l'atteggiamento dell'Espressionismo è alquanto drammatico ed è espresso attraverso una non indifferente violenza cromatica.
Ora vediamo se Ludovico ha prestato attenzione alla mia spiegazione, alquanto dettagliata aggiungerei. Questo argomento mi sta particolarmente a cuore.
«L'Espressionismo...» prende a parlare il ragazzo mentre si gratta la nuca, seduto a gambe incrociate esattamente come me, «la sua definizione... è un termine usato molte... volte nella storia... dell'arte».
Oh cavolo, ma che risposta esaustiva!
Praticamente di merda, ma voglio evitare di fare la cattiva e di dimostrarmi stronza quanto Lunanuova.
Perciò proviamo ancora, non si sa mai. È sempre bene dare ulteriori possibilità.
«Bene, lasciamo perdere la sua definizione. Allora, Ludovico, ti faccio un'altra domanda. Chi è uno dei maggiori esponenti dell'Espressionismo? Te ne sto chiedendo uno, eh...» cerco di mantenere un tono calmo e pacato, proseguendo con un altro quesito.
E anche questo piuttosto semplice. Uno dei maggiori esponenti in questo caso si tratta nientepopodimeno che di Henri Matisse.
Considerando poi il patrimonio incommensurabile che ci ha lasciato tale artista, la risposta dovrebbe essere scontata.
«Uno dei maggiori esponenti è Botticelli» spara senza neanche rifletterci egli, «sì, Sandro Botticelli».
Per poco non mi cascano mascella, braccia, capelli e gambe tutti insieme. Rimango letteralmente scioccata da questa, se così si può chiamare, risposta.
«Sandro Botticelli, Ludovico? Fai sul serio?» sibilo a denti stretti.
«Sì, non è quel pittore che ha dipinto quella donna mezza nuda dentro una conchiglia?» replica Ludovico facendo spallucce.
«Sì, certo che è lui! Ma Sandro Botticelli appartiene alla corrente del Rinascimento italiano, per l'amor del cielo!» sbotto con un occhio che mi balla, «Il Rinascimento avviene in un periodo che va dal 1300 al 1600. L'Espressionismo nel 1900, che Lorenzo il Magnifico mi venga a sorreggere! Praticamente non c'entra un tubo».
Di colpo mi viene l'istinto di grattarmi furiosamente il naso, e lo faccio poiché è l'unica maniera di restare calma e di non calarmi nella parte della pazza assassina!
«Se solo t'azzardi a dare una risposta del genere a Lunanuova sicuro che ti fa fuori. Molto meglio optare per il silenzio!» aggiungo con una smorfia di disappunto.
«Fammi un'altra domanda. È stata solo sfortuna questa» m'incita Ludovico con un movimento del braccio.
Ah be'... per lui è stata solo sfortuna, andiamo bene. A tratti benissimo.
Però accetto, alzo le mani, faccio un respiro e preparo il terzo quesito da porgere.
«Okay, eccotela servita» replico sforzandomi di sorridere, «allora, mi puoi dire qual è la differenza fra Impressionismo ed Espressionismo? Capita a volte di confonderli e saperli distinguere è di vitale importanza».
Andiamo. Stavolta se non sa rispondere, mi duole ammetterlo, ma getto la spugna, perdo le speranze, abbasso la pistola, ci rinuncio.
Persino Marco saprebbe darmi la risposta corretta.
Per cui mi ritrovo a osservare Ludovico con due occhi stra-speranzosi e le mani strette a pugno, pendo al cento per cento dalle sue labbra.
Non m'importa se ci impiega cinque, dieci minuti, un'ora, due ore, no, non m'interessa. L'importante è che mia dia una replica soddisfacente, può farla anche breve per quel che mi riguarda.
«Non lo so», invece è ciò che fuoriesce dalle labbra di Ludovico, ciò che mi fa sbriciolare tutte le aspettative.
Cioè, proprio si sente il rumore.
«Non... lo sai?» ripeto a bassa voce, il sorriso ridotto a una misera metà di quello che era.
«No, non lo so, devo rileggermelo» pronuncia egli, sempre facendo spallucce, di nuovo, un'altra volta.
E allora sì, adesso ne ho tutto il diritto di esasperarmi. Sono più che giustificata.
Con un balzo mi tiro su in piedi, facendo persino barcollare di brutto Vivaldi ancora appollaiato sulla spalla.
Tiro uno dei sospiri più lunghi che abbia mai tirato nei miei diciotto anni di vita e mugugno alzando gli occhi al cielo. La cocciutaggine di questo ragazzo è esacerbante, per non dire insopportabile!
Senza proferire una sola parola, vado verso il mio letto e allungo la mano sul mio pacchetto di Winston appena comprato poco prima di tornare a casa dal cimitero.
Scarto il sottile rivestimento di plastica trasparente, apro la testa di cartone del pacchetto e con fare metodico prendo una sigaretta direttamente con la bocca.
