16. Botta e risposta











Come da patto, come da stipulato ieri mattina durante la seconda ora nel bagno delle ragazze dell'Artistico, come da promesso, vado diretta nella via dove abita Laira al fine di andarla a prendere con la macchina, per portarla a scuola.

Per far sì che questo avvenga, però, mi occorre fare un piccolo sacrificio. Da oggi, fino al prossimo mercoledì.

Anziché far suonare la sveglia alle sette come di consueto, ho impostato l'orario anticipandolo di mezz'ora. Mi desto alle sei e mezza, mi vesto rapidamente con i panni scelti di proposito la sera prima – tattica pura –, mi lavo i denti – prima di colazione, già, è che ormai ho la fissa del cattivo sapore in bocca per cui me li lavo due volte, prima e dopo –, mi lavo rapidamente sottobraccio, mi lavo il volto assicurandomi che gli occhi siano aperti correttamente, mi spazzolo i capelli arruffando di poco la frangetta, mi applico del rimmel sulle ciglia e m'inciprio appena la punta del naso — anch'essi preparati la sera prima, bene in vista sopra la mensoletta del bagno.

Finita la "fase 1" mi accingo a mo' di passo di ballerina verso la "fase 2", la fase della colazione.

Metto a bollire il bricco del latte, carico la caffettiera piccola per il caffè, mettendola sul fuoco, e, nel frattempo che aspetto, dispongo sulla tavola la mia fedele tovaglietta a forma di cassetta vintage, due tazze, una per me e una per mami, i biscotti Gocciole, che ne vado matta io, e i biscotti Abbracci, che ne va matta lei.

Ho già informato la mamma delle mie sveglie anticipate, quasi da soldato semplice; per cui lei è più che felice se le faccio trovare il tavolo già apparecchiato e pronto per l'uso.

Dopo essermi preparata un cappuccino coi fiocchi e dopo averci inzuppato qualche biscotto – ho scelto di smettere di contarli da un bel po' di tempo, oramai –, procedo con l'indossare il giacchetto, l'avvolgermi la sciarpona intorno al collo e con l'infilarmi le fibbie dello zaino attorno alle spalle.

Addirittura rifiuto di accendere la televisione, tanto ogni minuto è prezioso.

Infine sfilo via le chiavi della Yaris dal piattino sopra la superficie di marmo appena sulla soglia della cucina.

Come un fulmine, percorro le scale del palazzo due gradini alla volta, con tanto di salto epico alla fine, ovviamente scatenando un rumore infernale. Ma, fortunatamente, mademoiselle Rossini quando si accorgerà di quel chiasso io sarò già scappata via, fuggita oltre il portone, con la mente e con gli occhi già proiettati sulla strada da percorrere.

Laira abita a non troppa distanza dal Caravaggio, il problema sono io, che abito nell'altra sponda dell'Arno, perpendicolare a Ponte Giovanni da Verrazzano.

Dunque sono costretta a fare letteralmente un enorme "giro dell'oca", contando i vari incroci, i vari semafori, i vari, e pure parecchi, ingorghi.

Mi aspetta proprio una settimana da incubo, una bella Via Crucis, o anche più semplicemente odissea.

Ad ogni modo, come ho detto, una promessa è una promessa. Un patto quando è stato stretto va mantenuto.

Laira indaga e scopre sul colpevole di chi ha scattato la fotografia, io le do uno strappo fino a scuola, andata e ritorno, per una settimana. Posso sopportarlo se tengo conto del risultato.

Laira abita in una casa a due piani in via Villani, un bel viale alberato che sa stupire soprattutto in autunno e in primavera. La sua abitazione è incollata, come quasi tutti i palazzi di Firenze, ad altri edifici; ma se non altro è tutta di proprietà della sua famiglia.

È una chicca, casa sua.

Color oro scuro, dal portone arrotondato e dal legno scuro, con un bel pomello di bronzo che si fa notare. Le finestre agghindate da inferriate ricurve e nere come pece danno sul viale, insieme a un terrazzo al secondo piano dalle balaustre di ferro battuto e ricco di ornamenti.

Due alberi fanno capolino sulle finestre del piano superiore.

Potrei quasi dire d'invidiarla, ma poi mi ricordo della casa dove vive mio padre e l'invidia viene spazzata via in un lampo.

La Natalie Portman in miniatura mi attende proprio sul ciglio del marciapiede, pronta e preparata per affrontare un'altra giornata di liceo, ma soprattutto eccitata dall'idea che farà un bell'ingresso trionfale: accompagnata da una ragazza di quinto, quindi da una patentata, e che gode d'una certa notorietà dentro quelle mura.

Sicuramente farà un bel figurone e lei lo ha calcolato assurdamente alla perfezione.

In testa indossa un basco nero che dà l'impressione di tenere davvero al caldo, i capelli – tagliati corti da pochi giorni – fanno capolino dal cappellino, timidi e sbarazzini.

Anche Laira, come me, ha deciso di avvolgersi attorno alla gola una lanosa e spessa sciarpa per ripararsi al meglio dal freddo, dalla nebbia e dal vento.

La sua montatura rotonda posata con delicatezza sopra il naso va a dare il tocco finale per farla somigliare in tutto e per tutto ad una perfetta francesina. Con nonchalance si porta alle labbra un lecca-lecca rotondo color giallo, sicuramente al limone.

Prima di accostare vicino al marciapiede, metto la freccia a destra e rallento visibilmente, fino ad arrestarmi sul lato della strada.

La ragazzina mi osserva con scrupolo mentre faccio la manovra, con un sorrisetto dipinto a fior di labbra.

Appena il veicolo è del tutto fermo, allunga con sicurezza il braccio e va ad aprire la portiera, inondando l'abitacolo della famosa freddezza di novembre.

