13. Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te - con gli interessi










"Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te".

Sto riflettendo parecchio sopra questa frase.

A volte, mi capita di pensarci quando sono sopra il water a far pipì e scorro con faccia annoiata la home di Facebook imbambolandomi di punto in bianco, smettendo di leggere le merdate che pubblica la gente.

Dal nulla mi spunta qualcosa su cui rimuginare. E di brutto poi.

Altre volte mi capita di pensarci mentre porto a spasso Marsellus Wallace, quando mi abbottono meglio il giacchetto fino al collo per via del freddo. Oppure quando tira quella piacevole aria fresca durante l'estate, sempre con il mio cane che tira al guinzaglio. Altre volte ancora mi capita quando me ne sto con la mano premuta contro il mento nel mentre del mio turno all'Arcadium, quando nemmeno anima viva si presenta per comprare un biglietto.

Insomma è in momenti come questi che mi viene da meditare in frasi dette e ridette ma, comunque sia, così fottutamente vere, reali, tangibili, evidenti. Una lezione di vita te la impartiscono a prescindere e non solo quando le posti a random su Instagram o alla cazzum su una fotografia che non c'entra un emerito niente con la suddetta frase.

Molte volte le leggiamo ma non le interpretiamo come andrebbero interpretate per davvero!

Le diamo per scontate perché sono già state inventate da qualcuno al posto nostro. E invece è proprio qui che io m'impunto. Io faccio in modo di non darle per scontate. Le analizzo a fondo, mi ci faccio serie pippe mentali. Roba che mi viene da pensare, "Ma chi me lo fa fare? Se nessuno lo fa è perché così campa meglio!".

Eppure eccomi qua, per la millesima volta. Che mando affanculo con eleganza quel suddetto "campare meglio".

Per la millesima volta che mi ficco proprio con entrambi i piedi dentro la millesima cazzata. Sì, sono sicurissima, sarò umiliata al novantanove virgola nove per cento! Ma chissene importa? Mi sono appena data dell'incoerente!

Dov'ero rimasta?

A non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te". Già.

Questa frase è appena entrata letteralmente in collisione con ciò che sto mettendo in atto. Negli ultimi dieci secondi, quando ho preso la decisione di afferrare Ludovico per la mano e di tirarmelo dietro con la forza.

Quando ho scelto di abbandonare su due piedi lo spettacolo di Marco e tutti gli altri miei amici e di farmi crescere l'appendice nasale la quale è fatta a puntino per andare a ficcarsi dentro gli affari altrui. Per andare al Forte d'Alabastro, seguire i movimenti di Leonardo e scoprire se la ragazza del mistero è proprio Viola Angeloni.

Tuttavia tento in qualche maniera di dare una giustificazione plausibile per tale azione. Totalmente non da me, anti-Matilde. Ma piuttosto che venire alla luce un capro espiatorio qualsiasi, sopraggiunge invece quella citazione. "Non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te", penso per la terza, quarta, quinta volta.

Mi attanagliano la mente queste parole. Sto cercando di capire se ciò che sto per fare sia cosa buona e giusta. Sto andando a spiare il mio nemico. E la domanda esatta da pormi è la seguente: "Vorrei che Aspromonte mi seguisse, con qualche suo amichetto, e mi spiasse?".

La risposta esatta sarebbe: "No, perché se qualcuno, chiunque esso sia, dovesse farlo con me io m'incazzerei da morire".

Sono troppo innamorata della mia privacy, mi piace definirmi una persona riservata.

Insomma, per etica io non dovrei affatto seguire Leonardo, quanto meno evitare di essere curiosa nei suoi confronti e d'impicciarmi dei suoi affari, per quanto equivoci e bizzarri essi siano... Che cazzo sto facendo?

"Se stai attenta a non farti vedere Leonardo non saprebbe che lo stai stalkerando, di conseguenza non si arrabbierebbe", mi suggerisce la vocina interna, con un che di diabolico e di malizia per giunta.

Mio dio, qualche volta mi rendo conto di essere proprio una perfetta stronza ingannatrice. Mi sorprendo di me stessa.

Be'... ma che voglio farci? Alla fine siamo tutti un po' marci dentro. Due piccole corna da diavoletto tenteranno sempre di far capolino dal cranio.

Comunque sono talmente presa dai miei futili, per quanto profondi, pensieri che non mi sono accorta di essermi impalata proprio nel bel mezzo di Piazza della Repubblica, a pochi metri dalla Colonna dell'Abbondanza. Con Ludovico al seguito e la sua mano stretta nella mia.

Sembriamo due cretini in mezzo alla gente del sabato sera. Meno male che diamo poco nell'occhio!

