2. La nascita di Ares
"Ogni minuto che passa è un'occasione per rivoluzionare tutto completamente."
Vanilla Sky (2001)
Ci sono delle volte, non troppe perché altrimenti diverrebbe una cosa ripetitiva e carente di diletto – soprattutto perché imbroglierei spudoratamente sempre –, in cui mi piacerebbe oltre ogni dire disporre di quella abilità che sfoggia con noncuranza Sherlock Holmes. Quello interpretato da Robert Downey Jr. nel film del 2009.
La rifulgente abilità del prevedere le mosse del proprio avversario – immaginarle, imprimerle come marchio rovente nella mente – per poi neutralizzarle con inattaccabile ingegnosità e accortezza, e soprattutto a tempo debito. Cavolo, sarebbe davvero fico e mi sarebbe davvero, davvero utile in questa circostanza.
Primo, distrarre il bersaglio... in parole povere, distrarre il professor Lunanuova; poi bloccare tentativo di farmi mettere un richiamo perché arrivata dopo il suono della campanella, nonostante fossi dal preside e nonostante fossi giustificabile senza se e senza ma.
Opporre un diretto alla mano che impugna inesorabilmente la penna contro la carta del registro scolastico. Immacolato foglio bianco che implora di essere macchiato di una condanna.
Scombussolare. Inebetito sferrerà una ramanzina combinata a una sgridata micidiale.
Sfoderare lo sguardo di chi si sente innocente e superiore di fronte al nemico.
Bloccare il tentativo di farmi chiedere un argomento in più all'interrogazione.
Indebolire la psiche. Ora indifeso.
Rompere del tutto la sua autorità mettendo in mezzo la questione "fumo nei bagni" discussa con il preside in persona.
Traumatizzare quel poco che rimane della sua empatia verso gli studenti.
Dislocare la sua disciplina troppo ferrea il più lontano possibile. Colpo di tacco alla sua moralità.
In sintesi: un professore arrabbiato, poi deluso, poi furioso di nuovo, poi manipolato, poi distrutto emotivamente, poi confuso e infine eluso in definitiva.
Guarigione fisica: una settimana, contando il diretto verso la sua mano.
Piena guarigione psicologica: un mese. Forse due.
Minaccia di prendere un richiamo e di essere bombardata di domande a sorpresa: neutralizzata.
Ecco, sarebbe un gioco da ragazzi se disponessi di quell'abilità a fior di pelle, incastrata fra le dita e pronta a obbedire al minimo cenno. Come ho detto, non la vorrei sempre, vorrei soltanto potermene servire nei casi di estrema necessità, e un'interrogazione di storia dell'arte è al cento per cento un caso di estrema necessità.
Mi accontenterei di avere anche un solo briciolo dell'abilità del professor Xavier, di leggere e controllare la mente.
Mamma mia, com'è priva di fantasia questa realtà... Le sta assai a cuore provocare complicazioni agli esseri umani senza nemmeno donare loro il beneficio di una qualche piccola scappatoia. Potessi avere una via di fuga, adesso, credo che probabilmente sceglierei per il capitombolare giù nelle oscurità della tana del Bianconiglio, rivestita di pizzi e merletti, con tanto di scarpette lucide e con il tacchetto.
Ma il mondo reale è di tutt'altro avviso, il mondo reale mi trattiene in catene quaggiù, allacciata al Caravaggio e a tutto ciò che gli orbita intorno.
Appena giunte alla sommità del maestoso scalone, dinanzi a noi vi è un esteso muro costellato di volantini, manifesti di feste, avvisi scolastici e pubblicità varie – anche di stronzate che puntualmente vi appendiamo noi studenti – mentre ai nostri lati, sia a destra che a sinistra, vi sono altre due rampe di scale, però di dimensioni più ristrette di quella appena percorsa.
Il pavimento, meravigliosamente screziato d'una tinta nera su sfondo bianco, è liscio, notevolmente levigato e molto avvezzo a procurare bei ruzzoloni per chi fugge nei corridoi e nelle scale. È una gioia per gli occhi sapere che quando abbassi lo sguardo per qualsiasi motivo — che sia sofferenza, immane dolore, che sia felicità, vasto tripudio, — ti ritrovi una gradevolezza simile ad abbracciare le tue scarpe, premute contro di esso.
I corrimano ne seguono lo stile elegante, il marmo plumbeo ne compone la loro essenza, quel marmo lavorato e dalle fattezze diafane, fredde, che richiamano gli antichi musei, anch'essi venati di segmenti spezzate e di sfumature scure. Dà quella vibrante percezione di sfiorare ogni volta, con la punta dei polpastrelli, intere tempeste infinite e firmamenti caliginosi.
Innumerevoli sono i momenti in cui mi fermo qualche secondo a rimirarli con iridi ardenti di venerazione, mentre sono altrettanti innumerevoli i momenti in cui mi impediscono di cadere per colpa di disattenzioni, come il semplice inciampare in un gradino. Infatti non esito nemmeno d'un secondo ad aggrapparmi con quasi tutto il braccio — quasi in maniera disperata — nel contempo che percorro la gradinata a destra.
Sono innumerevoli anche le occasioni in cui vi si fanno pomiciate epiche sopra queste balaustre: all'orario d'ingresso, durante la ricreazione, all'uscita, persino durante le ore di lezione.