Mentre la accendo e mentre mi approprio del posacenere, la mia mente ritorna senza un perché a poche ore fa, a quando il signor Cornelio ha sottolineato che un vero e incommensurabile piacere è quello di fumare dell'autentico tabacco dentro una pipa intagliata a dovere, anziché consumare sigarette piene di "schifezze".
Ed effettivamente tutti i torti non li avrebbe.
Forse dovrei prendere in considerazione di iniziare a fumarla la pipa, una cosa positiva è che poi inizierei a somigliare a Sherlock Holmes.
«La differenza fra Espressionismo e Impressionismo è semplicissima» borbotto dopo aver fatto un tiro, camminando per la camera avanti e indietro, «l'Impressionismo è un movimento pittorico che deriva principalmente dal realismo, sicché s'interessa di realtà quotidiana, non si occupa di problemi politici, neanche di quelli ideologici, si occupa unicamente dei lati gradevoli della società. L'artista si limita a dipingere ciò che vede. L'Espressionismo, che è quello che preferisco tra i due, è un movimento artistico in cui prevale la deformazione degli aspetti della realtà. Ne accentua i valori emozionali ed espressivi, tanto che ne coinvolge la letteratura, la musica e il teatro. L'artista dipinge ciò che sente, è molto più spirituale. Non c'è niente di difficile da capire».
Ne parlo come se tale corrente l'avessi inventata io, quasi.
«Tanto per fare un esempio, e anche piuttosto stupido aggiungerei, la fazione del Classico impersona gli ideali dell'Impressionismo, la fazione dell'Artistico impersona quelli dell'Espressionismo» continuo fermandomi proprio sopra l'inizio del tappeto, Ludovico che mi guarda dal basso.
«Ti irriti sempre così facilmente?» mi domanda lui senza malizia nel tono, me lo domanda e basta.
«Tecnicamente sì, però tento di cadervi il meno possibile» sbuffo prendendo un'altra boccata di fumo, «comunque, Ludovico, è palese che non hai capito niente di niente. Quindi, ti domando, hai intenzione seriamente di studiare in vista della verifica di lunedì oppure vuoi passare l'aria? Voglio dire, siamo in quinto anno, c'è la maturità, se non facciamo i seri adesso quando mai lo faremo?».
«Sono stato bocciato già due volte, una terza non mi farebbe né caldo, né freddo» ribadisce Ludovico assumendo uno strano sguardo torvo e tagliente, «ritornando a noi, sì, voglio studiare. Voglio prendere un bel voto. Le soluzioni sono due: o lo smacco morale verso quel testa di cazzo di professore oppure un pugno contro il suo naso. O meglio ancora, la punta d'un coltellino premuta sulla vernice della sua auto, questa mi piace di più».
«Si studia per arricchire noi stessi, sai?» dico rimanendo colpita per questo mio lampo di saggezza improvvisa, «Non per prendere una valutazione, quella rappresenta soltanto un premio finale. Sono la prima ad ammettere che fa piacere ricevere un bel voto».
E fondamentalmente è la verità.
La maggior parte degli studenti studiano per poi conquistare un voto alto, una bella valutazione da portarsi dietro e poi sfoggiare.
Invece il bello è proprio lì, è tutto lì; nell'assimilare, nell'apprendere, nel comprendere, nel contestare, nell'accettare.
Ma la realtà è che ci piace essere etichettati con un giudizio, purtroppo non possiamo farne a meno. Quando capiremo che un voto non rappresenta una persona sarà troppo tardi.
«Io voglio soprattutto non darla vinta al prof.» insiste Ludovico, «Cosa credi? Non mi sono mai fatto in quattro per prendere un sei o un sette, figuriamoci se comincio adesso».
Quando la lancetta dell'orologio va a segnare le cinque e mezza spaccate del tardo pomeriggio, l'istinto naturale di richiudere il libro e rimettere in ordine i fogli degli appunti ecco che fa capolino.
Ripongo il posacenere sopra l'angolino della scrivania e sistemo il materiale da studio sulla mensola apposita dedicata alla scuola.
Nel frattempo anche Ludovico si rimette in piedi, riappropriandosi del suo zaino. Lo lascio giocare con Marsellus Wallace mentre mi appresto a recarmi in bagno per potermi cambiare con la divisa da lavoro.
In quattro e quattr'otto mi infilo la camicia e mi allaccio i bottoni del gilet, seguendo con un paio di jeans neri e delle sobrie Converse in linea con il resto dell'abbigliamento.
Sciolgo i miei capelli e li lascio ricadere sulle spalle, ancora sono abbastanza puliti da non dovere ricorrere per forza a strane acconciature.
Prima di ritornare di là, in camera da Ludovico, mi sciacquo velocemente il viso con dell'acqua fredda, tanto per riprendere un po' di vitalità, e mi lavo i denti.
Adesso sono pronta per andare a lavorare. Sono pronta per andare in uno dei luoghi che più preferisco.
Mia madre ancora non è ritornata, mentre eravamo presi dallo studio ho ricevuto un suo messaggio che diceva sarebbe andata a far compere con un'amica, godendosi finalmente un pomeriggio per sé.
