1. Il mattino ha le accuse in bocca





"Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva."

L'attimo fuggente (1989)















Firenze, ottobre 2014



Da dove comincio? Da dove diavolo devo cominciare? Dai maggiori esponenti? In quali parti si è manifestato? Oppure qual è il suo intento? O meglio ancora quali sono le sue caratteristiche? Da. Dove. Diamine. Devo. Cominciare?

Dannazione! Fino a stamattina, quando ero sotto le calde coperte del letto, in bilico fra realtà e regno ultraterreno, avevo la risposta in tasca!

Attualmente ho il cervello andato in tilt — non obbedisce più alla mia volontà — e avverto le mie povere gambe vacillare ininterrottamente, i muscoli rattrappiti in nome dell'inquietudine. Sono in tensione, avverto chiaramente la paura diramarsi in ogni dove, nelle viscere dello stomaco, nelle vene, nei rami della mente; il cuore mi batte più rapido del dovuto, i palmi della mani sono oltre ogni dire sudati e appiccicosi, e il respiro... il respiro che innalza e abbassa il mio petto a un ritmo allarmante.

No, devo calmarmi, devo assolutamente darmi una controllata.

"Matilde, controllo, contegno! Avanti... storia dell'arte è la tua materia preferita, come puoi temerla?".

Sbagliato, risposta errata, io non temo storia dell'arte bensì il nuovo professore entrato all'inizio dell'anno. La professoressa Pancrazio è andata, ahimè, in maternità proprio questa estate e proprio alla soglia del mio quinto anno, proprio quando avrei dovuto affrontare la maturità

Dio mio, il solo pensare a quell'orrida parola mi fa rizzare i peli delle braccia provocandomi un brivido lungo tutta la spina dorsale. Maturità... suona peggio d'un titolo di un film horror — ben peggiori di quelli che sono abituata a vedere.

Il nuovo professore che sostituisce la Pancrazio per tutta la durata di questa mia ultima avventura da studentessa si chiama Emilio Lunanuova, fresco di laurea e appassionato di arte forse più di me, il che è tutto dire.

La prima volta che Emilio Lunanuova venne nella mia sezione, il 15 settembre alias il primo giorno di scuola, fece un'impressione strabiliante a tutte noi ragazze — una grande gioia per i nostri occhi colmi di un'estate appena giunta al termine e della disperazione dettata dall'inizio della cinerea routine scolastica. Per intenderci, si presentò a noi come un giovane di ventisei anni da poco compiuti, con degli splendidi e lunghi capelli corvini, e certi occhi azzurri che avrebbero potuto fare invidia a un gatto siamese. Loro brillavano decorati da una coltre di oblunghe ciglia scure, gemmeo connubio che non passa inosservato.

Insomma, non è che capita tutti i giorni di avere un professore così avvenente e di bell'aspetto dietro la cattedra usurata, al posto, magari, di un cinquantenne che sfoggia con arrendevolezza gli ultimi rimasugli di capelli e con la tipica pancetta da birra. Non voglio sembrare una superficiale del cazzo, dico solo che abbiamo avuto una rara fortuna, di questo mi sento in dovere di prenderne atto.

Comunque, dopo quel primo incontro di primo acchito fantastico, la realtà si mostrò per quella che davvero era. Conosciamo tutti il detto "l'apparenza inganna"...

Bene, qualche giorno dopo scoprimmo che mai detto fu più reale di quello!

Tutti noi, maschi compresi, credevamo che, essendo un professore giovane, ci avrebbe semplificato le cose, anche perché avremmo dovuto sostenere la maturità. Di conseguenza pensavamo che il poco divario di età ci avrebbe potuto avvicinare, formando così una solida squadra di reciproco aiuto e reciproca simpatia.

Credevamo... Emilio Lunanuova, invece, si rivelò essere proprio un vero stronzo.

Egli prova un innato piacere nel propinare verifiche a sorpresa, ogni volta che torniamo dai bagni si avvicina per annusarci e scovare anche il più piccolo odore di nicotina, esige interrogazioni quasi impeccabili e se per disgrazia te ne stai un singolo minuto in silenzio, senza aprire bocca – lui cronometra persino con quell'iPhone di merda –, ti rispedisce al banco con un cenno della mano — intriso di pura noia — e un bel tre spiattellato nel registro scolastico, accanto al tuo cognome. Come è esattamente successo la settimana scorsa a Marta, la mia sventurata migliore amica.

Ed è proprio per questo motivo che ho studiato come una maniaca, sottolineando, marcando con impeto eccessivo, paragrafi del libro che nemmeno c'entravano nulla con quello che avrei dovuto esporre. L'ansia e la tensione ti portano a fare gesti piuttosto privi di senso, ed è un qualcosa che affermo per esperienza.

Questa mattina, alla prima ora, il professor Lunanuova mi avrebbe chiamata alla cattedra e mi avrebbe interrogata sull'Espressionismo. La prima ora del lunedì, per intenderci, il che non fa che aumentare il disagio e quel malessere interiore che solitamente si ostina a farsi beffe di me.

Porca puttana, e se dovessi fare scena muta, labbra serrate? Mamma mia... il tre non me lo leverebbe nessuno. E se invece cominciassi a sproloquiare di tutt'altro argomento ancora? Allora un quattro non me lo leverebbe nessuno!

No, non posso prendere un tre o un quattro all'inizio del quadrimestre, è impensabile persino per una che frequenta l'Artistico. Poi sarebbe un'impresa il recuperare un voto così basso, è risaputo; è una delle regole più importanti del perfetto studente.

Ma perché ho un vuoto di memoria, perché?! Perché il mio cervello si rifiuta di collaborare? Perché opta sempre la ovvia strada dell'oblio? Mai una volta che stia dalla mia parte! Mi ero preparata un discorso semplice e d'impatto, semplice da ricordare, e ora nemmeno rimembro su come iniziava. Nemmeno la prima consonante.