«Questo smalto fa schifo» sento Ludovico che commenta alle mie spalle con verace e ferina onestà il colore del mio smalto.

Evidentemente deve averlo esaminato con cura per aver emesso un giudizio così immediato. Infatti, quando mi volto, me lo ritrovo che osserva con vivo interesse le mie dita intrecciate alle sue. La fronte corrugata sinonimo di concentrazione e la linea della bocca dritta, rigida. Un color arancio pallido, quasi simile a quello dei gamberetti, spicca dalle unghie.

«Sono costretta a metterci lo smalto, ho l'impulso di mangiarmi le unghie a sangue altrimenti...» faccio spallucce spiegandogli come realmente quello smalto sia finito spalmato lì, «non sempre faccio caso a quale colore scelgo. Ne ho troppi a casa per mettermi a scegliere ogni volta».

«Devi essere una persona rabbiosa, tu» fa notare Ludovico con un sopracciglio inarcato, riportando l'attenzione sul mio viso.

«Cominciamo a conoscerci meglio, amico» replico ironicamente sottolineando volutamente la parola "amico".

«Anche io sono una persona rabbiosa» aggiunge come a volermi dare una specie di supporto emotivo, ignorando, credo, inconsciamente il mio tentativo di punzecchiarlo.

«Ti mangi le unghie? Oh be', dobbiamo mettere lo smalto anche a te» annuisco con raccoglimento.

«Provaci e ti spezzo le dita, non m'importa se sei una femmina» ringhia Ludovico, prendendomi stavolta sul serio.

«E io ti rompo una sedia dritta in testa, come nei film Western, non m'importa se sei un maschio» obietto senza lasciarmi intimorire, ho inquadrato Ludovico, so che non devo farmi soggiogare dai suoi modi rudi di fare e di dire. È un po' come Diego, in fondo, ma senza freni.

Mi volto di nuovo verso il perimetro della piazza e tiro un sospiro affranto. Poso gli occhi in primo luogo sul Caffè delle Giubbe Rosse, il vicino del Forte d'Alabastro, e mi focalizzo senza un perché sulle persone sedute ai tavoli.

Andiamo, è inutile temporeggiare. Ormai ho preso la decisione di merda e decisione di merda sia!

Ripeto con forza la stretta intorno alla mano di Ludovico e riprendo a camminare, in questo caso meno spedita e più tranquilla. Evitiamo di comportarci da tori alla carica. Ludovico mi segue senza emettere un fiato, un'ombra al seguito. Non mi chiede spiegazioni, e meno male; non avrei avuto la voglia e il coraggio di replicare con intelligenza.

Con passo lento seppur sicuro, mi accingo a raggiungere l'entrata del maledetto luogo, il Forte d'Alabastro, che gode d'un ingresso senza dubbio spettacolare e che non passa inosservato.

La porta di vetro è incastonata dentro una rientranza ad arco composta di pietre tonalità ardesia. L'arco è piuttosto alto, il che dona eleganza e charme al locale. Il pre-ingresso è decorato invece con una moquette dai motivi barocchi, con sfondo grigio cadetto ed ornamenti in color oro scuro. Ai lati interni dell'ingresso, due grandi vasi nero pece con arbusti di bosso danno il benvenuto ai visitatori.

Mentre all'esterno – l'ingresso che si apre proprio sulla piazza – vi sono sempre due arbusti di bosso però in vasi dall'aria antica e color bronzo.

L'insegna signorile e senza alcun dubbio di classe torreggia sopra l'arco di pietra, la scritta Forte d'Alabastro in rifinitura argentata con l'interno sottile in nero impera in tutto il suo splendore per l'area della piazza in cui si trova.

Cattura l'attenzione, non c'è che dire.

Cioè, insomma, sono davanti all'entrata del Forte d'Alabastro. Io! Ci rendiamo conto? Non l'avrei mai detto. Quasi che mi viene da tremare e vomitare allo stesso momento. E, ovviamente, viene per la millesima volta da chiedermi, "Perché lo sto facendo?".

Mi viene naturale ipotizzare: sicuramente non lo faccio per fare un favore a Olivia, è fuori discussione e poi io non le devo niente di niente, non stalkero Leonardo per secondi fini, dal momento che non ho alcun tipo di legame con lui non provo gelosia di saperlo con un'altra.

Per cui giungo a un'inevitabile conclusione, ossia che sono semplicemente mossa dalla curiosità di vedere fin quanto il dio Apollo è disposto a cadere in basso, e secondo me pure tanto.