«Sbrigati, altrimenti farai scappare via tutto il caldo che questo povero riscaldamento dissemina per la macchina» osservo facendole chiaro cenno di spicciarsi a salire a bordo.

Rabbrividisco per quel piccolo sprazzo di gelo.

Veramente un controsenso il mio, amo con tutta me stessa le stagioni fredde ma sono la persona più freddolosa che esista. Roba che ho costantemente le mani congelate e la pelle screpolata, perfino le nocche mi sanguinano nei casi estremi.

Laira mi dà ascolto e monta dentro la macchina più che veloce, gettando lo zaino ai propri piedi e allacciandosi la cintura. In tutto ciò non riesce a fare a meno di nascondere il sorrisetto, talmente evidente.

Finalmente mi rimetto in carreggiata e finalmente posso filare dritta a scuola e sono solo le... sette e trentasei, sono stata piuttosto brava!

Ed eccoci a inaugurare il primo giorno di questo mio nuovo lavoro: la tassista.

Perlomeno un tassista sarebbe più sveglio e vigile di me, che sto ancora in preda ai fumi del sonno; mi sfugge persino uno sbadiglio.

«Ciao anche a te» commenta sarcastica Laira, guardandomi.

«Scusami se non ti accolgo con la mia solita allegria. Per venirti a prendere sono costretta a partire prima, di conseguenza ad alzarmi prima» le spiego senza distogliere l'attenzione dalla strada, sbadigliando nuovamente.

«Be', quando hai accettato il patto sapevi benissimo dove saresti dovuta arrivare» mi ricorda lei rimettendosi in bocca il lecca-lecca.

«Avrei accettato anche di venirti a prendere a Roma, tutto pur di svelare questo arcano mistero della fotografia!» constato con un sopracciglio inarcato, il risultato di tutta la mia attuale insoddisfazione.

«Dài anche uno strappo a Diego, per caso?» mi domanda cambiando argomento Laira, con un bellissimo sguardo speranzoso.

«Per solito Diego va a scuola in moto da cross oppure in macchina con Marco. Quindi no» brontolo senza neanche rendermene conto, colpa di quella mezz'ora di sonno mancata. Sembra poco, eppure mi sta guastando l'umore.

Ma Laira, comunque, non si fa per niente scandalizzare dal mio modo non del tutto educato e dal mio fare scorbutico. Non si rabbuia nemmeno un po'. Anzi, cambia di nuovo argomento, dimenticandosi subito di Diego.

«Deve essere fico avere una macchina tutta per sé a questa età, sempre col serbatoio pieno, pronta per portarti dove vuoi» confessa mentre accarezza il cruscotto della Yaris, quasi adorante.

«La macchina era di mia madre e rigorosamente usata» sottolineo discostandola dal suo sogno a occhi aperti, «e la benzina me la pago da sola, con i soldi del lavoro».

Il mio lavoro che adoro nonostante non abbia finito la scuola dell'obbligo e nonostante ancora non abbia una laurea fra le mani. E con un capo decisamente comprensivo e decisamente fin troppo gentile.

Ieri sera, quando sono rientrata dopo il mio spiacevole incidente con lo specchio del bagno per colpa di Leonardo, Jevanni mi ha dedicato tante di quelle accortezze che non riesco a ricordarmele tutte malgrado siano soltanto passate delle ore.

Insisteva sul portarmi una tazza di tè o di cappuccino, mi assillava che dovevo mangiare o dello zucchero filato o delle noccioline, non voleva farmi spazzare davanti all'ingresso per timore che sforzassi la mano, non voleva che cambiassi il sapone del bagno, non voleva questo, non voleva quello.

Meno male che non mi ha impedito di fare i conti alla cassa!

Comunque sia la nota positiva è che ha già rimpiazzato lo specchio che io gli ho disintegrato.

Ha fatto un salto all'Ikea e ne ha acquistato uno ancor più delizioso di quello precedente. Ora starò bene attenta a non sfogarmici sopra se mai dovessi cader preda di un raptus di rabbia incontrollata.

«Piuttosto sei venuta a capo di qualcosa, della fotografia?» le chiedo lottando contro l'ennesimo sbadiglio, perdendo vergognosamente.

Al che Laira sospira in maniera teatrale, ma non lo fa apposta, le viene del tutto naturale.

«Non è facile, ancora devo lavorarci. Tutto ciò che posso dirti è che non ti deluderò» risponde con voce morbida e comprensiva, giocherellando con il lecca-lecca.

E la sento sincera quando me lo dice, credo fermamente che non mi lascerà a bocca asciutta.

«Ritornando a Diego, la sera di Halloween, dentro quel locale, hai visto se qualche universitaria gli girava intorno?» ed eccola che ritorna nuovamente nell'area Diego, dando conferma a quello che già sospettavo.

«Ti sei invaghita di lui?» vado dritta al sodo usando del tatto fraterno in questo frangente, mi rivolgo a Laira come se fosse mia sorella minore.

Laira fa un'espressione strana appena mi sente dire questo: corruga visibilmente la fronte e arriccia le labbra, di conseguenza, arriccia pure il naso. Ci pensa qualche attimo prima di riaprire bocca, ci riflette sopra, capendo che alla mia domanda necessitano solo due risposte sensate, o sì o no.

«Ho diciassette anni e ancora non so cosa significhi innamorarsi, sebbene io abbia visto molti film sull'argomento e sebbene delle mie amiche l'abbiano sperimentato loro stesse sulla propria pelle. Però ho costantemente lui nella testa, credo che questo debba valere qualcosa» spiega ella d'un tratto seria e profonda.

