11. Contrario
"Non può piovere per sempre!"
Il Corvo (1994)
Mia nonna Fauste, mi ripete sempre una frase d'una semplicità sconcertante. Un lento modellare di lettere e suoni, poiché... altro non è che verità.
"Inutile fare programmi o convincersi di qualcosa. Tanto poi andrà sempre al contrario di come volevi tu".
...mia nonna Fauste... non occorre dire che... aveva ragione.
Marta è alle prese con la ricerca di un parcheggio quando sento il mio cellulare squillare dalla borsa. Qualcosa, in me, sa già di chi si tratta.
«Dimmi tutto, compare» chioso con una sicurezza decisa, un dragare solerte di persuasione a fior di pelle.
«Dolci donzelle, sappiate che io, Marco e Veronica siamo già davanti all'entrata, in attesa del vostro imminente arrivo. Non fatevi attendere», la voce di Diego va a foderarmi le orecchie, una punta di antica gentilezza mi punge gioviale.
«No, affatto, messere. Lady Marta sta cercando un posticino per parcheggiare la sua carrozza. Siamo quasi lì», emetto un piccolo riso mentre mi guardo attorno per aiutare Marta con il parcheggio.
Un buio turpe — mantello nero senza il bagliore di una stella —, amico fedele di notti autunnali, ci riveste gli occhi e il fievole fulgore dei lampioni non aiuta granché a scovare anche il più piccolo spiazzo.
«A momenti è più facile trovare parcheggio a Piazza della Libertà, per tutti i pennelli!» borbotta la mia amica con un orpello di sarcasmo, un celere roteare di pupille scorgo con lo scrimolo dell'occhio.
«Voi dove avete lasciato la macchina?» parlo di nuovo con Diego, sperando nel più piccolo suggerimento.
«Abbiamo optato l'opzione meno dolente: scaricarla a Piazzale Michelangelo» spiega lui con voce abbacchiata, uno stridere di sofferenza fra i denti.
«E vi siete fatti tutta la strada a piedi? Voi siete matti!» replico senza riuscire a celare un gesto di stizza, «Va bene, senti, noi inventeremo qualcosa. Fra pochi minuti saremo lì» concludo la telefonata, trattenendomi dal dirgli che, per il futuro, al posto del Maverick sarebbe più consono scegliere un locale più... comodo.
«E se provassimo col parcheggio di un ristorante?» propone Thalìa avviticchiando con le dita la stoffa dei sedili e sporgendosi in avanti.
«Ho timore di ritrovarmi con una bella multa». Le labbra di Marta si arricciano di repulsione al solo pensiero.
«Tentiamo il tutto e per tutto, proviamo in via di Belvedere. Magari qualcuno ha abbandonato all'ultimo minuto, qualcuno si è sentito male ed è ritornato a casa» suggerisco appellandomi alla speranza.
O la va o la spacca.
«Proviamo», la mia amica si lascia sfuggire un sospiro, avvolgendo il cambio e scalando di una marcia più bassa.
Via di Belvedere si staglia dinanzi ai nostri sguardi increduli: un nugolo di macchine si estende si estende a perdita d'occhio, una dietro all'altra, dando la parvenza di non conoscere fine. E immediatamente la speranza si spacca in mille briciole.
E nonostante il nostro attento scrutare in ogni dove, non vediamo nulla... è tutto pieno. Le aspettative si appassiscono di alacrità, una per una, mentre avanziamo.
...Quando alle nostre spalle accade qualcosa di inaspettato...
Due chiarori. Due lampi di luce in mezzo a quel manto fosco di velluto. Due fanali si sono accesi! Qualcuno ha messo in moto la macchina e ha intenzione di andare via.
«Ferma!» grido all'improvviso facendo calare la suola della scarpa di Marta sul freno. La Mercedes Classe A di sua madre si arresta di colpo, un colpo di frusta ci coglie impreparate. Seppur lieve, dal momento che le cinture di sicurezza fasciano i nostri petti con fare protettivo.
«Guarda, guarda, Marta! Quel tizio lì, là dietro, se ne sta andando!», abbasso il finestrino per cacciare fuori la testa.
Sì, ci ho visto giusto! La macchina è accesa, e quel qualcuno che sta a bordo ha appena ingranato la marcia per partire. Quando il veicolo s'immette nella strada rimaniamo letteralmente di sasso. Il tizio sfreccia a una velocità inaudita, un fastidioso rumore di gomme che stridono sull'asfalto s'innalza in quel delicato silenzio, stracciandolo di netto. E improvvisamente, una voce dilania quell'apparente tranquillità.
«Vaffanculo, stronzo! Credevi di farmela bere? Credevi che me la sarei bevuta la tua storiella strappalacrime? Tua madre malata un cazzo! Te la volevi spassare con qualche matricola, eh? Ti auguro di schiantarti contro un muro!».
Una ragazza, che fin'ora era rimasta incuneata nel buio del muro che serpeggia vicino alla strada, affiora da quell'oscurità come una creatura sovrannaturale. Un urlo folle graffia le nostre orecchie, colmo di furia e intenzioni affatto cortesi.
Si piazza in mezzo alla via, proprio davanti a noi, e solleva il dito medio oramai al niente, visto che il presunto fidanzato l'ha lasciata lì, sola con se stessa, per poi fuggire come un cerbiatto impaurito.
«Ops» sfugge a Marta decorato della più salace delle malizie.
«Mi sento quasi in colpa a prendere quel parcheggio...» ammette Thalìa, impedendo agli angoli della bocca di piegarsi all'insù, laddove il principio di una risata è pronto a esplodere.
«Ma quale colpa! Empatia va bene, ma fino a un certo punto» obietto con le labbra increspate in una smorfia. «Coraggio, Marta, parcheggia questa macchina e muoviamoci».
Io non credo nella sfortuna, questo è vero, però ogni tanto nelle botte di culo sì.
Il parcheggio dista pochi metri dall'entrata del Maverick, e lo scricchiolare fievole dei sassolini sotto i tacchetti e sotto la suola delle scarpe si ascolta per brevi istanti.
Un cricchio che viene subito rimpiazzato da barlumi di musica smorzata — ancora troppo debole — e dagli studenti universitari che si stagliano innanzi a noi, un intreccio di costumi e colori, pronti ad annegare nel più terrificante dei divertimenti e in note più rumorose dei loro pensieri.