Certo, pecco comunque di essere ficcanaso e incoerente, ma non è il peggio del peggio che mi ero immaginata!

«In questo posto non ci ho mai messo piede» commenta Ludovico accanto a me, sempre con la sua mano stretta nella mia.

D'un tratto mi sembra di essere come in Fight Club, quando il protagonista e Marla Singer osservano dalla vetrata del grattacielo il crollo degli istituti di credito.

«È da fichette» lo reputa mostrando una sana smorfia di disgusto.

«Dobbiamo entrare» annuncio ferma, dando una rapida occhiata ai divanetti situati all'aperto e constato che sopra quei morbidi cuscini non c'è chi sto cercando. A rigor di logica sono di sicuro all'interno del locale.

«Se ti aspettassi fuori?» propone Ludovico in questo frangente usando un tono quasi... da cane bastonato, seppure con quella nota profonda e ruvida.

«Scherzi? Io che entro da sola in questa gabbia di squali? Non è possibile. E poi... potresti iniziare a sanare il famoso debito con me. Ora siamo amici» lo ragguaglio spalancando gli occhi come una pazza.

«Io non voglio amici. Questa è una cosa idiota e io non la voglio fare» replica giustamente Ludovico, ringhiando come prima.

«Avevi detto che era da un po' che non eri debitore di qualcuno, avevi detto che avresti potuto riprovare» insisto io senza demordere, dando prova della mia insopportabile testardaggine. Bambina viziata per essere accurati.

Ludovico rotea gli occhi per esprimere tutto il suo disappunto, sicuramente si sta pentendo come non mai di averlo detto.

«Io parlo sempre troppo, troppo!» grida Ludovico senza vergogna e senza timore di attirare attenzione, «Devo starmene zitto!».

«A dir la verità tu parli anche troppo poco...» sottolineo alzando la mano ed esibendo il pignolissimo dito indice. Come ad andarlo a ficcare nella piaga.

«Sei una rompipalle come mia sorella!» borbotta, «Entro prima io» alla fine cede, oh mio dio come cede.

Ludovico si è gentilmente offerto di fare il primo passo, io, da brava amica, mi metto alle sue spalle in fila indiana e abbandono la sua mano, divenuta un pelo umidiccia. Non riesco a nascondere un orpello di ghigno d'orgoglio, adoro quando le cose vanno secondo i miei piani. Il ragazzo con una bella mossa solida poggia le dita sulla superficie di vetro e spinge la porta verso l'interno, dando modo al calore dentro di venirci incontro, inebriandomi piacevolmente.

Caspita, è successo davvero. Sono dentro il Forte d'Alabastro!

Tutto intorno a me è di un colore tenue, etereo, nessuna sfumatura vivace spicca se non le miriadi di bottiglie di liquori sopra le mensole che stanno dietro al bancone della cassa.

Le pareti sono pitturate di un avorio che danno un'aria di infinito. Il pavimento sotto ai nostri piedi è completamente in alabastro e con striature più scure. Un dettaglio che cattura la mia attenzione sono le colonne in stile corinzio poste ai lati del locale. Anch'esse d'un bianco cereo.

Qui dentro ogni cosa è di classe, ogni metro quadrato è di qualità. Addirittura l'aria che annuso sembra essere diversa, c'è un profumo particolare, di mughetto misto a qualche odore di pregiato liquido alcolico; ignoro la provenienza e l'etichetta.

Sempre alle pareti sono appesi dei quadri con cornici alternate, nere e bronzo antico. All'interno di esse vi sono delle riproduzioni di un evidente servizio fotografico adibito ai bicchieri, al cristallo, alle bottiglie dei cocktail e alle mani di perfetti sconosciuti. Rigorosamente anch'esse in tonalità tenui e grigie.

Se non fosse per l'aria calda che viene mandata fuori dal riscaldamento mi verrebbe da rabbrividire, questa liquoreria è elegante quanto fredda e distaccata.

Ora capisco perché è assiduamente frequentata dai Perfettini, interpretano alla perfezione la parte delle belle statuine.

In un secondo momento, mi viene da posare lo sguardo sui miei vestiti. Un sorriso mi spunta quando penso a quanto il mio modo di essere stride con l'effigie di questo ambiente.

Sono come un pesce fuor d'acqua.

Mentre io perdo tempo ad arrovellarmi di pensieri, Ludovico è alle prese con l'addetto alla sala che sta in piedi dietro al bancone in marmo nero, vestito di un particolare completo da cameriere verde scuro scintillante. È la prima volta che vedo un dipendente indossare un colore fuori dal bianco e dal nero.