«Matilde! Frena!» sovrasta le mie riflessioni la voce della mamma, seduta nel sedile di fianco al mio, le dita strette attorno alla maniglia anti-panico e le tempie imperlate di gemme di sudore freddo.

Di colpo è come se mi fossi ricordata di quanto sia facile spalancare gli occhi e riattivare la vista. Solo ora vedo la fila interminabile dietro il semaforo rigorosamente rosso e la decina di auto ferme con le luci dei freni accese, che saltano facilmente all'attenzione.

Senza pensarci due volte premo con estrema sicurezza e brutalità il pedale del freno, tanto da far fischiare le ruote e di conseguenza inchiodando a davvero pochi centimetri dalla Citroen verde di fronte a me.

Scarsi centimetri impediscono una rovinosa collisione — scarsi quanto infiniti.

Le cinture di sicurezza si stringono con forza attorno alle nostre figure, mia e della mamma, e fanno sì di non farci finire spiaccicate contro il parabrezza, tuttavia non riescono a evitare un lieve colpo di frusta abbastanza spiacevole.

L'auto che sta in coda dietro alla nostra non perde occasione di far notare la mia mancanza d'attenzione con un sonoro colpo di clacson. L'irritazione è ovviamente immediata.

Abbasso il finestrino, infatti, attendendo che giunga fino in fondo con la sua smisurata e innaturale lentezza, e il suo solito sibilo, il quale suggerisce di essere fatto vedere da un meccanico. L'aria fredda del mattino si propaga nell'abitacolo e, appena mi è possibile sporgermi con il capo di fuori, volgo il mio sguardo verso quel demente che ha osato suonare dinanzi a una "P" grande come la cupola del Brunelleschi appiccicata nel lunotto.

«Demente che non sei altro, non vedi la "P" di principiante? Sei pure cieco oltre che demente?» urlo adirata e per niente spaventata, sperando di essere udita.

«Matilde, ti prego, lascia perdere. Lui è un demente decisamente irrispettoso, tu sei una con la testa fra le nuvole, direi che siete pari» mi consiglia la mamma, posando la mano sulla mia coscia, irradiando tranquillità e calore allo stesso tempo.

«Demente, irrispettoso e coglione» convengo mentre ricaccio la testa dentro la macchina, rialzando il finestrino. Le gambe che fremono con maggiore intensità, le iridi che bruciano.

«E tu devi prestare più attenzione quando guidi. Quando sarai all'esame pratico considera che puoi essere bocciata per una svista simile» mi riprende con la tipica severità di genitore, tirando un sospiro di sollievo per non aver tamponato qualcuno — e forse per avere l'osso del collo ancora al proprio posto, dove è giusto che stia.

«Onestamente, in questo momento, l'unica cosa che mi preoccupa è l'interrogazione di storia dell'arte che avrò alla prima ora» borbotto tamburellando con le dita sopra il volante, in attesa che il semaforo diventi verde. Il ritmo dell'agitazione.

«Rilassati, ora non devi assolutamente pensarci, conosco la sensazione. Non ricordi niente, ho ragione?» domanda accennando un sorriso, ciò che regala agli angoli della sua bocca una smorfia dolcissima e rassicurante.

«Un'emerita sega» annuisco alzando gli occhi al cielo, il suo tentativo di calmarmi che neanche mi scalfisce.

«Di dire parolacce però non te lo scordi mai» mi fa notare lei inarcando un sopracciglio, stavolta beffarda.

«Ho diciotto anni, se non le dico adesso le devo dire quando sarò vittima della crisi di mezza età?» ribatto sarcastica mentre lascio che la fronte si corrughi per via di quella malefica osservazione.

«Le puoi dire a qualsiasi età, ma sappi che non ti renderanno superiore» afferma rigida, dando un'occhiata veloce al semaforo.

«Però rafforzano il concetto e, cosa non meno importante, ti fanno sfogare» osservo tentando di difendere la mia posizione — la mamma sa, sa quanto io abbia necessità di dare sfogo a quello che covo nel profondo.

«Ad ogni modo, se vuoi un consiglio da una che ancora non è vittima della crisi di mezza età, evita di pensare con insistenza a quel discorso che ti sei preparata. Quando sarai alla cattedra, davanti a quel professore stronzo, ti ritornerà tutto alla mente, te l'assicuro» spiega con voce morbida e serafica, ignorando la mia presa di posizione.

«Ah-ha, hai detto "stronzo". Penalità per te» le faccio notare, deridendola di proposito.

«Non è detto che i figli debbano per forza seguire le orme dei genitori» obietta lei con una risata funerea, uno dei segni che contraddistinguono mia madre come specie rara genitoriale, a rischio d'estinzione.

Finalmente il semaforo si illumina di verde; qualche settimana fa avrei avuto il timore di far spegnere la macchina dato che non avevo ancora preso confidenza con il meccanismo "frizione-gas", mentre adesso sono al novanta per cento sicura delle mie azioni.

È come un movimento involontario quando ci prendi la mano — metodo e abitudine che lentamente mettono radici su movenze e coordinazioni. Per l'appunto faccio ripartire il veicolo senza intoppi e senza causare un tamponamento di massa, facendo esalare alla mamma quel respiro di sollievo tenuto segreto fino adesso, trattenuto con magistrale impegno.

«Uhm, niente male, stai facendo progressi» si complimenta la mamma, abbandonando una volta per tutte la presa da quella maniglia anti-panico, cosa mi stava procurando un leggero disagio.

«Non posso farmi rovinare la vita da una frizione, no?» decido di riderci sopra, tento di sdrammatizzare quello che mi è possibile.

Come finisco di pronunciare la frase il mio cellulare, ficcato maldestramente nella tasca esterna del mio giubbotto, prende a suonare. Per l'esattezza si leva nell'aria la colonna sonora di Star Wars, segno incontestabile che Marta ci ha messo le mani.