E il Maverick è il posto perfetto.
Ho conosciuto questo locale non da molto — trovandolo per caso su una pagina Facebook universitaria —, e da ciò che so... dovrebbe prospettarsi una nottata magnifica. L'entrata ai minorenni quando organizzano feste come questa non è permessa, ma io e i miei compagni abbiamo tutti diciotto anni compiuti.
Una bella notte si prospetta. Degli orrori. Dei sorrisi storti. Degli occhi accesi come lucciole nel buio.
Una vista incantevole si delinea imprimendosi sulle pupille con l'inchiostro più scuro e i ghirigori più dolci; non molto lontano, la meraviglia di Giardino Bardini ammantato dalle ombre sussurra in silenzio, sapendo di quanta bellezza celi in sé. Una crepa di cupo tenebrore affiora in quelle fronde... in ogni petalo di fiore e nelle schegge di pietra appena sfaldate...
Vestiti macabri danzano intorno a me, intorno a noi. Sangue, ossa, ferite, cappelli a punta, bulloni che tracimano dalle tempie... pelle scucita e arti strappati. La normalità stasera è svanita — non è permesso essere normali.
«Eccoci, siamo arrivate» pronuncia Marta oltre la sua maschera mentre indica una fila ordinata di persone all'ingresso.
...universitari. Quelli sono tutti studenti universitari. Già diplomati, adulti e ormai maturi.
E nella memoria, angolo recondito, si incrina qualcosa. Una foglia piccina che scivola e casca giù, giù, sempre più giù.
Io, la prima volta che misi piede al liceo.
Ancora non avevo la minima idea di cosa significasse avere capelli colorati di mille sfumature o rasati, essere costellati di piercing o di tatuaggi, non immaginavo — non sentivo ancora quel sentimento — cosa esprimesse il vestirsi con qualcosa fuori dai canoni, stoffe e tessuti eccentrici, profumi di ammaliante diversità. Incuneato nel dettaglio di un orecchino e nella finezza dei ricami di un maglione.
Avevo scelto il liceo Artistico senza essere a conoscenza di tutto questo, una pagina scarabocchiata, ruvida... troppo intrisa di nero inchiostro e nemmeno un colore.
Mi sentivo fuori posto, quel giorno, a stonare anche solo restando in silenzio.
Ma poi... quell'indirizzo — che è ben presto divenuto la mia seconda casa — mi ha accolta a braccia aperte, avvolgendomi con la più tenera delle premure. Ha visto in me una risorsa per l'arte e ogni cosa a danzare attorno a essa, filigrane dorate.
Io sono fatta per inventare, per disegnare, per dipingere.
Non ero più una novellina, ero una di famiglia.
A metà del mio primo anno di liceo mi ero colorata la mia prima ciocca di capelli. Avevo scelto l'arancione... ero innamorata dei tramonti, all'epoca, mi ci aggrappavo con disperazione e gli occhi vuoti... l'urgenza di riempirli con quella sfumatura così tiepida, familiare.
E fu solo l'inizio della fine.
Cambiare me stessa, modellandomi — invocando, pregando — secondo la perfezione suprema che vedevo in ogni statua... nell'opera migliore di ogni artista.
«Okay, adesso vorrei proporre alcune cosucce prima di raggiungere Diego e gli altri». La voce vivace di Marta interrompe i miei pensieri, che stavano divenendo troppo rumorosi, incastrando i suoi gomiti con i miei e quelli di Thalìa.
«Spara» la esorta Thalìa con gli angoli delle labbra piegati in un sorriso e un sopracciglio sollevato di curiosità.
Un ricciolo di brividi nasce proprio dove inizia la spina dorsale... i lineamenti di Thalìa hanno sempre le fattezze di uno zombie.
«Propongo alcune regole da rispettare, in onore della nostra vittoria» chiosa l'altra mentre ci fermiamo alla sommità della fila per entrare.
«Del tipo?» chiedo un po' pensierosa, tuttavia con un guizzo di interesse a brillare nelle pupille.
«Primo, vietato astenersi dal bere, eccetto me ovviamente, stasera guido io. Al massimo mi concedo un goccio per fare un brindisi insieme a voi» dichiara con scrupolo.
«Sì, può andare» convengo, annuendo ragionevole.
«Secondo, vietato andare via prima delle quattro. Fuori discussione uscire da queste mura prima di allora, oramai siamo maggiorenni, che diamine!».
«Sono pienamente d'accordo», le dà corda Thalìa.
«Terzo, vietato annoiarsi. Stanotte non voglio vedere musi lunghi, visi incazzati e furenti. Per quelli ne abbiamo il tempo tutta la settimana, al Caravaggio» aggiunge colma di acredine.
«C'è anche un quarto punto, vero?» le domanda Thalìa cercando di non mettersi a ridere di fronte a quel rancore così palpabile anche in un momento del genere.
«Ebbene sì! C'è un quarto punto. Se qualcuno di noi rimorchia un universitario allora ottiene punti bonus... ci sono domande, dubbi, chiarimenti?» conclude Marta con fermezza, scrutandoci a fondo.
«Cosa, come?! Ho sentito bene? Tu che proponi di rimorchiare un ragazzo, per di più universitario? Vorrei ricordarti che sei proprio tu quella che si trasforma in una statua di ghiaccio, che sputa unicamente parole piene di acido muriatico al minimo scorgere di un ragazzo» le ricordo andando a picchiettare sopra la sua maschera, per assicurarmi che la mia amica non si sia scolata qualcosa di nascosto mentre guidava.
«E allora? Stasera voglio sperimentare un po', una prova del nove per così dire». DarthMart scioglie il groviglio che ci tratteneva legate a lei per andarsi intrecciare le braccia al petto.
Oh, oh... Qui qualcuno si è appena indispettito.
«Era solo un promemoria, nessuno meglio di te sa gestire le tue emozioni» proferisco pacifica.
«A proposito di ragazzi, io non vedo Diego e gli altri... saranno già entrati?» domanda Thalìa occhieggiando in mezzo alla folla che si staglia elegante e precisa.
E nello stesso attimo una voce decisamente conosciuta si eleva in aria.
«Ehi! Mats!» sento urlare dall'altro capo della fila. Faccio per sporgermi ed ecco che ho trovato Diego.
