§ 3- Il viaggio - Prima parte §
L'annuncio del comandante si intrufola nella mia mente assonnata costringendomi ad aprire gli occhi, non stavo dormendo ma non ero neanche del tutto sveglia, lo ammetto. Lancio uno sguardo all'orologio stretto al mio polso, le lancette segnano le 11,30 ed ecco spiegato il motivo dell'assurdo brontolio del mio stomaco.
Mi strofino il viso tentando di scacciare il senso di intorpidimento che mi ha invaso. La sveglia questa mattina ha suonato alle tre e tra il viaggio in treno, in autobus e ora in aereo, sono completamente stordita.
La spia delle cinture si illumina e inevitabilmente mi spunta un sorriso sulle labbra.
Finalmente si mangia!
Dopo la manovra di atterraggio lascio che scendano prima tutti gli altri. Mi prendo il tempo per stirare i muscoli indolenziti, ravvivare i lunghi capelli corvini, controllare di non sembrare uno zombie e poi approdo sulla scaletta in metallo.
Non appena entro nell'aeroporto riesco a percepire subito la territorialità del luogo, la sento nelle voci dei passanti, nei profumi che riempiono l'aria e all'istante svanisce l'intorpidimento e il dolore per il recente inganno. Desiderosa di vivere il momento, cosa che peraltro mi riesce bene, punto lo sguardo sull'uscita.
A passo sostenuto e con il trolley al mio fianco mi incammino, dritta verso l'obiettivo, perché ho già in mente cosa fare e come impiegare il tempo di attesa tra un volo e l'altro.
Il primo segreto di uno chef, è non disdegnare una buona cucina. Così prima di partire ho cercato un locale caratteristico che prepara cucina tipica. Voglio assaporare le specialità locali, perdermi tra le spezie che questa gastronomia offre e scoprire prelibatezze che non ho mai gustato.
Sono una ragazza di bocca buona e non mi spaventa niente. L'esperienza è alla base della crescita professionale, me lo diceva Vincenzo all'inizio dei miei studi e, visti i suoi risultati, ci credo fermamente.
Una volta all'esterno, imposto il navigatore e seguo la strada fino al ristorante, non è molto distante e ho bisogno di camminare, di inspirare l'aria calda e perdermi con lo sguardo su ogni particolare che mi circonda.
Credevo di adorare viaggiare e ora ne ho la certezza, perché ho uno stupidissimo sorriso sulle labbra, che diventa sempre più ampio a ogni passo.
Il ristorante pluri-recensito è a ridosso del mare e si erge maestoso con la sua struttura caratteristica, una composizione particolare di legno e pietra dall'aspetto incantevole.
Mi fermo a fissare l'ingresso sopraelevato, riepilogando nella mente le frasi in inglese per non fare scena muta. La mia conoscenza della lingua è scolastica, quindi, devo prendermi un attimo.
"Hai intenzione di entrare o pensi di ammirare l'edificio a vita?"
La domanda, in italiano, mi sfiora ma non me ne preoccupo, convinta che non sia diretta a me. In fin dei conti sono da sola in terra straniera.
"Scusa?" un ragazzo mi piazza il volto davanti con un sorrisetto ambiguo. Ha i capelli ribelli sulla fronte pallida e occhi nocciola dalla forma tondeggiante.
"Sì."
"Hai intenzione di entrare?" ripete ampliando il sorriso, "Sei davanti all'imbocco" spiega indicando davanti a me.
Che figura! Impreco guardando la passerella di legno che risale fino alla porta.
"Scusa!" mi mortifico indietreggiando per spostarmi.
"Figurati!" replica passandosi una mano tra i ricci color caramello.
"Smettila di importunarla!" aggiunge un'altra voce.
Mi volto e vedo un altro ragazzo raggiungerci, la sua espressione è molto simile a quella del compare, anche se i lineamenti del volto sono più spigolosi.
"Non la sto importunando!" ribatté il riccio, "Le ho solo chiesto di spostarsi."
