15. Atena patentata








Ecco, ci siamo. È il mio turno, è arrivato finalmente. Tocca a me.

Sono sola, unicamente con le mie capacità.

Nessuno che può vedermi, né può aiutarmi.

È arrivato il momento di dimostrare tutto quello che ho imparato, tutto il tempo che ho dedicato fra la strade trafficate di questa splendida città, tutta la pazienza e tutte le parolacce che ho perso di fronte a conducenti totalmente incapaci. Tutta la sagacia che ho riversato sopra queste quattro ruote, senza perdermi d'animo. E anche tutta la sicurezza che sono riuscita a conquistare, pian piano e con costanza.

Voglio dimostrare che non ho paura, che la mia è stata una validissima e una bravissima insegnante di guida, voglio dimostrare che persino i miei genitori si sono rivelati dei positivi istruttori – nonostante mia madre, le prime volte, si sorreggeva con sguardo un po' preoccupato al gancio sopra al finestrino, e nonostante mio padre, sempre le prime volte, si ficcava in testa un casco da motocicletta –, hanno contribuito parecchio a non farmi svalvolare dinanzi al caos fiorentino.

Infine voglio dimostrare la mia voglia di diventare indipendente, la mia prova che voglio iniziare a cavarmela da sola.

Ci sono solo io, seduta sopra questo sedile.

Vicino non ho un amico, non ho un familiare, ho soltanto Alessandra che ha il dovere di tenere sigillata la bocca e di non darmi direttive. Neanche il piede pronto a scattare sul pedale del freno.

Ora c'è solo Matilde. Matilde dietro e la strada davanti, un volante fra di noi.

Naturalmente, c'è anche un esaminatore pronto a darmi del filo da torcere, insomma, è il suo lavoro dopotutto.

Spetta a me apparire tranquilla, abbastanza esperta nel condurre un veicolo e una brava riconoscitrice di segnali e di dovute precedenze.

Spetta a me a non dargli la soddisfazione nel vedermi cadere in una banale stronzata.

«Cominciamo?» sorrido affabile verso lo specchietto retrovisore, guardando dritto negli occhi dell'esaminatore.

«Cominciamo, sì!» esclama egli con gli occhi placidi, «A proposito, io mi chiamo Orlando Casperchi, è basilare la presentazione prima d'un esame».

«Ha ragione, piacere mio» annuisco assai lieta di questa piccola introduzione, «e non penso sia necessario che io mi presenti, saprà già come mi chiamo», faccio chiaro riferimento alla lista che tiene con fare protettivo sopra le ginocchia, insieme a un altro fascicolo.

«Matilde Castellani, classe millenovecentonovantasei e prima volta che tenti l'esame pratico. So bene, so bene» commenta il signor Casperchi, mostrando simpatia.

«Direi che possiamo iniziare, siamo pronti» s'intromette Alessandra, portandosi dietro l'orecchio una ciocca bionda dei suoi capelli ricci.

«Come no. Prego, accenda pure il veicolo, Matilde» mi dà l'okay l'esaminatore.

Così, eseguendo quanto mi è stato appena chiesto, premo il piede sulla frizione, giro la chiave già inserita nell'apposito incastro e metto in moto. Con metà destrezza e metà abitudine, tolgo il freno a mano e vado con la retromarcia.

«Proceda per viale Europa». Eseguo mostrando una certa prontezza, avvolgo con il braccio il poggiatesta di Alessandra e mi volto per poter effettuare al meglio una retromarcia.

Sto letteralmente sudando freddo, consumando il volante con i palmi delle mani.

L'esame procede nel migliore dei modi.

Arrivo nei pressi di una rotonda e la percorro uscendo alla terza uscita.

Dopodiché Orlando decide di farmi fare una ripartenza in salita, roba in apparenza difficoltosa, però una volta che ci hai preso la mano è piuttosto un gioco da ragazzi.

Poi viene la volta dei semafori, di una generosa scia di semafori, che ovviamente non mi fanno regalo di poter usufruire della famosa onda verde.

«Uhm, niente male» asserisce il signor Casperchi, «be', direi che i venti minuti sono ufficialmente conclusi. Possiamo far ritorno all'autoscuola» annuncia dopo aver dato una piccola occhiata all'orologio da polso.

«Agli ordini» mi lascio sfuggire con un bel sorriso.

Pertanto, mentre guido alla volta della scuola guida non posso fare a meno di sentirmi leggera come una fogliolina, nessun peso sullo stomaco o sull'animo.

Mi sento immensamente rilassata, avverto le endorfine venire rilasciate a quantità generosa sicuramente per via dello stress, che ho saputo nascondere magnificamente.

Una volta arrivati allo stesso punto di partenza di quasi mezz'ora fa, parcheggio al meglio la macchina e mi lascio sciogliere sopra il sedile, socchiudendo le palpebre per ritrovare almeno qualche secondo un attimo di pace interiore.

È stato uno sforzo titanico questo esame, a livello psicologico intendo.

Giro la chiave nel senso opposto e il motore si arresta, lasciandoci in rispettoso silenzio. Le uniche cose che percepisco sono il sorriso orgoglioso di Alessandra e lo sfrusciare di fogli alle mie spalle.

«Sei stata un'allieva sorprendente, Matilde» si congratula con me la mia istruttrice, «un esame così bello non capita spesso».

«Significa che...» comincio a parlare, quasi a balbettare, facendo due più due.

Il risultato ufficiale di quell'addizione lo ottengo quando l'esaminatore mi allunga una scartoffia dai sedili posteriori con tanto di penna.

«Ecco, firmi accanto al suo nome, sotto alla ragazza prima di lei» mi spiega Orlando, «una volta firmato, le chiedo gentilmente di restituirmi il foglio rosa e, in caso di possesso, il patentino per il ciclomotore».

Porca puttana, è fatta. È andata. Devo firmare... insomma, ci sono riuscita. Il mio esame è finito con esito positivo.

Ho preso la patente, l'ho conquistata.

Oh mio dio, mi trema persino la mano. Non riesco a tenere ferma la mano per scrivere una firma leggibile e decente.

Non sto più nella pelle. Con dita tremanti scribacchio alla bell'e meglio il mio nome e cognome sopra la casella prestabilita: Matilde Castellani, più che una firma oserei dire che pare uno sgorbio di lettere nere.

È ufficiale, oramai la firma è impressa su carta bianca.

È iper-ufficiale, ho ridato indietro il foglio rosa, che mi ha accompagnata per un mese buono, e il patentino, che ha fatto sì che per i primi quattro anni di liceo potessi guidare un rottame di motorino, ha fatto sì che potessi godermi al meglio le estati che si sono succedute una dietro l'altra.

Provo una nota di dispiacere, quasi, al dovermene separare. Ma questa sensazione dura ben poco, poiché mi viene allungata seduta stante la liscia tessera color rosa pallido e con il simbolo dell'Unione Europea. La mia fotografia in bianco e nero stampata sopra, unita alle mie credenziali d'identità.

Appare come un piccolo gioiello d'incredibile valore ai miei occhi, da custodire gelosamente e al sicuro da tutto e da tutti.

«È stato un piacere, Matilde» mi riporta alla realtà la voce di Orlando, mi riporta a dentro l'abitacolo della macchina.

