19. Pensieri gentili
La figura di mia madre, seduta sopra la mia scrivania con tanto di gambe accavallate, mi osserva.
Ella è ancora vestita del pigiama, con su stampate una zucca e una carriola di legno, la corta chioma di capelli tutta in disordine, segno che non deve essere in piedi da molto.
Automaticamente, come metto a fuoco colei che ieri sera ha assistito a una Matilde abbastanza scadente, sobbalzo dallo stupore tirandomi su dal cuscino in uno scatto.
I miei capelli cascano tutti dinanzi al volto, andando a coprire persino la frangetta; le iridi un po' impastate per via del sonno, tuttavia, riescono a scorgere Adele attraverso le ciocche rosa.
La mamma ha il viso rilassato, a quanto ho modo di vedere, mi sorride calma senza mostrare la dentatura. Sembra quasi rassicurante. Ma poi mi ritorna alla mente che è rimasta lì fino adesso a osservarmi in silenzio, ed ecco che il "rassicurante" viene sostituito seduta stante da "inquietante".
Che cosa dovrei dire? Anzi, dovrei proprio dire qualcosa?
«A che ora sei tornata ieri sera?» mi precede lei con voce che non fa trapelare la minima arrabbiatura o nervosismo, anzi, tutt'altro.
Mi sto sentendo a mio agio. Si gratta la cute nel contempo che si mette in attesa di una risposta da parte mia.
«Prima delle undici e mezza, sicuramente non a mezzanotte. Non ho fatto l'alba» replico cercando di mantenere un tono sereno e sul filo dello scherzoso.
Ed effettivamente è vero, sono rincasata realmente prima delle undici e mezza, la mia memoria è perfettamente vigile.
Mi do una sistemata, poi, ai capelli, portandomeli dietro le orecchie, finalmente riacquistando una visuale come dio comanda.
«Cos'è successo con Marta di così urgente?» fa appello al mio "Marta mi ha scritto, è nei paraggi e ha bisogno di me per fare una cosa" di ieri sera.
Già... che cosa diavolo è successo con Marta di così urgente? Che miseriaccia le dico?
La verità è che non ho escogitato una seconda scusa da rifilarle, poi considerando la scia degli eventi l'unica cosa che mi viene naturale di fare è quella di arrossire. E di brutto.
«Ehm» mugugno abbassando lo sguardo sui miei animaletti, facendo finta di niente, «Marta aveva litigato con i suoi genitori», e veloce come un lampo mi ripiomba nei pensieri il viso di Leonardo terribilmente vicino al mio, il suo respiro che attecchiva sulla mia pelle, la sua bocca paragonata al biglietto da visita che si distribuisce prima di varcare la soglia dell'inferno, «aveva stra-bisogno della sua migliore amica» aggiungo alla fine, assumendo una tonalità decisamente stridula e acuta, quasi che mi viene da scoppiare in una ridarella senza fine.
Devo fare in modo di pensare a qualcos'altro! A qualcosa di triste, magari.
«Prima sono andata a gettare la spazzatura, con le scarpe ai piedi in caso tu te lo stessi chiedendo» fa riferimento ai suoi piedi fasciati solamente da un paio di calze di lana, «e ho incrociato per caso mademoiselle Rossini».
Al sol sentire il nome di quella piattola con l'appendice nasale lunga quanto l'Autostrada del Sole mi scattano in allerta mille sensori e vari meccanismo di difesa.
Rialzo gli occhi sul volto della mamma, dandole tutta la mia attenzione.
Quel "per caso" ha un'aria molto dubbia, molto discutibile.
Col cazzo che quella donna abbia incontrato casualmente mia madre visto e considerato l'orario.
Non ci avrà dormito la notte per aspettare Adele che andava a gettare l'immondizia passando davanti al suo uscio.
«Ma che coincidenza» dico a denti stretti cercando di farla passare come una sincera battuta amabile.
«Ebbene, ha seriamente constatato che mia figlia, la sera precedente, sia stata riaccompagnata a casa in una bella auto guidata da un ragazzo piuttosto splendido, a detta sua. Così è stata la sua definizione, "splendido"» finisce di spiegarmi grattandosi stavolta il mento con fare riflessivo.
Ma quella donna è costantemente a farsi gli affaracci degli altri? Ma non ci va a dormire quella strega?
Vuoi vedere che siccome è una strega allora non necessita di dormire, vuoi vedere che ha persino un calderone nel bel mezzo del suo salotto e le varie pozioni riposte sulle mensole dei mobili?!
Miseriaccia, adesso mi viene da arrossire ancora di più.
Sono costretta ad alzarmi dal letto, a uscire via dalle coperte altrimenti rischio davvero di esplodere in un incendio.
Sto sudando, cristo santo!
«È semplicemente un conoscente che mi ha gentilmente riaccompagnata» deglutisco mantenendo l'equilibrio per rimanere in piedi, esternando uno sbuffo di caldo, «prima me e poi Marta» aggiungo pensandoci meglio.
«Però, che occhio attento ha la nostra mademoiselle Rossini! Come faremmo mai senza di lei, mi domando!» esclamo beffarda, pesantemente sardonica, con tanto di occhiata tagliente verso mia madre.
Ma che bel risveglio del cazzo, di merda proprio. Mi era bastata la serata, sinceramente.
Ho sperato in un risveglio migliore. Ma che si fotta la signora speranza, che si fottano tutti.
«Quello lì non sarà mica quel famoso ragazzo del Classico che ti dà del filo da torcere?» insinua Adele insieme ad un sospiro ed un sopracciglio inarcato, «Il figlio di Furio Aspromonte, proprietario della proficua azienda Aspromonte Distillery, più un'altra cui è socio in affari, ovvero la Briglia D'oro, azienda che vende prodotti ed equipaggiamento per equitazione di qualità, della quale appunto il figlio è spesse volte testimonial?».