Provo un moto di assurda tenerezza verso di lei, in questo momento. E sinceramente non mi va proprio di infierire dicendole dell'interesse più che ovvio di Diego per Thalìa... non sarebbe giusto, come è vero che non è giusto questo mio silenzio sull'argomento.

Sarebbe corretto che lei lo venisse a sapere e io, da amica, sarebbe corretto se glielo dicessi.

È peggio illudere che raccontare la realtà delle cose.

Però non me la sento, non finché Diego non me lo dirà chiaramente che gli piace Thalìa. Fino ad allora la mia è solo supposizione, basata su indizi concreti, ma pur sempre supposizione.

Dunque le sorrido con dolcezza, «Tranquilla, nessuna universitaria gli ha fatto il filo» la rassicuro. Ed è comunque una verità.

Dopo altri cinque minuti di strada, arriviamo finalmente al nostro liceo, dove varco il grande cancello già aperto del cortile con la macchina, andando a scovare un posticino per parcheggiare. Sistemo la Yaris vicino al parcheggio di ieri mattina, distante sì e no quattro piazzole.

Ovviamente una volta messi a piedi saldamente a terra, il primo impulso che ho è quello di frugare nella tasca anteriore dello zaino in cerca della mia solita Winston mattutina da consumare.

Io e Laira ci avviamo verso i pressi dell'ingresso del Caravaggio, vicine e affiatate.

Come Laira aveva sicuramente previsto, parecchie occhiate da parte delle sue coetanee, anche più piccole, le vengono saettate addosso. Lei le incassa senza ritegno, assaporandosele dalla prima all'ultima.

Laira Visparelli, del terzo F, avvistata arrivare insieme a Matilde Castellani, la dea Atena dell'Artistico, una ragazza di quinto e con una macchina da poter guidare.

La gelosia nei visi di quelle povere ragazzine è così ovvia, così concreta che si potrebbe tagliare con un coltello.

Be', io sono la prima ad ammetterlo. È fico essere amici di qualcuno che frequenta il quinto anno.

Quando io e Laira ci fermiamo quasi in mezzo al cortile, notiamo che una ragazza della stessa età di quest'ultima viene verso di noi a passo spedito. A occhio e croce sembra essere una sua conoscenza, ma man mano che si avvicina riesco a metterla a fuoco e a riconoscerla.

È Gioia Marnissi, sempre della stessa sezione di Laira. Sempre a occhio e croce, dovrebbe trattarsi della sua migliore amica. La sua DarthMart personale.

«Marni!» esclama Laira decisamente contenta di vederla.

«Parry!» ricambia il saluto Gioia, «Ti stavo aspettando». E si scambiano un veloce quanto caloroso abbraccio.

Dopodiché Laira si volta verso di me con uno sguardo che sembra suggerire "ti dispiace se vado con lei? Posso?".

Come dirle di no... come dire di no a quel faccino così angelico quando s'impegna per renderlo tale!

Ho sempre avuto un debole per Natalie Portman, di conseguenza anche per la sua sosia italiana!

«Ci vediamo più tardi, oppure ci risentiamo» è tutto quello che dico, dandole il "permesso" di levare i tacchi e andando via con Gioia.

«Buona scuola, Matilde» mi augura educatamente la sua amica.

«Buona scuola a voi, vi auguro di non prendere brutti voti» contraccambio l'augurio, affabile.

Poi Laira e Gioia si accingono ad avvicinarsi alle scale anti-incendio, dove sicuramente anche loro fumeranno la sigaretta mattutina.

Per quanto riguarda me, mi appresto a tuffarmi nel mio soave rito pre-lezioni, tanto per distendere al meglio questi miei poveri nervi ultimamente alquanto messi a dura prova.

Mi porto alla bocca la Winston ancora non accesa, secca contro le mie labbra sfibrate dal freddo, e per finire sfilo le mie cuffione dalla tasca dello zaino – ovviamente talmente annodate che un cubo di Rubik è più facile da risolvere – collegandole al cellulare e premendole contro le orecchie.

Faccio partire "Rock the Casbah" e mi accendo la sigaretta, socchiudendo gli occhi, crogiolandomi in quell'attimo dedicato a Matilde, allontanando il Caravaggio, allontanando gli studenti e la maturità che si fa sempre più vicina.

Prendo due tiri e piego il collo per far sì che scrocchi, intorpidito.

Passato il primo minuto della canzone, però, mi sento togliermi via la cuffia dall'orecchio destro e di colpo vengo strappata via dal mio viaggio mentale. Interrompendolo a metà.

Mi viene da roteare gli occhi per quanto sono accigliata, detesto quando le cose vengono interrotte sul più bello.

Appena inquadro il responsabile, tuttavia, la rabbia che stava per fare capolino si smonta del tutto, lasciando spazio alla sorpresa.

Accanto a me c'è Ludovico, accompagnato da una ragazzina.

Egli si mette nell'orecchio la cuffia che mi ha rubato e ascolta ciò che sto continuando ad ascoltare io. Presta attenzione per qualche secondo, forse dieci massimo quindici secondi, e, infine, se la ritoglie con la sua solita espressione arcigna, che però non dimostra il suo reale stato d'animo, è semplicemente l'unica faccia che Ludovico riesce a fare.

«Mi piace» bofonchia restituendomi il maltolto.

Ciononostante non presto considerazione a Ludovico, bensì osservo incuriosita la ragazza che si accosta al suo fianco, dall'aria decisamente timida, contando che cerca di nascondersi dietro il bavero alto del giaccone, e dallo sguardo sfuggente.

Mentre la guardo con cura, d'un tratto mi ricordo letteralmente in un baleno di lei.

Il giorno che ho conosciuto Ludovico, lui stava cercando nei bagni del Classico sua sorella minore. Deve essere senz'altro lei, deve trattarsi di sua sorella. Dal modo in cui gli sta vicino è più che palese.