Sbatto ripetutamente le palpebre e sto notando che sono rimasta con la mano a mezz'aria, la patente ben stretta e ancora in attesa di essere posizionata nel suo posticino riservato nel portafoglio.

Orlando mi porge la mano e io con prontezza gliela stringo e lo ringrazio per avermi accompagnata in questo passo importante della mia vita. Dopodiché do un bel bacio sulla guancia paffuta e color pesca di Alessandra, stavolta è l'ultimo saluto davvero.

«In bocca al lupo per tutto, Mati! Mi auguro di rivederti in giro» mi dice con un bel calore dentro la voce.

«Me lo auguro anche io» replico sincera.

«Su, forza! Bando alle ciance! Quando smonti mandami pure Francesco, dobbiamo accelerare i tempi» taglia corto la mia ex istruttrice, facendomi cenno di togliermi dai piedi.

Sicuramente vorrebbe evitare di mettersi a piangere davanti al signor Casperchi; Alessandra è un pelino emotiva, si affeziona parecchio ai suoi ragazzi.

Dunque non vado oltre, smonto dall'auto e faccio un piccolo segno al ragazzo del prossimo turno di salire a bordo. Quando metto i piedi sull'asfalto mi sembra di essere in un altro mondo, mi sento come più... potente.

Alzo lo sguardo, proprio di fronte all'entrata dell'autoscuola, loro sono ancora lì, in piedi che aspettano soltanto il mio ritorno glorioso.

I miei tre amici stanno combattendo contro il freddo dei primi inizi di novembre solo per me.

Marta è letteralmente avvinghiata dalle sue stesse braccia fasciate dal giacchetto; Diego, pazzesco, sta fumando due sigarette, una per mano, mentre Marco cammina avanti e indietro per non trasformarsi in un ghiacciolo.

Mi avvicino lentamente e poi mi schiarisco la voce proprio per far sì che sappiano che ho finito.

Tutti e tre riconoscono la mia voce, dopodiché passano in rassegna la mia mano, ben tesa in avanti impegnata a sventolare il trofeo.

Le loro reazioni sono quanto meno immediate.

Diego mi salta addosso e mi prende in braccio, facendomi roteare. Il vento, il freddo, un pizzico di nebbia, avverto tutto quanto sopra il mio volto al settimo cielo. Sorrido, rido, quasi che urlo fuori dalla gioia verso il cielo. Il sole è coperto dalle nuvole, ma è come se per me fosse il giorno più solare di sempre.

I capelli volano in ogni dove mentre Diego continua la piroetta, siamo come due ballerini intrecciati in una danza della felicità, poiché unisce la sua risata alla mia.

Di colpo dimentico ogni cosa per essere triste, per essere arrabbiata o per provare del rancore. Di colpo, l'unica cosa che conta è la mia felicità: so bene che durerà poco, pochissimo, quasi niente, ma il bello è tutto lì, godersi quei pochi istanti perché sai che, in qualche modo, ti fa stare bene.

E cosa c'è di meglio che dello stare bene?

Una volta che Diego mi rimette a terra, arriva il turno di DarthMart di esternare la sua gioia per me, soffocandomi in un grande abbraccio.

Marta Brunori, è giusto sottolineare, non è esattamente quel tipo di persona che dispensa sempre abbracci e smancerie varie a tutti. Anzi, è molto parsimoniosa sotto questo punto di vista.

Per cui lo apprezzo il triplo questo suo gesto, assaporo ogni singola cosa che c'è da assaporare.

Annuso il profumo dei suoi capelli, che sanno di fiori di ciliegio, annuso il profumo della sua pelle, che sa di di Giorgio Armani, il suo preferito, tocco la stoffa del suo giacchetto, ruvida.

Marco, accanto al nostro abbraccio, si limita a battere le mani. Tipico suo, anche lui poco avvezzo a esternare tutto quello che prova.

«Sono. Così. Contenta. Per. Te!» Marta scandisce ogni singola parola che dice, tanto per enfatizzare il significato, «ora, però, serve una bella fotografia. È di rito».

E infatti ha ragione, è di rito.

Quando Diego, Marco e Marta hanno preso la patente io ho scattato loro una foto e l'ho postata sul mio Instagram e sul mio Facebook perché adoro più esternare i successi altrui che i miei in particolare, dunque non posso minimamente oppormi alla sua richiesta.

Mi metto in posa, ossia metto in bella vista la patente, spalanco la bocca in un sorriso aperto ed estasiato, e alzo il pollice all'insù, quello della mano libera. Allargo persino gli occhi, tanto che deve essere evidente la mia soddisfazione.

Marta mi scatta una foto con il cellulare e con fare preparato subito la va a postare sul suo Instagram.

«Adesso vedrai che didascalia ti trovo» biascica quasi con tono diabolico mentre digita sullo schermo.

Una volta finito di scrivere volge il telefono verso di me per permettermi di leggere: "Atena è appena diventata patentata, attenti a quando attraverserete la strada".

«A proposito, Mats, ti confesso che sono rimasto piuttosto sbalordito» mi confida Marco appena Marta termina la frase, «hai avuto un autocontrollo pazzesco contando l'evento di stamattina, a proposito della fotografia».

Inarco un sopracciglio, dubbiosa, e corrugo la fronte quando sento dirmi ciò.

«Mi sembra ovvio, non permetterò mai e poi mai a Leonardo di sconvolgermi l'esistenza» obietto incrociando le braccia, «soprattutto in una giornata come questa. Non m'importa quale brutto tiro s'inventerà, non diventerò mai succube di lui, di nessuno di loro».

«Infatti è così che deve essere» tuona Diego con durezza.

«Be', adesso non ho voglia di parlare di lui, bensì avrei voglia di portarvi a fare un giro! Insomma, ho preso questa cazzo di patente... vogliamo approfittarne o no?» esclamo ritornando al brio di poco fa.

«Certo che sì, cazzo!» conviene Diego venendomi dietro.

«Allora riportatemi a casa a prendere la macchina. Muoversi!» ordino come un generale.

Nel contempo che ci dirigiamo alla volta di casa mia, ovviamente, è di dovere che io faccia una telefonata alla mia famiglia.

Devono sapere che la loro figlia maggiorenne è diventata indipendente in fatto di trasporto. E alla prima botta!

Mia zia Angelica avrebbe sicuramente detto «Ma che botta di culo che hai avuto, nipotastra», con un evidente accento fiorentino, naturalmente.

«Papà, tieniti forte, sono patentata!» urlo dopo che mio padre ha risposto al secondo squillo, calcando sulla "a" finale.

«Porco mondo! Dici sul serio? È andata, pulce?» urla anche lui, imitandomi.

«È andatissima, sono super gasata. Sento che potrei spaccare il mondo, sento che potrei arrivare a Milano e ritornare a Firenze con la macchina senza neanche fermarmi» sbraito dai sedili posteriori della macchina di Marco, con tanto di finestrino aperto.

Già, ora mi è preso un lampo di calore, ho bisogno di raffreddarmi.

«Più che ritornare ti suggerisco di proseguire per la strada, così evito di ammazzarti quando ritorni. Mi stai correndo troppo con la fantasia» mi prende in giro il mio vecchio, sempre apprensivo.