Di colpo mi ritrovo alquanto sorpresa; la mia cara e dolce mammina come fa a sapere tutte queste cose su suo padre?
Ora quella che inarca il sopracciglio sono io!
«Come sei bene informata» le faccio presente, incrociando le braccia al petto indagatoria.
«Sai com'è... sono un architetto e il mio lavoro prevede di restaurare, progettare, cose così insomma» risponde sarcastica Adele, «Furio Aspromonte è stato un cliente dello studio in cui opero, e poi, andiamo, l'intera Firenze sa bene chi sia quell'uomo. Potente, carismatico, benestante e a tratti dispotico. È come se menzionassi Giorgio Armani in quel di Milano oppure se nominassi Sergio Marchionne in una qualsiasi concessionaria automobilistica. Tutti sono a conoscenza dei loro nomi e della loro fama».
«Sì, ho afferrato il concetto, mamma!» esclamo sbuffando per il lungo sermone, «Comunque no, non era il figlio di Furio Aspromonte, non era Leonardo!» nego anche con fin troppa foga, «Mi spiace deluderti».
Comincio ad avvertire quella strana e ben familiare sensazione risalirmi dalle viscere dello stomaco, fino a raggiungere la mia mascella ben contratta.
Sfrego i denti gli uni con gli altri, una forte nota di rabbia mi fa risuonare tutti i muscoli del corpo.
«Adesso devo cambiarmi, sono in ritardo» proferisco autoritaria e per nulla serena, «e non prepararmi la colazione, mi è passata la fame».
«Vaffanculo!» grido sbottando come quell'esatta mattina in cui ero andata nel pallone per via dell'interrogazione di storia dell'arte con Lunanuova.
Grido nello stesso e identico modo, successivamente battendo la mano sul volante della Yaris.
Come il copione di quel lunedì che oramai mi appare lontano e a tratti sfocato.
Le uniche differenze sono l'assenza di mia madre sul sedile del passeggero che mi urla di frenare o di prestare attenzione al traffico, l'assenza della "P" di principiante incollata sul parabrezza posteriore e il motivo del perché io sia già incazzata con il mondo prima delle otto.
Stavolta il motivo non è dettato da un'incombente interrogazione con qualche professore stronzo, stavolta il motivo è ben peggiore secondo i miei standard, stavolta il motivo è quell'infido uccello del malaugurio anche meglio conosciuta come Serafina Rossini, in arte mademoiselle Rossini.
Quell'insulsa donna di sessanta anni, zitella cronica, iper-acida, critica verso tutto e tutti, esimia pettegola e squisita impicciona, non manca mai una volta di mettere zizzania fra le persone del palazzo, ama infilare il dito nella piaga, adora farti sentire a disagio, venera il culto della nobile arte dello sparlare alle spalle e riferire ciò che tecnicamente dovrebbe essere etichettato come un segreto.
E il bello è che non è la tipica persona "predico bene e razzolo male".
No! È definitivamente "predico male e razzolo peggio"!
In sessanta anni della sua inutile e patetica vita non si è mai, e dico mai, fatta i suddetti cazzi propri. Trovo indecente il fatto di vivere in una città grande come Firenze ed essere tenuta d'occhio come in un paesino di cinquemila abitanti. Se non pietoso.
Cioè, lei appena ha sentito che una macchina ha accostato vicino al marciapiede del palazzo non ha esitato un solo attimo ad affacciarsi alla finestra per ficcanasare.
Non ha mancato di constatare che si trattava proprio di Matilde, la figlia dell'architetto del quarto piano.
Oh, per tutti gli angeli del cielo, Matilde che si fa riaccompagnare a casa da un ragazzo in un giorno della settimana, quasi appena intorno alle undici di sera.
Oh, madre santissima di Maria, allora è di diritto mettere la sveglia prestissimo in modo da alzarsi insieme alla signora Adele e aspettarla a passetto mentre va a gettare la spazzatura.
Di diritto informarla degli spostamenti della sua cara e adorata figliuola. Un dovere!
«Vaffanculo al cubo!» ripeto urlando a squarciagola, ignorando le occhiatacce che mi avrebbero potuto riservare gli altri conducenti.
Me ne infischio anche dei pedoni che camminano accanto alla mia macchina, ferma dinanzi alla casa di Laira, in attesa che ella salga a bordo per andare a scuola.
Addirittura non mi va per niente di andarci, a scuola.
Ed è tutto un dire, io non sono mai stata una lamentona verso il mio dovere con lo studio, non mi sono mai svegliata controvoglia sapendo che avrei dovuto passare cinque ore dentro quelle mura nonostante il rapporto insidioso con l'altro indirizzo e nonostante i diverbi con i vari professori nel corso degli anni.
Mai.
È fatto, dunque, rarissimo questo.
Tutto per colpa di quella stronza dai capelli tinti di rosso e con un taglio corto e drastico sempre identico.
Di quella bastarda con un naso grande quanto Palazzo Vecchio.
Ecco, mi fa addirittura essere stronza e acida a mia volta, fa uscire uno dei tanti lati peggiori celati dentro di me, che con vergogna custodisco all'interno, che con infrequenza faccio uscire.
Tento la via della calma socchiudendo con raccoglimento le palpebre, prive di qualsivoglia trucco.
Ebbene sì, oltre la colazione persino la voglia di mettermi il mascara mi è passata.
Prendo un lungo respiro, inglobo l'ossigeno attraverso i polmoni e lo ributto indietro dopo qualche lungo secondo.
Ripeto lo stesso esercizio fino a che Laira non apre lo sportello del passeggero ed occupa il sedile, purtroppo mi vedo obbligata ad ammettere che ciò non ha minimamente funzionato.
La rabbia è sempre appollaiata lì, inesorabile e non ancora pronta ad andare via.
Lo dimostra la mia fronte, corrugata all'ennesima potenza nascosta pur tuttavia dalla frangetta, lo dimostrano le mie sopracciglia piegate all'interno, lo dimostrano le mie labbra serrate e contratte come se avessi addentato di buon gusto un limone, lo dimostrano le mie mani che con poca grazia tolgono il freno a mano, ingranano la prima marcia e sterzano bruscamente con il volante.