Quest'ultime sono state, son ancora, spettatrici silenziose di innumerevoli amori appena sbocciati — quelli silenti, che passeggiano cheti fra le persone, senza far rumore, quelli che forse celano una brillantezza rara e variopinta — e di anche quelli appassiti — quelli nocivi, dapprima travolgenti e impetuosi, incontrollabili, che si consumano velocemente e lasciano lividi senza stelle —, sia con più solerzia, sia con più apatia.
Persino io stessa ho donato qualche bacio al cospetto di quella ringhiera così gelida tanto bella.
E, sinceramente, preferirei lasciarmeli alle spalle. Non che voglia dimenticare, ma ciò che è stato è stato, quello che fu lo lascio avviticchiato lì dov'è, spettri passati e spine appassite, ad avvizzire sotto tenebre di crepuscolo che mai conoscerà chiarori.
Poi, ormai, è tradizione che quelli di quinto non compiano più siffatti riti. Ormai è il turno dei nuovi studenti.
Noi di quinto abbiamo cose più importanti a cui pensare al posto delle pomiciate adolescenziali, dobbiamo pensare alla maturità, agli esami, al cosa vogliamo fare della nostra vita dopo aver concluso il liceo, sempre se non si è stati bocciati.
Oh, andiamo! Ma chi voglio prendere in giro con questa manfrina? Porca puttana, a sentirmi sembro proprio una di quelle stecche di legno del Classico! Tutta presa dallo studio e dagli esami di quinto, dal voto che volente o nolente scriveranno accanto al mio nome.
"Ammettilo, Matilde, ammetti che stai dicendo tutto questo solo per autoconvincerti che la tua interrogazione con Lunanuova andrà bene. Volevi farla alla dolce psiche ma, ebbene, non ci riuscirai mai! Povera stolta, ti conosce ancor meglio di tua madre, quando lo vorrai capire?".
«Mats» espira senza un briciolo di fiato Marta, la voce ridotta in un sussurro, «la campanella è appena suonata... gli studenti ancora non sono nemmeno andati tutti in classe. E Lunanuova potrebbe non essere ancora arrivato», mi fa notare i nostri coetanei che, a differenza mia e sua, camminano con fare pacato, quasi pigro, verso le rispettive aule.
Zombie con la caffeina e la voglia di suicidio iniettati nelle vene.
«Normalmente non me importerebbe un accidente, lo sai» replico senza moderare nemmeno un po' la velocità. Ho soltanto un obiettivo ben fissato nella mia mente, ora come ora: arrivare puntuale.
E siccome le otto e venti sono già scoccate e la campanella è già trillata non mi viene proprio spontaneo camminare come una persona normale, le gambe non sembrano nemmeno ricordare come si fa. Le sommità delle mie membra fremono di un turbamento d'angoscia alquanto malevolo, che preme dalle profondità; inoltre non ho problemi ad ammettere che sono molto inesperta nel gestirlo, è un qualcosa che va oltre la mia portata — da sempre, un titano di burrasca che vuole fronteggiare uno stelo di more. Io.
Questi – l'opprimente senso di angoscia – è anche più tenace e mordente del solito dato lo sgradevole incontro con Leonardo avvenuto pochi minuti fa.
Mi ha perfino toccata. Leonardo mi ha toccata con una mano — pelle contro la mia. Mi viene da vomitare. Vorrei correre in bagno, cacciarmi le dita in gola e rigettare tutto il veleno di cui mi ha infettata con la sua vicinanza, con la sua voce e la sua impronta.
Le orme delle sue dita me le sento bruciare attraverso l'effigie del mio braccio, oltre la stoffa dei vestiti, oltre il mio spirito.
Mi sento intossicata e non esiste antidoto.
Comunque, nonostante abbia ripetuto in diverse circostanze che non condivido affatto tale epiteto, c'è un perché se mi hanno soprannominata dea Atena. Ed è perché che non mi do mai per vinta. Perché riesco sempre a essere determinata in quel che faccio, in quello che voglio e quello che devo fare. Riesco sempre a farmi forza, in una maniera o nell'altra.
Io vado sempre fino in fondo, non faccio mai un passo indietro.
Quindi no, non andrò in bagno, non mi ficcherò le dita in gola, non vomiterò e non lascerò via libera alla paura, non mi lascerò soggiogare. Non la darò vinta a una fottuta interrogazione di storia dell'arte, non la darò vinta al professor Lunanuova, né tanto meno a quel bamboccio di Leonardo Aspromonte.
Atena, oltre a essere la dea della sapienza e delle arti, è una dea guerriera e armata; per una volta voglio renderle giustizia, voglio rendere onore al nome che mi hanno affibbiato. Mai ho tentato di recarle vergogna o disonore, ad ogni modo.
Spero solo di non offenderla se pondero tali pensieri... dopotutto, non faccio altro che dire che non sono come lei. Se fossi realmente come lei a quest'ora ero il presidente, donna, degli Stati Uniti; mentre ancora sono una normale e qualunque studentessa al quinto anno di liceo.
Quale dea Atena, quale Olimpo... mi attende unicamente il mio solito quinto D e il mio solito banco stra-scarabocchiato di disegni, di adesivi e di scritte, e con il legno scalfito posto in seconda fila verso destra, attaccato al muro.