A volte riesce a essere più apprensivo della mamma.

«Fai poco il dittatore della situazione e, piuttosto, dimmi che festeggeremo!» lo contraddico stando al gioco.

«Festeggeremo di sicuro. Roba che ci sentiranno fino a Palazzo Pitti» mi rassicura lui.

«Fino al Colosseo» insisto io.

«Fino al Castello Sforzesco» aggiunge divertito.

«E anche fino alla Cattedrale di Palermo» concludo quasi a corto di fiato.

«Festeggeremo a dovere, pulce, non ti preoccupare. Hai già avvisato la mamma?» mi domanda papà.

«Non ancora, tu sei il primo, sentiti onorato» lo ragguaglio, «infatti è bene che tenga un po' di fiato anche per lei».

«Muoviti, chiamala, sai bene quanto ci tiene» m'incita Fabrizio, «e comunque, sono onoratissimo».

Dopo aver riagganciato la telefonata con papà, viene il turno di fare quella alla mamma. E lei è addirittura più rapida di papà a rispondere, nemmeno fa partire il secondo squillo.

«Mati! Com'è? Finito? Ce l'hai fatta? Ancora non sei salita? L'esaminatore è stato stronzo? Alessandra ha pianto? I tuoi amici ti hanno distratta?» risponde pronunciando una quantità infinita di parole, una dietro l'altra, a raffica.

Come la mossa foglielama di Bulbasaur.

«Mamma» la richiamo per darle uno straccio di tranquillità, «ho finito, l'esaminatore è stato una persona umana, Alessandra stava quasi per piangere, i miei amici mi sono stati enormemente di aiuto e... ce l'ho fatta! Ho preso la patente. Da oggi posso ufficialmente scarrozzarti ovunque tu voglia».

«Oh mio dio... ce l'hai fatta, sei patentata» ripete lei quasi commossa, «prima mi diventi una Rappresentante d'Istituto e ora mi prendi la patente. Caspita, stai già facendo carriera e sei ancora al liceo».

«Visto come ho imparato bene da te?» le faccio scherzosamente, «Ho già chiamato papà, gli ho detto che dobbiamo festeggiare e l'ideale sarebbe farlo tutti e tre insieme».

«Si può fare, sì. Quando ritorni scegliamo un localino e andiamo a cena tutti e tre, insieme» acconsente mia madre senza alcun astio verso Fabrizio, anzi, quasi che potrebbero uscire da amici quei due.

«Eccellente, così posso bere fino a vomitare e così posso caricare su una bella miccia senza correre il rischio che mi venga revocata la patente fin da subito» sghignazzo ben consapevole di ciò che combinerò.

«La miccia l'accendo alla dinamite che ti farò trovare nel latte, mia cara» obietta lei.

«Mamma, sii onesta, è meglio che mi ubriachi in compagnia dei miei genitori oppure quando sono senza di voi?» le pongo la domanda da un milione di euro.

«Uhm, be', se la metti così sarebbe meglio che ti ubriacassi con me e Fabrizio... ma da parte mia posso dirti che sarebbe ancora meglio se non ti ubriacassi affatto» proferisce la mamma con onestà.

«È deciso. Caricherò una bella miccia. Ci vediamo dopo, my lady» la saluto senza darle il tempo di replicare, a volte so essere proprio una stronzetta.

Povera mamma. Detesta quando le riaggancio senza preavviso.

Per ultimo, non mi resta che mandare una fotografia di questa benedetta patente sul gruppo di classe. Un rito anche questo.

Apro la fotocamera del mio cellulare e scatto una foto abbastanza rapida, senza nemmeno mettere a fuoco e successivamente la carico sulla chat di WhatsApp del quinto D. La prima risposta che ricevo è dall'ultima persona che mi sarei aspettata, ovvero da Sara Signorelli.

"Ce l'hai fatta, stronza, brava!". Meno male che non si sia lasciata sfuggire qualche battutaccia, Sara ne sarebbe capacissima.

«A proposito» comincio a dire, ricordandomi di un piccolo dettaglio, «dobbiamo aggiungere Ludovico al gruppo di classe, non è giusto che sia tagliato fuori».

«Scommetto che non risponderà mai» commenta Diego sarcastico dal sedile anteriore del passeggero.

«Non rispondi mai nemmeno tu, segaiolo che non sei altro», gli punto il dito contro.

«Sono troppo alternativo per WhatsApp», è tutto quello che dichiara con aria superiore.

«Useresti WhatsApp se solo avessi Thalìa con cui parlare» dico a bassa voce, stando ben attenta a non farmi udire. Nemmeno per sbaglio.









È giusto spiegare – con un po' di ritardo ma comunque meglio tardi che mai, no? – che la mia amicizia con Marta non è nata tra i minuscoli banchi, le piccole seggioline e i milioni di pastelli dell'asilo.

Non siamo nate e cresciute insieme, l'una partecipe dell'infanzia dell'altra.

Non abbiamo condiviso il biberon, non abbiamo mai condiviso una litigata per un giocattolo, non ci siamo mai scambiate il segno di pace coi mignoli, non abbiamo neanche una volta guardato i cartoni animati come Pingu, Hamtaro, il Mignolo e Prof, DoReMì o la Famiglia Addams insieme, nemmeno i cartoni della Melevisione, nemmeno Papà Castoro, Tre gemelle e una strega o Bob l'Aggiustatutto.

Non abbiamo pianto per delle cose futili, appunto da bambini, non abbiamo potuto scambiarci i nostri diari segreti perché io ho smesso di scrivere sulle pagine di un diario segreto dopo aver finito la prima media, reputandolo inutile il fatto di scribacchiare della mia giornata o della mia cotta segreta o del mio odio verso una ragazzina su delle pagine, per poi essere lette soltanto da me.

Insomma, non siamo cresciute insieme. Non abbiamo fatto né la scuola materna, né le scuole medie.

La nostra amicizia è nata, sì, tra i corridoi e i banchi del Caravaggio, ma il primissimo incontro – la prima volta che l'ho conosciuta – è avvenuto in un luogo di ritrovo a pochi isolati dal nostro liceo.

Per l'esattezza, trattasi di una ex autorimessa trasformata in un punto d'incontro per ragazzi... alternativi. Come me, come lei, come Diego, come Thalìa, addirittura come Sara Signorelli.

È una sottospecie di bar/sala giochi/angolo salotto gestita da una coppia di ragazzi punk: entrambi che si applicano il rossetto nero sulle labbra, entrambi che indossano giubbotti di pelle senza maniche e pieni di borchie anche in piena estate, entrambi con i capelli sempre di colore differente.

Tale locale è rimasto con lo stesso nome della precedente occupazione, hanno pensato che fosse un'idea originale. Hanno aggiunto una sola parola, per dare il tocco finale.

L'Autorimessa stravagante.

Ed ecco un bel posto dove ritrovarsi e passare del tempo per le persone, insomma, come noi. Sempre alla ricerca dell'eccentrico, del diverso, del particolare.

Io l'ho conosciuta proprio lì la mia DarthMart.

Poco prima dell'inizio del liceo ero un po' disorientata... nessuno dei miei vecchi compagni di classe delle medie aveva scelto l'Artistico. Ovviamente non era vista come una brutta notizia per me, non andavo particolarmente d'accordo con i miei vecchi amici, eravamo totalmente incompatibili.