«Due birre» ordina Ludovico senza badare alle convenzioni sociali quali "per favore" e "grazie". Nemmeno poggia la mano sopra il marmo, rimane eretto, immobile, quasi facendo la statua.

«Noi non vendiamo birre» enfatizza stranito il giovane, marcando un tono sarcastico.

«Allora due bicchieri di vino» riprova Ludovico già
spazientito.

«Quale tipo di vino? Rosso o bianco? Di che marca? Di quale anno? Freddo o a temperatura ambiente?» gli chiede velocemente l'altro, in un moto di noia.

In uno schiocco d'aria, Ludovico afferra senza paura il colletto verde del povero sventurato, strattonandolo verso di sé, oltre il bancone.

«Del normale vino ce l'avete o no?» ringhia innervosito a pochissimi centimetri dal suo viso.

Adesso mi vedo costretta a intervenire. Evitiamo spiacevoli e inutili inconvenienti, dopotutto sono qui in incognito.

«Due calici di Riesling fresco, grazie» prendo le redini della situazione afferrando le braccia di Ludovico e allontanandole dalla stoffa verde scura, «e scusaci».

Dopo aver fulminato il gigante con una seria occhiata di fuoco, mi guardo attorno e constato che non c'è traccia di Leonardo o Viola nei tavoli, nemmeno sulla saletta posteriore, perfettamente visibile anche da qua. Devono trovarsi per forza nella saletta sotterranea, non ci resta quindi che scendere le scale.

Con movimento fluido, prendo i calici già serviti sul bancone e pieni di vino, un vortice di bollicine.
Con un cenno del mento faccio segno a Ludovico di andare avanti per primo.

«Dài meno nell'occhio se vai prima tu» gli spiego, «se vedono me praticamente è come missione nulla».

Lui obbedisce senza una parola e procede alla volta delle scale a chiocciola che conducono al piano di sotto, quello sotto terra. Io mi metto in coda cercando di mostrare il meno possibile il volto.

Gradino dopo gradino, c'immergiamo nella parte più antica del locale. Il piano sotterraneo è illuminato da luci bassissime, roba che sarebbe impossibile leggere un libro o un giornale, il pavimento è sempre in alabastro tuttavia appare più cupo e scuro per via dell'illuminazione discreta.

Al muro sono appesi drappi spessi color grigio scuro e rosso mogano che adornano dei magnifici quadri, del tutto diversi da quelli del piano di sopra. Questi sono dipinti, in cotale frangente colorati, nessuna gradazione scura, nessun colore fosco, perlomeno non sembra di essere in purgatorio.

Al centro della sala, anch'essa estesa, vi è una fontana di piccole dimensioni e dalla forma circolare decorata con due grifoni dai quali escono getti d'acqua.

A mio modesto parere è più sorprendente il piano sotterraneo che quello principale.

Munendomi di occhio di falco, continuo a cercare Leonardo, ormai sono stra-sicura che sia qui.

Infatti ecco che adocchio la mia preda, come una cacciatrice.

È seduto proprio in fondo alla sala, come a volersi per forza isolare, su dei divanetti in stile rococò in legno di noce, con le stoffe color blu scuro. Insieme a lui c'è, come avevo sospettato fin da subito, Viola Angeloni, la bestfriend di Olivia; lei, tuttavia, non c'è.

A fare il terzo incomodo, poi, c'è Claudio Patriarchi, colui che mi sta sul cazzo ai livelli di Leonardo. Lo disprezzo particolarmente di più rispetto agli altri del suo gruppo.

Ha gli occhi dal taglio allungato di un verde cupo, parecchio scuro; sono proprio questi che gli danno quell'aria serpentina e da perfetto stronzo. Giustamente anche le labbra carnose costantemente ridotte ad una smorfia di pura noia e totale insoddisfazione contribuiscono. Ebbene, si è capito, Claudio è l'esempio lampante di essere umano di continuo scontento e mai felice. Sempre alla ricerca di quel "più".

Io e Ludovico ci sediamo in un tavolo rotondo, tatticamente nascosto da una grande pianta da decoro, senza farci scoprire, né vedere. Una postazione eccellente.

«La tua descrizione era più che giusta» asserisco senza perderli di vista, assottigliando gli occhi, «piena di lentiggini e due lunghe trecce castane».

«Si tratta bene il biondino» sogghigna ironico e quasi con ammirazione Ludovico, appropriandosi del suo calice.

«Anche Dorian Gray si trattava bene!» ribatto io acida, «Poi hai visto che fine ha fatto?».