La nostra maratona pazza e scellerata, iniziata dalla presidenza di Gandolfo, pare abbia finalmente fine non appena sfioro con il palmo della mano l'uscio della classe ancora ben aperto. A dir la verità mi ci appoggio letteralmente per riprendere fiato e per evitare di rovinare a terra. Marta mi imita con la differenza che addossa tutto il proprio peso sulla mia spalla, mi scambia come una statua dall'aspetto solido e forte.
Decido di non farci troppo caso dal momento che l'artefice di questa corsa fuori programma sono effettivamente io. Colpa perlopiù di riflessioni non troppo amabili.
«Visto? Che ti avevo detto? Il prof. ancora non è arrivato» bofonchia a mezza voce Marta, facendo capolino dalla mia spalla per dare un'occhiata veloce alla cattedra, le dita arpionate prive di grazia. Cattedra chiaramente vuota, esente di quell'infausta minaccia.
«Siamo state fortunate» convengo io mentre deglutisco rumorosamente.
Mi accorgo di avere le pareti della gola aride, quasi ustionate — o forse me lo sto solamente immaginando. Devo bere un goccio d'acqua altrimenti come diamine parlo all'interrogazione? Non voglio fare la figura della cornacchia proprio oggi!
«Be'? Che vi è preso stamattina? Vi ho visto correre così veloci che nemmeno Speedy Gonzales. Ho persino gridato i vostri nomi ma il risultato è stato piuttosto scarso. Anzi, deludente» arriva una voce familiare dietro me e Marta assieme a un braccio che va a circondare sia le mie spalle che quelle della mia amica.
Un pesante odore di fumo ci avvolge in un batter d'occhio, segno che la persona in questione è appena tornata dalla fumata fuori dalle scale anti-incendio.
Rimango un po' colpita quando non avverto accenni di odore di erba, visto che uno come Diego Falco è capace di farsi una canna al mattino anche mentre sta bevendo una tazza di latte. Quasi che la potrebbe intingere a mo' di biscotto.
«Non ti abbiamo sentito per niente, Diego» replico voltandomi con il capo verso di lui e verso lo spigolo della sua mascella a pochi centimetri dal mio volto, poca distanza e mi sfiora.
«Mats è interrogata stamattina e aveva paura che Lunanuova fosse già arrivato, ergo aveva timore di essere in ritardo e di beccarsi una strigliata» gli spiega con un sorriso piuttosto bastardo Marta.
«Capisco... be', stranamente ancora quello stronzetto non è arrivato. Magari è imbottigliato nel traffico o magari gli si è bucata la ruota della macchina ed è ora al telefono incazzato con il proprietario di un carro attrezzi. Lo spero davvero» sogghigna maleficamente Diego, per niente preoccupato di manifestare il suo odio verso il bel professore.
«Già. Magari. Almeno salto questa interrogazione di merda» borbotto premendo i polpastrelli della dita contro le tempie con il solo scopo di voler bucare la pelle e di perdere in definitiva quel poco senno che mi è rimasto.
Appena termino di pronunciare la frase Diego abbandona la presa da me e Marta, sfilandola come a voler accentuare un certo nervosismo, per poi posizionarsi direttamente davanti, in bella vista in tutta la sua statura.
Un folto rovo di dreadlocks rossicci, aggrovigliati in un caos sublime e trattenuti da un sottile e semplice elastico, spiccano immediatamente sotto i miei occhi, di un carminio brillante, che gli decorano l'ovale di quel volto così latteo — gli zigomi che ricordano i batuffoli candidi dei fiori di cotone.
Impossibile non notare il suo piercing bridge che spunta proprio sopra il setto nasale, un contrasto incantevole con la sua pelle pallida e quelle iridi tinte del colore della nebbia corteggiata dalla notte, brandelli di cenere attecchiti su di esse.
Perché Diego richiama a sé il fuoco vibrante, capello dopo capello, e la bruma, attraverso l'unicità di quel grigio.
Come anche è impossibile non notare il dilatatore di due centimetri sul lobo sinistro.
Diego Falco pare incarnare il cliché vivente dello studente che frequenta il liceo Artistico, eppure dall'anno scorso ha smesso di vestirsi con i jeans larghi e le scarpe con almeno due numeri più grandi del suo piede. Ha capito che il liceo che frequenti non determina il tipo di persona che devi essere; infatti stamani ha addosso un semplice paio di jeans e una camicia di pile a scacchi rossi e neri.
Per quanto riguarda i dreadlocks e i vari piercing ha spiegato che ormai li aveva fatti e che ormai gli piacevano davvero, tanto che non se li è più tolti.
Dal momento che il liceo che ha scelto gli piace sul serio, studia abbastanza da prendere effettivamente buoni voti, anche più alti dei miei. Ma diciamo le cose come stanno: Diego è un vero secchione.
Il fattore canne praticamente non è nemmeno da prendere in considerazione visto che oggigiorno se le fa persino il mio cane.
Lo reputo, per l'appunto, un mio grande amico. Andiamo immensamente d'accordo ed è una vittoria di questi tempi, e considerando che purtroppo ho una soglia di sopportabilità delle persone piuttosto bassa, è un vero miracolo oltre che una vittoria. Ma sto cercando di migliorare, nonostante tutto.
Diego, una volta che si è messo ben eretto e composto di fronte ai miei occhi e a quelli di DarthMart, alza le braccia precisamente all'altezza del viso con fare da melodramma teatrale, quasi tragico, ricoprendo le gote con le sue dita tornite. Inarca un sopracciglio arricciando al contempo le labbra, una smorfia così ironica e sarcastica che devo sforzarmi di non mettermi a ridere.