«Ma come hai fatto a vedermi?» grido di rimando non riuscendo a trattenermi dal ridere.
«I capelli rosa ti contraddistinguono ovunque» replica egli mimando il gesto di lisciarsi i capelli.
«Quando entrate aspettateci lì, faremo presto anche noi» ordino indicandogli il lato dell'ingresso.
Diego mi fa il gesto "okay" con il dito indice congiunto al pollice e poi viene inghiottito di nuovo da quel parapiglia di gente, come se non fosse mai emerso.
«Documento, per cortesia» ci chiede uno dei due buttafuori quando viene finalmente il nostro turno.
«Ovviamente» replica Thalìa, sfilandosi la patente di guida dalla tasca dei jeans perfettamente strappati e madidi di sangue rappreso. «Comunque, gli zombie non hanno età, ormai non invecchiano più» scherza con il tipo in tono naturale e che suggerisce disinvoltura, poi gli porge il documento restando lì, in quelle sue splendide gambe senza fine, in attesa.
Alta quasi quanto il buttafuori che ha dinanzi.
«Una morte dolorosa deve essere stata la tua» ribatte lui con un sorriso — il fascino di Thalìa, soprattutto quelle sue labbra piene, rotonde, distese in un sorriso, non resta indifferente a nessuno. Mai. Nemmeno quando è cadaverico come adesso.
«Non più di quel tanto», si stringe nelle spalle, Thalìa, riprendendosi la patente.
Quando tocca a me e a Marta, il buttafuori nemmeno ci guarda negli occhi...
«Curiosità, se mordi qualcuno lo trasformi automaticamente in uno zombie come te?» si rivolge di nuovo a lei, quella nota di ammirazione che non riesce — forse non vuole — nascondere.
«Le probabilità sono piuttosto alte, sì. Ma fossi in te, preferirei mille volte rimanere umano anziché diventare un cadavere che cammina. La pelle marcia e gli occhi privi di colore non sono il massimo» risponde lei strizzandogli l'occhiolino, una calma lodevole che mette fine all'evidente interesse di quel ragazzo.
Soprattutto perché l'euforia di Diego ci travolge di infinito gaudio. Quando mi fa sparire nell'intreccio del suo abbraccio rimango dolcemente colpita del suo costume per Halloween. La camicia verde militare per metà ridotta a brandelli e macchiata di rosso cremisi ha un qualcosa di familiare...soprattutto la catena che ha intorno alla gola.
«Ti sei vestito da Jason di Venerdì 13!» esclamo con le iridi che mi luccicano dall'approvazione, allacciate alla maschera da hockey che spicca in quel covo di dreadlocks, «Sei assurdamente fico!».
«Visto che roba? Ho anche il machete, ovviamente finto perché altrimenti col cazzo che me l'avrebbero fatto passare» dice Diego orgoglioso del suo lavoro, estraendo il finto machete fingendo di volermi uccidere.
«Avete intenzione di stare tutta la notte qua? Vogliamo entrare dentro la mischia o no?» s'intromette Thalìa con le mani colte da un fremito.
«Assolutamente no. Muoviamo le chiappe. Andiamo a festeggiare la nostra vittoria» taglia corto Diego, alzando le braccia.
Mettiamo piede al di là della mega porta che fa da ingresso.
Estesa e spaziosa, è stata svuotata da ogni tavolo, tavolino, sedia e sgabello — ogni traccia di bar/caffè è sparita nel nulla. Al loro posto una torma di universitari balla sinuosamente e si rovescia carezzata da quelle note.
Getto uno sguardo intorno prima di fiondarmi lì in mezzo. Osservo le decorazioni del Maverick in onore di Halloween.
Un trionfo di ragnatele orpella le pareti e il soffitto, come fossero state tessute da un ragno vero, e le illuminazioni impallidiscono e si ravvivano sinistre, il soffio che spira in un cimitero. Decori semplici, ma d'impatto e distorcono un'atmosfera che di giorno appare dritta e banale. Quotidiana, normale.
Nella immensità del muro che fa gigante alla sala, scorrono scene cult del cinema horror in graffi di luci e ombre. Le scene più spaventose... più raccapriccianti... più splatter... più angoscianti.
È tutto perfetto.
Niente potrà rovinare questa nottata. È come un mosaico, ogni incastro è esattamente dove deve essere, idilliaco.
L'aria è pesante a gonfiare i polmoni, scaricata nel vuoto delle narici, sudore ad appiccicarsi alla pelle.
«Prima di andare a ballare, io direi di prendere subito qualcosa da bere. Dobbiamo brindare tutti insieme!» urla Diego cercando di farsi intendere spaccando il volume altissimo della musica.
«È un'ottima idea!» ribatte Marco, innalzando il tono.
Tutti e sei ci avviciniamo rasente il piano bar, sommerso di consumatori di drink. Issando sulle spalle un cumulo di infinita pazienza, ci procuriamo scontrino e infine ordiniamo ciò che ci porterà all'Altro Mondo.
Il mio daiquiri mi restituisce la mezzaluna di sorriso con cui lo rimiro, viene da berlo con gli occhi...
Sollevo le iridi, un lampo ne attraversa l'oscurità e ne disegna l'intenzione che ha appena fatto capolino fra i pensieri; stringo il manico sottile del bicchiere e lo alzo verso i miei compagni, verso i miei amici, verso i miei nuovi colleghi.
«Un brindisi alla nostra vittoria! Alla prima di tante altre che verranno!» scocco un grido poderoso.
«A noi, che faremo valere l'Artistico!», è l'eco dietro DarthMart.
«A noi, che faremo i giusti!» seguita fiera Thalìa.
«A noi, che sotterreremo il nemico!», Diego non avrebbe potuto dire diversamente.
«A noi, che non ci faremo mettere i piedi in testa!», arriva il turno di Veronica.
«A noi, e basta!» conclude Marco, ben consapevole che non avrebbe mai oltrepassato quel limite inavvertibile.
Un rumore sottile, di cristallo, si sprigiona dall'incontro dei nostri bicchieri, sancendo come vere le parole che abbiamo appena pronunciato.