Non proferisco una parola verso Laira, neanche un saluto striminzito, purtroppo.
Comunque sia, ella comprende subito che c'è qualcosa che non va questa mattina.
Laira ha un intuito piuttosto acuto, quindi devo stare attentissima a come gestisco i movimenti, le parole e soprattutto gli occhi. Potrebbe esserci la probabilità che venga a sospettare qualcosa.
«Con chi ce l'hai?» mi domanda con un sorriso sghembo, e in questo caso è alle prese a masticare un chewin-gum anziché mordicchiare un lecca-lecca.
«Con chi non ha una vita interessante e per questo è concentrato su quella del prossimo» ringhio a denti stretti, prestando attenzione alle auto in coda davanti a me.
Da saggi è evitare di scatenare un incidente automobilistico e poi sarebbe da stolti farsi ritirare così la patente, nevvero?
Dopo la mia rapida e corta spiegazione, Laira rimane in silenzio seppur sporgendosi lievemente verso di me, assottigliando lo sguardo, assottigliando l'apertura degli occhi, affilandolo come non mai.
Mi sta osservando, mi sta studiando come se fossi una cavia da laboratorio.
Ovviamente m'innervosisco subito, m'innervosirei per qualsiasi piccolezza quest'oggi, a dire il vero...
Il problema è che sono perfettamente consapevole della mia asprezza non voluta, che si rifiuta di sottostare al mio scarso volere. È quasi una specie di tortura.
All'esterno ho tutto l'aspetto di una vera e propria stronza, all'interno sto soffrendo come un cane per il comportamento che sto mettendo in atto.
Soprattutto per chi non lo merita.
«Cos'hai da guardare?» sibilo scocciata, «Non è la prima volta che hai modo di vedermi».
Laira, nonostante i miei modi bruschi e poco amichevoli, si fa illuminare il volto di un ghigno bello largo. Gli occhi, da sottili che erano, le si allargano fino a diventare enormi quanto quelli delle Bratz.
Angosciante.
«Io vedo un bacio sulle tue labbra» afferma con una sicurezza disarmante, talmente disarmante che il piede mi sfugge via dal pedale della frizione mentre sto cambiando marcia e inevitabilmente la macchina si arresta.
Ciò che ho appena sentito è stato troppo da sopportare.
L'ho detto, questa peste d'una ragazzina ha un dannato intuito che farebbe invidia a un imprenditore o a un broker.
Velocemente e senza farmi prendere dal panico rigiro la chiave e rimetto in moto la Yaris, anche su il mio povero cuore un bel colpo se l'è preso!
Meno male che non mi sono beccata nessun colpo di clacson da parte di qualcuno di fretta, meno male, altrimenti sarebbe scoppiato il finimondo, sarei capace di scendere dal veicolo e di fare a botte.
«Ti sei fumata una canna per colazione?» le domando sdegnata.
Laira, dal canto suo, fa spallucce con nonchalance e nemmeno fa caso al mio errore da novellini.
«Ho ragione» sostiene con convinzione, «anche la mia amica Gioia ultimamente è sempre piena di baci, ma ancora non so di chi siano. Non me la prendo se per ora vuole che rimanga un segreto, rispetto la sua scelta».
Ma come diamine ha fatto a capire che c'è un bacio sulle mia labbra?!
È impossibile. Fuori dagli schemi. Mi domando se mademoiselle Rossini le abbia passato la sua stregoneria.
Sono basita.
«Di chi è?» chiede con espressione angelica, quasi che brilla d'una luce propria, addirittura mi sbatte ritmicamente le palpebre.
«Smettila, sembri un Furby» la riprendo con una nota di paura, ritraendomi di lato, «e comunque, non c'è nessun bacio, come ancora non c'è un colpevole della fotografia!» replico severa.
È vero, un colpevole ancora non c'è nonostante io abbia la certezza che ci sia Olivia dietro tutto questo, però mi è di vitale importanza cambiare discorso! Questione di vita o di morte!
«Entro domani avrai una risposta» afferma severa quanto me Laira.
«Sarà meglio per te» le lancio una minaccia assai velata, visto che mai e poi mai avrei osato torcerle un singolo capello.
«A ricreazione posso venire a fumare insieme al tuo gruppo?» mi supplica dal nulla abbandonando quel tono autoritario e assumendo quello di un cucciolo bisognoso di attenzioni, lasciandomi piuttosto sorpresa. «Ho voglia di vedere Diego Guevara» spiega con aria sognante.
E con ciò, una fetta di rabbia, quasi la metà, svanisce. Mi fa sorridere con questa richiesta assurdamente dolce.
«E va bene» acconsento scuotendo il capo, rallegrandole di buon grado la giornata.
Appena dopo aver parcheggiato la macchina in uno dei posteggi liberi, Laira si accende una sigaretta e mi saluta per avviarsi nella direzione in cui Gioia la sta aspettando, ricordandomi che ci saremmo riviste comunque durante l'intervallo.
Laira non mi saluta con un bacio sulla guancia, come molte ragazzine della sua età tendono a fare.
A Laira proprio non piace quel genere di saluto, lo reputa falso, ipocrita e tendenzialmente inutile, come una perdita di secondi preziosi.
Lei reputa giusto e migliore il tipico saluto fatto con l'agitare della mano, bella aperta, e con un amichevole e sincero "ciao".
Infatti ogni volta che dobbiamo allontanarci in direzioni opposte, lei non manca di venire a meno al suo rito. Esattamente come ha fatto poco fa.
A mio modesto parere, non posso darle torto, seppur io sia meno "severa"; non mi sono mai piaciuti i saluti con due baci sulle guance alle persone conosciute da poco, ai conoscenti, ma alle persone di una vita, di tutti i giorni, che ti sono accanto praticamente sempre, in quel caso allora sono fermamente a favore.