«Cosa sentono le mie orecchie?» celia assumendo una vocina stridula e fintamente stupita, con la mano che ora si avvicina all'orecchio, «Matilde Castellani che teme un'interrogazione? Che si sente stressata per un'interrogazione? Che se la fa sotto per un'interrogazione?».
Sto quasi per sbuffare e replicare, quando un quarto individuo decide di mettersi in mezzo.
«Chi è che se la fa sotto per un'interrogazione?», per l'appunto spunta dall'interno della classe Marco Esposito, un'altra persona con cui vado particolarmente d'accordo e che è quantomeno compatibile con il mio carattere. Sì, insomma, un altro grande amico, un altro miracolo.
«La dea Atena» m'indica Diego sogghignando sotto i baffi.
«Falla finita, odio quel nome e lo sai!» ribatto con voce cavernosa assottigliando la fessura degli occhi.
«Non potrei mai, è troppo esilarante» asserisce egli dandomi un colpetto giocoso sulla parte superiore del braccio.
«Te la fai sotto per un'interrogazione?» mi domanda Marco inarcando scettico un sopracciglio, ficcandosi le mani nelle tasche della sua grande felpa di lana, come se ancora non avesse davvero realizzato la cosa.
«Dài ancora ascolto alle stronzate che spara Diego? Non è che me la faccio sotto, ho solo paura di fare scena muta, della cogliona in automatico e sapete quanto ci tenga alla materia della Pancrazio! Non mi va di sputtanare la bella media che mi sono portata dietro dal primo anno» spiego issando una corazza di ossa e carne grazie al semplice incrociare le braccia al petto, roteando le iridi in un impeccabile cerchio.
«Non più materia della Pancrazio ma dell'avvenente e giovincello professore» fa l'occhiolino Diego, precisando purtroppo. Storia dell'arte ora è territorio di Emilio Lunanuova, non più di Alba Pancrazio...
«Ti sei dimenticato dell'aggettivo bastardo» sottolineo battendo la suola della scarpa contro il pavimento, capriccio di bambina, «addirittura ti cronometra quando cominci a stare in silenzio. Roba da matti».
«Hai studiato?» al che mi chiede Marco, a bruciapelo. Lui è uno che poco ci gira attorno alle parole.
«Sì» rispondo guardandolo come se fosse ovvia una cosa del genere. Ovvio che ho studiato, sarei stata una testa di gallina se non avessi aperto libro, tanto vale darsi la zappa sui piedi da soli.
«Bene, allora tutto risolto. Si chiama semplicemente ansia da prestazione, quindi puoi stare tranquilla. Svanirà non appena il professore ti farà la consueta prima domanda, poi partirai in quarta» riassume Marco facendo spallucce, nella voce cucita una traccia di ironia, e gli angoli delle bocca piegati verso l'alto, in un blando sorriso.
«Prenderò tre perché farò scena muta. E chi fa scena muta per più di un minuto se lo becca a prescindere» mugugno serrando le palpebre al sol pensiero di quel nefasto avvenimento, arcuando brutalmente le sopracciglia non sapendo dire di no a quell'impulso urgente.
«Nessuno prende tre se ha studiato per un'interrogazione programmata» conferma lui sicuro di sé, intenzionato a non lasciarmi l'ultima parola. Ed effettivamente avrebbe pure ragione.
«Io ho preso tre» interviene Marta da perfetta anti-tesi, piegando percettibilmente il capo e increspando la cornice della fronte suggerendo quasi una provocazione.
«Avevi studiato, DarthMart?» domanda lui con gentilezza e la sua calma sorprendente, che ti lascia costantemente, in un modo o nell'altro, spiazzato e senza parole.
«Uhm... no, sai... era un'interrogazione a sorpresa. Mi ha colta piuttosto impreparata» puntualizza l'altra con acuto sarcasmo e azzardando a esibire una smorfia di beffa.
«Ebbene ti sei risposta da sola» conclude Marco allargando le braccia e dedicando a Marta un inchino plateale, un bel sinonimo di presa in giro.
«Ehi! Non fare tanto il Dalai Lama della situazione, hai capito?» borbotta Marta, fingendo di offendersi mentre va a scompigliare la rigogliosa e riccia chioma bruna di Marco, alzandosi in punta di piedi senza perdere l'equilibrio.
«Faccio il Dalai Lama della situazione quanto mi pare» controbatte lui cercando di togliersela di dosso, con risata fanciullina, bloccandole come meglio può i suoi tentativi di attentare ai propri capelli.
«Parla proprio colui che è stato segato al primo anno! Quello che invece di studiare se ne stava sempre a spasso per i corridoi, a cazzeggiare, e fuori a fumare» sbraita Marta ormai finita con la testa incastrata nel braccio dell'amico, infatti la sua voce si sente ovattata.
«Già, a proposito di fumare, c'è una cosa che devo dirvi. Anzi, che devo dire a tutta la classe» asserisco incupendomi, di colpo Marta mi fa accendere la lampadina delle ricordanze, mi fa spalancare gli occhi come se fossi preda di una visione e mi fa dimenticare di storia dell'arte.
«Sei incinta e vuoi fare l'annuncio ufficiale?» azzarda Diego con uno sguardo malizioso.