Quando lo vado ad afferrare mia madre mi lancia un'occhiataccia, ma faccio finta di non accorgermene e mi preoccupo di scoprire chi mi sta chiamando a quindici minuti dall'inizio delle lezioni. Nel display vi è impresso il nickname della mia migliore amica.

Sto per rispondere, il tentativo di premere con il pollice l'icona verde della telefonata, tuttavia la mamma mi anticipa di brutto; con uno scatto felino agguanta l'apparecchio ancora trillante e se lo prende con sé, nascondendolo sotto il gomito.

«Non si usa il cellulare quando si guida, come nemmeno si fuma quando si guida» mi riprende accigliata, muovendo il dito indice in segno di diniego.

«Ma se tu lo usi sempre!» sottolineo con la bocca spalancata, oltraggiata, stupita dal suo gesto improvviso e decisamente non carino.

«Mettiamola così, vuoi farti ritirare il foglio rosa?» domanda a trabocchetto, piegando il capo percettibilmente, quel tanto che serve per farle apparire le iridi come due sottili lame che non lasciano scampo.

«No... ovvio che no» do la mia risposta in un sussurro, gonfiando le guance, abbassando le spalle in un gesto di rassegnazione.

«Me ne compiaccio. Tanto Marta la vedrai fra neanche cinque minuti, può aspettare» afferma, dopodiché il telefono cessa di squillare e si addormenta tra le grinfie di Adele, lo schermo ormai buio. «Presta attenzione alla strada, altrimenti ti faccio andare in motorino la prossima volta o peggio... ti faccio andare a piedi» ordina peggio di un Führer.

E siccome non posso contestare — poiché sennò verrò radiata dal "ti permetto di andare a scuola in macchina" — mi limito a sbuffare; scie di aria calda e di acredine trapassano attraverso le fessure dei denti.

Comunque sia la destinazione è più che vicina, dopo aver percorso in linea diretta il fianco del Giardino di Boboli svolto a sinistra.

Il mio liceo è situato a poca distanza più in giù. Dove mi sta aspettando una delle interrogazioni peggiori della mia vita, il liceo dove ogni giorno viene combattuta la guerra dell'indirizzo Classico contro l'indirizzo Artistico, una delle battaglie più sanguinose che Firenze abbia mai visto — logorante e pertinace, che rende allo sfinimento e contemporaneamente ti esorta al valore e alla giustizia. Ogni studente ne indossa la rispettiva armatura lucente.

Il Caravaggio che, oltre il mio gruppo di amici, ospita il mio nemico numero uno, il mio antagonista, colui che ogni santo giorno, fin da quel dì del terzo anno, mi mette i bastoni fra le ruote, gode della mia disfatta e ne inventa sempre una affinché l'odio, il livore fra le due fazioni possano crescere a dismisura.

Mi ero quasi dimenticata — cancellato dall'effimera percezione di un'interrogazione incombente — che Leonardo Aspromonte esiste, inspira ossigeno e frequenta il mio stesso istituto, vivendo a una distanza così accorciata da me che quasi potrei dichiarare di avere un'allergia nei suoi confronti. Poiché sì, sono praticamente intollerante a ogni cosa di lui: modi di fare e modi di pensare, ideologie e teorie, razionalità e sentimento.

Ebbene — per mio sommo dispiacere — eccolo di nuovo qui a rendere un inferno la mia quotidianità di studentessa.

Anche oggi dovrò tenere testa ad Aspromonte oltre che sorbirmi la solfa di storia dell'arte, anche oggi dovrò lottare contro quell'impulso familiare di strapparmi i capelli e di farglieli mangiare con la forza.

Cosa vuoi di più dalla vita? Forse un amaro Lucano mi sarebbe davvero di aiuto.
















Ci sono unicamente due cose che riescono a farmi distendere i nervi in momenti come questi, attorcigliati in un groviglio di innegabile tensione e nervosismo – e siccome ho letteralmente finito le unghie a furia di rosicchiarmele fino alla carne e sono stata costretta a tingerle di smalto nero per non far vedere la pelle arrossata a scorticata, tale tecnica la escludo a priori –, ovvero il premere le cuffie giganti contro le orecchie, facendo partire la mia canzone preferita in assoluto, "Rock the Casbah" dei Clash, e il portare una sigaretta a fior di labbra, rigorosamente Winston Blu, accendendola di breve vita.

Questa combinazione è sempre riuscita a farmi rasserenare l'animo, placandone momentaneamente il marasma che ne affligge; l'armonia della canzone e il fumo della sigaretta che corrode i polmoni carezzano in me le corde della serenità, suonandole fino a che io non raggiungo il concetto di calma.

Decido di seguire il consiglio della mamma: non penso alla minima parola del discorso che avrei dovuto esporre fra pochi minuti; svuoto la mente, lascio fluire lo scorrere dei pensieri — infruttuoso — cerco di non riflettere sul niente del niente, la svuoto da tutte le note negative che riempiono lo spartito della mia psiche, vasta e con tanti — troppi — angoli bui.

Via l'Espressionismo, via il voto che mi avrebbe assegnato Lunanuova, via l'esame pratico della patente che avrei dovuto dare il 3 di novembre, via Leonardo Aspromonte, via tutti i suoi seguaci Perfettini, via Olivia Valorosi, la donzella che sta sempre dietro a Leonardo — e dal momento che lui odia me allora mi odia anche lei — via la faida del Caravaggio... via tutto ciò per questo piccolo lasso di tempo.

Ho bisogno di rilassarmi, ho bisogno di far finta che io adesso non mi trovi a Firenze. Mi trovo, mi trovo, mi trovo... in cima al monte Fuji, in piena contemplazione e meditazione.

Chiudo gli occhi, accosto con delicatezza le palpebre e mi abbandono all'oscurità voluta — ghirigori seducenti. Prendo un tiro della sigaretta, lento sfacelo del tempo, e mi lascio ninnare dalla canzone.