"Ma se l'hai puntata dall'aeroporto", contesta l'altro con un ghigno impertinente, "altrimenti perché farmi fare tutta questa strada a piedi?"
"Tu, zitto mai?" lo guarda storto.
"Tu, sincero mai?" replica ampliando l'espressione furba, prima di spostare i suoi occhi su di me per dire: "Scusalo, è timido."
"Tu no, a quanto vedo" parlo incrociando le mani sul manico della valigia, mentre i miei occhi affondano un istante nei suoi, neri come la notte.
Non sono interessata, né a uno né all'altro, ovviamente, ma il loro sguardo è un toccasana per la mia autostima dannatamente ammaccata. Non sono una di quelle ragazze da copertina con il corpo longilineo e i lineamenti delicati, che ti abbagliano con la bellezza oggettiva, io sono una giovane fatta di carne, nei punti giusti, più o meno, di quelle che attirano per una combinazione naturale.
"Io faccio da spalla a un amico", replica con un sorrisetto malizioso, "ma se mi preferisci a lui, lo mollo subito!"
"Bell'amico!" esclama l'altro dandogli una lieve spinta, sorridendo.
Si guardano e ridono con complicità, facendomi sentire terribilmente la mancanza di Daniela.
"Mi chiamo Paolo, piacere" dice il riccio allungando una mano.
Osservo la mano sospesa a mezz'aria con un'espressione dubbiosa.
"Io, Sergio" aggiunge l'altro avvicinandosi al primo, che nel frattempo ha ritirato la mano senza smettere di sorridere. "Tu, invece, un nome ce l'hai?"
"Viola" rispondo sollevando la mia a mo' di saluto.
"Davvero stai viaggiando da sola?" chiede Sergio appoggiandosi al corrimano della passerella.
"Chi vi dice che sono sola?" replico guardinga, anche se non mi danno l'idea di avere cattive intenzioni.
"Eravamo dietro di te, ricordi?"
"Mi state davvero pedinando?" inquisisco seria, guardandoli un po' torva. Mai fidarsi degli sconosciuti è la prima regola che mi hanno insegnato da piccola ma, devo ammettere, che con l'arrivo dell'adolescenza non ci ho più dato molto peso.
Il mio soprannome, Iceberg, è dovuto alla mia capacità di celare le emozioni, non alla freddezza con il prossimo. Trovo sia bello conoscere gente nuova, confrontarsi e imparare, perché chiunque può insegnarti qualcosa, basta solo osservare i dettagli.
"Non proprio", ammette Paolo, "ma sappi che non è furbo andarsene in giro per Istanbul da sola."
"Non sono mica la prima", minimizzo, "e poi cos'è, una scusa per proporvi come mie guardie del corpo?"
"Per ora vorremmo andare a mangiare", prende parola Sergio sollevandosi dalla ringhiera, "se sei sola e vuoi unirti a noi non c'è problema", continua a parlare mentre avanza verso l'ingresso e aggiunge fermandosi dalla porta, "noi veniamo qui ogni volta che torniamo a Hong Kong."
"Ci andate spesso?" domando seguendoli. Non ho voglia di mangiare da sola e poi mi sembrano dei bravi ragazzi.
Speriamo di non sbagliare!
"Questo è il terzo viaggio", risponde il riccio sorridendomi, "lavoriamo lì."
"Wow!" esclamo senza riuscire a contenere la curiosità, "Com'è vivere così lontano da casa?"
"Una figata!" risponde Paolo, mentre Sergio parla con un cameriere prima di voltarsi a guardarmi in muta domanda, io annuisco e lui sorride soddisfatto.
Il cameriere ci accompagna su uno spiazzo che affaccia sul mare. Prendiamo posto a un tavolo sul limitare della terrazza e da lì osservo parte del litorale e dell'aeroporto di Ataruk.