«Ehi» mi sporgo verso di ella, facendo cascare i miei capelli tutti su di un lato, «ciao, mi presento. Io sono Matilde Castellani, vado in classe con tuo fratello» faccio la mia presentazione cercando di non essere troppo invadente però allo stesso tempo cerco di mostrarmi gentile, e le allungo la mano al fine di stringere la sua.

La sorella di Ludovico, incerta, allunga a sua volta la delicata manina verso la mia, quasi a scatti, e me la stringe con pochissima forza.

«P-piacere, io sono Celeste» balbetta con una vocina sottile, quasi che stento a crederci che sia la sorella di questo bestione.

«Però... non vi somigliate per niente» dico guardando sia Ludovico sia Celeste, «né fisicamente, né caratterialmente».

La differenza fra i due è abissale.

Ludovico è invadente, irruento, impulsivo e oltre ogni dire sfrontato e impudente. Celeste sembra una persona riservata, schiva, timida, assurdamente chiusa e introversa.

Per non parlare dell'aspetto fisico.

Se Ludovico è un colosso dai capelli disordinati e gli occhi castani scuri, Celeste è minuta, esile, dall'aria gracile.

Ha dei capelli lisci lunghi oltre il petto, non ricci e crespi come il fratello, d'un castano corteccia; le iridi hanno un che di dolce, di amorevole, e sono d'una tonalità verde scurissima, niente a che fare col verde di Marta.

I lineamenti dei loro volti sono come il giorno e la notte: Ludovico ha dei lineamenti duri, ben definiti, Celeste ha i tratti delicati, le labbra armoniose con la grandezza del naso e il taglio degli occhi, il mento leggermente sporgente e a punta, quasi che ricorda un folletto.

«La storia della mia vita» commenta con sarcasmo affatto palpabile Ludovico.

Celeste, invece che replicare alla mia constatazione, noto che lancia un'occhiata svelta oltre le mie spalle, a un gruppetto di ragazzine che, facendo due più due, associo all'indirizzo Classico.

Non sembrano per niente studentesse della mia fazione, decisamente no.

La ragazza si rabbuia dopo che rimane a osservarle per pochissimi istanti.

«Ora che mi hanno vista parlare con Atena mi prenderanno di mira, mi renderanno un inferno in classe. Ho fraternizzato col nemico e di conseguenza ho mancato di rispetto ad Apollo» proferisce a bassa voce, quasi scossa.

Ha paura di loro.

Non riesco quasi a credere alle mie orecchie, per quanto ho sentito correttamente.

"Fraternizzato col nemico", "mancato di rispetto ad Apollo".

Dico, ma stiamo scherzando? Siamo giunti a questi livelli pietosi?

In un batter d'occhio un velo lugubre e funesto cala sopra di me, in un batter d'occhio cambio espressione: da docile a furiosa. Sì, perché queste situazioni mi fanno andare fuori di testa.

Inviperita come non mai, mi volto in direzione di quel gruppetto di – penso si possa confermare – stronze, portandomi una mano su un fianco mentre l'altra la lascio in evidenza con la sigaretta fra le dita.

Le squadro da capo a piedi con un'espressione da perfetta maniaca.

Effettivamente tutte e quattro le ragazze ci stanno fissando, e con una repulsione innegabile.

«Badate che stiamo solo conversando, amabilmente. Non la sto spingendo a fare parte di una setta satanica. E non le sto nemmeno vendendo droga!» grido contro quelle vipere del Classico, fregandomene di attirare l'attenzione.

Il gruppetto come mi sente inveire contro di loro, si allontana senza pensarci e ovviamente senza dedicarmi uno straccio di risposta. Cosa che avrei largamente apprezzato.

Purtroppo vengo delusa.

Scuotendo il capo e sbuffando, mi rivolto verso quella povera ragazza, che ha tutt'ora uno sguardo preoccupato.

«Se ti causeranno problemi vieni subito a dirmelo» suggerisco a Celeste, sperando di essere una spirale di conforto.

«È troppo pappamolle e deve imparare a cavarsela da sola» interviene Ludovico che fin'ora non aveva pronunciato sola parola, «se non impara adesso non lo farà più. Il liceo serve a questo».

«Non tutti hanno la corazza necessaria per difendersi e la spada con cui attaccare» obietto per niente d'accordo con la sua affermazione, «non tutti hanno la tua prontezza di spirito, Ludovico».

«Ma non ci rimani male sapendo che dicono cose brutte su di te? Alle tue spalle?» parla Celeste dandomi prova che quelli del Classico non propinano parole belle sul mio conto.

«Onestamente no, direi di no» replico con un sorriso luminoso, facendo spallucce.

«Ma come fai a sopportare?» riprova Celeste quasi con voce sofferente, quasi che prova pena per me.

Mi viene da sogghignare di fronte a questa domanda, ghigno con grande ironia, «Dimmi, Celeste, secondo te quelle ragazzine del Classico contano qualcosa per me?» al che rispondo alla sua domanda con un'altra domanda.

Celeste mi scruta perplessa, corrugando la fronte e mordendosi il labbro, «Ehm... non credo, no» replica sperando che sia la risposta giusta.

«Ecco, ti sei risposta da sola» concludo con il sorriso sempre più in evidenza, allargando le braccia con fare teatrale.







Terminato l'intervallo, in terza ora, viene il secondo round di laboratorio di architettura con il professor Armando Ferraresi, il paladino della giustizia dell'Artistico.

Il Gandhi del Caravaggio.

Dal sorriso amabile e dai capelli tenuti costantemente indietro con la brillantina, grandissimo adoratore dei gatti, tanto che la sua unica ragione di vita non è sua moglie bensì il suo siamese dal pelo lungo di nome Romano Guardini, come il teologo del 1900.