Ignoro il freddo abbastanza pungente che avverto alle gambe, fasciate unicamente da delle calze nere quaranta denari e da una gonna di jeans. Ignoro i capelli che vengono mossi dalle dita del vento — che li arpionano con gentilezza —, la frangetta che mi solletica la fronte. Ignoro di essere eventualmente presa per matta siccome sono in piedi dinanzi al cancello d'ingresso del Caravaggio, con gli occhi appunto chiusi.

Ignoro di essere Matilde, solo per pochi istanti. Sfuggo dall'oggettività, almeno per adesso.

Esistono i Clash e la Winston, e basta. Esiste la mia essenza che viene sollevata da terra con tutto il mio peso a gravare.

E allora ho fatto male i conti, perché mi sono dimenticata di ignorare anche DarthMart...

La mia amica mi piomba addosso così impetuosa che mi fa prendere un bello spavento! Tanto che la sigaretta mi sfugge dalle dita, insalvabile, e finisce per rovinare sulla sozzura del cemento impiastricciato di rugiada, per terra.

La prima cosa che faccio, appena riaperti gli occhi, è quella di sfilarmi le cuffie per rendermi conto di cosa stia blaterando e poi metto a fuoco l'ombretto giallo vivo che DarthMart si è applicata sopra la palpebra mobile. Un contrasto meraviglioso con le sue flebili ciocche argentee, fresche di tinta. Ne fregiano con grazia e bellezza i lineamenti del suo volto.

Ricorda quasi i tratti di un elfo, per via delle movenze leggiadre e delle iridi che sono in grado di portare in un'altra dimensione colui che vi si specchia. A parte adesso... perché adesso Marta ha addosso le fattezze di una tempesta.

«Hai la minima idea che mi hai appena fatto perdere un anno di vita?» le dico a bassa voce, perché ovviamente sono incazzata della sigaretta sprecata e del mega spavento che mi ha fatto prendere.

Ah, e della canzone interrotta a metà! Ed è una cosa che odio veramente, veramente tanto. Ne è addirittura al corrente. Matilde e il cinquanta per cento sono nemici quanto Matilde lo è con Aspromonte.

«Che fortuna, immagina se ne perdevi due. È da un sacco che ti sto chiamando, salutando, sbracciando ma tu sembri essere in trance», Marta mi lancia un'occhiata torva, anche lei è piuttosto accigliata.

«Stavo cercando di calmarmi un po', sai... visto che tra poco Lunanuova m'interrogherà, ma tu hai interrotto il mio tentativo. Troncato come un bastoncino asciutto» constato digrignando i denti, provando tristezza per quella Winston ormai andata.

«Ti ho chiamata al cellulare poco fa» ignora quello che le ho appena detto, incrociando le braccia al petto.

Brutto segno quando incrocia le braccia al petto, brutto segno. Il preludio di qualcosa di infausto.

«Stavo guidando» replico mentre mi abbasso per ammirare la tragica fine della sigaretta, insalvabile.

«Potevi rispondere e mettere il vivavoce» insiste lei picchiando lo stivale contro il cemento nervosamente.

«Mia madre mi ha fregato il cellulare prima che potessi farlo. A proposito, smetti di frugare fra le mie suonerie, non voglio la colonna sonora di Star Wars quando mi telefonano» proferisco con voce bassa, a mo' di avvertimento, tuttavia che non ammette repliche.

La sigaretta, povera anima sventurata, è andata a finire dritta in una piccola pozzanghera fangosa, impossibile salvarla. Passata a miglior vita.

«Se ti alzi te ne offro una io, di sigaretta» asserisce Marta dandomi dei colpetti sulla testa per guadagnarsi la mia attenzione, seppur con dolcezza, «e comunque scusami, non volevo affatto contaminarti il tuo adorato cellulare con Star Wars! Però ti ricordo che sabato sera ci siamo ubriacate e sicuramente, senza volerlo, ci ho messo mano».

Quando sento la parolina magica scatto velocemente in piedi — le ginocchia che si piegano guidate dal desiderio di un nuovo pretesto per ottenere qualche minuto in meno di vita — disegnandomi un sorriso felice sulle fattezze delle labbra. La sigaretta prima di entrare in classe è un'abitudine a cui non intendo rinunciare.

«Per la miseria, te la sei scaricata da YouTube e poi me l'hai impostata come suoneria! Dovevi essere proprio fuori» mi viene da ridere a immaginare DarthMart stesa sul parquet della mia stanza intenta nella sua missione segreta.

«L'alcol fa fare miracoli, basta pensare a Modigliani. Lui beveva parecchio ed era un genio, coincidenze?» sostiene Marta quasi con orgoglio, mantenendo poi la parola offrendomi un drum dalla sua scatolina metallica con la scritta Jack Daniel's tutta in nero. Uno dei suoi tesori più preziosi.

Senza ulteriore indugio faccio per prenderne uno, accendendomelo successivamente, ricominciando da dove la mia amica mi aveva interrotto.

«Cosa volevi stamattina, a proposito? Perché mi hai chiamata? Di solito al mattino sei sempre troppo in coma per comporre anche semplicemente un numero» le domando mentre getto il fumo fuori dalle labbra, impaziente. La canzone dei Clash che giunge ovattata, lontana, alle mie orecchie.

«Ma come, non lo sai? Te ne sei scordata di già? Caspita... l'interrogazione con Lunanuova ti ha proprio fuso il cervello, Mats» Marta fa un'espressione corrucciata e sorpresa allo stesso tempo, spalancando le iridi verde chiaro, assumendo uno sguardo spiritato.

«Cosa? Che cosa non so?» tento di far luce su quello che tecnicamente dovrei ricordare. Ma, ahimè, è la stessa situazione di quello che ho studiato sull'Espressionismo: vuoto assoluto.