Non posso biasimarla, ha tutto il diritto di uscire con le sue amiche tanto quanto ne ho io.
Dopo aver indossato il giacchetto e dopo aver infilato le bretelle della mia borsa a zainetto, mi offro ovviamente di riaccompagnare a casa Ludovico, eliminando a priori l'opzione di farlo ritornare a piedi, soprattutto con questo freddo e con questo buio.
Scopro che Ludovico non abita chissà quanto lontano da me, abita qualche via più in là della casa di Marta. Una vera fortuna.
Prima che Ludovico apra la portiera della mia Yaris, prima che egli smonti da quest'ultima, si volta verso di me per dirmi sicuramente qualcosa.
«Domani tu verrai a casa mia per studiare. Stavolta è il mio turno d'invitarti, così fanno gli amici, vero?» annuncia con quel tono di voce così privo di emozione, così... strano da comprendere.
Comunque mi lascia sorpresa, non mi aspettavo una mossa del genere da parte sua. Da uno che proprio ignora le regole base dell'amicizia.
«Sì, così fanno gli amici. Ma ricorda, non deve essere un obbligo» gli faccio notare con un piccolo sorriso.
«Non è un obbligo. Mi piace la tua compagnia» commenta Ludovico senza ricambiare il mio sorriso.
Meno male che non ne faccio una questione personale, oramai il modo di comunicare di Ludovico è questo, e come tale va accettato. Ad ogni modo, rimane sempre particolare e bizzarro.
«Okay, accetto il tuo invito, ma ti avverto, domani sarò ancor più "cattiva". E mi raccomando, leggiti le pagine che ti ho segnato del libro, leggile una seconda volta, magari anche una terza» lo avviso puntando il dito indice verso di lui.
«Sì, lo faccio» è tutto ciò che dice per poi salutarmi con un bacio sulla guancia.
Rimango totalmente di sasso, immobile, quando si accosta e mi lascia un rapido segno di effusione esattamente vicino all'occhio, qualche millimetro sopra lo zigomo.
Dopodiché apre finalmente la portiera e scende, richiudendosela alle sue spalle.
Un sopracciglio inarcato ben evidente spicca sulla mia faccia. Delle labbra contratte in una smorfia di perplessità mi fanno "ciao ciao" dallo specchietto retrovisore.
Sì, forse a Ludovico gli è presa la mano con questa cosa dell'amicizia.
Il suono d'un messaggio interrompe questa strana sensazione che mi sta invadendo da capo a piedi. Un messaggio da parte di Diego.
Diego, 17:48
- Come sta andando lo studio con Mr. Auditore?
Ma guarda un po', Diego o vuol fare il simpatico oppure è proprio diventato scemo.
Ebbene decido di fare la simpatica anche io.
Premo i tasti con velocità prima di rimettere in moto la macchina e partire alla volta del cinema.
Io, 17:48
- Vaffanculo <3
La mattina del venerdì seguente non tarda ad arrivare, e come tale non tarda ad arrivare nemmeno il mio compito di tassista verso Laira.
Preciso come un orologio il mio compito di scarrozzarla da casa-scuola arriva come terzo giorno del nostro patto. Patto che ancora non è stato mantenuto da parte sua, ancora io sto aspettando.
Spero proprio di esserne ripagata il prima possibile.
Laira sale a bordo della Yaris, mangiucchiando una Tic Tac dietro l'altra all'arancia, offrendomene naturalmente qualcuna. Cosa che accetto volentieri dal momento che ho un saporaccio in bocca.
«Hai un altro bacio, proprio lì, sulla guancia» nota Laira mentre mastica, aguzzando quello sguardo furbetto verso di me.
Ma in questo caso non mi faccio prendere dal panico, in questo caso non c'è nessun Leonardo Aspromonte di mezzo! Laira può vedere tutti i baci che vuole stamattina.
«Lo so» constato facendo spallucce, sgranocchiando le due Tic Tac insieme.
«Comunque, parliamo di cose serie» proferisce Laira con sguardo tagliente, ed è allora che il mio sguardo diventa tagliente a sua volta, imitando quello della ragazzina seduta accanto a me.
«Sì, parliamo di cose serie» le faccio eco con voce roca. È successo, Laira ha mantenuto la parola, ha completato con successo la sua missione segreta.
«La mia fonte ha finalmente cantato. Una melodia vera e attendibile. Il colpevole che ti ha scattato quella maledetta foto è stato trovato» spiega ella quasi sottovoce, tanto che sono costretta ad abbassare ancor di più il volume della radio.
«Ti ascolto» dico stringendo con più pressione il volante, mi sto sforzando immensamente di rimanere calma.
Be', devo per forza rimanere calma a meno che non voglia causare un incidente!
La bocca di Laira si tramuta in un ghigno di disprezzo, ella alza il mento all'insù, come se si volesse pregustare questo momento. Come se se lo volesse godere con tutta se stessa senza lasciarsi sfuggire niente, neanche la più piccola sensazione.