"Lo sapevo, che se non ti avessimo dato più attenzioni ci avresti seguito" inizia Sergio guardandomi negli occhi, "eri troppo perplessa."
"Non avevo voglia di parlare inglese", confesso facendo scorrere lo sguardo sul menù, "cosa mi consigliate? Qualcosa di tipico, ovviamente."
"Puoi prendere il Kebab."
"Sul serio?" replico poco convinta, speravo in qualcosa di più tipico.
"Beh, qui è un'istituzione", risponde Paolo, "ma se preferisci qualcosa di diverso lancia uno sguardo agli antipasti, il Börek è molto buono."
"Che cos'è?"
"Sfoglia con formaggio o carne macinata."
Storco il naso non del tutto convinta.
"Tu cerchi qualcosa che ti lasci a bocca aperta, vero?" chiede Sergio in attesa di una mia risposta.
"Sì", ammetto, "qualcosa che sia diverso dal solito."
"Ok", mormora guardando la carta, "prova il Dolma" propone, e senza attendere la mia domanda prosegue, "sono polpettine di riso speziato avvolte in foglie di vite e condite con pinoli e uvetta."
"Ok", acconsento sentendo l'acquolina salirmi in gola, "scegli tu, tanto ormai hai capito. Io mangio di tutto."
Gli vedo sollevare un angolo della bocca divertito e mi auguro con tutto il cuore di non dovermene pentire.
Dopo l'ordinazione iniziano a parlare in modo generico del loro lavoro, della loro vita in Asia e, ancor prima dell'arrivo dell'antipasto, mi rendo conto che sono proprio due ragazzi genuini e alla mano. Probabilmente mi hanno rivolto la parola perché mi hanno trovata carina, dall'espressione dei loro occhi quando incrociano il mio sguardo, è chiaro che gli piaccio, ma lo hanno fatto anche per non lasciarmi sola in terra straniera e questo fa un effetto piacevole.
"Tu, invece, dove vai?"
"In Australia."
"Viaggio di piacere?"
"Di lavoro", ammetto con una punta di orgoglio, "in un ristorante a Victor Harbor."
"Ecco spiegata la tua fissa per la cucina particolare" suppone Sergio, mentre il cameriere consegna gli antipasti.
"Già!" confermo iniziando a studiare il mio piatto, dall'aspetto peculiare, "Vorrei diventare uno chef, ma la verità è che mi piace mangiare!"
Loro ridono cominciando a sfamarsi, io, invece, mi prendo il mio tempo, rivolgendo particolare attenzione alle polpettine nel mio piatto.
La forchetta si conficca nella foglia di vite con un crock prima di affondare nella morbidezza del ripieno che, nella mia bocca, è un'esplosione di sapori capace di togliere il fiato. Ogni boccone è un piacere autentico dato dal suo gusto unico e mai provato prima.
"È un piacere anche guardarti mangiare" sospira Sergio adagiandosi allo schienale e puntandomi addosso il suo sguardo nero e profondo.
Abbozzo un sorriso fingendo di non capire: "Sono un'artista della forchetta!"
Ride e spinge il suo piatto verso di me: "Assaggia anche il Börek."
"Ma è tuo."
"Non ti sfugge niente, Sherlock!" ride ancora, mostrando una fila di denti bianchi e imprecisi, "Ma posso farne a meno se è per una buona causa e, aiutarti nella tua missione esplorativa, lo è."
"Ma siete sempre così gentili?" domando guardando prima l'uno poi l'altro con scetticismo.
"Certo che no. Lo facciamo solo con le belle ragazze" risponde Paolo sorridendomi.
"Ora sono bella?" rido di scherno.
"Lo eri anche prima", si intromette Sergio, "altrimenti ti avremmo lasciata sola, in balia dei brutti ceffi che ti avevano adocchiata."
"Non so se credervi", mormoro afferrando l'involtino in pasta sfoglia, "ma finché farete i bravi, vi concedo la mia presenza."
Scoppiano a ridere: "Grazie per l'onore, chef!"