«Confesso che sarebbe stato largamente meglio» obietto lanciandogli un'occhiataccia.
«Okay, allora è una cosa seria» appura Diego diventato di colpo pensieroso, perdendo alla velocità della luce il suo solito sorriso scherzoso e la sua innata spigliatezza. S'irrigidisce letteralmente quando legge con ricercata accuratezza l'espressione del mio volto.
«Si tratta di Aspromonte» do conferma a ciò che stava pensando.
A differenza di Marco, che è solito a essere un ragazzo piuttosto indifferente e noncurante verso gli studenti del Classico – di conseguenza anche verso Leonardo –, Diego invece si trasforma in un Cerbero persino quando li sente nominare.
Per lui, quelli del Classico, sono come una grandissima e sventolante coperta rosso scarlatto che volteggia dinanzi i suoi occhi. E difatti è bastato soltanto nominare il cognome del maggiore esponente per fargli cambiare repentinamente umore. Soprattutto la voglia di scherzare.
«Ci ha pugnalato di nuovo alle spalle?» sibila Diego con espressione piatta senza muovere un muscolo. La linea delle labbra ben tesa, nessuna emozione.
«Quasi, lo stava per fare. Ricordi le lamentele senza fine che nemmeno i Gironi più reconditi dell'Inferno delle classi A, B e C riguardo al fumo nei bagni del loro piano? Ecco, Leonardo è passato dalle parole ai fatti. È andato dal preside stamattina, io e Marta lo sapevamo perché è venuta a farci una soffiata una ragazza del terzo anno, quindi siamo andate da Gandolfo pure noi due e gli abbiamo impedito di... farci pugnalare. Anche se solo per ora, lui non ha intenzione di gettare facilmente la spugna. Ritornerà alla carica, lo sai» gli racconto brevemente del sottile inconveniente avvenuto nemmeno qualche minuto fa, consapevole del fatto che anche Marco e Marta mi stanno ad ascoltare.
«Non prima di aver spaccato la sua angelica faccia da cazzo» ringhia Diego con tanto di luce furiosa brillare al centro delle sue iridi — lì, proprio al centro, sopra l'abisso che altro non è che il nero spillo della pupilla —, la mascella così serrata che sembra volersi spezzare da un momento all'altro.
«E a chi la vuoi spaccare, di grazia?», una voce esterna interrompe il nostro dibattito, una voce inesorabile e fredda, grave, una voce che non può provenire dalle corde vocali di uno studente, una voce che per certo non è dalla nostra parte.
Io, DarthMart e Marco siamo costretti a voltarci, ma Diego viene perfettamente a conoscenza del responsabile di quell'interruzione per niente premeditata. In un battito di ciglia mi viene spontaneo sbarrare gli occhi con lo stupore schizzato alle stelle, e credo che pure Marta abbia avuto la stessa, identica reazione.
Diego è rimasto impassibile, con il contorno delle labbra talmente teso che pare abbia succhiato il succo del limone addentandolo direttamente, gli occhi trasformati in due corolle di grigia tormenta. Quanto a Marco non riesco a intravederlo, non riesco a decifrare il suo viso.
Tuttavia non ha importanza di ciò che possa pensare Marco in un momento del genere; il professor Emilio Lunanuova è in piedi, ben composto sulle sue oblunghe gambe di marmo, davanti a noi, imponente con il suo metro e novanta di altezza e rivestito d'un fosco cappotto lungo sino alle ginocchia.
I capelli che gli carezzano le spalle con garbo lene sono scompigliati e adornati di gemme d'acqua, dettaglio che suggerisce che fuori ha appena iniziato a piovere. Le iridi — lapislazzuli encomiabile — sono più azzurre che mai, la bordura nera accentuata, che sfavilla quasi fosse felice di essere congiunta a quel colore così unico. Ma per quanto siano così meravigliose da ammirare, riescono a farmi rabbrividire per come sono distaccate e gelide in questo istante.
«A un mio caro amico, professore» risponde Diego alla domanda di Lunanuova affatto intimorito, anzi, con una evidente aria di sfida.
Al sentir tale replica da parte d'un suo allievo il professore sorride, lievemente, ma comunque sorride.
«In quel caso sarò costretto a prendere provvedimenti. Rissa dentro l'ambiente scolastico, non sarebbe producente per lei» emette con una nota quasi divertita sostenendo senza complicazione alcuna lo sguardo minaccioso di Diego.
Mare contro tempesta — grigio contro azzurro.
«Chi ha detto che voglio fare una rissa dentro l'ambiente scolastico?» controbatte ancora una volta l'altro, imperterrito, sottolineando con evidenza la parola "rissa".
«Diego, nessuno l'ha detto. Avanti, entriamo e andiamo a sederci» tenta di riprendere il controllo degli eventi Marco, dando una pacca sulla spalla al proprio amico.
«Ecco, bravi. Entrate che è suonata da un bel po'. Andate a sedervi e tenetevi pronti per l'appello» conviene il professore intimando con il braccio di andarci a prendere i medesimi posti.
«La campanella è suonata, certo... ma lei è in ritardo, professore» Diego ignora l'intimazione di quest'ultimo, sogghignando beffardo.