Siamo stati talmente fracassoni che addirittura uno stormo di universitari si ferma, imponendosi sul posto, per lanciarci occhiate impuntite di invadente curiosità. Uno di loro, vestito da senzatetto e al collo a spiccare un pezzo di cartone con dipinto "LAUREATO IN SCIENZE POLITICHE", produce una smorfia divertita e ci domanda, «Cosa si festeggia, ragazzuoli?».
È evidentemente ubriaco, e pare che anche i suoi tre amici al seguito ne seguano le orme. Una necessità bruciante di ridergli in faccia si aggrappa alla mia lingua: più guardo il suo vestito, più realizzo quanto sia geniale.
C'è del vero horror a grondare dal suo costume... altro che sangue e ossa spaccate!
Diego non ha proprio l'aria di uno che si tira indietro, la sua voce assume una sfumatura roca, si schiarisce prima di urlare per l'ennesima volta, «Quest'oggi, signori miei, siamo stati eletti come Rappresentanti d'Istituto del nostro liceo!» annuncia con un orgoglio che par grottesco.
Un secondo ragazzo si lascia andare a un'esplosione di risate. «Io ero convinto che stavate festeggiando la laurea...» bofonchia, ancor più ubriaco di quello vestito da senzatetto.
Il senzatetto, la fronte increspata dallo sconcerto, dà uno scappellotto dritto sulla testa del secondo ragazzo, un gesto che intuisco come ammonimento.
«Al liceo tu te la potevi sognare una carica simile. E poi tu sei fuori corso da due anni» gli ricorda seppur non riuscendo a trattenersi dal ridere.
«Fammi una sega, Valerio! Mi hai fatto un male cane, figlio di puttana che non sei altro!» lo rimbrotta l'altro massaggiandosi per alleviare il dolore.
«Sentite... vogliamo unirci al vostro brindisi. Vogliamo farvi un augurio anche noi», ma i senzatetto lo ignora, il bicchiere mezzo vuoto innalzato al cielo.
«Cazzo, sì! Facciamo un altro brindisi» accetta più che felice Diego.
«Il mio augurio è che non dovete mai fare l'università. Fate l'amore, risolvete la fame nel mondo, cercate i vostri cloni... ma non fate l'università. AUGURI!» borbotta Valerio, arrochito, «Cin-cin e alla salute!» proferisce prima di finire quel cocktail, scolandolo fino all'ultima goccia.
«Di sicuro non andrò a scienze politiche. Alla salute!» replica Diego indicando con il dito il pezzo di cartone appeso al suo collo.
Dopo una lunga attesa scandita da brindisi, brindisini, incontri con universitari più fuori che dentro e da risate quasi da spaccarsi in due, siamo riusciti a intrufolarci in mezzo alla folla, sulla pista da ballo.
Marta è letteralmente appiccicata a me, con ancora addosso la maschera di Darth Vader, testarda a volersela tenere nonostante il caldo inaudito.
Veronica è dietro le mie spalle con Marco accanto a sé.
Thalìa è davanti ai miei occhi e confesso che mai mi era capitato di veder ballare una persona con una bravura del genere e sensualità. Thalìa, a dispetto del suo costume, si muove come se avesse la musica nel sangue.
Alza e abbassa le spalle come se fossero onde del mare. Grazie alle sue interminabili gambe non è nemmeno sovrastata dalla gente che inevitabilmente ti viene addosso. Sembra quasi un'aliena.
Thalìa Obi Malek riesce a essere sensuale persino con addosso un paio di jeans e un trucco che tutto la fa sembrare meno che in salute. È qualcosa di mitico.
Ma... se Thalìa è qui... strano che Diego non sia accanto a lei a ballare. Strano, davvero. Avrei giurato che le fosse stato appiccicato tutta la sera. Eppure di Diego nemmeno l'ombra. È sparito, non è insieme a noi.
Mi volto verso Marco e Veronica, ma non c'è. Provo a osservare i ragazzi intorno a me per vedere se riesco a scorgere i suoi dreadlocks rossi o la sua maschera da Jason.
Negativo, uno dei Rappresentanti d'Istituto è ufficialmente perso. Chissà dove diamine si è andato a cacciare! Contando poi che era anche piuttosto ubriaco non oso pensarci.
«Hai mica visto Diego?» biascico con voce strascicata, prova evidente che sono ubriaca anche io, rivolgendomi a DarthMart, assolutamente più sobria di me.
Al che Marta, sentendoselo chiedere, si guarda attorno imitando me, poi ritorna a guardarmi e scuote il capo allargando le mani come a suggerire "No, pare sparito nel nulla".
Ma il mistero dura ancora per poco. Non ci lascia nemmeno il tempo di avvertire gli altri quando dalla console del DJ, insieme al DJ stesso, Diego appare magicamente neanche fosse esperto di materializzazione.
Ha in mano il microfono, gentilmente offerto da colui che sta mettendo la musica.
"Porca puttana, quanto è ubriaco Diego", penso mentre scoppio a ridere indicandolo col dito, permettendo a DarthMart di scorgerlo.
«Fate un in bocca al lupo a me e a quegli stronzi dei miei amici laggiù» parla attraverso il microfono sovrastando la musica, oscillando pericolosamente, «Che da oggi siamo i Rappresentanti d'Istituto del Caravaggio!» grida come fosse una dichiarazione di guerra.
Inutile dire che i presenti hanno risposto per le rime al nostro amico.
«In bocca al lupo stronzi!», si levano in aria tante parole diverse ma, per lo più, la frase più azzeccata da tutti è proprio questa. Susseguita poi da un caloroso applauso generale.
Non posso fare a meno di ridere, ancora e ancora. Cazzo, sono ubriachissima, Diego è andato dal DJ a farsi dare il microfono, è pazzo; è dolcissimo però è pazzo.
Mio dio... che sensazione meravigliosa, per una volta tanto, perdere il controllo senza rendersene conto. Ho la testa svuotata da tutto, nel vero senso della parola. Anche i pensieri più stupidi, quelli che sono solita a ponderare, sono scomparsi temporaneamente. Mi sento bene, sto bene a livello mentale.
È questo l'oscuro potere dell'alcol.
Mi fa stare bene ma al tempo stesso mi rende un'estranea per me stessa. Perché la verità è che io quando sono me stessa, sobria, sto irrimediabilmente male.