Nel contempo che osservo con fare maniacale il trio dei Perfettini, mi accorgo che una composizione imperiosa di violini fa da sfondo per il locale. Non ci avevo fatto caso quando sono entrata poco fa, troppo presa dal guardare l'interno. In effetti sembrava strano che la musica fosse assente in un posto come questo.

Ludovico, come se anziché un umano in carne e ossa fosse un robot alla Bender di Futurama, beve in un solo e unico sorso tutto il Riesling dentro il calice. Se lo scola giù nemmeno fosse acqua frizzante. E dopo aver riposto il bicchiere sopra il tavolo di legno non dà il minimo segno di cedimento.

Io, al posto suo, mi sarei messa a tossire minimo quattro volte e avrei strizzato le palpebre neanche avessi mangiato un peperoncino intero.

Il vino, che sia bianco o che sia rosso, va sorseggiato con grazia e la dovuta calma, come dice mio padre. Non scolato come una birra alla mo' di pirata! Si vede che Ludovico non è abituato.

Mi soffermo a guardarlo per qualche attimo con occhi sbarrati e infine mi concedo un piccolo sorso del mio, ancora intatto.

«Quanto dobbiamo rimanere qui?» chiede Ludovico grattandosi i capelli.

«Quel tanto che basta per dare fondamento ai miei dubbi» lo informo senza ammettere repliche.

E "quel tanto che basta per dare fondamento ai miei dubbi" non tarda ad arrivare. Anzi, sembra quasi che voglia arrivare con largo anticipo.

Leonardo dà la prova inconfutabile della sua pochezza di spirito e di etica.

Il ragazzo dai capelli biondi con addosso un maglione dall'aria costosa e dal collo alto passa dapprima il braccio attorno le spalle di Viola, successivamente prende un sorso del suo vino rosso e dopo essersi leccato avidamente le labbra va a premere quest'ultime su quelle della ragazza, in evidente stato di adorazione.

Non mi soffermo ad analizzare il loro bacio tanto ne sono disgustata. Oramai la prova l'ho avuta e anche schiacciante.

Indugio sulla figura di Claudio, seduto nel divanetto di fronte a quello degli altri due. Tiene le braccia allargate sopra la spalliera e le gambe accavallate, sogghigna come se fosse contento di fronte allo scambio di effusioni del dio Apollo e la sua nuova ancella.

Olivia Valorosi attualmente non conta un cazzo, vale meno di zero per loro tre.

Oltremodo indignata e con il cuore che mi batte più veloce del normale, faccio per estrarre il cellulare dal mio zainetto di cuoio.

Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te.

Oh, che cazzo! Ormai sono in ballo, non posso tirarmi indietro in nome della morale! Ormai mi sono corrotta, va bene?

Apro di conseguenza la fotocamera, metto a fuoco i tre ragazzi che si vedono con chiarezza attraverso l'obiettivo e scatto. Non si sente il suono e per fortuna, nonostante abbia la maggior parte delle volte il volume alto ho avuto il buon senso di togliere il rumore dalle opzioni della fotocamera. Si è rivelata utile col tempo questa mia decisione.

Ce l'ho. Ho la prova ferrea.

Leonardo Aspromonte che limona con ingordigia Viola Angeloni, la migliore amica della sua Olivia. E Claudio Patriarchi che assiste come un coglione senza fare niente.

Non so ancora con certezza che cosa avrò intenzione di farci con questo scatto, però nel profondo so che dovevo farlo. Me ne sarei pentita se avessi agito al contrario. Comunque sia, sarò sempre in tempo per cancellarla.

«Se divento tuo amico poi mi porterai sempre in posti come questo?» sento dirmi da Ludovico.

«No, di certo!» esclamo con sicurezza. Croce sul cuore, non metterò mai più piede al Forte d'Alabastro, questo posto non è fatto per me.

«Bene, possiamo andare» continuo a parlare rimettendo a posto l'arma del delitto nello zainetto, «possiamo tornare allo spettacolo di Marco».

Finalmente la mia curiosità è stata appagata.





La mattina dopo mi sveglio a un orario decente, senza postumi di sbornie o di trip allucinanti.

Mi desto stiracchiandomi e sbadigliando, aprendo con calma prima un occhio e poi l'altro. Nessun arto che minaccia di staccarsi, nessun dolore sospettoso in qualche parte del corpo, nessuna gola secca e soprattutto la mente che è in armonia e in perfetto equilibrio. Non ho avuto incubi nonostante i recenti avvenimenti.

Ho dormito come un sasso, dolcemente.

Nonostante ciò, ho ancora la mano insaccata nella garza e nel cerotto e ho ancora i graffi ormai col sangue secco che fanno capolino da sotto il pigiama. Quelli purtroppo non posso nasconderli o scacciarli via.

