Dorian

Mi guardo allo specchio con insistenza e minuzia, è un rito quotidiano da un anno a questa parte, ormai; dal giorno in cui la mia vita è radicalmente cambiata, o meglio, dal giorno in cui mi sono risvegliato in quella maledetta stanza d'ospedale.

Mi osservo, mi giudico senza particolare pietà per ciò che sono diventato. Guardo i miei capelli, un tempo morbidi, lucidi e curati con attenzione maniacale, ora simili a un rovo di spine: tormentati e nodosi, come dopo un sonno agitato. Sfioro la barba incolta e scura, che copre parte di un viso che non riconosco più, trasformato dall'incidente e dalla vita, che mi è piombata addosso con tutta la sua crudezza. Non vedo più quella luce maliziosa che faceva splendere i miei occhi verdi, ora cerchiati di scuro a causa dell'insonnia che mi accompagna da mesi. La cicatrice, che deturpa il mio viso dallo zigomo al mento, e che nonostante tutto non riesco a nascondere, è scolpita a fuoco nella mia anima, prima ancora che sulla mia faccia. Mi guardo allo specchio perché devo, perché non posso fare altro, perché questo mio specchiarmi è al tempo stesso la mia condanna e la mia giusta punizione. Mi guardo per ricordare a me stesso l'uomo che ero. Rivedo, nel mio riflesso appannato, la bellezza del mio viso, la perfezione di un corpo cesellato con la precisione di una miniatura e l'immenso narcisismo che alla fine mi ha distrutto. Mi guardo, ma non mi vedo davvero, sono circondato dal buio, anche se l'oscurità non mi spaventa. L'oscurità mi è amica, l'oscurità sono io, quello che sono diventato, un'ombra che si nasconde tra la gente.
Sono lontani i momenti in cui risplendevo di luce propria, in cui la bellezza esteriore mi apriva tutte le porte, tanto da non aver bisogno di chiedere, poiché tutto mi era offerto senza il minimo sforzo.

Ero stato fottutamente fortunato nella vita e non sapevo neppure io quanto e l'avevo sfidata, questa vita, uscendone irrimediabilmente aconfitto.

Cammino nella stanza che è diventata il mio rifugio e la mia prigione; le pareti sono spoglie, l'arredamento essenziale. Mi sono liberato di ogni orpello del mio passato, di ogni vestigia della persona che ero stata un tempo.
Speravo funzionasse.

Mi sbagliavo.
Eliminando ogni ricordo del passato speravo di tornare a respirare, di alleggerire le mie spalle, troppo fragili per sostenere il peso di una colpa che porterò sempre con me. Il senso di colpa, però, è un fottuto bastardo, ti rimane appiccicato addosso. Non puoi sfuggirgli, non puoi nasconderti, perché sarà legato indissolubilmente alla tua anima.

Mi circondo di un bianco candido, quasi accecante, sperando che la sua luce si rifletta su di me, che sono buio come una notte senza luna. Mi muovo,lento e claudicante, lungo la parete ruvida della mia stanza, con le dita accarezzo la consistenza materica dell'intonaco scabro, lo sento graffiarmi la pelle, questa stessa pelle che vorrei strapparmi di dosso.

Alla radio passa una vecchia canzone di Domenico Modugno, l'ascolto per un po', lasciando che la malinconia della musica mi si cucia addosso, che il significato intenso e triste delle parole mi riempia l'anima.

...S'avvicina lentamente, con incedere elegante
Ha l'aspetto trasognato, malinconico ed assente
Non si sa da dove viene, né dove va.
Chi mai sarà, quell'uomo in frack.

Mi spoglio lentamente davanti allo specchio, togliendo a uno a uno tutti vestiti, inutili strati che non riescono a proteggermi dallo scempio della mia anima. Il maglione abbandona le mie spalle, seguito dai pantaloni e dalla camicia. Mi fisso per un istante, perché negli occhi resti impressa l'immagine di ciò che sono diventato; perché questi segni che intravedo sul mio corpo, siano il perenne, indelebile ricordo di ciò che ho fatto a me stesso e a lei. Chiudo gli occhi, mi mancano le forze per togliere l'ultimo strato che ho indosso, non ce la faccio a guardarmi a torso nudo, so cosa vedrei e non mi piace, non riesco a sopportare più la vista del mio corpo. Troppi ricordi si affastellano nella mia mente, troppe sensazioni, troppo dolore.

Che ne è stato di ciò che ero?

Dove è finito lo splendido uomo che faceva voltare più di uno sguardo al suo passaggio?

Non esiste più.
É morto assieme ai resti semi carbonizzati della sua auto, della sua vita e di quella lei, la ragazza che aveva conquistato per una scommessa, ma che si era ancorata al suo cuore. Lei, che l'amava con tutta se stessa e a cui lui non dedicava che briciole del suo tempo.