Accidenti a quel professore del cavolo! È frustrato, deve esserlo per forza, sicuramente non scopa abbastanza altrimenti non si spiega. Non vedo l'ora di fare questa interrogazione e di levarmela dalle palle. È assurdo, è incredibile, nemmeno la matematica mi ha mai fatto questo effetto. E poi io a matematica non brillo per niente, è come se venissi patinata di polvere quando si tratta di avventurarsi fra le sue ferree regole.

«Ti ho chiamato perché ti volevo avvisare che Aspromonte è già arrivato a scuola e che ti dovevi spicciare. Sai che cosa voleva fare quest'oggi? Te lo ricordi almeno questo, vero?», Marta sembra preoccupata mentre mi spiega a piccoli passi la situazione, la ruga che le solca la fronte ne è la prova schiacciante.

Anche la fossetta che le si va a formare sulla guancia destra a causa del mezzo sorriso forzato che sta cercando di issare all'insù ne è un'altra prova.

«...Rovinare la vita a noi dell'Artistico?» azzardo chiudendo un occhio, con cautela.

Giuro, seriamente non ricordo che diamine volesse architettare quel testa di minchia di Leonardo! Ed è alquanto preoccupante. Di solito non mi sfugge niente di quello che combina, ho come un radar anti-Leonardo Aspromonte, quasi ce l'avessi installato sotto pelle da tempo immemore.

«Uhm, non sarebbe una novità. E va bene... t'illumino io. Questa mattina voleva andare dal preside Gandolfo per spifferargli che i bagni del piano del Classico non fanno altro che puzzare di fumo. Intende accollare la colpa a noi dell'Artistico per far sì che i bagni del loro piano diventino esclusivi, in poche parole noi non avremmo più accesso a essi. Possiamo pisciare soltanto nei bagni del nostro piano» ed ecco che Marta finalmente sputa fuori il rospo, un rospo bello grande.

E all'improvviso tutto ritorna a galla, come un fulmine che illumina il cielo buio e oscuro, privo di stelle.

Sì, certo, è chiaro. Ora ricordo tutto!

Ricordo le lamentele di Leonardo e di quelli del quinto A, seguite a ruota dalle sezioni B e C, le sezioni della fazione nemica. Le lamentele per le cappe di fumo che si formano nei cubicoli dei cessi, le lamentele verso quei Fattoni dell'Artistico che non fanno altro che incannarsi dentro di essi o anche semplicemente fumarci.

«Puttanate!» sbotto senza volerlo, avverto un certo calore familiare infiammarmi le gote, dapprima boccioli di rose, infine petali spiegati, «Come se quei figli di papà non ci fumassero anche loro nei bagni. Che santarellini che sono, eh? Ma non mi dire! Aspromonte diventa sempre più ipocrita e incoerente, tutti quelli del quinto A stanno diventando sempre più ipocriti e incoerenti».

«A dir la verità tutto il Classico in generale sta prendendo questa piega. Anche i nuovi studenti, quelli del primo, è come se li istruissero a odiarci a priori per portare avanti questa faida così... poetica, la definirebbero loro» mi mette al corrente DarthMart sibilando vocaboli carichi di astio.

«E così facciamo anche noi con quelli che arrivano nuovi ogni anno. Non è giusto che si facciano inculare da quei platonisti dannati, è giusto che si sappiano salvaguardare da certi elementi» convengo io rabbuiandomi e stringendo l'accendino nella mano sinistra.

Le nocche si tingono di bianco per quanta forza ci metto.

«Muoviamo il culo e andiamo a mettergli i bastoni fra le ruote, oppure vogliamo ancora crogiolarci sulle puttanate, appunto?» suggerisce Marta afferrandomi al contempo il polso, presa impaziente la sua.

«Ovvio che andiamo a mettergli i bastoni fra le ruote a quel bamboccio, le lance ci mettiamo... addirittura non vuole che usiamo gli stessi gabinetti, c'è dell'assurdo in tutto questo» asserisco con sicurezza, avviandomi verso l'ingresso del Caravaggio, sorpassando la grande e maestosa quercia che da anni ormai convive con noi studenti, in questo giardino che decora l'istituto.

«Ti sorprendi forse un po' troppo, cara la mia Mats. È sempre Aspromonte... che t'aspettavi?».




















Io e Marta corriamo come due forsennate verso la presidenza, che è situata nella parte est del liceo Caravaggio, al primo piano, quello dei Perfettini.

Mentre percorriamo il piano del Classico a velocità decisamente elevata, prestiamo attenzione a non finire addosso agli studenti che pian piano stanno entrando nelle rispettive classi e soprattutto stiamo attente a non investire qualche professore avanti con l'età, sarebbe un disastro. Allora sì che daremmo vittoria all'altra fazione.

Naturalmente, nemmeno l'avessimo predetto, diversi sguardi che traboccano di scontentezza e disprezzo ci vengono scagliati addosso nel contempo che avanziamo. Sembra che stiano assistendo al passaggio di due alieni con tanto di antenne e non di due normali ragazze di quinto.

Ah già, dimenticavo, per loro due ragazze con i capelli argentati e l'altra con le punte della chioma rosa sono sinonimo di "alieni".

Considerando poi che Marta ha le orecchie piene di buchi e di orecchini vari, e che io ho un cerchietto nella narice del naso rappresentiamo proprio l'estremo della razza aliena. E non è un eufemismo.

Ma siccome io e Marta abbiamo il raro dono dell'indifferenza riusciamo a fregarcene altamente dei pensieri del prossimo, soprattutto quando questi non ci rappresenta nulla. È bene non dare smisurata importanza e confidenza a ogni umano che respira, troppo poco tempo per sopportarne ogni giudizio, ogni parere.

«È già dentro l'ufficio del preside?» domando tanto per averne la certezza, ansimando e implorando un briciolo di fiato.

«Ovviamente, non ha perso tempo il dio Apollo!» DarthMart mi dà conferma, boccheggiando a sua volta.