Per me è naturale sbaciucchiarmi le guance di DarthMart o di Diego, verso di loro so che è sincero.
Comunque, dopo aver detto "ciao ciao" alla piccola Laira, mi accingo ad avvicinarmi alle scale anti-incendio affinché possa fumarmi la sigaretta mattutina in attesa dell'arrivo della mia amica.
Mi muovo di qualche passo ficcando le mani – la mano infortunata in condizioni decisamente migliori, la fasciatura si è pure ristretta – dentro le tasche della gonna di feltro, di un acceso color giallo e azzurro, che ho con piacere abbinato a un paio di calzamaglia di due tonalità differenti, ispirandomi a Pippi Calzelunghe.
Dopotutto frequento l'Artistico, i colori sono il mio forte.
Cammino, calpestando foglie secche e innumerevoli sassolini, quando vicino alla colonna degli archi d'ingresso i miei occhi non possono fare a meno di notare Olivia e... Leonardo... insieme.
Lui indossa lo stesso cappotto che aveva ieri sera, lungo sino alle ginocchia, ovviamente niente jeans ma eleganti pantaloni a sigaretta color nero pece.
Olivia ha la sua chioma caramello legata in un curato chignon intrecciato e sulle spalle ha una mantellina scozzese di tweed.
Leonardo ha fra le dita una sigaretta appena accesa, che fuma con una certa classe, Olivia è al suo fianco, impegnata a lasciargli teneri baci sugli zigomi e a riservargli sorrisi zuccherosi.
Come se tutto fosse normale, come se niente e nessuno avesse sconvolto quella linea sottile che determina la routine, l'abitudine e tiene lontano il caos.
Parlano, conversano come se non fosse successo nulla.
A pochi metri di distanza, poco più in là alla loro sinistra, vi sono naturalmente Alberto, Giulio, Claudio, Camillo e Costanza.
Naturalmente se c'è il re, c'è anche al seguito la sua nobiltà.
Camillo è impegnato a dare dei pizzicotti a Costanza, che pare tanto contrariata quanto con veemenza alza gli occhi al cielo. Gli lancia addirittura certe occhiate taglienti che fanno rizzare i peli delle braccia persino a me; le iridi di Costanza Notai sono profonde, feline e... affilate.
Sono d'un color sabbia, totalmente differenti dalle mie scure e cupe; ricordano perlopiù il castano d'una spiaggia tropicale in un giorno di sole cocente. Quasi brillante.
Ad ogni modo, mi viene da provare un nutrito senso di repulsione mentre li sto a osservare con dovuta attenzione, mi schizza alle stelle la curiosità. Più che altro questa sensazione la provo verso la coppietta più gettonata del Caravaggio, dinanzi le loro dissennate smancerie.
Ma la goccia che fa traboccare il vaso sono i commenti che non posso fare a meno di ascoltare di alcune ragazzine del primo anno, del Classico chiaramente.
Quest'ultime varcano il grande portone d'ingresso e nel contempo non mancano di lanciare occhiate verso quel gruppetto così altezzoso.
Asseriscono a quanto siano indubbiamente belli, a quanto invidino Olivia, a quanto vorrebbero ardentemente essere al suo posto. Roba che si leccano addirittura le proprie labbra con la lingua.
Meno male che in questo momento io sia sola, senza nessuno a farmi compagnia, perché con molte probabilità l'avrei trattato come uno straccio da piedi quel qualcuno, pretendendo un po' di solitudine.
L'avrei trattato male ingiustamente soltanto perché in questo istante mi va così, perché mi è comodo.
Meno male che Laira abbia raggiunto Gioia...
"Ti chiedo di perdonarmi, Laira, a volte sono proprio una persona di merda", penso fra me e me tirando un sospiro di immensa tristezza.
Ma la verità è che ho voglia reale di restare sola, ho voglia di fumarmi una Winston e di ascoltarmi "Rock the Casbah". Ne ho bisogno impellente.
Per cui, distogliendo lo sguardo, mi infilo in un angolino non molto più lontano da loro, abbandonando l'idea delle scale anti-incendio e optando per il muretto dove si erge il recinto di ferro che circonda il Caravaggio.
Mi siedo sopra la larga sporgenza che da all'interno evitando le vecchie gomme appiccicate sopra, le cicche delle sigarette consumate e le cartacce degli Estathè e del tabacco in busta.
Mi sistemo in questo angolino, con le cuffie extra-large infilate sulle orecchie e la sigaretta incastrata fra le labbra, ad autocommiserarmi.
Ne prendo due tiri veloci e faccio partire non più "Rock the Casbah" – sorprendentemente –, bensì qualcosa di più adatto al momento.
Premo con il dito sopra "Hurt" di Johnny Cash e mi lascio cullare dalla sua voce impareggiabile.
Nel mentre avverto sia il morboso bisogno di leggere qualcosa di Charles Bukowski, sia il morboso bisogno d'impiccarmi sulla rampa più alta delle scale anti-incendio.
Addirittura mi viene da prendere in considerazione l'idea di marinare la scuola.
Lo ammetto, non sono abituata a certe sensazioni. A questi stati d'animo.
Il bacio con Leonardo, il mio aver mentito a mia madre, il mio silenzio verso Marta, la mia rabbia senza alcun senso verso chi non c'entra niente, la mia umiliazione, le cose che sono sempre uguali, immutate.
Tutto questo è difficile da sopportare in una sola volta.
Sì, mi chiamano dea Atena per il mio essere combattiva e coraggiosa, affatto sconsiderata. Non mi tiro mai indietro, accetto di buon grado le sfide quando è giusto che esse debbano essere accettate. Cerco sempre di fare del bene per il mio indirizzo, per le persone a cui voglio bene. Tento di non farmi mettere i piedi in testa da coloro che mi odiano, da coloro che mi disprezzano.
Tento di mostrarmi di ghiaccio, di acciaio.