Come avrei voluto fare scelte diverse, essere l'uomo che meritava.

Una brezza lieve proviene dalla finestra aperta, fa rabbrividire la mia pelle nuda. É di nuovo aprile, è già passato un anno da allora.

Un anno fa' tutto era diverso, avevo un'altra vita, ero un altro uomo.

Dorian. Così mi chiamavano gli amici che frequentavo all'epoca. Tanto bello all'esterno, quanto marcio e corrotto fin nel profondo dell'anima. Mi piaceva il personaggio che mi ero cucito addosso, mi facevo un vanto di questo appellativo.

E perché no, dopotutto!

La mia bellezza esteriore mi consentiva di fare quasi ogni cosa e io sapevo come sfruttarla al meglio.
Ho goduto di privilegi non consentiti ai più, ho frequentato ambienti esclusivi e avuto decine di donne. Essere bello apriva quasi ogni porta... e molte ganbe. Anche le sue, purtroppo per il suo povero cuore.

Conquistarla fu un gioco. Proprio lei, quella che tutti consideravano una montagna da scalare. Lei, altera e fragile, di una bellezza pura, quasi botticelliana, era stata la mia conquista più grande. Portarla a letto fu facile, quasi come fare un sorriso. Non avevo mai considerato che avrei potuto innamorarmene perdutamente.

Io non mi innamoravo. Mai.

Non avevo considerato il mio cuore però. Lui ragionava a suo modo, fregandosene di ciò che sosteneva la mia mente razionale. Proprio io, corrotto dalla lussuria e impreparato all'amore, avevo provato l'ebrezza e il dolore che questo sentimento portava con sé. Dovevo allontanarla da me per il suo bene, perché sapevo che l'avrei inevitabilmente ferita. Fare il fidanzatino fedele non era nel mio personaggio e il mio stile di vita non la includeva; solo che io, semplicemente, non riuscivo a staccarmi da lei, dal suo sorriso dolce, dalle sue tenere, timide carezze.

Lei in pochi mesi era riuscita in ciò che molte avevano tentato di fare fallendo miseramente: gettare una luce nei meandri del mio cuore oscuro.

Passavo il mio tempo con lei, troppo tempo, secondo i miei presunti amici, per i quali la mia fama di seduttore incallito si stava appannando, così come la mia bellezza.
Presto o tardi, tutto ciò che avevo conquistato con tanta facilità, mi sarebbe sfuggito via con la stessa facilità, come sabbia tra le dita e io non potevo permetterlo. Non a causa di una donna.

Ero vittima di un mostro chiamato narcisismo, che mi mangiava il cuore e l'anima, eclissando lentamente quella piccola luce che lei era riuscita ad accendere.

Proprio come Dorian Gray, l'oscurità alla fine aveva trionfato, corrompendo definitivamente non solo la mia anima, ma anche ciò che di me appariva al mondo.

Ci avevo fatto l'amore un'ultima volta, con l'unica che avevo davvero amato; erano i primi giorni di aprile e la primavera stava riempiendo il mondo di luce e bellezza. Mi ero concesso questo con lei, un ultimo raggio di sole, prima di lasciarmi definitivamente avvolgere dal buio della notte più nera.
L'avevo lasciata senza pietà quella sera stessa, ignorando le sue lacrime; rifiutando di spiegarle il perché le stavo strappando il cuore dal petto a mani nude.

Mi sarei sentito più libero, mi dicevo, avrei ripreso la vita di sempre, dedita alla ricerca di un irraggiungibile, edonistico piacere. Avevo sorriso, una volta fuori da casa sua, certo della giustezza delle mie azioni, poi avevo chiuso il mio cuore in una teca di ghiaccio, ma non prima che una singola lacrima sfuggisse al mio ferreo controllo, unica testimone del dolore che sentivo nel profondo dell'anima.

Perderla, era stato fatale e aveva segnato l'inizio della fine per me.
Ben lontano da quel senso di liberazione che mi aspettavo, il dolore della sua assenza mi stava trascinando ancora di più nel gorgo di una degradante depravazione.

Erano gli ultimi giorni di un triste aprile, una leggera pioggerella bagnava la strada, ma non me ne preoccupavo, la mia auto andava veloce e la mia guida era sicura. Avevo un appuntamento importante quella sera, una donna dell'alta borghesia mi aveva preso sotto la sua ala protettrice, inserendomi in un ambiente a cui non avrei potuto mai aspirare, se non fosse stato per il mio indubbio fascino e per la bellezza del mio viso. Non potevo farla aspettare, non si fanno aspettare le donne di quella classe sociale.       
Tutti i miei sogni più oscuri si stavano realizzando, pensavo, avrei potuto entrare finalmente in un ambiente precluso ai più, mi dicevo.