«Tsk... dio Apollo... ancora non mi capacito di come un essere come lui possa meritarsi tale epiteto» borbotto contrariata, la voglia di strofinarmi le labbra con la manica del giacchetto dopo aver pronunciato la frase.

Ecco, riesco a scorgere l'ingresso della segreteria dopodiché viene il turno della presidenza, secondo la collocazione della mappa del liceo.

Sono talmente infervorata, talmente arrabbiata, che mi passa di mente l'interrogazione con Lunanuova, la faccio passare in secondo piano. Sicuramente lo faccio inconsciamente, senza volerlo, quando si tratta di Aspromonte purtroppo non rispondo delle mie azioni, delle volte agisco senza nemmeno riflettere. Sembro un cane rabbioso quando si tratta di lui, ormai è una cosa risaputa.

Ci siamo, la porta del preside Gandolfo è a un palmo dal mio naso!

Appoggio la mano sopra la maniglia di bronzo dall'aria antica, gelida al tocco, e faccio pressione, la apro. Faccio spalancare la porta con una certa irruenza e questo lo reputo sin da subito come un punto a mio sfavore, me ne rendo conto troppo tardi. Dopotutto, rappresento gli accusati io.

Leonardo Aspromonte è lì, in piedi dinanzi alla gigante, raffinata e signorile cattedra in legno di ciliegio di Ottavio Gandolfo. Il colore di quest'ultima, rosso bruciato, spicca nel mezzo del suo ufficio, arredamento comunque elegante, che rispecchia in tutti i sensi l'animo del preside, decisamente opulento.

Il mio acerrimo nemico, soprannominato dio Apollo per via della sua innata bellezza angelica, mi sta guardando — incenerendo — con sguardo affilato, sfoderando con cotanta naturalezza un sorriso sghembo assai spietato e sulla linea del crudele — la linea delle sue labbra è crudele, che non conosce pietà. Tiene il capo alto e tutta la sua superiorità mi si riversa addosso come zampilli di grandine, chicchi di ghiaccio che si infrangono sul mio contorno rivestito di onestà e di disperazione.

Ciononostante non soccombo sotto di lui, la sua grandine non mi incrina, non lascio che la sua pressione visiva — dettata da quello sguardo costantemente carico di rancore — mi faccia arretrare d'un sol passo.

Le sue iridi azzurro marino, limpide tanto quanto distaccate e coriacee come la più rara delle pietre preziose, mi scrutano etichettandomi come una minaccia — un'infezione da estirpare, sradicare alla radice.

L'iride incastonata nel lato a sinistra del suo viso mi mette sempre una leggera soggezione poiché affetta da eterocromia in forma lieve: quel limpido colore azzurro è contaminato da una macchia tonalità ambra.

Esse tentano di scavare a fondo nelle mie — mare e terra —, semplici e d'un castano scurissimo, quasi che abbracciano il nero della notte, spire fosche — specchio della mia anima. Tentano di farmi provare un briciolo di terrore, perlomeno un briciolo d'angoscia, oppure cercano – come sono solita a pensare – di entrare dentro di me attraverso di loro, per scovare i miei pensieri, le mie paure più reconditi e recondite. Cercano di trovare una falla nel mio sistema.

Ed è quasi un qualcosa di elementare.

Come tutti gli esseri umani esistenti e respiranti di questo pianeta, anche io ho una falla, anzi, tante falle nel mio sistema. Forse centinaia, migliaia — ho imparato ad accettarne il fardello. Il trucco è non farle sapere a chi potrebbe usarle per farti del male, il trucco è saperle celare con dovuta accortezza e padronanza. Sbattere le ciglia, osservare e stare attenti a non far trapelare quel che serve per cadere.

Anche Leonardo ha le sue falle — un numero infinito dietro quelle iridi di vetro —, di cui sono tutt'ora all'oscuro, come lui delle mie. A esser sinceri nemmeno m'interessano, dico davvero, il mio modo di pensare e il mio carattere mi portano a non dar peso a dettagli come questi.

Come ogni normale giornata scolastica di routine, indossa un maglioncino dall'aria costosa, con il colletto d'una camicia che fuoriesce con classe dal girocollo. I consueti calzoni a sigaretta che scivolano sulle sue gambe sinuose sino a mostrare un piccolo pezzo di caviglia, e ai piedi le sue fedeli Dr. Martens Adrian.

Potrei giurare su qualsiasi cosa che io, in questi miei cinque anni di liceo, non ho mai visto Leonardo Aspromonte con un paio di jeans. Mai. Non saprei dire con certezza se sia una cosa inquietante o meno.

E poi continua a ripetere che noi dell'Artistico siamo quelli strani.

Un movimento percettibile del suo capo mi fa spostare l'attenzione verso i suoi capelli dorati, impeccabilmente in ordine. Anch'essi mai visti una volta succubi del caos, forse un paio di volte a una qualche festa del Caravaggio quando era fuori come un terrazzo. Sennò mai più, sempre tenuti costantemente in ordine. La compostezza fa di lui un ineccepibile oggetto irraggiungibile, desiderato da qualsivoglia ragazza dentro queste mura.

Una montatura dorata e dall'effigie rotonda va a incorniciargli il contorno degli occhi, un dettaglio che gli si addice piuttosto bene.

Mentre continua a sorridere con fare tirannico, lo spigolo della mascella gli si contrae, stizzito dal mio soffermarmi su di lui senza chiedere il permesso.

Una vera e propria antinomia con la sottoscritta, vestita di gonna di jeans e di un maglioncino con le maniche che addirittura vanno a coprire le mani se non arrotolate in precedenza — comprato al mercatino vintage di seconda mano, incredibile di quante cosine rare e carine vi si possono trovare a un prezzo ragionevole, soprattutto tenute in condizioni buone.

Quando siamo entrambi nello stesso ambiente stoniamo, non c'è nulla da fare, come adesso.