«Mai sentito parlare del traffico, signor Falco? Abitiamo a Firenze, ci terrei a ricordarle, non in qualche borgo sperduto» contesta l'altro per le rime senza smettere di sorridere. È come se ci avesse preso gusto a battibeccare con i propri allievi, e più quest'ultimi sono ostinati, maggiore è il divertimento per lui.
Magari se Diego continua a dargli man forte si dimentica della mia interrogazione mortale. Forza Diego, continua a punzecchiarlo! Tifo per te, amico mio!
«Si sbrighi a sistemare le sue cose. Non vedo l'ora di sentire la sua prova orale, signorina Castellani, grazie» si rivolge alla diretta interessata nemmeno mi avesse letto nel pensiero.
«...al cazzo» sussurra Diego fra i denti, con astio e maggiore presa in giro — del tutto rivolto a quel "grazie" fuori luogo.
Una scarica elettrica mi percorre immediatamente la spina dorsale ed è come se avessi un totale black-out mentale e fisico. Non mi sorprenderei se d'un tratto iniziassi a vedere tutto buio.
«C-certo, sì» balbetto presa contropiede e affranta dalla piega degli avvenimenti.
E quindi, per amore o per forza, ci accingiamo tutti e quattro a entrare, con Lunanuova alle nostre spalle. La classe è al completo, non c'è nessun assente quest'oggi. Mi limito a filare dritta al mio banco attaccato al muro, affiancato a quello di Marta.
Marco e Diego occupano i due banchi in ultima fila, proprio dietro i nostri, mentre Veronica – la tipica amica da banchi di scuola – è già seduta al suo posto collocato nella prima fila della colonna centrale. Mi fa un saluto veloce quando le passo vicino, se non altro.
Non sono riuscita a parlare con lei stamattina e vorrei tanto dirle di Leonardo. Purtroppo credo che dovrò aspettare la ricreazione... per informare tutto il quinto D al completo. È giusto che tutti sappiano, che siano al corrente. L'unione fa la forza dopotutto.
Emilio Lunanuova va a occupare la sedia dietro la cattedra e, senza nemmeno sfilarsi il cappotto di dosso, apre con fare implacabile il registro di classe, inforcando la sua fedele penna nera – alter ego di quella rossa – comincia a stilare la lista dei presenti del 27 ottobre.
«Balestrieri Dorotea», è la prima ragazza che chiama essendo la prima dell'elenco.
«Balestrieri c'è» arriva prontamente la risposta di Dora, la voce impiastricciata dalla gomma che sta attualmente masticando.
«Belvedere Gaia», seconda ragazza dell'elenco.
«C'è pure Belvedere».
«Brunori Marta» continua egli arrivando al turno della mia compagna di banco.
«Prof., ma se mi ha vista nemmeno venti secondi fa...» replica Marta alquanto stranita e incredula mentre estrae astuccio e libro dallo zaino.
«Ha dell'importante?» obietta il prof. senza nemmeno alzare lo sguardo dal foglio, la penna che continua a scrivere per i fatti propri, le dita strette intorno all'impugnatura.
Ovviamente Marta sbuffa, scoraggiata, «Presente» sospira.
«Castellani Matilda» pronuncia il mio nome, e naturalmente nella maniera sbagliata.
«È Matilde, comunque ci sono» lo correggo imitando lo sbuffare di Marta, «...anche se mi ha vista nemmeno venticinque secondi fa» aggiungo poi a bassa voce.
Dannazione, è così complicato ricordare un nome come Matilde? Talmente semplice, privo di "r", la lingua che compie letteralmente movimenti brevi. Che poi nel registro sono più sicura che vi è scritto correttamente... Dico, non è nemmeno difficile da pronunciare! No, eppure lo sbaglia comunque. Sissignore, deve sbagliarlo! Lo fa apposta sicuramente, potrei metterci la mano sul fuoco.
Mentre l'appello si accinge a continuare, cerco di fare mente locale e di ricordare come cazzo iniziava il mio cazzo di discorso.
È il colmo che me lo sia dimenticato. Forza, devo scavare nei meandri della mia mente, devo scavare, scavare, scavare a fondo. Esplorare, fare attenzione, poiché è infido e infausto ciò che la mia mente cela, nascondendo segreti persino a me stessa.
L'ho ripetuto anche ieri sera prima di addormentarmi, l'ho ripetuto anche davanti allo specchio del bagno che quasi sembrava stessi evocando un demone. Faceva paura quanto un Ave Maria detto al contrario.
Mia madre non deve avermi udita, altrimenti l'avrei fatta svegliare con un bell'attacco di cuore.
Oh sì, ecco. Forse ci sono. Eccolo che emerge. Eccolo che fa capolino da quello stagno di infiniti e strambi pensieri che covo e che nemmeno alcuni so che esistono.
"L'Espressionismo. Con il termine Espressionismo si può definire la propensione d'un artista a esaltare il lato emotivo della realtà che ci circonda rispetto a quello oggettivamente percepibile, portandolo a uno stato di esasperazione".
Il senso di liberazione, il raggiungimento del Nirvana, il cielo che tocchi con un dito, la felicità e la gioia che ti consumano la pelle, i muscoli, le ossa, la percezione di leggerezza dell'essere, la pace interiore, la serenità dell'anima, la scarica di adrenalina, i piedi che si sollevano da terra... ma dove cazzo siete?