Non è male come professore, certo, ha un'età piuttosto avanzata, quasi alla soglia della pensione, però è sempre aperto allo scambio di idee, a una visione diversa dalla sua. È molto a suo agio in mezzo a studenti stravaganti come noi.

La sua lezione non si tiene nella nostra solita aula, ossia il quinto D, bensì in una delle aule adibite al disegnare in grandi fogli, con grandi squadre e miriadi di matite e strumenti consoni.

I banchi, dunque, sono grandi il doppio rispetto a quelli normali e lievemente inclinati verso lo studente.

Normalmente siede uno studente per banco, tranne nei casi quando il prof. spiega la teoria, ossia come oggi.

Infatti in quel frangente il banco viene occupato da due ragazzi. Infatti Marta è seduta accanto a me con lo sgabello, con il suo gomito che preme contro il mio.

Mentre Ferraresi è alle prese con lo scrivere sulla lavagna allungata e a parlottare, Marta scarabocchia su di un foglio di carta con la matita e mi parla a bassa voce, attenta a non farsi sentire.

«Hai voglia di venire a cena a casa mia stasera? Facciamo una videochiamata con Emma» mi propone la mia amica.

Sono immensamente tentata di dirle di sì. Adoro quando si cena a casa sua e adoro anche fare le videochiamate su Skype con sua sorella maggiore, tutt'ora in Erasmus a Parigi per dodici mesi. Però sono costretta a declinare l'invito.

«Cavolo, Marta, mi dispiace ma non posso. Vorrei tanto ma stasera vado a festeggiare con i miei per la patente. Mio padre si è preso la serata libera ieri pomeriggio» mi vedo a dirle con sincero dispiacere.

«Peccato. Però una cena con i tuoi genitori insieme è più rara di una cena a casa mia, nevvero?» ribatte subito comprensiva, «Dove andrete di bello?».

«Ovviamente nel luogo dove fanno la bruschetta più buona del mondo, da Johnny Bruschetta» le faccio sapere con un sorrisetto furbo. «E, a proposito, non stupirti se ti dovessero arrivare messaggi... strani. Sarò sicuramente ubriaca, ho intenzione di farmela salire» aggiungo facendole l'occhiolino.

«Non mi stupisco mai quando si tratta di te, Mats» Marta alza gli occhi al cielo, «comunque, cambiando argomento, novità da parte di Laira?».

«Eccetto la sua cotta per Diego, non c'è nulla di nuovo» la metto al corrente lasciandomi sfuggire un lungo sospiro.

Più per la sua cottarella per Diego che per la questione della mia fotografia.

E senza aggiungere nulla, sia io che DarthMart voltiamo nello stesso istante il capo verso il nostro amico, che non presta attenzione alla lezione di Ferraresi, esattamente come noi, intento a leggere il libro che gli ha consigliato Thalìa.





La temperatura dell'acqua della doccia raggiunge la temperatura perfetta, la temperatura che precisamente voglio.

Ritraggo la mano bagnata e richiudo lo sportello di vetro della cabina, con l'altra sorreggo l'enorme asciugamano con cui tengo coperto il mio corpo privato dai vestiti.

Controllo un'ultima volta i polsi, se da loro ho tolto via tutti i bracciali, controllo la gola, se ho sfilato le due collane – la prima con un ciondolo della metà di uno yin e yang diviso con Marta, la metà nera, le seconda con un ciondolo a fogliolina d'edera, regalatami dai miei nonni per Natale –, idem per le dita, se sono stati private degli anelli.

Sembra che tutto sia a posto, posso entrare dentro al doccia e godermi il getto caldo dell'acqua.

Sono le sei della sera e prima di uscire a cena con i miei genitori ho piacere di darmi una bella ripulita, anche i miei capelli necessitano di una buona lavata. Hanno perso il tipico profumo del mio shampoo all'olio di mandorle e linfa d'acero, quindi è giunta l'ora di dar loro una ripassata a regola d'arte.

Metto un piede sopra il piatto in ceramica della doccia, togliendo al contempo via l'asciugamano, ma non faccio in tempo a muovere l'altro piede che il mio cellulare, posato sopra la mensola del lavandino; prende a vibrare per diverse volte minacciando di cascare giù tanto sembra essere animato di vita propria.

Tolgo immediatamente la gamba e la riporto verso l'esterno, devo fare in modo che il mio telefono non muoia prima del previsto e soprattutto scoprire chi è che sta mandando tutta questa sfilza di messaggi.

Rimango nuda dinanzi allo specchio, con l'apparecchio fra le mie mani, lo schermo appena sbloccato.

Vado ad aprire WhatsApp siccome la piccola icona è apparsa in alto a sinistra del display.

A quanto pare un nuovo gruppo è stato or ora creato da un numero che non ho salvato in rubrica, ma capisco subito di chi si tratta dal momento che questo gruppo è stato soprannominato "Rappresentanti d'Istituto".

Sicuramente è stata Midorin, per l'appunto quando vado ad aprire la chat di quel numero ancora senza nome mi appare la sua fotografia che porta a spasso il proprio shiba inu.

Ha aggiunto diversi numeri e ha scritto che d'ora in avanti questo sarà il metodo per tenerci in contatto fra di noi al di fuori del territorio scolastico.

Non male come idea la sua, confesso che a me tale pronostico non era nemmeno per sbaglio balenato per la mente.
Dopodiché Midorin riprende a scrivere.

Midorin Classico, 18:04

- Il numero di Matilde e Jeanine li ho presi da Thalìa, ho bisogno unicamente del numero di Diego visto che su Facebook non ce l'ha fra le informazioni personali. Qualcuno di voi può aggiungerlo? Ho nominato amministratrici sia Jeanine che Matilde.