Ad ogni modo, scelgo di smettere di pensarci troppo. Non mi giova particolarmente. Meglio se m'impegno in qualcosa di più utile e fruttuoso, come, ad esempio, fare una breve e veloce lista di temi in vista della tesina per gli esami.

Scendo giù dal letto, dunque, e accendo il computer. Nel mentre che attendo mi metto un paio di calzoni di pile infilando gli orli sotto i calzettoni di lana. Dopodiché vado nello scaffale dove tengo i libri di scuola e cerco il programma stampato che ci hanno consegnato il secondo giorno di lezioni.

Prima esamino il programma scolastico e poi scelgo come collegare le varie materie in base al tema che più mi piacerà. Mi munisco anche di penna e strappo un foglio da un blocco d'appunti a caso, pronta per mettermi all'opera.

Per cominciare cerco su internet gli ultimi argomenti usati per le tesine del 2013, tentando di prendere spunto e di farmi venire in mente l'illuminazione. Chiaramente voglio anche evitare di copiarne una di sana pianta, adoro essere originale e naturalmente lo sarà pure la mia tesina.

Procedo col segnarmi sulla carta più temi possibili, i più singolari e d'impatto.

Mi segno Moulin Rouge, gli anni Sessanta, i Sentimenti, Ordine e Caos, la Banalità del Male, Essere o Apparire?, la Morte, Uomo/Natura, la Follia, la Libertà e il Paradosso e, per finire, l'Irrazionalità.

Confesso che vorrei sceglierli tutti, li amo tutti quanti. Uno per uno.

Ad ogni modo, ho tempo per prendere una decisione. E sicuramente farò quella giusta. Questi temi mi stanno a cuore, ognuno di loro, credo proprio che non sarà facile... Magari mi serve un parere d'una persona seria e che mi sa conoscere per come realmente sono.

Compongo il numero di DarthMart al cellulare, sperando che sia sveglia alle nove della domenica mattina.

Dopo quattro squilli – quasi che sto per perdere la speranza – mi risponde, lasciandomi piuttosto sorpresa.

«Marta!» esclamo senza volerlo, «Ciao».

«Mats, ciao, buongiorno, ti senti bene?» sento Marta che ride di fronte al mio strambo e insolito "ciao".

«Egregiamente. Sono solo sorpresa che tu sia sveglia a quest'ora... che stai facendo?» le domando mentre mi gratto la fronte.

«Sto innaffiando le mie piantine della camera, grazie per l'interessamento. Tu che fai?» replica lei con finta voce formale.

«Ehm... sto facendo una lista di temi per la mia tesina. In realtà ti ho chiamato per chiederti un parere» le spiego rapidamente.

«Azz, ti porti avanti, siamo solo agli inizi di novembre. Comunque, spara. Dimmi questi temi» borbotta Marta come sempre disponibile per me.

Per cui, aiutandomi con la penna, le leggo tutti ed undici gli argomenti che mi sono scritta in grafia piuttosto ordinata per essere una brutta copia.

«Sono tutti dei temi bellissimi» afferma lei dopo avermi ascoltata con attenzione, «però Uomo/Natura devi lasciarlo a me, sai quanto ci tengo alla questione».

«È tutto tuo se vuoi» le concedo, posso farne a meno di uno, ne ho altri dieci nell'artiglieria.

«Comunque devi stare tranquilla e non avere fretta, Mats. C'è ancora tempo e cambierai idea altre mille volte» mi rincuora Marta con dolcezza. "C'è ancora tempo? Le ultime parole famose", le vorrei tanto rispondere.

Però decido di lasciar stare e cambio discorso. «Che combini oggi pomeriggio?».

«Mi duole avvertirti che questo pomeriggio non ci sarò» prende a dire DarthMart facendo uso del suo minuzioso e vasto vocabolario, «vado a cena da mia nonna a Castellino in Chianti e sai... partiamo poco dopo pranzo. Sai com'è mio padre, ha paura di arrivare sempre troppo tardi».

«Don't worry» le rispondo in inglese, «avrai una domenica migliore della mia. La combo "nonna+piccolo paesino incantato" non è per tutti ed è imbattibile».

«Perché non senti Diego o magari Thalìa?» mi suggerisce lei con voce un po' dispiaciuta.

«Nah, me la cavo, sai? A volte dobbiamo rimanere anche da soli, ne abbiamo bisogno» confesso con saggezza.

«Non hai tutti i torti!» Marta da ragione alla mia affermazione.