Sto male per tutto. Per quello che dico di troppo, per il mio modo di reagire alle provocazioni, per l'idea di dover deludere ancora una volta gli altri. Quando è successo è stato come dover sopportare infinite stilettate, è una tragedia quando deludi coloro a cui vuoi bene. E poi perdo il controllo, quando sono sobria mi faccio male.
Ora sono ubriaca, inebriata dai fumi dell'alcol, intriganti e maledetti. Ora ho il controllo fuori dalla mia portata però non mi faccio male.
Aspetta, aspetta... cos'è che aveva detto Marta prima di entrare? Vietati i musi lunghi? Cazzo, non ho mantenuto la promessa.
Il mio muso è diventato proprio lungo, dannazione.
Fino a poco fa ridevo senza un motivo ben preciso e adesso ecco la depressione. Ma perché devo sempre logorarmi l'anima in qualche modo?
"Ridi, Mats, ridi come fanno gli altri". Internamente è un consiglio che mi viene dato senza secondi fini. Il mio cervello m'impone una cosa e l'alcol me ne impone un'altra.
Non è giusto... io sono qui per festeggiare e non piangermi addosso per qualcosa che è già avvenuto. Forse, è probabile che riaccadrà, ma non è questo il momento adatto per pensarci.
Abbandonandomi al richiamo del liquore che sta scorrendo come un fiume in piena dentro di me, rovescio la testa all'indietro e spalanco le labbra in un largo sorriso. Ho perso persino la concezione della musica, ma poco importa, l'importante è lasciarsi un po' andare.
Rialzo il capo mandando tutti i capelli di fronte al mio volto e contro le aspettative rido di ciò. Rido dei miei capelli che mi vanno davanti alle iridi, perché sembra di stare dentro una giungla e invece sono soltanto i miei capelli. Io lo trovo esilarante.
Sono quasi tentata di rovesciare di nuovo la testa all'indietro per riprovare finché, come un fulmine a ciel sereno, con la coda dell'occhio ormai andato in tilt non mi sembra di vedere la chioma bionda di Leonardo.
Abbandono seduta stante l'idea dei miei capelli paragonati alla giungla e immediatamente il mio radar di ricerca scatta alle stelle, trasformandomi in un segugio. Mi giro con tutto quanto il corpo per verificare se sono rincoglionita e impazzita del tutto.
Voglio verificare se ho visto bene oppure se sto incominciando ad avere le visioni. Ma invano. Non ritrovo i suoi capelli biondi, familiari anche in mezzo a una folla come questa.
Devo dirlo a Marta.
È ancora vicino a me, intenta a ballare anche se non sotto l'effetto dell'alcol come la sottoscritta. L'afferro per un braccio, forse anche con troppa foga, purtroppo non me ne accorgo per tempo.
«Marta...» le dico quasi con espressione spaventata e disorientata, «l'ho visto. Lui è qui. Era lì» e indico il punto esatto dove mi pare di averlo intravisto poco fa.
Marta volge lo sguardo esattamente dove le sto indicando, però indubbiamente Leonardo non c'è. Non lo sto vedendo nemmeno io.
«Mats, è impossibile che tu l'abbia visto. Abbiamo tenuto segreta questa serata, nessuno sa che siamo qui. E poi c'è la festa anche alla Galleria di Giotto, lui e i suoi amici saranno sicuramente lì» mi ricorda Marta cercando di farmi calmare, carezzandomi il braccio sinistro. Col destro mi sono aggrappata alla sua maglietta, devo essere parecchio sconvolta.
«No» insisto imperterrita, scuotendo anche il capo, «no, ti dico che l'ho visto!».
Mi stacco da Marta dandomi una spinta per mettere in moto le mie gambe, che sembrano tutto d'un tratto intorpidite e pesanti. Voglio capire, devo capire se ciò che ho intravisto era reale. Devo farlo altrimenti rischio di impazzire finché non me ritorno a casa.
Comincio a camminare, a muovere prima una e poi l'altra gamba, fino a dar loro quel ritmo adatto per spostarmi. Mi allontano da Marta e dal gruppo, ignorando le preghiere di quest'ultima di lasciar perdere e di non andarmene per una sciocchezza del genere. Decido di non ascoltarla e di agire come una bimba capricciosa ed egoista.
Mi metto a girovagare senza sosta come un fantasma per tutta la pista da ballo, escludendo per ora il piano bar e l'angolo divanetti e tavolini.
Girovago senza concludere nulla di fatto. Vedo un sacco di persone, di giovani ragazzi e di giovani ragazze, alcuni sembrano più giovani di me, altri sembrano che abbiano superato già una parte importante della loro vita tanto appaiono vecchi.
Una moltitudine di visi truccati o coperti da maschere spaventose passano in rassegna dei miei occhi. Ma nessun volto familiare, nessuna iride affetta da eterocromia, nessuna chioma tirata con la brillantina.
"Bene così", penso fra me e me, "meglio che Aspromonte non sia qui".
No?
Il mio percorso termina di botto quando mi imbatto contro qualcuno senza volerlo e senza prestare attenzione. Forse nemmeno il ragazzo cui sono andata a sbattere proprio contro il petto spudoratamente non prestava attenzione.
Sì, è un ragazzo travestito da Freddy Krueger. Lo capisco dando un'occhiata alla maglietta a righe spesse rosse e nere, dal familiare cappello sulla sua testa e dagli artigli finti incollati alle dita delle mani. Fra due dei suoi artigli è tenuta stretta con nonchalance una canna appena accesa.
Freddy sbatte diverse volte le palpebre prima di mettermi accuratamente a fuoco, ancora ignaro di cosa sia appena successo.
Una volta che i suoi occhi si soffermano saldamente sulla mia figura egli fa un mezzo sorriso, piccolo, lieve, quasi delicato. Si china verso di me, avvicinandosi all'orecchio destro.
«Che dentro a li occhi suoi ardeva un riso tal, ch'io pensai di toccar cò miei lo fondo della mia gloria e del mio paradiso» urla solleticandomi il lobo.
Ad ogni modo, gli faccio dono di un gran sorriso dopo che si allontana dal mio orecchio, dimenticandomi alla velocità della luce di Leonardo e riconoscendo il verso citato.
«Dante Alighieri. Mai banale» rispondo con voce ebete, sicuramente un'espressione da idiota. Un altro effetto dell'essere ubriaca.