A quei tempi non avevo ancora i capelli rosa e molteplici piercing alle orecchie, ma comunque mi reputavo diversa dalle mie amiche.

Tanto per fare un esempio, loro sbavavano sulla copertina di Cioé sopra la faccia di Zac Efron, io sbavavo sulla faccia di Kurt Cobain, mentre ascoltavo le sue canzoni.

Addirittura andai a scuola con gli occhiali da sole bianchi identici ai suoi.

Inutile dire che mi hanno dato della "stramba" e "figlia del demonio" visto il genere di musica che ascoltavo. Ma non mi sono mai autocompatita per questo, non ho mai avuto paura di essere me stessa al cento per cento.

Ed è per questo che ho tagliato via un sacco di vecchie amicizie: non potevano dichiararsi miei amici se non accettavano Matilde Castellani per quello che era, per le sue passioni più o meno discutibili.

Ad ogni modo, quel pomeriggio di settembre, pochi giorni prima dell'inizio del liceo, mi sono vestita quanto più eccentrica potevo e presi la decisione di andare in quel posto frequentato da così tante persone interessanti, sapevo da fonti certe che pullulava di potenziali nuovi amici per la sottoscritta. Magari avrei incontrato qualcuno che avrebbe frequentato l'Artistico come me.

E infatti così è stato.

Ho incontrato Marta Brunori, a quell'epoca aveva i capelli cortissimi, chiaramente tagliati con le sue stesse mani, e tinti di rosso fuoco. Era lì, insieme a un ragazzo dai capelli fulvi naturali e non ancora annodati in una miriade di dreadlocks.

Abbiamo giocato un po' a ping-pong e bevuto delle birre, un vero atto di ribellione contando che avevamo soltanto quattordici anni; abbiamo chiacchierato di un sacco di cose eppure non di quale indirizzo avremmo frequentato, dunque è stata una sorpresa assurda l'essermeli ritrovati giorni a seguire nella mia stessa classe.

Una sorpresa straordinaria.

Per cui il merito è stato tutto di quel posto, dell'Autorimessa stravagante. È lì che è iniziata la nostra amicizia, basata sull'accettazione e sul rispetto.

Marco è subentrato in secondo anno, ma anch'egli ne era al corrente di quel ritrovo.

Pertanto l'Autorimessa stravagante si è trasformata nel corso degli anni in una promessa, ossia che quando avessimo preso la patente, il primo tragitto sarebbe stato quello verso la sua direzione.

Tanto è vero che dopo aver fatto parcheggiare la macchina di Marco sotto casa mia, dopo aver preso la mia Yaris e dopo essere saliti tutti e quattro a bordo, sono partita spedita e sicura verso la meta designata. Con "Toxicity" dei System of a Down a tutto volume – in vista della patente ho scaricato quasi seicento canzoni in una chiavetta – e le nostre voci prese a cantare il medesimo testo.

Marco, essendo esperto in fatto di musica e di tonalità della voce, è il più intonato del gruppo, ahimè, bisogna ammetterlo.

Dopo aver trovato rapidamente parcheggio, entriamo dentro l'Autorimessa con una certa eccitazione, dovuta sia per la felicità per me che per la canzone.

Gli interni del locale sono eccezionali, nulla a che vedere con quel mortorio e con quella freddezza del Forte d'Alabastro.

Alle pareti sono incollati milioni di sottobicchieri per la birra, di ogni forma e di ogni marca, e altrettante custodie di dischi vinili di ogni sorta.

Appena si entra, alla sinistra, vi sono due divanetti e delle poltrone sparse con dei tavolini di legno dall'aria rustica e rotondi.

Alla destra vi è subito il piano bar, il bancone, strapieno di alcolici e di boccali di birra vuoti.

Sopra il pavimento, fatto interamente in assito di legno, sono stesi diversi tappeti dall'aspetto esotico, si crea quasi una fila su cui camminarci, uno dietro l'altro.

Oltre i divanetti, vi sono naturalmente anche dei tavolini da bar, anch'essi da una certa aria vintage.

Infine, in fondo al locale, c'è il tavolo da ping-pong, il biliardino, alcuni vecchi flipper e un grande stereo dal quale poter scegliere la musica.

Si respira un certo profumo familiare qua dentro, odore di sigaretta, a tratti di cannabis, di liquore invecchiato, di ciambelle riscaldate e di una stecca accesa d'incenso al muschio. È un odore familiare, piacevole.

Appena mettiamo piede dentro l'interno, i miei occhi saettano inconsapevolmente in direzione delle varie figure presenti in questo ambiente. È una sorta di analisi che eseguo e che non sono capace di impedirla.

Comunque sia, riconosco alcune facce, alcuni visi familiari.

Lì, in fondo al bancone, seduta sopra uno sgabello e con un bicchiere piccolo di birra scura davanti a sé, c'è Melissa, una delle persone con più tatuaggi in corpo che abbia mai visto e di cui ignoro il cognome.

Più in là, seduti su uno dei tavolini, ci sono Chimera, detta "Kimi", una street artist con un talento immane, la sua specialità sono gli animali marini, e Paul Niveira, un ragazzo messicano appassionato di skateboard e naturalmente pieno di cerotti e di bende dovute alle cadute.

In piedi, proprio dinanzi alla cassa e intento a parlare con la proprietaria e gesticolando animatamente con le mani, c'è Alessio, un ragazzo apertamente gay dai lunghi capelli neri legati a coda di cavallo, con una bella e diritta linea di eye-liner sopra gli occhi, lo smalto nero sulle unghie e quattro rosari attorno al collo. Il suo motto è "Così dio ama anche un frocio al contempo".

Infine riconosco Zamira, una ragazza indiana animalista e vegana, seduta sopra una poltrona con tanto di gambe, intenta a leggere un libro.

Anche oggi c'è una varietà di persone molto ricca.

«Ordiniamo? Birra? Noccioline? Rum? Pepsi per Mats visto che deve guidare?» propone Diego grattandosi il mento.

Sto per rispondergli quando mi accorgo, senza neanche rendermene conto, che il bello è appena arrivato.

Quando i miei occhi, sempre vigili e attenti, si vanno a posare fino al tavolo del ping-pong, mettendo a fuoco le due figure intente a passarsi una piccola pallina di plastica a suon di racchettate.

«Miseria ladra! Ma quello è...» esclama Marta senza terminare la frase, evidentemente deve essersi accorta anche lei di questo "dettaglio".

Non osa terminare la frase e nemmeno io. Tanto che sarebbe inutile, non occorre finirla. Quando la realtà è così ovvia e palese è controproducente, quasi inutile.

Quello lì a giocare a ping-pong è il mio ex ragazzo. Gabriele Pomerani.

È lui, è dannatamente lui.

Marta si mette quasi subito sulla difensiva mentre io m'irrigidisco come se fossi stata colpita da un fulmine.

Diego mi afferra seduta stante per le spalle e Marco mi chiede se voglio andarmene da lì e scegliere un altro posto.

«Troppo tardi» biascico lentamente, deglutendo.