Dopo averla adeguatamente salutata e dopo aver riagganciato, mi accorgo di un dettaglio. Marta non mi ha fatto domande riguardo alla mia sparizione di ieri sera, prima dell'esibizione di Marco.

Non si è accorta di nulla.

Uhm, meglio così, anche perché non le ho detto della fotografia, né che mi sono intrufolata al Forte d'Alabastro con Ludovico. Non le ho detto niente.

Nonostante la nostra solida e viva amicizia, io continuo a preferire a evitare le spiegazioni scomode. Forse un comportamento come questo una migliore amica non dovrebbe usarlo, però io non incarno l'ideale di essere umano perfetto, neanche lontanamente.

Funziono alla cazzo di cane e sono dell'idea che avere dei segreti sia di vitale importanza.

All'improvviso sento bussare alla porta della mia camera e pochi istanti dopo fa capolino la testa di mia madre, con i suoi tipici capelli corti da folletto in disordine.

«Buongiorno, Janis Joplin» mi saluta con un sorriso caloroso.

«'Giorno, madre con i capelli da folletto» ricambio con lo stesso sorriso.

«Hai voglia di fare un salto in rosticceria per prendere qualcosa per pranzo?» mi domanda.

«Come no, devo solo cambiarmi» accetto indicando poi i miei calzetti decisamente trash sopra i calzoni di pile.

«E devi fare anche colazione!» proferisce lei severa, «Se vuoi possiamo andarla a fare al bar Robiglio, mi sono svegliata da poco anche io» propone con un occhiolino, sapendo di cogliere nel segno dato che il bar Robiglio è il mio posto preferito per fare colazione. Che piccola infame!

«Vada per la colazione al Robiglio. Un cornetto alla marmellata lo mangio volentieri, il mio preferito» le do il contentino senza cercare di nascondere gli occhi a cuoricino.

Con Adele mi sento costantemente una bambina. Si preoccupa sempre delle più piccole cose. Soprattutto del mangiare, mi controlla peggio di un generale dell'esercito. In questo aspetto ha tutta la mia comprensione.

Lunedì mattina è ufficiale. Non solo è il giorno in cui finalmente prenderò la patente, ma è anche il giorno nel quale vengo accompagnata a scuola per l'ultima volta da mia madre.

Dopodiché avrò libertà totale.

Sicuramente avrò nostalgia, quello senz'altro, però muoio dall'eccitazione di poter manovrare un mezzo con le mie stesse mani e i miei stessi piedi.

Dunque faccio in modo di godermi il mio ultimo tragitto con quella "P" da principiante appiccicata al lunotto della Yaris.

Mi godo gli ultimi semafori, gli ultimi ingorghi, mi godo il silenzio rispettoso che sono costretta a tenere mentre conduco il veicolo perché Adele ha a cuore di non trasformarmi in una guidatrice pazza e isterica.

Ebbene, quando avrò quella dannata patente farò tutto il contrario, non vedo l'ora di imprecare contro chiunque, perché sicuramente con la mia pazienza non sarò in grado di reggere. La prendo sul ridere, mi rimane da fare solo quello.

«Buona scuola, Mati» mi augura la mamma mentre scendo e lei si riappropria del posto guida, «ci vediamo all'uscita e non metterti a fare scenate con quel Lunanuova. Poi ci rimetti tu, non lui».

«Tranquilla, Lunanuova me lo mangio a colazione, so come prenderlo» la rassicuro imbracciando le bretelle dello zaino.

«Evita di incazzarti per le sciocchezze!» mi ammonisce con sguardo da maniaca.

"E meno male che non si è accorta dei graffi che mi sono procurata", penso angelicamente fra me e me. Meno male che siamo nella stagione fredda ed è obbligo portare le maniche lunghe e il collo alto.

Come non voglio che veda mia madre, non voglio che vedano né Marta, né Diego, né nessun'altro. Basta parlare delle terribili sventure che capitano a Matilde, basta.

Anche perché, siccome sono io l'artefice, preferisco evitare un'umiliazione ulteriore.

«Non m'incazzo, non m'incazzo» alzo le braccia in segno di resa.

«Ciao, amore» infine mi saluta tirandomi un bacio.

Quando riparte lasciandomi sola al solito posto dove di solito mi fermo per il cambio sedile, prendo una sigaretta portandomela alla bocca e accendendola. Ne tiro su una bella boccata, ovviamente la prima va tirata su decentemente, e, dopodiché, prendo atto che non serve ascoltare "Rock the Casbah" questa mattina.

Non ho interrogazioni particolari che incombono all'orizzonte. Non ho l'umore storto per causa di qualche bamboccio o per causa di qualche professore testa di cazzo. Anzi, stamani entro per la prima al Caravaggio in veste di Rappresentante d'Istituto. Sono più carica che mai, per niente nervosa.