Sto quasi per aggiungere Diego io, tanto bene sto partecipando alla chat e siccome non vedo traccia di Jeanine, quando qualcuno mi anticipa. Un numero che non ho salvato in rubrica.

Ma già intuisco a chi possa appartenere.

+39 339 ** ** ***, 18:05

- Una zecca come Falco avrà ceduto il proprio cellulare in cambio di una dose, dubito che lo rintracceremo.

Cioè, incredibile... Leonardo è capace di scartavetrare i maroni anche in un gruppo di WhatsApp. Non riesce proprio a farne a meno.

Ad ogni modo, m'indigno senza se e senza ma, mi vedo costretta a rispondere per le rime, per difendere il mio amico che ancora non può leggere certe minchiate.

Io, 18:05

- Questo gruppo tecnicamente è per scriverci cose importanti e non per sparare stronzate.

Midorin Classico, 18:05

-Matilde ha ragione. Leo, dacci un taglio su... per il bene del Caravaggio.

Meno male che Midorin si appresta a venire dalla mia parte, la parte del giusto.

+39 339 ** ** ***, 18:06

- Fai attenzione, Midori-chan, non farti manipolare troppo da questi fattoni.

Mi metto letteralmente a ringhiare appena termino di leggere il messaggio.

Ma non ce la fa proprio a comportarsi da adulto per una volta? È un gruppo WhatsApp, che cazzo! Non siamo a scuola o chissà dove!

Oh, ecco che sta scrivendo Thalìa.

Thalìa, 18:07

- Dovremmo far uso di buon senso e spirito di squadra in nome della scuola. Non mischiamo vita privata alla vita scolastica!

- E parlando di cose serie, domattina vado in vice-presidenza per accordare il giorno dell'Assemblea, poi passo dalle vostre classi a raccogliere le firme.

Fortunatamente Thalìa è intervenuta nel migliore dei modi. Fortunatamente è riuscita a cambiare argomento.

Adesso devo muovermi a entrare in questa cavolo di doccia prima che mi congeli e prima che sprechi litri d'acqua!

Ma prima faccio un'ultima cosa, veloce e semplice, quanto necessaria.

Salvo il numero di Leonardo e lo memorizzo come "Faccia da cazzo".







La serata da Johnny Bruschetta procede nel migliore dei modi.

Io ordino una bruschetta Bolgheri da quaranta centimetri, con fiocchi di prosciutto crudo stagionato, funghi e formaggio fuso, mentre mia madre va con il classico San Gimignano, sempre con fiocchi di prosciutto crudo, scamorza affumicata, pomodori pachino e rucola, mio padre invece va sul pesante, ordina il Pratomagno, con roast beef di manzo massaggiato al miele, rucola e scaglie di grana.

Proprio una "serata bruschetta" nel vero senso della parola, come dio comanda!

E il tutto accompagnato da un buon vino rosso appositamente scelto da Fabrizio.

Dopo il primo brindisi non mi sono trattenuta, ne ho versato un bicchiere dopo l'altro. Ma sono stata chiara a riguardo... stasera l'intenzione di darci dentro era stata più che sottolineata.

Mentre ci gustiamo allegramente le nostre prelibate bruschette, i miei danno l'ennesima prova che non sembrano una coppia dapprima sposata e ora divorziata, anzi, danno l'idea di essere due amici seduti a cena sullo stesso tavolo.

Il che mi rallegra, sono soddisfatta del loro buon rapporto, meglio amici che due persone che non fanno altro che augurarsi la morte reciproca e fingono di non conoscersi.

Parecchi divorziati fanno così.

Invece Fabrizio chiede alla mamma come va nello studio di architettura dove lavora, come procedono gli incarichi e Adele s'interessa sia del libro misterioso che sta scrivendo papà, sia che del suo ristorante.

Nel contempo che dialogano in armonia fra di loro, io li osservo con una mano sotto il mento e con l'altra che trasporta il bicchiere del vino verso le mie labbra già arrossate.

Sorrido come una sciocca dinanzi alla scena, e ben presto, con questo trucchetto, la miccia sale rapidamente.

«Caspita, Adele!» esclama papà, «Sta cominciando a ridere da sola, quanti bicchieri secondo te ha bevuto? Non ce ne siamo accorti».

«Be'» constata la mamma che esamina la bottiglia di vino giunta al di sotto della metà, «direi che ne ha bevuti tanti, contando che io e te abbiamo ancora quelli del brindisi dentro i nostri calici».

«Il bello è che ci ha persino mangiato sopra» sussurra papà verso di lei.

«Che numero leggi, Mati, qui sopra?» mi domanda la mamma mostrandomi la carta del menù.

Pfff, che dilettante, anche da ubriaca riesco a leggere io.

«Otto» leggo senza problemi, seppur continuando a ridacchiare, «come il voto preso a storia dell'arte con quel motherfucker di Lunanuova».

«Dai, lasciamo stare» la riprende papà sfilandole via il menù dalle mani, «tanto è in mano nostra, non andrà lontano».

«Già... non andrò lontano, non sverrò in alcun posto e nessuno potrà farmi foto infamanti» mormoro talmente a bassa voce che nessuno di loro pare sentirmi.

Ancora a pensare a quella dannata fotografia del Maverick, mi farà diventare matta del tutto, non venirne a capo sarà la mia rovina.

Uffa... non mi va di starmene con le mani in mano, Laira o non Laira, io devo fare qualcosa.

In fondo si tratta della mia dignità, si tratta della mia privacy che è stata violata. Io devo trovare un modo.