Ma la verità è che non so essere dura con gli altri quanto lo sono con me stessa.
Come mai non riesco ad andare da Leonardo a sbattergli in faccia ciò che abbiamo fatto ieri sera?
Smerdarlo dinanzi a Olivia e ai suoi amici, mostrare la sua foto con Viola, recuperata a piena conferma, dare a me stessa la possibilità di farmi valere, di vincere.
Perché non lo faccio? Perché me ne sto qui a ponderare pensieri suicidi e reprimere ancora ed ancora la mia rabbia?
Purtroppo la risposta a queste domande non me le do, poiché sopraggiunge Marta con delle movenze decisamente da persona iperattiva.
Mi sfilo le cuffie quando è praticamente davanti a me, in piedi.
Ella ha i capelli argentati tutti annodati e in disordine, il viso struccato. Nelle stesse condizioni in cui è il mio. Come se avesse dormito male.
«Non hai idea di quello che è accaduto ieri sera, Matilde» cincischia come una saetta, per miracolo riesco a capirla.
Le iridi si muovono all'impazzata, come se non sapessero dove guardare di preciso.
«Sapessi quello che è successo a me...» replico beffarda abbassando gli occhi, lo dico quasi inconsciamente.
«Okay, in primo luogo voglio scusarmi per non averti risposto al cellulare. Ero a teatro, a vedere "La Locandiera". Da sola. Con Lunanuova che recitava la parte del Cavaliere di Ripafratta» sproloquia senza fare neanche una pausa fra le varie parole.
Oh. Per tutta risposta mi porto una mano alla fronte, poggiandola con un bel sonoro sciaf e spalanco le palpebre, alquanto presa alla sprovvista.
Insomma... in quanto a stronzate io e Marta ieri sera ci abbiamo parecchio dentro misà.
Marta parte con il racconto.
Mi racconta tutto quello che ha visto, ammette che Emilio ha davvero del talento per la recitazione teatrale, mi parla di una certa Ilda, una donna meravigliosa che a quanto pare nutre un certo interesse per il professore, e soprattutto mi racconta che egli ha indubbiamente un cuore spezzato e per cotale motivo assume un comportamento da stronzo con noi.
«Ha un cuore spezzato peggio del mio» mormora a corto di fiato Marta, «devi credermi, Mats...».
Oh mio dio, andiamo! Di depressa basto io, non c'è bisogno che ci si aggiunga anche Marta!
No, no, no, lei non deve deprimersi!
«Dovevi essere parecchio annoiata ieri sera, eh?» commento tentando disperatamente di strapparle un sorriso, «Provi meno rabbia, ora, verso il prof.?».
La mia amica dall'aria svampita fa il gesto di pensarci su e ne approfitta per fregarmi la sigaretta dalla bocca, andandosi a tirare qualche boccata di fumo.
Poi tira un lungo sospiro che non riesco a decifrare, «Sicuramente ora lo capisco di più» ammette alzando le spalle, «vorrei saperne di più sul perché, però già il fatto che un "perché" c'è non è cosa da poco».
Dopodiché riprende fra le dita la Winston e me la riposiziona esattamente dove l'aveva trovata.
«La tua serata com'è andata, invece? Migliore della mia?» mi domanda.
«Che vuoi che ti dica... ho mangiato, ho bevuto, ho fatto fare due risate ai miei e poi a nanna» taglio corto andando a grattare con l'unghia una scritta con il bianchetto.
Ma poco faccio visto che le mie unghie sono inesistenti.
Marta rimane insoddisfatta della mia risposta, «Speravo ti fossi gettata in qualche eroica impresa» mi schernisce incrociando le braccia al petto.
Quando le sento pronunciare "eroica impresa" scoppio a ridere come una psicopatica.
Esattamente poco fa ponderavo sul fatto di quanto fossi inadatta come dea Atena e lei mi viene a parlare di eroiche imprese?
Rido talmente sguaiatamente e con immenso sentimento tanto da far voltare verso di noi il gruppettino del Classico radunato alla colonna, Leonardo compreso.
«Cara Marta, per chi mi hai preso? Mica siamo davvero nell'Olimpo dell'antica Grecia» borbotto dandole delle svariate pacche sulla spalla, senza smettere di sghignazzare.
Perlomeno ho scacciato via la depressione.
«Vi state calando qualche pasticca?» ci dice ad alta voce Giulio Viviani, agitando il braccio per avere la nostra attenzione, «In caso ne vorrei qualcuna anche io» aggiunge con un ghigno beffardo.
Prontamente il ragazzo dai capelli biondo cenere e dai lineamenti che ricordano tanto uno scozzese si becca uno scappellotto da parte di Alberto, come ammonimento, «Ehi, razza di inetto, vuoi andare nella merda per colpa... loro?» lo riprende con rigidezza.
Egli fa fatica a pronunciare quel "loro", quasi strascicato, dal momento che osserva Marta anziché Giulio.
Per completare l'opera s'intromette la bella Olivia, così siam tutti, tutti insieme appassionatamente.
«Già, rifletti, Giulio. Non ne vale la pena» proferisce con disprezzo gratuito.
Infine, lasciando tutti quanti noi basiti e senza parole, interviene Costanza, che con il suo solito sguardo duro e annoiato dichiara, «Come se tu sapessi per cosa ne vale la pena».
Riferendosi senza ombra di dubbio a Olivia.
Successivamente fa un elegante sbadiglio, portandosi educatamente la mano davanti alla bocca, e aggiunge, «Mi sto annoiando. Io me ne vado in classe».
E si alza in piedi, abbandonando la postazione in mezzo ai ragazzi, andandosene teatralmente, carezzandosi la lunga treccia laterale che le casca dolcemente oltre la spalla.
Olivia non osa aprire bocca tanto è stupita, non si aspettava una mossa del genere da parte di una sua "alleata".