Cioè, non capisco, non capisco davvero. Ho fatto un'interrogazione, secondo me, perfetta. Secondo Lunanuova abbastanza discreta, la quale mi ha fruttato un otto non indifferente. La Pancrazio mi avrebbe tranquillamente messo un nove, però sorvoliamo su tale dettaglio.
Andiamo, tutte quelle famose sensazioni che sfociano dopo aver superato un grande ostacolo e una grande paura dove sono andate a cacciarsi? Perché non sento nulla di tutto ciò? Apatia totale? Potrei piantarmi un coltello su una coscia e sbufferei soltanto di inedia.
Dovrei essere al settimo cielo, dovrei fumarmi due sigarette per mano dal momento che dovrebbe subentrare il fattore "distrazione" e "leggerezza mentale". Dovrei addirittura urlare, porca puttana! E invece sono tesa quanto prima, corda di violino sotto mani inesperte.
No... stavolta non è per via di un'altra interrogazione o per via di quel nove mancato. Bisogna dire che questo senso di tensione e di malessere interiore è iniziato appena è suonata la campanella dell'intervallo. Nel momento in cui avrei dovuto radunare l'intero quinto D nel cortile esterno della scuola per mettere le carte in tavola e ragguagliare loro sulle mosse di quelli del Classico.
La tensione è dettata dalla consapevolezza che mi sarei resa quasi la caposquadra di questa ennesima faida. Perché con Leonardo e gli altri del suo lignaggio non c'è mai, mai, un minuto di pace.
Nemmeno la più piccola ombra. Non è contemplato tale vocabolo — non per noi dell'Artistico almeno.
E siccome giovedì di questa settimana ci sarebbero state le elezioni per votare i Rappresentanti d'Istituto e i Rappresentanti della Consulta non possiamo proprio permetterci di abbassare la guardia, non quando Leonardo è tra i candidati.
Ovvio, chiaro che sì, il nome di Leonardo Aspromonte è tra i primi della lista, in bella vista, strano che non l'abbiano decorato con dell'oro vero e dei diamanti scintillanti.
Il chiacchiericcio degli studenti che consumano le loro merende e le loro sigarette ci permettono di fare la nostra radunata nella più completa indifferenza. Nessuno bada al gruppo di quindici ragazzi, me compresa, ammucchiati sulle scale anti-incendio.
Abbiamo occupato i primi cinque gradini, io sono seduta sul quinto con Marta e Marco ai miei lati, Marta alla mia sinistra, Marco alla mia destra. Dopodiché tutti gli altri sono riuniti al nostro cospetto, Diego in prima fila assieme a Veronica. Qualcuno fuma, come la sottoscritta, come Diego, qualcuno sgranocchia dei crackers, come Sara Signorelli, qualcuno è proprio a braccia conserte e lo sguardo serio, come Yousef Karkaref.
«Com'è che ha detto, puoi ripetere?» richiede Yousef come se non avesse realmente capito, riducendo in due fessure gli occhi blu scuro — un tratto particolare e sublime contando le sue origine arabe.
«Voi, cani dell'Artistico, non meritate di condividere il tetto del Caravaggio con quelli come noi. Prima che tutto questo finisca è giusto che qualcuno vi rimetta al vostro posto», DarthMart esaudisce la sua richiesta, ripetendo le esatte parole che ha pronunciato Leonardo questa mattina a me in persona. Marta era insieme alla sottoscritta e ha sentito più che bene.
Tutti i miei amici sono rimasti schifati dall'alzata d'ingegno che ha avuto Leonardo, dell'accollare la colpa all'Artistico della puzza di fumo dentro i loro bagni del cazzo. Andare da Gandolfo poi. Ora il coltello invisibile ho voglia di estrarlo dalla mia coscia per piantarglielo dritto in un occhio.
«È un chiaro messaggio di guerra» ha asserito poco minuti fa — dopo che ho svuotato il sacco —Rainer Kernberger, un altro ripetente come Marco e membro del quinto D.
«Vuole l'artiglieria pesante il figlio di papino» invece ha detto Francesca Coppola. Ognuno di loro è rimasto schifato, tuttavia non sbalorditi. Come se c'era da aspettarselo da uno come Aspromonte.
«Ci ha chiamati cani?» enuncia Yousef esibendo un certo sorrisetto per niente felice, perlopiù deluso.
«Ti preoccupi se ci ha chiamato cani? Io darei più importanza al fatto che vorrebbe rimetterci al nostro posto!» esclama Diego dando un colpo a pugno chiuso al corrimano di freddo acciaio.
«E aggiungerei l'accusa proprio infondata. Nessuno dell'Artistico va a usare i bagni del piano di sotto, soltanto quando è nei dintorni della segreteria o dei distributori delle bevande, il che è davvero un evento raro. Di certo non ci andiamo felici, là dentro» sentenzia con fare saggio Veronica.
«È ovvio che sia infondata, è ovvio che siano loro stessi a intossicare i bagni del piano terra. L'ottanta per cento del Caravaggio fuma sigarette, forse anche il novanta per cento» scuoto il capo, aspirando appunto una boccata di fumo e dando prova concreta che anche io faccio parte di quell'ottanta/novanta per cento.
«Sentite, volete sapere la mia?» apre bocca Marco, con voce ferma e dura, «Secondo me sta cominciando a innalzare un piccolo polverone, vedete la situazione di stamani. Dopodiché, consapevole che giovedì verrà votato a Rappresentante d'Istituto, sferrerà il suo attacco decisivo. Troverà il modo di far ricadere la colpa su di noi. Di conseguenza, quale migliore punizione è da far scontare per chi commette indulgenze come questa?».