Troppo tardi, Gabriele ha appena alzato i suoi occhi e ci ha indubbiamente visti, mi ha vista. È rimasto impalato, la pallina che è fuoriuscita dal campo dando punto all'avversario. Sorpreso di trovarmi lì, nello stesso posto dove si trova anche lui.

«Sentite, voi prendete qualcosa al bar e occupate un divanetto» comincio a parlare togliendo via le mani di Diego dalle mie spalle, «so che ce la posso fare».

«Matilde, andiamo... non lo vedi da...» mi riprende Marta preoccupata.

«... da quando si è diplomato» termino la frase per lei, interrompendola, «lo so. Ma sono pronta ad affrontarlo, lo giuro».

«Io credo nelle sue capacità» fa spallucce Marco, venendomi prontamente incontro, e lo ringrazio mentalmente per questo.

Marco sa quando non è il momento giusto per insistere. Dovrebbe dare qualche lezione a Diego, forse anche a Marta, ma giusto una o due.

«Vi tengo d'occhio, se vedo che la situazione precipita, dico sul serio, intervengo» borbotta DarthMart poco convinta della mia idea.

Dopodiché afferra Diego per un braccio e se lo porta via con sé, con Marco al seguito.

Come previsto, Gabriele interrompe la sua partita con il proprio amico e poggia la racchetta sopra la superficie del tavolo.

Pian piano, muovendo con movimenti studiati prima una gamba e poi l'altra, si avvicina alla sottoscritta. Sembra quasi incredulo di vedermi, la sua espressione è ben più sorpresa della mia.

Mentre avanza mi permetto di studiarlo senza dare troppo nell'occhio.

Fisicamente è cambiato, non sembrerebbe lui se non avesse ancora quel dilatatore all'orecchio, allargato di altri due centimetri gagliardi, e quell'occhio di Ra tatuato sopra il centro della gola.

Ma i capelli, che erano il suo tratto distintivo, quell'aggroviglio di ciocche e di dreadlocks, sono spariti. Ora ce li ha rasati come un marine americano, e, seppur molto corti, si nota quanto siano diventati più chiari.

Il suo corpo da asciutto e magro che era, ora è sostituito da un fascio di muscoli ben visibili grazie alla maglietta a maniche corte che indossa. Inoltre, la pelle non è più pallida, bensì ha assunto un'abbronzatura non indifferente, piacevolmente dorata.

«Matilde Castellani» mi chiama col mio nome completo, il suo timbro di voce mi porta indietro in un tempo nascosto che avevo quasi del tutto rimosso. «Tralasciando i tuoi capelli che ora sono del tutto diversi da come li ricordavo, più rosei, i tuoi occhi sono sempre inconfondibili» continua a parlare con un mezzo sorriso e una nota di malinconia.

«I tuoi capelli invece se ne sono andati del tutto» ribatto assumendo una vena scherzosa, andandogli a indicare il capo quasi nudo.

Lui, senza volerlo, si fa passare la mano sopra la peluria e sorride nuovamente, come colto sul fatto, «Così è più comodo» mi spiega, «ho lavorato come istruttore di surf in Australia e si è rivelata una soluzione utilissima. Era diventato un incubo portare i dreadlocks».

Caspita, allora in questi anni si era volatilizzato nel nulla, scomparendo via da Firenze, finendo fin laggiù. In Australia. A insegnare surf.

Wow, c'è dell'incredibile a sentirselo raccontare.

Gabriele Pomerani che insegna surf nelle spiagge australiane... durante l'anno in cui ero fidanzata con lui non l'avrei mai immaginato.

Visto che non riesco a replicare con una risposta intelligente, Gabriele decide di ritentare a dire qualcosa.

«Sei sempre una piccola piuma pronta a volare via» mi fa notare con un ghigno amaro, riferendosi in tutta onestà alla mia forma fisica.

Ora sì che ho qualcosa d'intelligente con cui replicare. «Sono migliore dall'ultima volta che mi hai vista» proferisco con un grandissimo orgoglio, «ora non mi spavento più davanti a un pezzo di pizza o a un bicchiere di birra. I miei amici mi hanno supportata parecchio».

"Sono migliorata tantissimo dall'ultima volta che mi hai vista" vorrei aggiungere, "soprattutto da quando ho iniziato a essere la dea Atena e far battaglia con Aspromonte".

Lì sì che mi sono sentita e mi sento tutt'oggi viva. Mi fortifico.

Ma perché non dirlo? Insomma, ho tutto il diritto di potermi vantare un po' anche io!

«Inoltre, da quando io e Aspromonte abbiamo iniziato a farci la guerra è rinato in me un certo spirito combattivo, una bella marcia in più, devo confessare».

Gabriele si mette a ridere appena mi sente nominare Leonardo, dato che se lo ricorda bene.

«Sì, ricordo quanto lo odiavi quel... Edoardo... no, Leonardo, ecco sì, Leonardo!» asserisce divertito Gabriele, sbagliando di primo acchito il suo nome, «Quando facevo il quinto io a capeggiare il Classico c'era Adrian Bellocchio, te lo ricordi? Leonardo è diventato un degno sostituto? Era piuttosto promettente per prenderne le redini» conclude sarcastico, decisamente satirico.

«In confronto, Adrian era una pioggerella d'inizio estate!» commento imitando il suo sarcasmo, «È stato pure nominato Rappresentante d'Istituto, ci credi?».

«Mi sarei stupito del contrario» fa spallucce il ragazzo, «scommetto che anche tu sei diventata un Rappresentante. L'hai detto con troppa noncuranza della nomina di Leonardo».

Al che sono costretta ad allargare le braccia, come ad arrendermi, «Mi hai scoperta».

«Cazzo, congratulazioni! Ho sempre saputo che avevi stoffa da vendere» si congratula con me colui che è il mio ex fidanzato, «a proposito... so benissimo che fa strano, alquanto strano, quello che sto per chiederti. Insomma, sono stato il tuo ragazzo, però, sembro matto se ti domandassi come va con il genere maschile?».

È dannatamente in imbarazzo quando me lo chiede. Arrossisce, un leggero color roseo spunta fuori sotto quello strato di abbronzatura.

«Ehm, no, è pura conversazione, non sei matto. Diciamo che mi sono trastullata con un ragazzo inglese durante l'estate e che per ora l'unica cosa su cui voglio concentrarmi è lo studio, visto che la patente ormai è andata» ammetto cercando di apparire naturale con la voce.

«Cazzo, di nuovo complimenti! Hai anche preso la patente. Mats, tu sei sempre stata una sorpresa» esclama per la seconda volta preso contropiede.

«Ti ringrazio, ma, insomma, sono traguardi a cui prima o poi tutti noi arriviamo» ribatto con della modestia.

Poi arrivo alla conclusione che non c'è nulla di male se rivolgo lui la stessa domanda che ha rivolto a me.

«E a te come va con il genere femminile?» inarco un sopracciglio, ostentando malizia.

«Sai, sono rimasto l'identico ragazzo strano che ero anche al liceo, mi dispiace ammettere che non è facile ottenere la mia attenzione... dunque, per ora, sono libero come l'ingresso dei musei la prima domenica del mese» mi espone la sua visione di questo argomento piuttosto delicato, facendo uso, inoltre, d'un ottima metafora.

«Sembra assurdo dirlo ora, ma tu sei l'unica che è stata in grado di farmi battere il cuore e di farmi interessare seriamente a qualcuno allo stesso tempo» mi confessa dopo aver preso qualche secondo di pausa per riprendere fiato e, forse, anche coraggio.

Rimango senza dubbio colpita da questa sua esternazione, appagata in qualche modo.

«Cosa ti ha colpito di me?» gli domando facendomi seria di colpo, sembra assurdo ma me lo sono dimenticata...

Gabriele diventa serio a sua volta, «Due cose mi hanno incuriosito di te: il modo in cui te ne fregavi del pensiero degli altri e al contempo l'empatia che provavi verso il prossimo. Due caratteristiche che è una rarità trovare insieme dentro la stessa persona».

Devo ammettere che tutta questa sincerità, dopo tutto questo tempo, risulta folle quanto soddisfacente. Sento una certa pressione dentro la gabbia toracica, una sensazione difficile da comprendere quanto da spiegare.

Cosa pensare? Dovrei esserne contenta? Dovrei esserne lieta oppure frustrata?

«Mi domando perché ci siamo mollati» aggiunge poi Gabriele, lievemente triste.

Ed ecco che mi vedo costretta a rinsavire, a sospirare, e a pareggiare i conti con le mie emozioni, il mio essere e tutto ciò che è stato.

Mi vedo costretta a sbattergli in faccia la realtà, interamente cruda e schietta per quello che è.

«Perché più stavo con te, più morivo di fame» è quello che mi esce dalla bocca, tagliente quanto veritiero, purtroppo. «Tu eri diventato un'ossessione per me», ogni parola che dico mi raschia le pareti della gola, rovente, «sono stata ricoverata in un centro specializzato e di conseguenza ci siamo allontanati fino al separarci. Io troppo immatura per resistere, tu troppo impreparato per aiutarmi. È andata come è andata, Gabriele, nessun rimpianto», deglutisco bisognosa improvvisamente di acqua.

Ma non posso fermarmi adesso, è bene che mi liberi di questo peso una volta per tutte.

«Non voglio risultare scortese, ma quasi la lontananza da te mi ha fatta rifiorire», l'ultima coltellata da tirare verso il mio passato. L'ultima confessione.

«Capisco...» è tutto ciò che Gabriele dice, senza un tono preciso.

«Adesso scusami, ma devo tornare dai miei amici. Ti auguro il meglio dalla vita, lo stesso che ho avuto io» pronuncio con estrema gentilezza e comprensione.

«Lo spero tanto. Sono qui in Italia da un mese e vedrò cosa fare, vedremo cosa avrà in serbo il futuro per me» replica mostrando un mezzo sorriso, non del tutto vero comunque, credo proprio di averlo ferito.

Gabriele poi si avvicina ancora di più, si china verso di me e mi saluta con un bacio sulla guancia. Le sue labbra che lasciano l'ultimo segno sulla mia pelle.

In quell'attimo così fuggente mi accorgo di un particolare, piccolo tanto quanto di elevata rilevanza.

Questo contatto non mi ha fatto sentire... niente.

Zero emozioni, zero sensazioni. Non come le carezze che mi ha riservato stamattina quel bamboccio di Leonardo, lì ho provato dei seri brividi.

Okay, cosa cazzo ho appena pensato?

Devo essere rincoglionita del tutto. Mi auguro profondamente che sia per l'effetto dato dall'aver rivisto Gabriele, me lo auguro sul serio.

Non sono affatto da me queste riflessioni, non di questo tipo soprattutto!

Mamma mia, che pensiero orribile, osceno, infausto, rovinoso, pietoso, indecente, depravato, ripugnante.

Ci sono altri aggettivi per definirlo, sant'iddio?

L'unica cosa positiva di questa ponderazione è che mi ricorda che devo ancora far luce sul mistero della fotografia.

Quindi nel momento esatto in cui mi vado a sedere insieme ai miei amici, mi avvicino di soppiatto a Marta e le sussurro all'orecchio di mandare un messaggio a Laira, dicendole di scrivere che ci saremmo incontrate nei bagni del nostro piano, alla seconda ora.

E con il post scriptum che si tratta di una cosa di vitale importanza.








Tento di prendere sonno alle nove e mezza passate, dopo aver preparato lo zaino per il giorno seguente e dopo aver realizzato un piccolo e veloce schizzo a matita del mio Vivaldi.

Ho la particolare passione di riprodurre i miei animali nelle loro pose più strane e disparate, come quando Marsellus se ne stava steso beato a dormire a pancia in su e con tanto di lingua penzolante fuori dalle fauci.

Oltre che disegnare animali, mi piace anche disegnare paesaggi, soprattutto gli edifici e Firenze ne è piena.

Vecchi, antichi, belli e maestosi. Praticamente sono come in paradiso.

Mi giro e mi rigiro dentro le calde coperte del mio letto, con le lenzuola felpate che sono andate a sostituire quelle fresche ed estive.

Sbuffo, sospiro mentre tento di trovare la posizione adatta per addormentarmi, senza farmi distrarre dalla luce fioca del lampione che entra filtrata dalla tenda della mia finestra.

Marsellus e Vivaldi già sonnecchiano da un po', il primo accucciato sul tappeto accanto al mio letto, il secondo appollaiato in un legnetto in fondo alla gabbietta. Marsellus russa addirittura alquanto.

Non è per colpa sua se non riesco a chiudere gli occhi. Bensì mi vedo costretta a tirare giù le coperte fino alle ginocchia e a saltare via dal materasso, atterrando con i piedi pari e facendo caso a non travolgere il bulldog ronfante.

Vado fino alla scrivania, dove giace quella maledetta fotografia arrotolata e piuttosto spiegazzata sui bordi.

La prendo fra le dita e ritorno spedita verso il letto, ricoprendomi fino all'altezza del naso.

Mi giro di fianco nel frattempo che mi metto a studiare per l'ennesima volta lo scatto. Riguardo me stessa riversa a terra, una gamba piegata e raccolta vicino al petto e l'altra ben distesa, roba che qualcuno ci avrebbe potuto tranquillamente inciampare.

Riguardo le mie palpebre chiuse, con sopra disegnati due bottoni, quasi che sembrano reali, veri. Le mie labbra, arricciate, imbrattate da due lacrime scarse.

Stavo lottando in tutti i modi di non mettermi a piangere, ma si sa... è piuttosto difficile controllare gli impulsi emotivi.

È un miracolo che non mi sia trasformata in un fiume in piena.

Riguardo e cerco di collocare i vari tasselli del puzzle ricreando la situazione in cui ero piombata: ero inerme, sicuramente stremata e piombata in un buco di tristezza e di avvilimento, il fatto che fossi accasciata a terra era decisamente chiaro come spiegazione.

Eppure, qualcuno ha pensato che fosse giusto, che fosse conveniente scattarmi una foto in quell'attimo di perdita di me stessa.

Perché le persone devono essere così cattive e prive di umanità? Di empatia... quell'empatia che io provo con semplicità e naturalezza verso tutti.

Se dovessi vedere una persona sconfortata oppure ferita riversa a terra cercherei di confortarla con un abbraccio, una bella parola di sostenimento, cercherei di salvarla chiamando aiuto, non mi verrebbe di tirare fuori il cellulare – il maledetto cellulare, rovina della nostra generazione – e scattare una foto ricordo.