Cioè, rendiamoci conto, riesco a fare un ragionamento del genere ora che ho i sensi del tutto alterati. Da "me stessa" l'avrei soppresso sul nascere questo pensiero. Devo assolutamente approfittarne.

«Scusatemi» dico ai miei genitori alzando il dito indice, «dovrei andare in bagno a far pipì» uso la più banale delle scuse, ma che comunque avrebbe anche del senso.

Dopo tutto quello che ho bevuto è più che normale che io voglia svuotare la mia vescica.

«Vuoi che ti accompagni?» si offre subito la mamma, togliendosi il tovagliolo dal grembo.

«No!» esclamo con fin troppa foga, «Ce la faccio egregiamente, ma grazie».

Dopodiché mi alzo con lentezza dalla sedia, stando attenta a non fare movimenti bruschi che avrebbero intaccato il mio equilibrio, giro intorno al tavolo come se danzassi e mi appresto ad andare verso il bagno.

«Faccio subito» dico loro sorridendo.

Appaio tranquilla ai loro occhi, al contrario il mio cervello si sta arrovellando per via di questa faccenda di merda. Non riesco a tollerare che Leonardo sappia chi sia il colpevole e che non voglia dirmelo.

Devo fare in modo che vuoti il sacco, anche a costo di costringerlo.

Fortunatamente la toilette delle signore è vuota, trovo la porta aperta e senza indugiare oltre mi rifugio all'interno, chiudendo a chiave la serratura con due mandate.

Un odore di lavanda mi pervade entrambe le narici, un piacevole odore di pulito. Delle simpatiche composizioni floreali decorano l'ambiente a me circostante.

Comunque, dal momento che non devo far pipì, chiudo la tavoletta del water e mi ci siedo sopra, senza rischiare di rimanere in piedi.

Non vorrei che mi mettessi a barcollare finendo rovinosamente contro lo specchio verticale incollato al muro. Evitiamo altre ferite di guerra, di tagli e graffi ne sono fin troppo piena.

E poi, siccome da oggi sono in possesso del numero del signorino Apollo, be', nessuno mi vieta di potergli telefonare, giusto? Lui ha persino il mio, dunque non è etichettata come cosa "strana".

Sblocco il display del mio cellulare dopo due tentativi, ammetto che mi si stanno incrociando gli occhi, e vado spedita sulla rubrica, cercando appunto l'affettuoso nomignolo che gli ho affibbiato.

Spulcio la sezione "f" e il nome Faccia da cazzo è il primo della categoria.

Premo sopra di esso con il dito e automaticamente parte la chiamata.

Tecnicamente sarebbe orario di cena, ma me ne infischio di disturbargli il pasto. Anzi, è bene per lui che si mostri collaborativo, mi sento di poterlo incenerire.

Il cellulare squilla per qualche secondo e ho il timore che entri la segreteria telefonica, quasi che sto perdere la speranza.

Ma se il detto recita che la speranza è l'ultima a morire, qualcosa vorrà pur suggerire, infatti Leonardo risponde.

Risponde alla mia telefonata. E non con una voce molto allegra.

«Mi auguro che sia qualcosa di vitale importanza dal momento che hai osato chiamarmi sul cellulare» e replica piuttosto secco, scocciato e... arrabbiato, sembrerebbe.

Chissà mai perché.

Per contro, la mia di voce appare assai stridula, decisamente acuta e con una nota piuttosto lasciva, la tipica voce di chi è ciucco.

«Chi ha scattato la foto?» vado dritta al sodo senza neanche dire qualcosa tanto per introdurmi.

Ma dimentico che adesso la Matilde di sempre è sepolta sotto numerosi bicchieri di vino.

«Sei impazzita all'improvviso oppure sei in vena di scherzi?» Leonardo ringhia incredulo, e m'immagino la vena del collo pulsargli come non mai.

«Chi. Ha. Scattato. La. Foto?» ripeto di nuovo scandendo parola per parola, come un piccolo robot, «Sputa il rospo o altrimenti mostrerò la tua foto a Olivia».

«Okay, ho capito, sei ubriaca» bofonchia egli urlando dall'esasperazione, «ebbene, di quale foto stai parlando?» mi domanda successivamente con molta pazienza.

«Dimmi chi è stato o le sbatto in faccio quella foto! Scegli veloce!» ignoro la sua domanda e ripeto per l'ultima volta l'opzione, colpendo il muro con un pugno.

«Matilde, stammi bene ad ascoltare, di quale cazzo di foto stai parlando?» proferisce cercando di rimanere coi nervi saldi Leonardo, ma percepisco che sta facendo fatica.

«Bene, è deciso. So già qual è la tua risposta. Ora cerco Olivia su Facebook» taglio corto io, facendo anche un gesto di evidente orgoglio.

E senza dargli il tempo di ribattere, chiudo la chiamata, sbattendogli il telefono in faccia come usano fare nei film americani.

Dopodiché, senza motivo apparente, esplodo a ridere da sola, riversando all'indietro la testa.

Cazzo, la possibile ipotesi di averlo messo a disagio di fronte alla sua nobile famigliola altezzosa mi eccita da morire! Che sensazione impagabile.

Dopo pochi secondi, però, il mio cellulare prende a squillare e il nome Faccia da cazzo spicca sullo schermo illuminato.

«Ancora tu. Sei stressante» rispondo con finto tono annoiato.

«Quale foto, Matilde, quale foto?» mi richiede Leonardo, decisamente innervosito dal mio comportamento.

E più si innervosisce, più io mi diverto.

«Be', se non lo sai tu...» proferisco con un sospiro, facendo addirittura spallucce.

«Matilde, non ho voglia di scherzare» dice con voce ferma.

«La tua voce è diversa al telefono, lo sai? La mia invece com'è?» gli domando con sincero interesse, dico sul serio, la voce di Apollo è totalmente diversa.