Mentre mi avvio verso l'entrata dell'istituto, faccio caso che non ci sono molti studenti fuori a fumare prima della campanella d'inizio lezioni. Strano. Bizzarro.

Per consuetudine, di lunedì mattina soprattutto, il cortile del Caravaggio è strapieno di ragazzi che prima di entrare chiacchierano, scherzano, si deprimono e fumano.

Stamani ce ne sono davvero, davvero pochi. Pochissimi.

Che Diego abbia organizzato qualcosa che li ha radunati all'interno? Visto che è il nostro primo giorno della nostra carica magari gli è venuta in mente qualche folle trovata per inaugurare il mandato.

«Mati!» vengo chiamata da una voce femminile, «Buongiorno!». È Veronica. È appena arrivata anche lei.

«Ciao, Vero. In forma smagliante in questo lunedì deprimente?» la saluto dandole il pugno contro pugno.

«Uh, non vedi quanto?» obietta lei con una risatina tutt'altro che divertita, «Entriamo insieme?».

«Come no» dico subito che mi sta bene, «a proposito, hai notato che non c'è nemmeno anima viva fuori nel cortile? Dici che se li è rapiti Diego?».

«Infatti mi sono accorta, non c'è quasi nessuno fuori. E no, non credo che stavolta Diego c'entri qualcosa... sicuramente è per qualcos'altro» proferisce con un po' di sospetto nella voce.

«Non ci resta che entrare, allora» concludo io fumando gli ultimi tiri della sigaretta mattutina.

Dopo aver buttato la cicca dentro l'apposito cestino dell'immondizia, avanziamo alla volta dell'ingresso e non posso fare a meno di notare la moltitudine di studenti rivolti verso la bacheca scolastica, quella dove si appendono i manifesti dei veglioni, le copie delle circolari più importanti, gli avvisi, gli orari dei professori.

Una bella fetta del Caravaggio è radunata lì di fronte e li sento tutti ridacchiare, soprattutto li vedo con i cellulari ben in evidenza intenti a scattare delle fotografie. Chissà cosa diamine stanno mai fotografando con tanta avidità.

Appena mi accingo ad avvicinarmi alla massa di ragazzi, qualcuno del Classico sogghigna sotto i baffi e mi lanciano occhiate assai sarcastiche e spavalde.

Okay, mi sento piuttosto stranita.

Perché guardano tutti me? Cosa hanno da ridere? Sicuramente non per via dei miei capelli mezzi rosa, ormai quella è acqua passata. Che cazzo ridono?

Non mi resta altro che avvicinarmi ancora di più, non mi resta altro che andare a sbirciare nella vetrina. Man mano che mi faccio strada fra gli studenti le occhiate si ammassano e si fanno più numerose.

Diventano quasi un peso soffocante.

Ora che sono davanti alla vetrina della bacheca capisco. L'illuminazione arriva senza ostacoli.

Proprio al centro, sopra altri fogli bianchi e appesa con due puntine, c'è una fotografia. Pure in un bel formato addirittura e di grandi dimensioni. C'è una mia fotografia.

Precisamente di me stesa per terra, venerdì scorso, al Maverick. Ubriaca e dall'aria stremata con tanto di palpebre chiuse.

Con un posca rosso sotto alla fotografia, in un foglio da stampante, c'è scritto la seguente frase: "LA DEA ATENA ALLE PRESE CON I DIVERTIMENTI UNIVERSITARI. MA SAPRÀ REGGERE? RESTATE CONNESSI PER SEGUIRE IL SEGUITO DELLA VOSTRA NUOVA RAPPRESENTANTE D'ISTITUTO".

Caratteri cubitali aggiungerei. Stampatello impeccabile.

Poco più in là, sulla destra, ci sono Leonardo, che non manca di esibire un largo sorriso sprezzante, e Olivia, con una evidente aria vittoriosa stampata in volto e schifosamente avvinghiata al braccio di Leonardo. Dulcis in fundo, Isabella e Viola accanto alla coppietta felice.

Non oso muovere un muscolo, sono totalmente immobile con le gambe.

L'unica cosa che muovo è il capo, rivolto con espressione glaciale e umiliata al tempo stesso verso Aspromonte. Sento pizzicare gli occhi, questo non posso negarlo. Mi sento ferita, mi sento privata della mia privacy.

Eppure... non dovrei lamentarmi, giusto?

Cosa ho da dire in mia difesa?

Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te.

Io l'ho fatto. Ed ecco che sono stata ripagata con gli interessi.

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