Sventolandola, soprattutto, ai quattro venti giorni dopo, infischiandosene della sanità mentale del prossimo.

Perché è chiaro che nessuno reagisce alla stessa maniera di fronte a queste situazioni. Esistono persone forti come esistono persone deboli, incapaci di sopportare, incapaci di andare avanti.

Pochi secondi dopo, allungo la mano verso il comodino e stacco il telefono dal carica batterie, vado nella galleria e apro la seconda foto – la prima è della mia meravigliosa patente, e rimarrà lì per i posteri –, quella che ho scattato a Leonardo e a Viola. Lascio che la luce del display illumini il mio volto e mi faccia rimpicciolire le pupille.

«Sarei una brava persona, sarei superiore se la cancellassi...» sussurro a me stessa, mangiucchiandomi l'unghia del pollice e disinteressandomi dello smalto sopra di essa.

Avere questa foto fa di me una cattiva persona? Uhm, forse sì, forse no.

Sta di fatto che io non l'ho sbandierata a destra e a manca, non l'ho fatta neanche vedere a Marta, dannazione! E Marta è la mia migliore amica!

No, non sono una cattiva persona e riesco a provare ancora empatia.

Per cui decido di tenerla ancora un po', soltanto per me.











L'indomani guido per la prima volta in direzione del mio liceo, entro ufficialmente per la prima volta dentro il parcheggio del Caravaggio a bordo di una vettura e mi sento in tutto e per tutto una studentessa dell'ultimo anno, adulta, matura e responsabile.

Anche se ancora dovrei lavorare un po' di più sull'essere maturi e responsabili.

Parcheggio la Yaris tra le righe bianche apposite, non troppo lontano dall'entrata e smonto da essa con parecchie occhiate riversate addosso.

È inutile, mi sento piuttosto autorevole quando vado a chiudere la macchina e quando vado a roteare le chiavi nel dito indice.

Posso percepire l'invidia degli studenti ancora minori, ancora lontani dal poter andare a scuola guida.

Li capisco benissimo; quando non avevo ancora diciotto anni ero invidiosa anche io di quelli più grandi di me.

Poco dopo entro dentro il Caravaggio, in seguito alla consumazione della sigaretta mattutina, con un bel sorriso luminoso a incorniciarmi il volto, la conquista della patente ha spazzato via ogni spiacevole ricordo di ieri mattina.

Cammino a testa alta, la coda di cavallo che ondeggia in là e in qua; una marcia fiera e sicura.

Dopodiché corrugo la fronte quando scorgo vicino alla bidelleria, accanto alla rampa di scale per salire al secondo piano – il mio piano – un gruppetto di ragazzi riuniti proprio lì vicino. Un gruppetto di ragazzi dall'aria decisamente familiare.

Anzi, un gruppetto quasi al completo dei Rappresentanti d'Istituto.

Diego, Leonardo, Elettra, Giulio, Midorin, Thalìa e Jeanine.

Ovviamente una sensazione di panico ben presto mi attanaglia, mi invade ogni parte del corpo. Il cuore accelera i battiti.

Che stiano litigando?

Senza perdere altro tempo e aumentando il passo mi appresto ad avvicinarmi a loro, a Diego in particolare.

Tiro un sospiro di sollievo quando arrivano alle mie orecchie le parole Assemblea d'Istituto.

«Siamo a novembre, dobbiamo decidere quando fare l'Assemblea d'Istituto» sento che dice con voce seria e il tipico accento americano Elettra O'Connor, lisciandosi con fare maniacale una frangetta del tutto differente dalla mia, sempre gonfia e in disordine.

«Il giorno non è un problema. Più che mai dobbiamo raccogliere le firme di tutti i Rappresentanti, d'Istituto e Consulta, e ottenere il visto da Gandolfo» ribatte Jeanine piegando il collo con un perfetto accento italiano che va a sostituire quello anglofono di Elettra, facendo tintinnare il tris di orecchini a cerchietto che porta in entrambi i lobi, di grandezza graduale. Spiccano terribilmente grazie ai suoi capelli tagliati cortissimi.

«Mi offro io volontaria di procurarmi la circolare e di farla firmare. Mi occupo anche del visto da chiedere a Gandolfo» si offre prontamente Thalìa.

«Ti darò una mano» si aggiunge quell'angelo che è Midorin Ayasaka.

Se non indossasse costantemente dolcevita di cashmere, cardigan dai colori sobri, camice con sempre il colletto ordinato e i mocassini, direi quasi che frequenta l'Artistico anziché il Classico.

«Perfetto. Io e Midorin abbiamo il nostro incarico, poi decideremo in quale giorno» conferma Thalìa con un occhiolino.

Diego, con il braccio che va a premere contro il mio, lo sento irrigidirsi, gli vedo quella mascella contrarsi come non mai. A stento riesce a tollerare l'altra metà dei suoi colleghi, purtroppo è più forte di lui.

Se ne accorge anche Thalìa, e senza dare troppo nell'occhio allunga la sua mano andando a prendere quella di Diego. Mentre gliela stringe si scosta per sussurrargli all'orecchio, «Pace e amore, Dieghito».

Poi Leonardo, che fino a ora non aveva proferito parola, si decide ad aprire la bocca e a sparare chissà quale tipo di veleno.

«Mi raccomando, in Assemblea si parla di promuovere manifestazioni, di iniziative pomeridiane, di possibili occupazioni, di cose serie, insomma. Non si parla di come rollare canne, di tatuaggi, di dove potersi esercitare a fare graffiti oppure di rave» asserisce con pungente sarcasmo e un mezzo sorriso del cazzo.

Con questa frase scatena una risata da parte di Giulio Viviani, piuttosto grassa aggiungerei.

«Ah, seriamente?» sibila Diego, sempre con la sua mano dentro quella di Thalìa, «E io che pensavo che si dovessero spiegare le regole per diventare una perfetta faccia da cazzo. Pensavo che le avresti spiegate tu».

«Sappiamo benissimo come si svolge un'Assemblea d'Istituto, ti ringrazio a nome di tutti per il suggerimento, esimio Aspromonte» al che intervengo inarcando un sopracciglio e armandomi di buona educazione.

«Con quelli come voi non si sa mai. Meglio essere prevenuti» enuncia Leonardo non mancando di mostrare la sua altezzosità, muovendo un passo in avanti.

«Già, meglio essere previdenti. Le stilettate alle spalle non piacciono a nessuno» continuo io, avanzando a mia volta.

«Come stai oggi? Ti sei ripresa dall'hangover? Sembrava un tantinello pesante...» mi sbeffeggia il ragazzo sprezzante, riferendosi ad Halloween e alla fotografia. Ci avviciniamo ancora di più.

«Egregiamente. Mai stata meglio» replico scuotendo il capo.

Ora siamo praticamente a pochi centimetri di distanza. Si possono vedere quasi le piccole scaglie di elettricità che guizzano in ogni dove, provenienti dalle nostre occhiate.

Leonardo sta per controbattere, quando vengo attirata all'indietro, afferrata sotto le ascelle come una bambina. Rimango interdetta da questo improvviso colpo di scena, Diego come sempre esagera senza rendersene conto.