Claudio Patriarchi, il tizio che era con Leonardo il giorno che l'ho beccato con Viola, rompe il silenzio con un fischio, un fischio d'assenso.
«Quando l'ape regina parla, le altri api operaie non devono osare dar fiato alla bocca» constata con una stilla di veleno fra le righe, anch'egli riferendosi sia a Olivia che a Costanza.
«La adoro quando fa così» dice Camillo che guarda la figura posteriore di Costanza con aria sognante.
«È evidente che avete qualche problemino, e non di droga» fa presente Marta sogghignando con espressione maniacale.
Leonardo, che fino a ora non ha osato menzionare parola, né muovere un dito, fa saettare i suoi occhi cristallini verso di me appena sente dire da Marta il termine "problemino".
Mostrando un'aria timorosa... timoroso che abbia raccontato a Marta del bacio?
Mi osserva e facendo appello a tutta l'intensità del suo sguardo tenta di pormi una domanda che mai pronuncerà qui davanti a tutti.
Sicché, con discrezione, prestando la dovuta attenzione a non farmi vedere, scuoto il capo, facendo intendere un "no".
«Più che qualche, io oserei dire parecchi problemini» asserisco senza speranza roteando gli occhi.
E mi avvio anche io verso l'entrata della scuola.
Marta, durante la ricreazione, mentre il quinto D al completo – con una piccola Laira Visparelli che è tutta uno sguardo di miele verso Diego – è intento a mangiucchiare pizzette, sbevicchiare succhi di frutta e a fumare la sigaretta di break seduto sopra le fredde scale anti-incendio, ci da l'incombente notizia che Lunanuova lunedì ha l'intenzione di fare una verifica a lampo e che ha concesso a tutti noi del tempo prezioso per cominciare a studiare, siccome sono tassativamente esclusi a priori ogni sorta di bigliettini, qualsivoglia apparecchio elettronico e le fugaci, quanto disperate, sbirciate dal libro.
Gli altri non ne sono al corrente ma questa soffiata gliel'ha fatta il prof. in persona nel dopo spettacolo di ieri sera, ci ha volutamente concedere un giorno in più per poterci avvantaggiare.
Non una cosa da poco contando l'indole dell'esimio professore.
«E tu come fai a saperlo?» ovviamente interviene Sara Signorelli, marcando quel tono suo tipico sarcastico e indagatorio e corrugando la fronte, la quale è incorniciata da una cortissima frangetta tagliata a mano, il triplo più corta della mia.
«Com'è che sai una cosa del genere? Sicura che non te lo stai inventando?» insiste buttando fuori il fumo del suo drum.
Marta, dal canto suo, non può resistere alla tentazione di alzare gli occhi al cielo e di sbuffare con vero sentimento.
Un miracolo che ancora non le abbia sputato in faccia uno dei suoi discorsetti disarmanti e umilianti, parlati in perfetto italiano e con termini da vocabolario.
Un miracolo che non le abbia alzato contro il dito medio.
«Allora, cara Sara, se pensi che sia una puttanata bella e buona ti consiglio di non studiare. In fondo, provoca brividi di piacere correre il rischio» le suggerisce lei con un sorrisetto affilato, facendo schioccare la lingua.
«Fossi in te comincerei già ad aprire il libro da adesso» commenta Diego sgranocchiando la sua barretta agli arachidi, scendendo di un gradino e mettendosi proprio vicino a Sara, seduta sotto di lui, «contando la tua media veramente scarsa ci farei un pensierino» e le fa l'occhiolino.
Una bella mossa di difesa verso la nostra amica.
E per fortuna che Diego si è preso la briga di farlo, quanto a me, in questa mattina fuori dagli schemi, non so se avrei risposto delle mie azioni.
Molto probabilmente, mi sarei limitata a tirarle la lunga coda di dreadlocks con ogni briciolo di forza che ho nelle braccia, fino a farle toccare il pavimento con il naso. Oh sì, ne sarei perfettamente in grado.
«Puoi aiutarmi a studiare?» sento una voce rivolgersi a me, sopra la mia testa in quanto io sono seduta a gambe incrociate sul gradino.
Faccio per alzare gli occhi e, come ho ben inteso, mi ritrovo un Ludovico che mi osserva in attesa di una parola da parte della sottoscritta. Da questa prospettiva pare un gigante.
«Ho chiesto in classe chi fosse il migliore in questa materia ed è venuto fuori il tuo nome» mi spiega mentre si accovaccia anch'egli, poggiando i gomiti sulle ginocchia, venendo alla mia stessa altezza del volto.
Come al solito, Ludovico non ha ben chiaro il concetto di spazio vitale del prossimo.
Prima di aprire bocca e di replicare alla sua richiesta, in automatico, mi volto verso la direzione di Diego lanciandogli un'occhiata accusatoria; palesemente l'artefice di questa raccomandazione è lui.
Diego alza le spalle come a dire "cosa dovevo dirgli? È la verità che sei la più brava a storia dell'arte".
Già, facile lavarsene le mani così.
La verità è che io sono quella che ha più a cuore la materia, perché in fatto di bravura nello studio anche Diego ne dispone, diciamo che ha preferito accollare a me il compito di istruire il nuovo ragazzo.
Ad ogni modo, voglio tenere fede al discorso che ho fatto a Ludovico lo scorso sabato, al discorso che gli ho fatto in proposito dell'amicizia.
Be', adesso Ludovico Auditore è mio amico quindi è un mio dovere dar lui una mano. Aiutarlo nel momento del bisogno. Soprattutto per il votaccio che si è fatto mettere all'interrogazione.
Glielo devo, non posso rimangiarmi la parola.
Per oggi sono già stata incoerente a sufficienza – e anche per ieri!
«Sì, accetto, ti aiuterò a studiare per la verifica» acconsento annuendo affabile, fumando l'ultimo tiro della Winston, l'ultima sigaretta del pacchetto.
Dannazione, sarei dovuta anche andare a ricomprarne un pacchetto nuovo...
«Bene, sono disposto a iniziare anche il pomeriggio stesso» pronuncia prontamente Ludovico, senza preoccuparsi dei miei impegni ipotetici del dì.
Per l'appunto alle sei dovrei attaccare il mio turno all'Arcadium, è giovedì ed è il secondo giorno della settimana in cui lavoro.
Ma la voce della mia coscienza, per quello che ne rimane che le dia il diritto di potersi ancora definire "coscienza", mi incita a cominciare con lui fin da oggi.
Un tre non si recupera velocemente e lo so più che bene. E poi dubito che un testone come Ludovico sia rapido ad apprendere, vedremo, dovremmo tentare.
Vedremo se si dimostra collaborativo e pronto ad ascoltarmi.
«Ascolta, alle sei devo andare a lavorare, quindi prima cominciamo prima finiamo» proferisco arrendevole, «dovrai venire a pranzo a casa mia, e subito dopo cominciamo. Niente distrazioni, niente perdite di tempo».
Fortuna vuole che Adele è andata a pranzo con delle sue colleghe di lavoro, poiché sarebbe stata un'ulteriore problematica doverle spiegare anche della presenza di Ludovico dopo l'amichevole soffiata di madame Rossini sul mio trionfante ritorno a casa la sera prima.
Proprio una botta di culo, davvero, l'aver trovato un suo messaggio poco prima di parcheggiare la macchina nel parcheggio riservato al mio palazzo.
Ero quasi tentata di mettermi a urlare, e allora sì che avrei ottenuto l'attenzione non solo di quella strega ficcanaso ma anche dell'intero condominio.
L'assenza di mia madre, però, sta a significare che il pranzo l'avrei dovuto preparare io, partendo da zero, partendo dallo stendere la tovaglia sopra la tavola.
Dopo aver messo a bollire l'acqua per la pasta, apparecchio la tavola con una tovaglia pulita, poggiando di fronte alle sedie due piatti, due bicchieri e le posate, con ovviamente i tovaglioli.
Ludovico, nel frattempo, si è messo a grattare la pancia a Marsellus Wallace, beato e coccolato.
Il ragazzo lo spupazza nel vero senso della parola, con tanto di imitazione dei suoi versi tendenti a un ringhio rauco. Uno spettacolo da non perdere...
Infine scolo la pasta che vado a unire con delicatezza assieme al sugo, aggiungendo poi il pepe nero e una bella spruzzata di parmigiano.
Et voilà, il pranzo è servito.
Mentre mangiamo con sincero gusto, soprattutto io che ho saltato sia la colazione, sia la merenda scolastica, mi faccio dare il numero di Ludovico, in modo da aggiungerlo sul gruppo di classe che abbiamo su WhatsApp.
Lui, non molto entusiasta, anzi, decisamente contrariato, me lo detta a monosillabi.
Gli spiego con calma che è un bene che faccia parte di questa chat, almeno sarà informato di ogni questione inerente alla scuola e alla situazione della classe.
Sta a vedere che Diego aveva ragione quando affermava che Ludovico non s'azzarderà mai a rispondere.
Pazienza, voglio essere positiva.
«Avanti, parlami un po' di te» gli chiedo di punto in bianco prima di infilarmi nelle fauci la forchetta con infilzate due pennette pannose.
La televisione è spenta e non mi piace dover stare in silenzio obbligatorio, soprattutto se imbarazzante. Meglio imbarazzarsi però sparando stronzate.
«Parlerò di me solo se prima parli tu di te» replica astutamente Ludovico con la bocca un po' sporca.
Mi fa tenerezza, mi ricorda quando ero una mocciosa sempre promiscua a sporcarmi con ogni tipo di alimento.
«Okay» accetto posando la forchetta sul piatto e stringendomi nelle spalle, voglio essere concentrata per raccontare le cose giuste ed evitare quelle sbagliate. «Dunque, i miei genitori sono divorziati dal duemila ma, nonostante questo, non mi sento in dovere di odiare per forza uno dei due, io voglio bene a entrambi. Dalla quinta elementare fino al primo superiore ho praticato danza classica e purtroppo una delle mie più grandi passioni mi ha portata a soffrire d'anoressia. Attualmente sono guarita. Lavoro come cassiera in un piccolo cinema, seppure una vera chicca. Adoro il cinema e i film cult, in particolare quelli degli anni novanta. Sfortunatamente per me, ho difficoltà a gestire la rabbia. Non mi piacciono particolarmente le discoteche, ma in compenso amo i concerti e le feste che organizzano solitamente i miei amici. Possiedo un pappagallo e un cane, che hai già conosciuto e che dopo pranzo dobbiamo portare fuori a far pipì» ecco il mio racconto servito su un piatto d'argento e indirizzato verso Ludovico.
Gli ho fatto in sostanza un resoconto generale della mia esistenza, dagli albori fino al presente. Wow, e sono stata anche piuttosto riassuntiva, sono stata brava!
Allora il ragazzo, dopo aver attentamente ascoltato senza fiatare, posa anch'egli la propria forchetta sul suo piatto quasi vuoto, e si mette nella posizione di chi sta iniziando a raccontare.
Adesso è il mio turno di ascoltare.
Confesso di essere un po' curiosa.
«Ho due genitori normali, niente divorzi, niente drammi. Una madre troppo buona che fa la cassiera al supermercato e un padre interessato a me solo quando viene contattato dalla scuola che lavora come elettricista. Mia madre mi tratta con riguardo mentre mio padre lo fa solo con Celeste, poiché la definisce troppo timida e troppo indifesa. Io non ho problemi di gestione della rabbia, io adoro proprio lo scontro aperto, acceso. Devo potermi sfogare e quello è il modo migliore. Parecchie volte ho spaccato labbra, nasi e zigomi» prende a parlare Ludovico seppur senza esagerare, le parole sono perlopiù rapide, sfuggenti e riassuntive.
Forse è solo una mia impressione, ma non mi sembra esperto del narrare.
Comunque sia mi viene da sogghignare quando gli sento proferire un certo dettaglio.
«Siamo proprio due poli opposti, io e te. Tu fai del male agli altri, io faccio del male a me stessa» sottolineo pentendomene subito, tappandomi la bocca con la mano.
Ludovico non sa delle mie "punizioni" che mi autoinfliggo quando perdo il controllo.
Per fortuna sembra non avermi sentita.
«Siccome i miei genitori sono persone troppo buone, ingenue e oneste, io mi sento in dovere di essere diverso da loro» precisa egli fissando il niente, lo sguardo vuoto, «ci ho preso gusto a comportarmi da testa di cazzo».
Dopo aver messo in azione la lavastoviglie con sia i piatti del giorno precedente, sia i piatti del pranzo, infilo la pettorina a Marsellus legandolo poi con il guinzaglio, pronto per portarlo a fare due passi veloci.
E siccome stiamo parlando del mio cane botoloso, si trattano realmente di "due passi veloci".
Appena io e Ludovico usciamo dall'appartamento, nello stesso momento esce anche Cornelio con in mano un mazzo di rose incartato ed il cappello per le occasioni in testa.
«Signor Cornelio!» esclamo con un sorriso appena realizzo la sua presenza, «Sta uscendo anche lei? Dove va di bello?».
«Dolce Matilde, un piacere averti incontrato» risponde egli con la mia stessa identica felicità negli occhi, «sono diretto al cimitero, sai, vado a trovare la mia Eloisa. Ormai i fiori dell'ultima volta saranno sicuramente secchi...» mi spiega dando un'occhiata fugace alle numerose rose che stringe con cura.
Dopodiché Cornelio posa le sue iridi azzurre sulla figura di Ludovico, alle mie spalle come un body-guard. L'anziano gli punta il dito indice contro e mentre lo indica più volte dice, «È il tuo fidanzato?».
Mi pone la medesima domanda che mi fece quella volta che ero con Diego, quella volta che lo abbiamo aiutato ad asciugare le pagine dei suoi amati libri.
Addirittura lo guarda con espressione perplessa, quasi spaventata.
Mi metto a ridere sia per questo che per l'insinuazione, mi metto a ridere di gusto, tanto che la risata riecheggia per tutta la rampa di scale del condominio.
«Oh no, è solo un amico» ribadisco tappandomi il naso tentando di smetterla, ma invano.
«Mi rincuora. Come fidanzati siete proprio mal assortiti» rimbecca Cornelio piuttosto serio.
Che occhio lungo che ha Cornelio Terrazzani, eh?
«Senta, cambiando argomento, accetterebbe un passaggio?» gli propongo sapendo che si sarebbe recato al cimitero sicuramente con qualche lento e dispendioso pubblico, la patente ormai l'ha abbandonato da un pezzo, «Ho appena preso la patente e poi mi farebbe un enorme piacere salutare sua moglie».
Il cimitero dove è sepolta Eloisa Visconti in Terrazzani è il Cimitero delle Porte Sante, un po' lontano dalla zona di Firenze in cui viviamo.
Mi sento così felice di averlo accompagnato e il signor Cornelio è stato così felice del fatto che mi fossi patentata, è stato ben contento di accettare il mio invito. E poi, in tutta sincerità, ho una grande voglia di portare un saluto a quella cara donna.
Me lo sento che viene dal cuore.
Ludovico, sorprendentemente, si è seduto nei sedili posteriori dell'auto, dando modo a Cornelio di occupare il sedile accanto al mio. Ed è stato in rispettoso silenzio per tutto la durata del viaggio, guardando di tanto in tanto fuori dal finestrino.
Anche ora è raccolto in un rispettoso silenzio, in mezzo alla quiete di questo posto sarebbe strano fare il contrario.
Un senso di pace mi pervade mentre passeggiamo per il viale principale del cimitero, sorpassando numerose fotografie di persone che furono con accanto colorati mazzi di fiori, di tutti i tipi, di tutte le sfumature. Altri con tonalità più accese, altri con tonalità più tenui.
Stranamente non mi sento triste, bensì mi sento serena, come se fossi in sintonia con il resto del mondo.
Quando giungiamo dinanzi alla targa commemorativa di Eloisa, dinanzi alla sua foto che la ritrae in giovinezza in bianco e nero, il signor Cornelio va ad afferrare il vecchio mazzo di rose, ovviamente divenute coi petali neri e secchi, per poi gettarlo nel secchio della spazzatura.
Dopodiché ritorna al suo cospetto e abbassa il capo in segno di saluto, evitando di fare il segno della croce.
«Eccomi di nuovo da te, mia dolce Eloisa, mio dolce amore» sussurra in un soffio.
Poi prende a scartare il nuovo mazzo di rose pronto per essere la nuova compagnia di quella fotografia.
«La rosa era il fiore preferito di mia moglie» comincia a dire Cornelio rivolgendosi a me e a Ludovico, non curandosi di venire punto dalle sue spine appuntite, «le paragonava spesso alle persone, le rose. Quando impari a conoscerle e a sopportare le loro spine allora ti meriti anche la bellezza dei loro petali, diceva sempre, ogni volta che aveva una rosa davanti agli occhi».
L'uomo infila il grande mazzo dentro il vaso, cambiando prima l'acqua ristagnata con della pulita.
Cornelio fa un passo indietro, unendo le mani. Rimanendo a osservare il suo passato.
«Mi auguro, miei cari, giovani, ragazzi... che possiate trovare un amore immenso come quello che ho trovato io» dichiara con voce bassa tuttavia profonda, carica di sentimento, «il mio è un augurio che faccio a tutti voi. E di sicuro lo troverete se imparate ad accettare e a convivere con le spine. Credetemi, noi umani ne siamo pieni, ancor più di una semplice rosa. Ma oltre quello, eh... oltre quello abbiamo anche dei petali bellissimi, tanti bellissimi petali».
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