Mi sarei sentito vuoto?

No, non con tutti i soldi con cui mi ricopriva. Avevo chiuso il mio cuore a tutti gli sciocchi sentimenti che potevano indebolire l'immagine seducente, quanto falsa, che mostravo al mondo. Nulla mi avrebbe più scalfito, nulla mi avrebbe più illuminato e andava bene così.

Il telefono squillò, in quella serata di aprile.
Risposi e tutte le mie certezze crollarono come un castello di carta.
Lei non c'era più, era stato ritrovato il suo corpo straziato nel cortile di casa sua. Lei era morta, si era suicidata in aprile, gettandosi da una terrazza. Tra i suoi effetti personali avevano trovato l'unica foto che avevamo fatto insieme e dietro la foto una scritta tremolante e scolorita dal pianto: "ti amerò per sempre, anche oltre la morte".

Le lacrime appannarono i miei occhi, le ruote slittarono sull'asfalto, mentre attorno a me ruotava un caleidoscopio di immagini sfocate e sangue, il mio, il suo, che invisibile imbrattava le mie mani.
Il tempo di un grido e poi il silenzio.

Riapro gli occhi, sono pronto, mi avvicino allo specchio, tolgo la maglietta bianca che ancora mi copre, sono nudo nel corpo e nell'anima e fa male. Tremendamente.

Guardo il torso, segnato da una ragnatela di cicatrici più o meno visibili, il ginocchio malandato, il tono muscolare, di cui andavo tanto fiero, ridotto al minimo. Mi prendo un istante, per cercare di ricordare la persona che ero soltanto un anno fa, ma non riesco a vedere che il me stesso, come sono ora.
Prima che quell'incidente cambiasse definitivamente il mio corpo, segnandolo irreparabilmente, qualcosa era già cambiata in me. La mia anima si era macchiata di colpe talmente gravi da non poter essere paragonata con il mio aspetto attuale.

Mi avvicino allo specchio fin quasi a sfiorarlo e inebetito resto a fissare l'immagine del relitto d'uomo che sono diventato a causa della mia infinita stupidità e del mio assurdo ballare sul ciglio del baratro dell'autodistruzione. Penso a lei, oggi è l'anniversario della nostra fine. Il mio cuore è circondato da spine e a ogni battito si ferisce sempre di più. So che non ne uscirò, che non potrò mai estrarne nessuna di quelle spine, perché me le merito tutte quelle ferite; come mi merito di essere diventato l'uomo che sono; perché, nonostante tutto, io sono ancora qui e lei no. Ferisco chiunque si avvicini a me, proprio come un roveto con spine troppo aguzze. Nessuno può avvicinarmi, perché non consento più a nessuno di farlo. Lo faccio per loro. Anche se non comprendono a pieno il perché, io ne conosco la ragione e per una volta tanto, voglio fare ciò che è giusto.

Mi guardo ancora, toccandomi la barba ispida sul volto smunto. Dovrei rasarmi, ma non ne ho ancora il coraggio, non sono pronto... o forse sì. Cammino lentamente verso il bagno, il pavimento di legno è tiepido sotto i miei piedi nudi e scricchiola leggermente, producendo un suono che mi da conforto. Mi avvicino alla finestra, sta piovendo di nuovo e il mare ruggisce agitato in lontananza. Ne sento il rumore, misto al vento, che porta in casa odore di salsedine e umidità. Spalanco la finestra lasciando che la pioggia fredda bagni il mio corpo nudo, che lo purifichi, che lenisca il dolore lacerante che sento dentro. Un rumore in lontananza mi distoglie dai miei pensieri, chiudo la finestra non voglio che niente mi distragga e che nessuno mi veda.

Torno a fissarmi. Sì, devo proprio accorciare la barba. Apro la doccia e aspetto che l'acqua si scaldi, prendo il rasoio e lascio che scivoli sulla mia pelle come il bacio di un amante. La pelle si lacera come burro, il cuore batte più lento, le spine non pungono più tanto, il respiro di fa meno agitato, il calore dell'acqua compensa il freddo che sento dentro... poi, improvvisamente, attorno a me solo silenzio. Le spine non fanno più male e il roveto fiorisce di rose bellissime, i cui tralci non pungono più.

Rose che hanno il suo nome.

...Sbadiglia una finestra,sul fiume silenzioso
E nella luce bianca, galleggiando se ne van
Un cilindro, un fiore e un frack...

Sono in pace.

Galleggiando dolcemente e lasciandosi cullare
Se ne scende lentamente, sotto i ponti verso il mare
Verso il mare se ne va,chi mai sarà?
Chi mai sarà, quell'uomo in frack.

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