Dopo, senza provare alcun briciolo di vergogna e abbattendo la barriera della timidezza e delle convenzioni sociali, vado a sfilare esattamente dalle sue labbra la canna cui sta tirando su un altro tiro per portarla sulle mie.
La infilo delicatamente e me ne gusto una boccata con avidità, socchiudendo con devozione le palpebre, assaporando per bene il momento.
«Studente del dipartimento di letteratura, ovviamente» replica il ragazzo con un altro mezzo e sottile sorriso. «Qual è il tuo nome?» mi domanda poi con le iridi mezze chiuse, ha tutta l'aria di essere sia ubriaco che in pesante botta.
«Non ho nomi» faccio spallucce, dandogli una risposta sagace e maliziosa al tempo stesso, «ma sono conosciuta principalmente come l'Altra Madre». Concludo tirando un altro tiro dalla canna rubata.
«Piacere, Altra Madre. Io sono Samuele, prima che t'infrangesti nel mio petto stavo ripetendo il paragrafo 2.3 dell'esame che dovrò dare lunedì. E tu?» mi fa Freddy andandomi a stringere la mano prendendomi contro piede, una stretta rapida e veloce, per niente forzuta. Nemmeno faccio in tempo a ricambiare.
«Stavo cercando qualcuno di non troppo importante» gli spiego velocemente saettando le iridi senza una direzione precisa, ravvivandomi la frangetta.
«Quando si cerca qualcuno è sempre importante» fa notare Samuele.
Ed ecco che un pizzico di qualcosa di appuntito e di assurdamente invisibile mi picca dappertutto. Interdetta dalla sua folle constatazione, scoppio a ridere rovesciando di nuovo il capo all'indietro, tanto mi ha divertita.
«Puoi baciarmi?» lo invito poi inchiodandolo con lo sguardo, senza rifletterci sopra neanche un secondo. Questo potrebbe valere come un bonus, a detta di Marta.
Samuele non sembra turbato dalla mia richiesta inaspettata, anzi, non sembra turbato per niente dalle mie numerose e bislacche reazioni.
«Un bacio non si nega a una donzella, soprattutto se bella e se si crea l'occasione» ribatte lui inarcando un sopracciglio, acconsentendo alla mia proposta.
Si china adagio verso le mie labbra libere dalla canna stretta fra le dita della mano sana. È una decina di centimetri più alto di me, ma tuttavia non necessito di alzarmi in punta di piedi. Non chiudo nemmeno gli occhi, come di solito la regola impone.
Li faccio rimanere aperti, spalancati, quasi apatici e freddi.
Come se lo stessi facendo per noia.
Samuele preme la sua bocca contro la mia; non è arricciata, è perfettamente distesa anche se screpolata e rovente. Percepisco che non ci sta mettendo impegno, è come se fosse quasi addormentato. Pigro. Assuefatto da più di una canna.
Ci baciamo letteralmente per cinque secondi contati. Cinque, li conto io.
Dopodiché mi stacco rapida da lui perché ancora con la coda dell'occhio rilevo che fanno capolino i capelli di Leonardo. Per la seconda volta.
Non posso fare a meno di ripartire alla carica, abbandonando Samuele/Freddy Krueger esattamente dove ci siamo scontrati.
Stavolta ce l'ho in pugno.
Lo trovo, alla fine. Trovo Leonardo.
Non è in piedi o in movimento come quando l'ho visto prima, bensì adesso è seduto sui divanetti color rosso bordeaux. Non posso fare a meno di rimanere basita da ciò che ho davanti a me.
Finisco la canna e passo in rassegna con sguardo furente ogni personaggio presente che non dovrebbe essere qui, in questo locale.
Leonardo in primis, vestito da Hannibal Lecter, ossia tuta arancione e la maschera che va a coprirgli la parte della bocca e del naso. I capelli biondi tirati all'indietro con la brillantina, esattamente come nel film Il silenzio degli innocenti. Come un impeccabile Anthony Hopkins.
Successivamente viene il turno della sua adorabile e dolce accompagnatrice, Olivia, vestita come la suor Mary Eunice di American Horror Story. Chissà mai perché ha scelto proprio Mary Eunice e non suor Jude!
Infine ci sono anche loro, tutti i componenti maschi della sua cerchia. Alberto, Giulio e Claudio. Nessun'altra ragazza eccetto Olivia, che ha le sembianze d'un cagnolino quando si tratta di lui. L'allegro gruppetto se ne sta seduto sopra quei divanetti del cazzo a bere e a fumare anziché essere alla Galleria di Giotto con tutto il resto del Caravaggio.
Sento ribollirmi il sangue nelle vene, sento il cuore che comincia a battere molto più forte del normale. Avverto la rabbia risalirmi dalle viscere.
Nello stesso istante cui mi sto per tramutare in un toro scatenato che ha appena visto un drappo rosso, Marta, sconvolta, mi trova. Mi travolge spostandomi addirittura dal posto. Le grandi iridi verde chiaro mi lanciano un'occhiata decisamente sconcertata.
Caspita, si è addirittura tolta la maschera.
«Non puoi minimamente immaginare chi ho visto» mi dice con voce quasi che sembra scandalizzata.
«Potrei dire la stessa cosa. Non immagini chi ho visto io» replico alla sua osservazione con aria beffarda.
Marta, senza starmi a sentire, mi afferra per le spalle e mi volta nella direzione opposta, indicando l'area dei tavolini argentati con gli sgabelli.
Proprio lì c'è il nostro professore di storia dell'arte, Emilio Lunanuova, che sta inequivocabilmente festeggiando un suo amico appena laureato, vista la corona d'alloro in testa al tizio seduto accanto a lui.
Ma guarda un po'... anche lui è vestito per Halloween. Più con esattezza è vestito da Luigi XVI di Borbone, lo capisco vedendo la gola tagliata, segno indiscutibile della ghigliottina.
L'abito è sfarzoso, decorato con minuzia, non è un abito acquistato all'ultimo minuto in un negozio per bambini o da un noleggio abiti. La giacca rossa in velluto ha tutta l'aria di essere costata parecchio, per non parlare della cintura in pelle nera che gli circonda la vita. Io e la mia amica rimaniamo ferme a osservare ciò che non ci saremmo mai e poi mai aspettate di vedere. In silenzio e senza dire una parola.