Ma appena vengo rimessa coi piedi per terra e appena noto che qualcuno mi sorpassa per andare dritto verso la faccia di Leonardo, constato che non è stato Diego a tirarmi via.

È stato Ludovico.

Ludovico che si mette letteralmente a ringhiare contro Apollo, alla stessa distanza che avevo io.

Ho un deja-vù.

«Vi siete fatti anche il cane da guardia?» commenta divertito Leonardo, ben poco stupito dalla sfrontatezza del mio nuovo compagno di classe.

«Sentite, adesso la messa è finita. Andate in pace» dico andando a spingere via Ludovico premendogli le mani sul petto, interponendomi fra i due.

Lo spingo indietro fino ad allontanarci del tutto dai Rappresentanti del Classico, seguiti da Diego, Thalìa e Jeanine.

Ora mi tocca badarne non uno ma due! Due cani rabbiosi, evviva!

«Diego, gentilmente, mi faresti copiare i compiti di matematica? Abbiamo Astri la prima ora e vorrei sbrigarmi, non vorrei beccarmi un'impreparata» cambio argomento mentre mi massaggio le tempie.








Alla seconda ora abbiamo lezione di lingua e letteratura italiana con la professoressa Monteluce e automaticamente è arrivata l'ora X.

Alzo la mano e, dopo aver ottenuto la sua attenzione, le chiedo con cordialità se potrei andare velocemente al bagno. Con un po' di fortuna, la prof. mi dice di sì e mi auguro che Laira sia stata fortunata quanto me.

Rapidamente schizzo via oltre il corridoio deserto del piano dell'Artistico, silenzioso, senza neanche una mosca che vola.

Non mi metto a correre, tuttavia cammino svelta. Mentalmente ringrazio me stessa per aver scelto di indossare le Dr. Martens Sinclair stamani, altrimenti se avessi prediletto quelle scarpettine con un pizzichino di tacco, che seppur basso fanno un casino dissennato, a quest'ora avrei fatto adirare ogni professore che sta facendo lezione.

Varco la soglia del bagno delle ragazze e, a parte il suono di uno sciacquone guasto, non vedo e sento nessuno.

Per puntigliosità mi appresto ad aprire le porte che trovo chiuse, bussando con due tocchi prima di abbassare la maniglia.

Niente, di Laira nessuna traccia.

Eppure aveva dato l'okay ieri... che abbia avuto qualche intoppo?

Decido di mettermi ad aspettarla per dieci minuti, male che vada mi sarò beccata un mediocre rimprovero da parte della mia prof. d'italiano. Ma vengo esaudita, passano soltanto cinque minuti e Laira arriva.

La prima cosa cui faccio caso appena ce l'ho sotto gli occhi è che Laira Visparelli è fresca di parrucchiere.

Non ha più i capelli lunghi quel tanto che basta a legarli in due chignon belli alti, bensì li ha tagliati in un simpatico e sbarazzino caschetto, corto sino alla mandibola. Si è persino tagliata la frangetta, però scostandola tutta verso sinistra.

Le dona tantissimo, non si può dire il contrario.

Ad ogni modo, ha un'espressione alquanto trafelata, lei si è messa a correre davvero.

«Scusami, ho dovuto implorare la prof. di storia dell'arte per uscire» ansima poggiandosi contro lo stipite della porta, «mi dispiace parecchio di non avere Lunanuova come professore! Presterei maggiore... attenzione» aggiunge depressa e con un pizzico di malizia.

Dopodiché Laira estrae un drum e un accendino dalla tasca anteriore della salopette, proprio cucita sul petto, e se lo porta alla bocca per poi accenderselo.

«Con Lunanuova col cavolo che avresti potuto fumare al bagno. È come un segugio in fatto di odore di fumo» la metto al corrente di quanto possa far schifo avere un professore che ti annusa quando rientri dal bagno, «bel taglio, comunque, ti dona» mi complimento indicando i suoi capelli.

«Lo so, mi stanno bene un casino» afferma Laira senza modestia, sapendo con certezza di essere graziosa.

«Allora, dimmi perché mi hai fatta chiamare» poi cambia subito argomento, assumendo un certo accento che associo al don Vito Corleone del film Il Padrino. Minchia, fa quasi paura.

«Secondo il post scriptum è una questione di vitale importanza» continua a parlare Laira con quell'accento da mafiosa, gesticolando con la mano che utilizza per fumare.

«Sì, è abbastanza importante, altrimenti non ti avrei fatta venire qui, dove nessuno può sentirci» convengo io con un cenno del capo.

«Sabato scorso non mi hai richiamata nonostante le mie dodici telefonate. E ora che Atena è in mezzo alla cacchina le serve l'aiuto del suo fedele uccellino» sottolinea Laira con finto disinteresse.

Giuro, le manca soltanto un gatto da lisciare in braccio alle sue gambe, è dannatamente brava!

Cerco di trattenermi dallo scoppiare a ridere per la sua interpretazione, mi metto la mano sopra la bocca provando a bloccare la risata imminente. Successivamente prendo un profondo respiro e mi do una calmata.

«Hai ragione, ti chiedo scusa. Purtroppo venerdì è stata una serata... intensa» dico facendo una pausa per trovare il termine appropriato.

«Lo so. Ho visto la foto» taglia corto Laira, tuttavia senza risultare maleducata.

«Ecco, visto che siamo arrivate al nocciolo della questione vorrei chiederti questo favore grandissimo, ma so per certa che sia della tua portata. Puoi scoprire chi è stato a scattarmi quella fotografia? So bene che hai una fonte misteriosa dalla quale estrapoli dettagli interessanti che vieni poi a riferire a noi» sgancio quindi la bomba, senza dilungarmi troppo.

Laira si porta una mano sotto al mento e mugugna dubbiosa, incerta.

«Devo pensarci» ciarla facendo finta di pensarci sopra, «sarebbe più fruttuoso se avessi qualcosa in cambio visto il tuo avermi bellamente ignorata. Hai ignorato il tuo uccelletto preferito e questo non si fa».

«Wow, ricorriamo ai ricatti adesso?» le domando leggermente stupita, anche se devo ammettere che mi diverte un sacco questa ragazzina. Ti sbalordisce sempre. «E va bene. Ma che sia qualcosa di fattibile» cedo alla fine.

«So che hai appena preso la patente, proprio ieri. Quindi ora guidi a tutti gli effetti» prende ad espormi la sua richiesta, togliendosi quell'accento siciliano e assumendo quella tipica aria che le si addice, ossia fanciullina e eccitata, «voglio che tu mi dia un passaggio da casa a scuola e da scuola a casa. Per una settimana».

Caspita, Laira ha le idee ben chiare. Secondo me aveva tutto in programma.

«Sì, lo farò» a malincuore mi tocca acconsentire.

Se voglio realmente sapere chi vi si cela dietro quel fatidico obiettivo è giusto che venga fatto un sacrificio. In fondo è solo per una settimana, posso sopportarlo.

Laira come appura che ho accettato il suo compromesso scatta sul posto, felicissima, per poco che non le vola via il drum dalle dita.

«Considera che hai già il colpevole fra le mani» mi assicura lei con espressione scaltra.

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