Marco tenta di farci ragionare, anzi, tenta di farci giungere al capo del ragionamento che dentro di sé ha già risolto da un pezzo. Guarda senza proferire parola ognuno dei compagni che ha di fronte, tentando di scovare il lampo d'illuminazione.
«È molto semplice, ci dovreste arrivare facilmente» insiste egli alzando percettibilmente il tono.
«Lezioni pomeridiane?» azzarda Francesca, corrugando la fronte.
«Nah, non siamo ragazzetti di terzo anno», Marco fa segno di no con la testa senza perdere tempo.
«Convocare i nostri genitori?» prova a dire Tommaso Cavallacci.
«Ehi! Mi tornate indietro addirittura al secondo anno?» sbotta Marco esasperato dal fatto che non riescano a ponderare una cosa tanto ovvia.
«La gita» dico io alzando il capo senza osservare nessuno in particolare. Ho ponderato, sono arrivata a capire l'ovvio.
Quale migliore punizione è da far scontare per chi commette indulgenze come questa? Soprattutto se sei all'ultimo anno?
È semplice. Ti fanno saltare l'ultima gita del liceo. Quella fuori Italia. Quella che ogni ragazzo dell'ultimo anno aspetta con trepidazione.
Mi porto il palmo della mano alla fronte quando comincio pian piano a rendermi conto della gravità di questa pazzesca situazione.
Se Leonardo convince Gandolfo che siamo noi dell'Artistico a fumare nei bagni del loro piano allora possiamo dire addio alla gita. Noi tutti, nessun escluso. I colpevoli in qualche modo devono pagare. E quando anche gli altri comprendono la pericolosità alcuni cominciano a imprecare, altri cominciano a emettere lamenti di morte.
«Ebbene, avete capito» conclude Marco, di certo non con aria felice.
«Che facciamo?» chiede Diego che forse è l'unico a non essersi scomposto, l'unico a essere rimasto irremovibile, «No, dico, vogliamo forse arrenderci e dargliela vinta così agli stronzi? E no eh!».
«Niente» enuncio quasi sussurrando, con un certo sforzo, «il preside ha detto che vuole delle prove, ovviamente, non prende tutto quello che dice Leonardo come oro che cola. E, sempre ovviamente, con Leonardo non si può mai dormire tranquilli, sarebbe capace di propinargli un'altra puttanata e non è detta che ci saremo io e Marta a fermarlo».
«Lo ripeto di nuovo, che facciamo?» insiste Diego, ringhiando come farebbe un vero cane rabbioso. Vorrei tanto che ci fosse Aspromonte ad assistere a un chiaro esempio di cane dell'Artistico. Ci sarebbe da ridere.
Diego mi guarda dritto negli occhi, le sue iridi grigie contro le mie castane. È come se tentasse di suggerirmi qualcosa lanciandomi quell'occhiata di traverso.
Mentre mi osserva in questa maniera così particolare, realizzo che Diego Falco ricorda quasi il dio Ares. Dio della guerra e della lotta, e della sete di sangue. E di colpo entro in linea diretta coi pensieri del ragazzo, ramificati forse da tempo là dentro.
Comprendo cosa realmente vuole fare. Quello che vuole farmi intendere col suo silenzio e con il suo cipiglio. Io lo sapevo, me lo sentivo. Me lo sentivo che sarei diventata una sorta di leader della causa, involontariamente.
«Diego...» pronuncio lentamente il suo nome, socchiudendo lentamente le palpebre e facendo un lungo e studiato sospiro.
«Forse Diego ha ragione» s'interpone Marco prendendomi la mano libera della sigaretta, con tocco delicato.
«Hai capito, eh?» faccio un sorriso malinconico.
«Ho capito che dobbiamo combattere anche noi, ad armi pari magari» proferisce egli con ironia velata, cercando di sdrammatizzare.
«Cosa avete capito?» vuole sapere Yousef, all'oscuro della decisione cui è balenata per la mente a Diego a quanto pare; sicché mi prendo la briga di illuminarlo.
Decido io di informare tutti di ciò che avremo intenzione di fare, seduta stante, perché non c'è tempo da perdere. E i miei amici li sento con me, me li sento vicini, pronti a combattere.
«Anche io» proclama Marco, «mi candido anche io».
«Ci candideremo e dopodiché, be'... cazzo, dopodiché staremo a vedere. Dopotutto verranno scelti quattro Rappresentanti dal Classico e quattro dall'Artistico, sarà una vera scommessa» annuisco con sicurezza, sentendomi un po' battagliera.
«Potrei candidarmi per la Consulta io» propone Marta facendo spallucce, «faccio dei discorsi degni di Enrico Mentana e credo proprio di avere un carisma niente male, anche se alle interrogazioni faccio effettivamente schifo... c'è dell'ironia incredibile, non credete?» si pavoneggia ella ravvivandosi teatralmente i capelli argentei.
«Grandioso!» esclama Diego fuori di sé dalla gioia improvvisa, talmente fuori di sé che le guance gli si tingono di un rosso vino, «Che stiamo aspettando? Tendiamo un'imboscata a Gandolfo e candidiamoci... diamine, questo quinto anno sarà davvero spumeggiante!».
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