Il tempo in loro compagnia vola, dopo pranzo mi accompagnano a vedere alcune attrattive locali e quando ritorniamo in aeroporto, in attesa del volo, mi sembra di conoscerli da molto tempo.
"Dillo, che sono state le dodici ore più belle della tua vita!" mi istiga Sergio con una lieve spallata.
"Non direi belle" borbotto con fare teatrale.
"Ti mancheremo da morire" profetizza Paolo seduto all'altro mio lato.
"Puoi dirlo forte, amico", gli dà corda Sergio, "quando sarà tutta sola e al freddo, penserà a noi e non potrà farne a meno."
"Ma smettetela!" spintono entrambi sorridendo.
Anche se ho finto di non aver notato i brutti ceffi poco fuori dal ristorante, in realtà li avevo visti e gli sono grata per avermi fatto compagnia. Sono stata fortunata a imbattermi in loro, ma non ho alcuna intenzione di dirglielo.
Una volta a bordo dell'aereo le nostre vite vengono divise da una fila di sedili, ma giusto il tempo del decollo, perché poi sgattaiolano da me, importunando il mio vicino a tal punto, da ottenere un cambio posto con l'unico passeggero al mio fianco.
Seduta nuovamente in mezzo a loro, come se fossi una mascotte da proteggere, ceniamo continuando a parlare, fino a che il sonno non prende il giusto sopravvento.
Le ore di volo notturne sembrano correre veloci e in un attimo mi ritrovo con un intrepido raggio di Sole sul volto.
Schiudo gli occhi lentamente, completamente intontita e con un lieve mal di testa. Nonostante abbia dormito, il riposo è stato incostante e scomodo. Per dormire bene ho bisogno di un materasso comodo e di un cuscino morbidoso.
"Buon pomeriggio!" mi saluta Sergio con un sorrisino.
Guardo l'ora e brontolo: "Cosa dici?"
"Il fuso orario, genio!", ride, "Devo dirtelo, altrimenti rischi di perdere la coincidenza."
"Grazie!" mormoro ancora insonnolita.
Slaccio il cinturino per porgergli l'orologio. Non ho la forza di calcolare niente. La mia mente, ora, è su una nuvola di beata ignoranza e ci sta anche piuttosto bene.
Quando i miei piedi toccano l'asfalto di Hong Kong non desidero altro che fare colazione anche se qui è pieno pomeriggio. I ragazzi mi abbandonano subito, stritolandomi in un abbraccio strano che non saprei come definire. Ci siamo ripromessi di tenerci in contatto su FB, dove ci siamo già scambiati l'amicizia, tanto per sapere come vanno le rispettive vite, tenendo vivo un legame nato per caso e alimentato dal desiderio di avventura.
Non ho idea se questo rapporto durerà, visto come e dove è nato, ma mi piace pensare che al mondo ci siano anche belle persone che vale la pena di conoscere. A contrastare questo assurdo ottimismo, mentre cerco qualcosa di commestibile, la mente mi ripropone il volto di Matteo e le sue ultime parole. Scuoto la testa per scacciare l'amarezza che fa sorgere il suo ricordo, lui era un amico e mi ha tradita in molti modi, ma non gli darò la possibilità di cambiare ciò che sono.
E chi sono? Mi domando, facendo scorrere lo sguardo su una vetrina alimentare.
Sono una ragazza caratterialmente complessa, deduco mordendomi l'interno del labbro, un controsenso vivente. Sono talmente complicata, che se dovessi descrivermi con un solo aggettivo non saprei quale usare, ma di sicuro sono istintiva, orgogliosa e solare. Con il suo sporco giochetto ha intaccato proprio quest'ultima caratteristica che, in realtà, è anche quella a cui tengo di più e che non voglio davvero perdere.
*Mio spazietto*
Ciao a tutte/i!
Voi, al posto di Viola, avreste dato confidenza ai due ragazzi? (Curiosa)
A presto!
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