L'idillio svanisce quando l'amico laureato del professore si volta per casualità verso la nostra direzione e ci scopre che li stiamo in qualche modo spiando. Infatti dà una piccola pacca sul braccio di Lunanuova e lo mette al corrente della stramba situazione.
Il caro professore, con la sua luminosa chioma corvina legata con un nastro di velluto verde, come si accorge delle sue allieve, rimane stupito tanto che spalanca la bocca e le non indifferenti iridi blu.
Marta fa una smorfia strana che non riesco ad analizzare. «Credo che non avrò più il coraggio di entrare in classe. Anzi, credo non avrò più il coraggio di andare alle sue lezioni» borbotta ella senza emozione.
Se è rimasta sconvolta dalla presenza di Lunanuova, allora è giusto che veda anche l'altra presenza.
Perché a quanto pare stasera è il ritrovo dei vecchi amici!
Dunque, per completare questo simpatico quadretto familiare, l'afferro per le spalle come lei ha fatto con me, voltandola nella direzione dei divanetti, mostrandole la cruda verità.
Marta si paralizza di colpo, non riuscendo ad inglobare tutto ciò. Sembra una mummia.
«Io me ne vado, non voglio avere nessuno di loro fra i piedi!» esclama facendo una risata beffarda e maledettamente sarcastica.
Senza aspettare una parola da parte mia DarthMart alza i tacchi e mi lascia lì da sola, al contempo Emilio si alza inaspettatamente per... correrle dietro? Il professor Lunanuova che rincorre Marta?
«E allora vaffanculo, io vado a dirne quattro a quei coglioni» parlo ad alta voce, dando voce alla mia ubriachezza molesta, andando verso Leonardo. Sono arcistufa di averlo sempre in mezzo alle palle.
«Gli dico che deve farla finita di mandarmi messaggi» continuo a parlare da sola, «ma perché non perde tempo a mandarli a Olivia? Almeno da lei qualcosa lo ottiene!».
Arrivo davanti al nemico con un'impavidità degna di Ulisse e di Aragorn messi insieme. Non manco ovviamente di emettere una smorfia disgustata, di sincero ribrezzo.
«Non riuscite a lasciarci in pace nemmeno questa sera?», vorrei tanto che questa sorta di avvertimento uscisse battagliero e duro come il granito, eppure mi esce come un lamento di morte.
«Semmai il contrario. Non è che ci state stalkerando?» prende parola Giulio Viviani, per niente sorpreso di vedermi, folgorandomi con i suoi occhi dal taglio allungato e color terra di bosco.
«Andatevene a fare in culo al vostro Forte d'Alabastro del cazzo!» sputo senza contenermi, risultando forse anche ridicola, fossi stata sobria mi sarei controllata di più. «E tu, vattene affanculo pure tu, insieme a lei» mi rivolgo a Leonardo e a Olivia, «andate affanculo a scopare».
Senza attendere la minima reazione da parte sua, eccetto le risatine sarcastiche di Claudio, Alberto e Giulio, fuggo via. Per via del caldo, per via del sangue in ebollizione, per quella sensazione soffocante di perdita del controllo. Ma quella vera. Quella di cui devo avere paura.
Quella che non posso permettermi di prendere sotto gamba.
M'intrufolo in mezzo alla gente senza preoccuparmi di aver fatto la figura della vigliacca che si presenta, urla come una fuori di testa e poi se la dà a gambe.
Sono troppo impegnata a grattarmi con quelle poche unghie che ho rimasto a furia di mangiarmele, dal nervoso. Mi gratto fino a che non causo un voluto scorticamento della pelle, sia sulla gola che dalle braccia.
Graffio finché non ottengo quello che voglio: il sangue e delle ferite.
Premo con forza sovrumana sopra la mia pelle chiara e morbida, premo fino a farmi male, fino a sentire dolore, come se cercassi di scacciare via qualcosa che non c'è. Qualcosa di orribile. Sto quasi per correre tanto mi sto sfregando senza sosta, senza riserbo, senza rispetto per me stessa.
Voglio uscire da qui, me ne devo andare fuori.
Sono quasi arrivata all'entrata, dove qualche buon'ora fa io e i miei amici siamo entrati con le migliori intenzioni: di trascorrere una serata piacevole, memorabile e da sballo.
È successo esattamente l'inverso, tutto è andato storto.
Sto per superare i due buttafuori finché una mano mi ferma, appigliandosi alla mia spalla, costringendomi ad arretrare di qualche buon metro.
«Sei impazzita?!» mi urla Leonardo furioso, gli occhi azzurro marino collerici e incendiati. La maschera è sparita, non c'è più. «Farmi una scenata davanti ai miei amici, come hai osato?» continua a sibilare come un serpente letale.
«Ho urtato le delicate orecchie di Olivia?» lo canzono sprezzante muovendo il capo come a punzecchiarlo, un sorriso strafottente dipinto in faccia. Nessun timore, nessuna incertezza. «Ne ho tutto il diritto, sai, di farti scenate» proseguo con voce calma, pacata, solenne, «e poi perché... perché con tutti i locali che Firenze dispone hai deciso di venire proprio qui? Perché sono assolutamente sicura che l'idea è stata proprio tua e non di Del Bianco o di Viviani».
«Per darti fastidio» ammette Leonardo senza un briciolo di vergogna, la bocca ridotta ad una linea dura, «niente mi appaga di più che vederti scontenta, insoddisfatta, rabbiosa, irritata. Nemmeno un Dom Pérignon Plénitude del 1995 servito all'Enoteca Pinchiorri».
Quando Leonardo termina la frase non resisto oltre, con uno scatto mi sciolgo dalla sua schifosa mano, libero la mia spalla. Indietreggio di un passo e allungo un braccio con il palmo della mano bene aperto, in chiaro segno che deve starmi lontano.
«Devi farti curare, Aspromonte» brontolo sinistramente.
Senza aspettarmelo affatto, come se fosse l'ultima cosa che avrei mai potuto pensare, Leonardo si riappropria della mano che bene aperta tengo di fronte a lui. Si sofferma sulle macchioline di sangue cui sono sparse sul palmo sudato e sulla punta delle dita.
«Cosa ti sei fatta?» mi chiede con quello che risulta essere a tutti gli effetti un tono di voce un po' allarmato.
Mi esamina con cura l'arto che ha fra le sue grinfie, con una minuzia che non gli avrei mai attribuito, soprattutto nei confronti della sua acerrima nemica. Tuttavia non mi faccio soggiogare da questo gesto più che artefatto. Anzi, mi metto ancor di più sulla difensiva.
«Non toccarmi!» esclamo sfilando la via velocemente la mano, avvertendo una sorta di paura che non mi so spiegare. «Preferisco fare del male a me stessa anziché agli altri quando perdo il controllo» gli spiego abbassando la voce, con una risatina lugubre. Senza guardarlo dritto negli occhi e massaggiando la mano da lui toccata. «Prima o poi, mi farò del male fino alla morte» continuo a proferire sotto la sua espressione indecifrabile.
Il dio Apollo, senza replicare, si guarda intorno, tipo a controllare che nessuno dei suoi amici l'avesse seguito.
Poi mi artiglia per un braccio per l'ennesima volta, senza chiedermi il permesso e senza fare attenzione a essere quanto meno delicato. Mi trascina via con sé, mi costringe a seguirlo contro la mia volontà. Inutili i miei tentativi di tirarmi indietro o di sfuggire via alla sua presa, troppo salda e troppo decisa. Digrigno i denti mentre punto i piedi contro il parquet, invano.
La marcia giunge alla sua fine quando entriamo dentro il bagno dei maschi... ma che diamine...
Mi lascia vicino a un lavandino per poi allontanarsi a poca distanza, al fine di strappare qualche pezzo di carta per asciugarsi le mani. Sempre senza chiedere il mio permesso, Leonardo mi va a tamponare i graffi che mi sono procurata alle braccia. Lunghi, rossastri e che bruciano da impazzire.
Entrambi rimaniamo in silenzio. Io non so davvero che cosa dire, che parole utilizzare per spiegarmi ciò. Lui credo sia nella mia stessa identica situazione.
Inconsciamente faccio il verso di gettare il capo all'indietro, come a prendermi un attimo di respiro. E mi rendo conto di aver fatto un enorme sbaglio, poiché scopro alla luce del sole le condizioni della mia gola, ben peggiori di quelle delle braccia.
Innegabilmente, senza che io possa rimediare al danno, Leonardo spalanca le iridi e irrigidisce le sopracciglia, corrugando allo stesso tempo la fronte imperlata di sudore.
«Cazzo! Ma che diavolo ti sei fatta?! Sei impazzita?» esclama andandomi a mettermi due dita sotto il mento, per alzarmi prudentemente la testa e avere miglior spettacolo di quel mio colpo da maestro.
Evito di tirarmi indietro dinanzi il suo tocco, ho perso le forze, mi sento stremata. Mi limito a esibire un angelico quanto inquietante sorriso.
«Esatto. Sono impazzita. Mi hai scoperta. Sono brava a tenerlo nascosto, vero? Tutti i giorni, a scuola, appaio quasi normale. Non do il minimo sospetto» ridacchio come una maniaca.
«Cosa ti sei calata? Qualche pasticca?» mi chiede lui serio, con un'occhiata rigida.
«No, però mi stai facendo venire la voglia, credimi» obietto io roteando le pupille e sbuffando annoiata.
«Falla finita di fare la drammatica. Dacci un taglio» mi rimbecca con una certa dose di serietà.
«E tu smetti di rompermi l'anima, dio Apollo del cazzo. Smettila sul trovare mille modi di rendere un inferno la vita di Matilde» non mi do per vinta, non smetterò di certo adesso di rispondere per le rime.
«Sei ubriaca?» chiede di punto in bianco inarcando un sopracciglio, ancora il mio mento incastrato fra le sue dita gelide e lisce.
«Lo ero fino a pochi secondi prima di saperti qui. Hai il potere di rendere sobrie le persone, potresti essere la salvezza e la rovina di molta gente» recito con della finta adorazione.
«Goditi la serata, dea Atena. Da lunedì al Caravaggio si fa sul serio. Solo perché sto mostrando la mia pietà verso di te adesso, non significa che sarò più magnanimo in futuro» sputa come un perfetto stronzo Leonardo, ritornando ad essere la solita esimia testa di cazzo di sempre.
«Non hai capito, allora? Ora che ci sei tu la serata è rovinata!» mi metto a urlare, spazientita, «Ma perché cazzo mi stai aiutando, porca puttana? Io e te ci odiamo a morte!».
Leonardo blocca la mano che stringe il fazzoletto di carta, il quale stava tamponando i graffi del braccio, e toglie l'altra da sotto il mio mento. Riesco persino sentirlo deglutire, la musica del locale risulta ovattata grazie alle mura insonorizzate del bagno.
«Perché ti sto aiutando?» ripete una seconda volta, con sguardo fisso nel vuoto. Poi pronuncia ciò che potrebbe farmi cadere le braccia per terra, inesorabilmente. Ciò che potrebbe farmi contrarre ogni muscolo al di sotto della pelle, un fascio teso, dalle fattezze indistruttibili.
«Restare nel buio mentre ti torturo non mi basta più» proferisce leccandosi il labbro superiore con lingua.
Un brivido gelido mi percorre tutta la spina dorsale, facendomi rizzare i peli delle braccia. Sbarro gli occhi e confesso di essere quasi spaventata da ciò che è appena uscito dalla sua bocca.
È una frase di quella canzone. La canzone nella quale mi sono immaginata il suo viso strafottente che mi squadra da capo a piedi, con la sua proverbiale superiorità.
All'improvviso una vocina mi suggerisce che è meglio togliere via il braccio e allontanarmi da lì, da lui.
«Cosa diavolo significa?» balbetto senza riuscirmi a controllare, e terrorizzata.
Leonardo, che fino a pochi istanti fa fissava il vuoto, adesso alza i suoi occhi affetti da quell'eterocromia andandoli a ficcare con violenza nei miei. Sembrano affilati come due katane.
Impiega qualche buon attimo prima di darmi una risposta. Mi fa patire non poco durante questa cavolo di attesa.
«Che d'ora in avanti vorrò più di così».
Adesso è il momento. Il momento di scappare via. Di darmela a gambe levate. Capire quando è giusto il momento per mettersi in salvo.
Me ne andrei davvero alla ricerca di una pasticca, ora ne ho assurdamente bisogno!
Mia nonna, madre di mia madre, la saggia Fauste Weiss aveva maledettamente ragione.
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