«Bene, bene, bene, guardate un po' chi abbiamo qui» apre bocca il dannato, colui che ci considera quasi come degli infetti, senza cessare di sfoggiare quel sorrisino adatto a incassare fior di cazzotti e schiaffi — senza avere il garbo di farne a meno.

«Evidentemente questa mattina è gradita particolarmente la mia presenza» si rivolge a me e a Marta il preside, sogghignando sotto i suoi folti baffoni, da sempre fin troppo farfallino per la carica che ricopre, «posso sapere con chi ho l'onore?».

«Matilde Castellani e Marta Brunori, sezione quinto D, indirizzo Artistico» rispondo con educazione, senza smettere di guardare con disprezzo palpabile Aspromonte.

Un filo di bronzo invisibile, ogni volta, ci tiene incollati l'uno con l'altra. Quando siamo insieme, tutto il resto del mondo passa in secondo piano.

«Direi che abbiamo allora due capostipiti di alto rilievo dei due indirizzi. In cosa posso esservi utile, signorine?» chiede Gandolfo con un sorriso molto cordiale, assai troppo cordiale... che Leonardo ancora non abbia sganciato la bomba?

«Siamo qui perché il qui presente del Classico ha qualcosa da dirle e noi vorremmo ascoltare dal momento che è una questione che ci interessa» spiego con tutta la calma che dispongo, assumendo un'aria irremovibile.

«Sì, per l'appunto il ragazzo stava per dirmi qualcosa. Dico bene?» il preside si dedica a Leonardo, inarcando un sopracciglio.

«Ovvio che sì, signore» ribatte il nemico con voce schifosamente zuccherosa, simile a un coro di campanellini, «volevo solo farle presente che nei bagni del nostro piano, del Classico, c'è una costante e ripetuta puzza di fumo. So per certo che noi studenti del Classico siamo, come dire, persone per bene ed educate, rispettose dell'ambiente e dei luoghi pubblici. Non ci azzarderemmo mai a consumare una sigaretta dentro le mura di questo liceo...».

«È un'accusa seria la tua, ragazzo, come puoi averne delle minime prove? È risaputo che la maggior parte degli studenti del Caravaggio fuma, e fidati, in ognuno di noi si annida quella piccola vocina che ci suggerisce di fare cose sbagliate, cose da ribelli. Ai miei tempi d'oro ne facevo anche io» Ottavio Gandolfo si schiarisce rumorosamente la voce prima di proferire parola, e devo dire una serie di parole molto sagge, soprattutto ponderate.

«Signore, io e i miei compagni, dal momento che ora frequentiamo il quinto anno, ci siamo presi la responsabilità di istruire le nuove leve, capisce? Ci impegniamo a insegnare il rispetto e la salvaguardia di questo istituto, noi ci teniamo. E poi basta che dia un'occhiata a me e a... lei» il dio Apollo parla senza abbandonare quel tono mieloso, ma quando giunge alla fine della frase, quando va a pronunciare l'ultimo termine, lo fa sputando veleno e astio.

«Io, l'esempio perfetto di ragazzo di buona famiglia, studioso, con buoni voti, sempre ben vestito e composto, e appassionato di letteratura. Lei, l'esatta copia di un'artista di strada per non dire una senzatetto, conciata come se provenisse da una comunità, sicuramente estimatrice della cannabis e dai capelli rosa» enuncia con una certa solennità quando parla di se stesso, per poi sfociare nuovamente nel disprezzo quando parla di me.

«Punta dei capelli rosa, prego, ti sei sbagliato» lo correggo con una certa aria di sfida, mettendo la mani sui fianchi. «E comunque, preside, lei ha pienamente ragione, non vi sono prove. Potrebbe essere stato chiunque a fumare nei bagni, come potrebbe essere stato nessuno. E a volte nessuno, come ci insegna chiaramente Ulisse, potrebbe rivelarsi una vera sorpresa».

«Ci stai forse accusando?» sibila Leonardo battendo un pugno sulla cattedra di Gandolfo, contraendo ancor più la mascella.

«Nessuno accusa nessuno. Questo intervento da parte tua è stato prettamente inutile» interviene Marta lugubre, con le braccia rigorosamente incrociate. Nemmeno respira per quanto ce le ha intrecciate al petto.

«Vede, preside? La mia amica frequenta la mia stessa classe dell'Artistico e ha un linguaggio veramente dotto, il che spiega e conferma che le apparenze ingannano» affermo con un sorriso luminoso, perché io credo fermamente nel fare buon viso a cattivo gioco.

«Dove vuoi arrivare, mio caro ragazzo? Dovremmo forse installare delle telecamere? Ci sarebbe un bel malcontento nei confronti di tutti, essere spiati mentre si va al bagno è decisamente sconveniente. Al massimo posso consigliare caldamente di andare a fumare all'aperto anziché dentro i sanitari, negli orari di pausa e non negli orari di lezione» dichiara l'uomo con un certo cruccio, sistemandosi meglio sulla sua enorme sedia, «ecco, posso fare questo. Portami delle prove concrete di qualcuno che va a fumare durante gli orari adibiti alle lezioni, allora potrò prendere dei provvedimenti. Chiudere un occhio va bene, chiuderli entrambi è da stolto».

«Avrà le sue prove, preside, ha la mia parola» espone Leonardo alzando il mento.

«E avrà anche le mie, signore» concludo io, con voce ferma.

Qui nessuno andrà nei guai per colpa di un ipocrita, nessuno di quelli della mia classe perlomeno. Non appena vi poserò piede metterò al corrente subito Diego e Marco — devono fare attenzione con il lupo in agguato.

Andare in classe? Ma che ore sono? La campanella è suonata? Accidenti! Cazzo! L'interrogazione con Lunanuova!

Devo correre, devo volare assolutamente in classe altrimenti saranno guai seri, altro che la minaccia di Aspromonte. Il prof. non deve pensare che voglio saltare la sua interrogazione, nossignore.