«È stata Olivia, quell'insulsa bambolina senza un minimo di personalità se non quella di rendere la sua unica ragione di vita Leonardo Aspromonte. Quell'inutile manichino dai capelli ramati e dal cuore di polistirolo. Quella...» Laira emette il verdetto, spiegandone anche i dettagli.
Tuttavia, per quanto trovi melodiosa questa confessione, sono costretta a interromperla sul più bello, ne sento il dovere.
«... quella stronza che non ha proprio un cazzo da fare se non quello di sputtanare le persone, e con un metodo piuttosto squallido e scadente» recito velenosa, roba che se dovessi versarglielo addosso la corroderebbe fino all'osso.
Ma io ne ero sicura, sicura che si trattasse di lei, di Olivia Valorosi.
L'ho capito chiaro e tondo in quel vicolo, l'altra sera. È stato quasi scontato, forse anche troppo.
Eppure importa? No, affatto.
Lo sguardo di Laira di colpo si trasforma, di colpo diviene serio e grave, quasi crudele, quasi ferino.
«Ora fagliela pagare» sogghigna alludendo a un bel pagamento con la stessa moneta.
Ed è per questo, per cotale motivo, che una volta giunta al Caravaggio mi metto a cercare con una certa ossessione il gruppetto fedele del re Apollo – in questo caso preferisco "re" anziché "dio".
Assumo le fattezze di un cane rabbioso con tanto di bava alla bocca, o meglio ancora, le fattezze di una pazza psicopatica fuori di testa alla ricerca di qualcuno da uccidere.
Non vi faccio molto caso dal momento che sono agguerrita come non mai, ma non solo.
Mi sento ferita, mi sento incazzata, mi sento furente – quasi fuori di me –, sento davvero che potrei combinare qualche disastro se non riprendo un briciolo di controllo.
Calpesto con furia le foglie secche del terreno, il mio respiro è decisamente pesante mentre proseguo con la mia marcia inesorabile.
Mi scosto i capelli dietro le orecchie poiché sto ribollendo dal caldo, sono quasi tentata di togliermi di dosso la sciarpa che ho indossato prima di uscire di casa, temendo il gelo dell'esterno.
Mi mordo il labbro inferiore con tanta crudeltà che poco me ne frega se dovesse lacerarsi per poi sanguinare.
In questo istante non me ne frega proprio di niente se non di trovare la principessina Olivia; io la voglio strozzare, le voglio strappare quei suoi meravigliosi capelli color rame, voglio solo disintegrarla, niente di rilevante.
Me ne infischio se poi qualcuno vada a fare la spia a Gandolfo o al vice-preside, me ne infischio di venire sospesa o espulsa, me ne infischio di tutte quelle teste di cazzo del Classico che potrebbero rappresentare una minaccia nei miei confronti.
Ora sto cominciando a capire un po' quello che prova Diego ogni volta che vorrebbe spaccare la faccia a Leonardo o a qualsiasi altro componente dei Perfettini.
Comincio a entrare nella sua ottica, un vero problema fermarsi, un immenso dilemma farsi dire dagli altri che ciò è sbagliato e non va fatto.
Però, intanto, a impedire Diego di rovinarsi per un misero pugno sferrato in faccia al prossimo qualcuno c'era.
Non c'è nessuno che cerca di impedirlo a me or ora.
Ho letteralmente la strada spianata, mi è sufficiente solo di trovare la diretta interessata.
Addirittura mi metto a chiedere ovunque, a destra e a manca, dove potrei trovare il suddetto gruppetto.
Chiedo a tutti, nessun escluso, non faccio differenze fra Artistico e Classico, la minima informazione mi potrebbe essere utile.
Addirittura arrivo a domandare anche a Riccardo Cherubini, un suo compagno di classe dai lineamenti affilati e gli occhi penetranti, addirittura arrivo a domandare persino a Diana Marchesi, un'amica di Costanza, ragazza deliziosa debbo dire, che vanta delle graziose lentiggini fulve e degli invidiabili occhi blu.
La risposta infine, finalmente, arriva con lei, grazie a Diana.
«Sono radunati a fumare lì, in quella panchina» m'informa la ragazza un po' incerta di fronte alla mia faccia di vera squilibrata.
Di fronte alla mia frenesia incontrollabile.
Come Diana mi dà la dritta, volto il collo esattamente come farebbe un falco che adocchia la sua preda nella direzione designata. La panchina in questione è lontana dall'ingresso del Caravaggio, situata all'angolo dell'istituto, un po' raccolta sotto i rami pieno di foglie secche di un albero.
«Ti ringrazio» ringhio senza neanche guardarla negli occhi, tanto sono già partita alla carica.
Esattamente, come detto da Diana, i quattro signorini in questione si trovano seduti sopra quella dannata panchina di legno scarabocchiata con ogni scritta possibile e immaginabile. Quasi sudicia.
Mi stupisco che poggino le loro regali e delicate chiappette sopra di essa.
Leonardo, Alberto, Olivia e Giulio sono tutti e quattro seduti intenti a consumare le loro preziose sigarette e a parlare del più e del meno come farebbe un qualsiasi altro normale studente di liceo.
Del tutto ignari della furia che sta per incombere su di loro, anzi, su uno di loro in particolare. Si godono quella pace apparente e fasulla, inconsapevoli.
Senza ragionare, senza contare fino a dieci, senza pensarci due volte, senza problemi vado verso di loro come se fossi un carro armato. Cammino a grandi falcate, impaziente, le dita delle mani che tremano, quasi che bruciano.
Mi piazzo dinanzi a loro, come feci esattamente al Maverick la notte di Halloween, spavalda e con le iridi spalancate, decisamente iraconde.
E, ovviamente, la reazione che mi becco da parte loro è perlopiù stupore, ma anche di sdegno, non bisogna dimenticare che davanti a me ho le persone più altezzose che siano mai esistite.
Il più sbigottito di tutti, però, è proprio Leonardo.
Pazzesca la sua espressione, quasi simile alla mia seppur cancellando il tratto fiammeggiante degli occhi. I suoi capelli biondi sono deliziosamente fissati con la solita brillantina, ordinati, che gli danno quell'aria da gentleman.
Un dettaglio che mi cattura l'attenzione per pochissimi istanti è l'anello interamente in oro con un simbolo inciso sopra che tiene infilato sul dito medio, lo noto velocemente poiché si porta la sigaretta alla bocca con movimento lento.
"Sobrio", è quello che penso a bruciapelo. Ironicamente.
Ad ogni modo, subito ritorno a concentrarmi sul mio obiettivo, su colei che siede elegantemente sopra le gambe di Apollo, su colei che ho intenzione di massacrare.
"Gliela faccio pagare, Laira, stai pur tranquilla", indirizzo la riflessione verso il commento di Laira di pochi minuti fa.
Scelgo di adottare la tattica della gentilezza, dapprima.
Meglio non destare sospetti, già ho creato parecchio scompiglio nella mia marcia per la ricerca.
Quindi mi tolgo immediatamente via dalla faccia questa espressione di follia, sostituendola con una amabile, sicuramente più piacevole, più benevola.
Agisco come le sirene dei mari: all'inizio si mostrano innocue, belle e di buon cuore, e poi si rivelano per quello che sono, ovvero letali, crudeli e assetate di sangue.
«Possiamo parlare da sole per un momento? Questione di pochi minuti» proferisco con voce zuccherosa verso Olivia, guardandola con insistenza, ignorando gli altri tre bambocci presenti.
Olivia è presa contropiede, sa che non è normale questa richiesta, soprattutto perché viene da me. La vedo che non ha idea di quel che fare.
È incerta.
«Ehm» commenta con la fronte corrugata, «va bene. Parliamo» accetta veramente titubante.
«Andiamo al campo da basket dietro la scuola, là saremo lontane da orecchie indiscrete» le faccio presente sorridendo con esagerazione.
La ragazza non bada a replicare mentre si tira su dalle gambe di Leonardo, mettendosi in piedi e aggiustandosi le pieghe dei pantaloni.
«Al ritorno puoi portarmi quelle famose pasticche? Ancora le sto aspettando» interviene Giulio sghignazzando provocatorio.
Chiaro che non ho intenzione di rispondergli.
«Dopo di te» dico con gentilezza mandando in avanti Olivia, tanto conosce bene la strada.
Io la seguo subito dopo, pur tuttavia Leonardo s'intromette perché non poteva di certo farne a meno. Si alza perfino in piedi.
«A che gioco stai giocando?» mi chiede senza farsi udire più di quel tanto. Le orecchie di Alberto e Giulio sono di troppo.
Mi ritrovo a fulminarlo con lo sguardo, alla faccia della tattica del provare a essere docile.
«Stanne fuori. Miracolosamente tu non c'entri nulla» sibilo facendogli segno di non osare muoversi di un altro passo.
Sicché conduco Olivia nel retro del Caravaggio, appunto sul campo esterno da basket usato, oltre che nelle ore di ginnastica, anche per disputare il torneo di fine anno.
Entrambe ci fermiamo proprio sotto uno dei canestri, quello più vicino al muro della scuola, quello più comodo da raggiungere a piedi.
Lei è dinanzi a me, si stringe le proprie braccia contro il petto e la vedo un tantino nervosa, si schiocca continuamente la lingua, non riesce a stare ferma. A differenza della sottoscritta.
Io in compenso sono completamente immobile, le mani intersecate l'una con l'altra e ben distese verso il basso: il ritratto della quiete.
E ora che venga pure la tempesta.
Sorrido un'ultima volta prima che comincio a parlare.
«So la verità» do il via al mio sbatterle in faccia la realtà, la meravigliosa realtà, «so che l'artefice sei tu».
Quasi che mi sento la Cordelia Foxx di American Horror Story, esternamente. Ma internamente mi sento oltre ogni dire come sua madre Fiona.
«E allora?» ribatte Olivia quasi con aria scocciata mista ad annoiata, «Ormai ciò che è stato è stato, fattene una ragione».
Inoltre si permette pure di inarcare un sopracciglio, «Non capisco perché te la prendi tanto, poi. Alla fine quella è la tua vera natura da Fattona, non stupirti se poi vieni derisa».
Mi sfugge una risata come le sento dire certe cose.
Rido sguaiatamente perché trovo che ci sia dell'incredibile in questa prodigiosa ragazza. È esilarante, dico davvero. Da scompisciarsi dal ridere.
Ma poi, ehi, è necessario che mi ridia un contegno.
Insomma, a quanto pare la seria della situazione sono proprio io, non posso permettermi di scivolare in queste ridicole scenate.
«Olivia» la richiamo dopo essermi schiarita a dovere la voce, «tu sai vero che ho un misero controllo della rabbia? Che faccio una fatica boia a gestirla? Non tirare la corda, te lo consiglio».
E alludo, ovviamente, alla vicenda di quanto mi ha appeso la fotografia sulla bacheca del corridoio, quando ho afferrato Viola per il collo.
Olivia ha proprio deciso di improvvisarsi spavalda quest'oggi, come se non le importasse minimamente ciò che le sto cercando di far capire.
«Davvero nella tua posizione ti senti di dare consigli? Oltre che alcolizzata e drogata magari viene fuori che sei pure ninfomane...» ridacchia lei con quel fottuto sopracciglio inarcato che mi fa vacillare quel poco di auto-controllo che ho.
Inevitabilmente in me scatta veloce la scintilla. Come previsto.
Non posso farne a meno.
Faccio scrocchiare il collo prima di far accadere l'inevitabile, ciò cui sapevo sarei andata incontro appena ho varcato il cancello del Caravaggio stamani.
Sciolgo l'intreccio delle mani, contraggo la mascella prima di afferrare Olivia per il retro della gola, esattamente come ho fatto con la sua amichetta del cuore. In questo modo ce l'ho sottomano, completamente alla mia mercé.
La spingo contro il muro con una facilità estrema e le vado a premere il gomito proprio sotto il mento, alzandole di buon grado il volto.
Adesso sì che l'ho lasciata senza fiato.
«Nella mia posizione io mi aspetto delle scuse convincenti, piccola manipolatrice da quattro soldi!» le grido contro in preda a quella che è della sanissima collera, grido così forte che mi fanno male persino le pareti della gola.
Olivia, da spavalda che si è dimostrata, adesso trema letteralmente dal terrore, è veramente spaventata.
Io la spavento.
Ora tocca a me riderle in faccia.
«Sembro gracilina, pelle e ossa quasi, ma non immagini la forza, la rabbia per l'umiliazione, la voglia di giustizia che mi scorre nelle vene, nelle braccia, nelle mani» ringhio con una certa malvagità.
«T-tu s-sei pazza» balbetta Olivia, respirando velocemente.
Mi limito a far spallucce di fronte alla sua affermazione, «Sì, fin'ora sono stata pazza a stare con le mani in mano. Cazzo, ora voglio rinsavire» ringhio perdendo l'ultimo briciolo di sanità. Poiché non mi riconosco più, sia per quello che sto dicendo sia per come mi sto comportando.
«E-era solo uno scherzo. S-siamo al liceo... queste cose sono all'ordine del giorno» tenta di giustificarsi Olivia, «come in un Diario di una nerd superstar».
«Peccato che io non sia come Jenna Hamilton, stronza» sbraito, «uno scherzo, dici? Ora te lo faccio io uno scherzo. Ti taglio i tuoi bellissimi capelli bronzei col taglierino, tanto... andiamo... siamo al liceo, cazzo! Scatto una foto compromettente a qualcuno per farla poi girare perché, ehi, siamo al liceo! Ti riempio il banco di scritte infamanti, perché siamo al liceo! Dico in giro che sei una troia che la dà a tutti perché siamo al liceo, è normale andiamo! Faccio suicidare qualcuno nei bagni perché non è all'"altezza" e perché è sfigato, capisci? Siamo. Al. Cazzo. Di. Liceo!» concludo questo discorso pieno di rabbia con gli occhi incendiati dalla furia.
E grazie a questo Olivia esplode in un pianto disperato, ormai totalmente in preda al panico.
Oppure, magari, si sente in colpa? La verità fa male.
«N-non s-sono stata s-soltanto io...» balbetta tirando su con il naso.
Che cosa?
Alt. Fermi tutti. Che significa che non è stata soltanto lei?
Questa inaspettata confessione mi permette di ricompormi leggermente un pochino, «Cosa stai dicendo?» le chiedo con voce ferma. Non è che mi faccia impietosire per così poco.
«L-la foto l'ho attaccata i-io alla bacheca, è v-vero. Ma non l'ho scattata io» farfuglia lei con fatica.
«Va' avanti» dichiaro tutta orecchie.
Evidentemente c'è un qualcun'altro che ha bisogno di una ripassata.
«La foto l'ha scattata Claudio» m'illumina.
Senza andare oltre abbandono la presa da Olivia e faccio un passo indietro.
Rapidamente faccio due più due e mi rendo subito conto che Leonardo sicuramente lo sapeva, sicuramente sapeva anche di questo, di quella feccia merdosa di Claudio Patriarchi. E non ne ha fatto la minima parola.
Perché difendere Claudio? Non sono amici veri come con Alberto.
Che senso avrebbe avuto?
Una lacrima di rabbia mi sfugge dall'occhio, che involontariamente vado subito a sfregare via. Dopodiché mi rivolgo verso la ragazza che con aria dolorante si massaggia il collo.
«Non pensare di aver espiato la tua colpa. Ancora ce l'ho a morte con te e ciò così sarà finché non chiederai scusa strisciando. Contando che parliamo di una come te potrebbe volerci molto, ma poco male, sono disposta a portarti rancore fin quando vuoi» le dico con un odio evidente e palpabile.
Olivia non osa ribattere, si limita a lasciarsi cadere a terra abbandonandosi al suo pianto disperato.
Successivamente, voltando le spalle alla ragazza, mi metto a camminare con l'intento stavolta di trovare Leonardo. Siccome ho il bisogno impellente di risolvere qualcosa.
Appena svoltato l'angolo del Caravaggio con gli occhi trovo ancora egli seduto lì, sulla panchina, però senza la compagnia di Alberto e di Giulio.
Solo come un cane.
Evidentemente questo è il mio giorno fortunato, ce l'ho servito su un vassoio d'argento.
Parto alla carica, per cui, e come gli sono davanti riverso su di lui la stessa rabbia che ho riversato addosso a Olivia.
«Perché non sei entrato? La campanella è già suonata!» comincio con una battuta sarcastica, notando che nessuno studente è più fuori nel cortile.
«Non fare la finta tonta. Come se potessi lasciarti sola con Olivia! È ovvio che volevo assicurarmi che non facessi qualche danno irreparabile» spiega Leonardo utilizzando la mia stessa ironia, ergendosi in piedi in tutta la sua altezza.
Lo osservo beffarda e sghignazzo dinanzi a questa amorevole dichiarazione, «Oh, ma come sei premuroso! Ora ti mostro come lo combino qualche "danno irreparabile"».
Mi scaglio su di lui spingendolo sul petto con forza, infischiandomene di provocargli dolore o meno.
«Che cazzo stai facendo?» esclama Leonardo sbigottito, perdendo quasi l'equilibrio, riprendendosi per un soffio.
«Lo sapevo che era stata Olivia! Un po' ovvio, suppongo» strillo con irritazione, e lo spintono di nuovo.
«Comprensibile che tu l'abbia voluta proteggere, fino a un certo punto», e via un altro spintone.
Più lo spingo più egli arretra.
«Ma omettere la colpevolezza di quel figlio di puttana di Claudio... be', questo addirittura supera la tua cattiveria» e gli do l'ultimo spintone, che lo fa finire con le spalle contro il ferro battuto del recinto, alto non so quanti metri, e il muretto sul quale ci si può sedere.
Il volto di Leonardo è come un enorme punto interrogativo, come se non sapesse di cosa sto parlando.
«Che cazzo stai blaterando? Cosa c'entra Claudio?» alza anch'egli la voce.
«Vaffanculo! Sai bene che è stato lui a scattarmi quella maledetta foto al Maverick. Olivia l'ha solo usata in un secondo momento!» ormai non resisto e scoppio a piangere a dirotto, poco importa se Leonardo mi vede.
«Olivia ha confessato» singhiozzo stremata, non ne posso più di ridurmi ogni volta in questo stato.
«Io di Claudio non ne sapevo niente. Olivia ha sottolineato che è stata lei a fare entrambe le cose» Leonardo afferma una cosa che mi lascia totalmente basita.
Sicché mi pulisco gli occhi arrossati e assottiglio lo sguardo, «Balle! Frottole! Fandonie! E detta al volgare, cazzate!» esclamo scuotendo il capo, non bevendomela.
«Nessuna cazzata, Matilde, devi credermi per quanto abbia dell'assurdo» contesta egli con una nota beffarda. È strano sia per lui che per me.
Lo afferro per i lembi della giacca, dunque, strattonandolo verso di me senza provare vergogna.
«Mi sa che quello che si è calato qualche pasticca sei tu. Io non ti crederò mai» sibilo a poca distanza dal suo viso.
Roba che sento persino il suo profumo, in questo caso si tratta di... Dolce & Gabbana, non più di Hugo Boss.
Poi scuoto il capo, sorridendo amara, «Come può Matilde Castellani credere a Leonardo Aspromonte?».
«Non ti do torto, ma in questo caso v'è un'eccezione» obietta con fatica immane.
Deglutisco, mandando giù il niente nella mia gola arrossata a causa del troppo urlare, e faccio qualche respiro, abbandonando la presa dal suo giacchetto. Pondero su quanto appena avvenuto, pondero a quanto possa essere aberrante questa situazione, asfissiante a tratti.
Finché non giungo alla conclusione che devo chiudere questa faccenda una volta per tutte, con chi ha dato inizio a tutta questa storia.
Ovvero Claudio.
Sono disposta ad andare a bussare in quinto A e a farlo uscire dalla classe per poi dirgliene quattro anche sul corridoio. È una decisione avventata, lo so, ma sento di doverla fare a ogni costo.
«Non farlo» interviene Leonardo interrompendo i miei pensieri.
«Cosa?» domando confusa.
«Quello che stai pensando di fare. Qualcosa di stupido, insensato, scemo e balordo» mi ragguaglia.
«Stupido e scemo hanno lo stesso significato» gli faccio notare con capriccio.
«Non esattamente» protesta.
«Io faccio quello che voglio. Riguarda me, non te» evidenzio con sicurezza.
«Hai tutte le ragioni di voler rompere il culo a Claudio, a volte vorrei farlo persino io. Ma è da stolti farlo ora» replica Leonardo dandomi ragione.
Tuttavia mi metto nuovamente a ridere; mamma mia, oggi sì che ho riso come una matta, e m'incammino nella direzione opposta a quella di Leonardo, ossia verso l'entrata del Caravaggio.
«Tu che mi dai consigli? Scusami se tendo a fare il contrario di ciò che dici, signorino Aspromonte» asserisco.
Leonardo prende a seguirmi, a camminare accanto a me tenendo senza fatica il mio passo, «Un po' incoerente visto il trascorso di mercoledì sera» mi ricorda utilizzando il caro e vecchio colpo basso.
Socchiudo le palpebre e accelero il passo, senza ribattere per la pesante vergogna che sto provando.
Ma faccio letteralmente pochissimi passi poiché Leonardo mi tira su di peso e mi preme la mano contro la bocca per impedirmi di mettermi a urlare, cosa che sto cercando di fare, chiaramente.
«Fai la brava e non urlare» m'intima Apollo mentre i suoi occhi saettano più indietro dell'ingresso della scuola, più precisamente sulla figura di Bianca Camonte, la vipera centenaria, professoressa del Classico.
«Sei ti fai sentire finiremo in guai seri con lei» continua aspettando che la vipera centenaria entri dentro il liceo.
Senza farci beccare, ci nascondiamo dietro le auto parcheggiate dei professori — e io sempre in braccio a lui, neanche fossi una bambina!
«Mettimi giù, cretino! So camminare» sbotto senza esagerare e finalmente ritorno coi piedi per terra.
Poco dopo mi vibra il cellulare e appuro che è un messaggio di DarthMart.
DarthMart, 8:35
- Salti la 1° ora di italiano? Poi passa Thalìa a raccogliere le firme per l'Assemblea, che hai intenzione di fare?
Tiro un sospiro dopo aver letto le righe della mia amica.
«Se entro dentro quelle mura Claudio è un ragazzo morto» constato io, lanciando un'occhiata al Caravaggio.
«E se non entrassi?» suggerisce Leonardo.
«In quel caso la sua morte sarebbe posticipata di un dì» è ciò che rispondo, «devo andarmene da qui» e prendo a frugare nelle tasche del giacchetto alla ricerca delle chiavi della macchina.
Non penso proprio sia il caso di affrontare la scuola oggi.
«E dove?» sento chiedermi.
«Dove cazzo mi pare, piccolo Perfettino. Che t'importa? Perché tu non entri nel frattempo? La campanella è suonata da più di dieci minuti» borbotto velenosa che manco un Mamba nero col suo morso riuscirebbe a espellere.
«Vedi di non essere irrispettosa, piccola Fattona. M'importa d'averti sulla coscienza in caso dovessi combinare qualche fesseria e considerando che hai un controllo di merda e un'inclinazione a vari disturbi psichiatrici, be', non mi va di sfidare la sorte» mi spiega Leonardo come se parlasse a una ritardata.
«Fa' come ti pare» ribatto acida mentre apro la Yaris.
Tuttavia, dopo aver girato la chiave, Leonardo apre lo sportello del passeggero e sale a bordo.
Mi metto alla guida del veicolo, chiudendo la portiera con forza.
«Mi spiace per il tuo regale posteriore, la mia auto non ha sedili in pelle con cuciture in oro» commento.
«Ecco un commento inutile, scontato e noioso» Leonardo alza gli occhi al cielo.
«Io faccio tutti i commenti inutili, scontati e noiosi che mi pare. È la mia vita, se voglio essere una persona scontata non è tuo problema» sbuffo con capriccio, di nuovo.
Metto in moto la macchina, una volta per tutte.
È meglio così.
«Dove andiamo?» mi domanda.
«Alla Galleria degli Uffizi. A vedere ancora una volta la Venere di Botticelli» rispondo sicura, senza nemmeno pensarci.
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