Sembra più profonda, più... cattiva. Sembra quella di un orco del Signore degli Anelli.

«Matilde, giuro che te la faccio pagare» mi minaccia il signorino.

«Se ripeti un'altra volta il mio nome riattacco» lo minaccio a mia volta, e mi trattengo dal fargli pure "gne gne".

«Sta' buona! Avanti, spiegami di cosa stai parlando», pare che stia abbassando la cresta.

«Dimmi chi è stato» gli richiedo per la millesima volta, non mi stuferò mai di farlo.

«Mai e poi mai. Fare un favore a te? Puoi scordartelo» contesta con fermezza.

«Okay» asserisco con nonchalance, «allora farò vedere il limone tuo e di Viola a Olivia. Alla tua suddetta ragazza».

E riattacco. Per la seconda volta.

Scoppio a ridere ancora, come una pazza, di gusto poi.

La mia attenzione viene catturata dall'immensa pulizia che regna dentro questo bagno. Potrei starci all'infinito ad ammirarla. I proprietari devono essere maniaci della pulizia.

Buon per loro.

Leonardo mi richiama nuovamente. Faccia da cazzo ritorna all'attacco!

«Con chi parlo?» rispondo schiarendomi la voce.

«Chi cazzo ha osato fare una foto a me e a Viola?!» tuona super-incazzato Apollo. Quasi che mi rovina l'udito.

«Di sicuro non Olivia» ridacchio parecchio divertita.

«Non provarci nemmeno a mandargliela» mi avverte lui.

«Uhm, forse la stampo e la appendo al Caravaggio» ci penso su un attimo.

«Stai bluffando, cerchi d'ingannarmi» Leonardo cambia totalmente tono vocale, da iracondo diventa sarcastico, «... non esiste nessuna foto».

«Oh sì, che esiste. Tu, Viola e il Forte d'Alabastro. Lei con duuue luuunghe treeecce. Tu incollato con il Vinavil alla sua bocca» gli spiego allungando di proposito le parole.

Stavolta Leonardo ci mette un po' a replicare, fa passare qualche buon secondo. Ci sta rimuginando sopra.

«Dove sei?» all'improvviso mi chiede.

«Non te lo dico» è la mia ovvia risposta con tanto di risatina maniacale.

«Matilde, dimmi dove diavolo sei!» alza il tono, come se fossi ai suoi ordini.

«A Narnia. O forse a Gondor? Prima ero a Grande Inverno e poi sono finita nei Campi Elisi» recito come se tutti questi posti fossero realmente esistenti. Magari fossi a Gondor.

«Matilde, sto per perdere la pazienza!».

«Attento, al terzo Matilde riaggancio e spengo il cellulare» lo ammonisco seria.

«Sei ubriaca, non dentro un film di Tarantino. Falla finita e dimmi dove ti trovi» asserisce Leonardo, insistendo.

«Magari avessi un Samuel Jackson con il "motherfucker" a comando...» confesso con tristezza e delusione, «comunque sono fuori a cena. Mi hai interrotto, maleducato».

«Mi hai chiamato tu, cretina...» sbuffa egli, lottando contro l'impulso di spaccare per terra il suo costoso iPhone.

«Va bene, allora buona serata» gli auguro con educazione, come se fosse un mio amico, con l'intenzione di troncare la chiamata per l'ennesima volta.

«Ferma, aspetta! Dove sei a cena, dove?!» grida come un forsennato, facendomi sussultare dallo spavento.

«Non urlare» lo riprendo mettendomi una mano sul mio povero cuore.

«Non urlo... dimmi solo in quale fottuta zona di Firenze sei, per favore» si calma Leonardo, sibilando quasi quanto detto.

«Cazzo, mi hai detto "per favore"», non riesco a credere a ciò che ho appena sentito.

Sto sognando? Sono troppo ubriaca per collegare?

«L'ho detto, maledizione, l'ho detto!» urla un'altra volta.

«Sono da Johnny Bruschetta» mi ritrovo a confessargli, troppo stupita di quel "per favore" che mai mi sarei aspettata da lui.

«Dammi dieci minuti, massimo quindici», e poi Leonardo riaggancia.

Chiude la telefonata. Il silenzio impera nel mio orecchio bollente.

Sono costretta a ritornare a tavola, allora. Non devo far pipì, sto occupando il bagno inutilmente.

Per cui, alzandomi dal water, riaprendo la serratura della porta e camminando lentamente verso i miei genitori, rifletto sui possibili risvolti della serata e su ciò che ho appena combinato.

Quando mi vado a sedere, mio padre mi osserva con un sopracciglio inarcato, «Sei stata via parecchio» mi fa notare.

«Mentre ero sul water mi sono messa a riflettere sulla vita» affermo seccamente, guardando in basso.

E proprio quando il cameriere viene da noi per proporci i dolci, tra cui un tortino al cioccolato decisamente invitante, mi arriva un messaggio su WhatsApp. Di Leonardo alias Faccia da cazzo.

Faccia da cazzo, 20:35

- Sono fuori all'angolo, di certo non mi metterò davanti all'entrata ad aspettarti.






Mio dio, che sto facendo...?

Prendo l'ultimo sorso di vino, svuotando il bicchiere.

«Marta mi ha scritto, è nei paraggi e ha bisogno di me per fare una cosa» borbotto una bugia qualsiasi.

Non sto ad ascoltare neanche le parole che sicuramente i miei mi stanno predicando, invitandomi a non andarmene viste le mie condizioni.

Ma ora sono maggiorenne, ora posso prendere le decisioni anche da sola per quanto di merda esse siano.

Mi alzo, avanzo verso l'ingresso del locale cercando di non dar prova della mia ubriachezza ed esco.

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