«Deve scusarmi, davvero, preside Gandolfo, ma dobbiamo assolutamente andare in classe» dico in preda all'ansia quando constato che sono le otto e venti passate, la campanella è già suonata.

Afferro Marta per il polso e, senza darle il tempo di pronunciare un "arrivederci", la trascino via con me.

Nemmeno arriviamo a un quarto del corridoio che il mio braccio libero dalla presa di Marta viene strattonato all'indietro — privo di cortesia —, di conseguenza quasi perdo l'equilibrio, quasi finisco rovinosamente sul pavimento freddo e screziato del Caravaggio. Ringrazio il mio precedente di ballerina di danza classica, che mi ha fatto acquisire un equilibrio non indifferente.

«Porca puttana!» impreco a minaccia scampata, e quando vedo l'artefice di cotale agguato vorrei davvero imprecare qualcos'altro.

Ma da brava agnostica quale sono preferisco starmene in silenzio. Rispettoso silenzio.

«...Tu devi avere un qualche problema mentale» è tutto ciò che riesco a dire, a voce bassa e graffiante.

Leonardo Aspromonte è uscito dall'ufficio del preside e ha la sua mano attorno al mio avambraccio, una presa alquanto ridicola. Le sue iridi sono lambite da emozioni contrastanti, furiose, incendiate e adirate al tempo stesso, la mascella irrigidita all'ennesima potenza segno che sta digrignando i denti.

«Non osare mai più interrompere una chiacchierata come quella e non osare mai più, nel modo più assoluto, puntare il dito contro di noi» ringhia come si addice a un lupo, una tigre, un leone. Un predatore.

Quando dice "noi" si riferisce alla sua fazione, ai Perfettini.

«La presidenza è un luogo di dominio pubblico, prima cosa, e seconda cosa, siccome hai l'abitudine di sparare molte puttanate, io intervengo, chiaro? Proteggi i tuoi? Benissimo, fantastico! Io proteggo i miei!» rispondo per le rime senza essere minimamente impaurita dalla sua minaccia, «E lasciami immediatamente il braccio, mi repelle essere toccata da te» aggiungo con ribrezzo, riversando un'occhiata sinistra nella medesima direzione.

«Siamo in due a provare repulsione» mi accontenta prontamente, «ad ogni modo, non finisce qui. È l'ultimo anno questo, l'anno in cui tutto avrà fine e voglio farvelo passare in maniera peggiore possibile. Voi, cani dell'Artistico, non meritate di condividere il tetto del Caravaggio con quelli come noi. Prima che tutto finisca è giusto che qualcuno vi rimetta al vostro posto» sibila carico d'odio. «E adesso vai, vattene al tuo piano, il posto che ti si addice».

Infine Leonardo s'incammina con passo deciso e veloce dettato dalle sue lunghe gambe, ci dà le spalle come se niente fosse, come se contassimo zero.

Contiamo zero, per lui.

«Mamma mia, a volte quel ragazzo sa essere davvero pazzo e per fortuna che quest'anno dovremmo diventare maturi...» interviene Marta sussurrando quasi, incredula.

«Quale ironia...» convengo io sarcastica, massaggiandomi l'avambraccio dove Aspromonte ha stretto con forse troppa veemenza.

«Scusa se te lo ripeto per la milionesima volta, Mats, ma ancora devo capire perché lui prova tutto questo odio per te. Okay, lo so, Aspromonte odia tutto l'Artistico, odia addirittura la parola stessa. Ma tu, sembra quasi un odio diverso, più... tragico, più... drammatico. Ed è piuttosto buffo visto che sino al terzo anno ti ha odiata come tutti gli altri, quasi ignorata. È difficile da spiegare...» commenta DarthMart mordendosi il labbro, aiutandosi con la gesticolazione delle mani affinché io possa capire ciò che sta cercando di farmi intendere.

«E invece è molto semplice, DarthMart. Mi odia di più semplicemente perché sono quella che è in prima linea a mettergli i bastoni fra le ruote. Nessun dramma, nessuna tragedia. Si chiama guerra, questa, tutto qua. E non vedo l'ora che finisca questo quinto anno così che possa togliermi di torno tutto ciò. A volte è davvero dura sopportare, affrontare tale situazione tutti i giorni» taglio corto scuotendo il capo, una nota di stanchezza fuoriesce senza che io me ne renda conto in tempo.

«Non ti hanno soprannominata dea Atena dal niente, sai? Sei combattiva, non ti dài mai per vinta» mi dice Marta con dolcezza, dandomi una carezza affettuosa sulla guancia, «credimi, non sei l'unica a sopportare. Tutti noi conviviamo con questa zavorra».

«Non mi piace quel soprannome, con tutto il rispetto per la dea Atena, io non sono affatto come lei. È un'offesa nei suoi confronti» le confesso alzando le iridi all'insù.

«Fossi in te, io sarei onorata» conviene lei.

«Mi sentirò onorata solo quando avrò strappato un sei al professor Lunanuova!» sdrammatizzo un po' mettendomi le mani sui capelli. «Via, dobbiamo fuggire in classe» ordino.

«Ma gli strapperai anche un sette» mi rassicura la mia amica mettendomi un braccio intorno alle spalle.

«Disse quella che prese tre!» le faccio presente senza riuscire a trattenere una risata.

«Recupererò. Lunanuova non ha finito con Marta Brunori. So essere convincente anche in altri modi, sai?» dichiara con uno sguardo malizioso, leccandosi le labbra.

"Oh sì, ti credo sulla parola, Marta...", rifletto con ironia, "Da quando la freddezza è divenuta arma di seduzione?".

E mentre ci dirigiamo verso la nostra sezione, il quinto D, afferro la mano di Marta e non la lascio finché non raggiungiamo il nostro piano, il piano dell'indirizzo Artistico.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top

Tags: