Capitolo 10

La telefonata di mia madre arriva come d'orologio, puntuale.

È il giorno prima della Vigilia di Natale, il 23.

Rimango a fissare a lungo il telefono che squilla, abbandonato sul materasso a faccia in sú. Lo guardo e l'unica cosa che vorrei fare è premere quella dannatissimo cornetta rossa e non pensarci più.

Ma non posso, lei sa che non posso.

-Non rispondi?-, la voce di Livia mi strappa dai miei pensieri. Siamo nella sua stanza e lei mi sta facendo vedere da un'ora tutti i libri che possiede, lasciandomi sfogliare i volumi e consigliando le sue letture preferite.

Il cellulare continua a suonare.

- Certo che rispondo-, mormoro allungando la mano verso il mio telefono. Mi aspetto che scotti. Non lo fa.

Rispondo alla chiamata prima che mia madre possa sentire la segreteria telefonica scattare.

-P...pronto?-

Sento che sto per soffocare.

Dopo aver fatto un cenno a Via, mi alzo dal letto facendo scricchiolare le molle e lascio Hunger Games su una mensola, uscendo poi fuori dalla stanza.

-Stavo già pensando che non ti saresti degnata di rispondere-

Mia madre è così. Bella e gelida.

Ferisce perché le piace mantenere il controllo sulla situazione.

Ferisce perché è l'unica cosa che sa fare.

-Non...non lo farei mai-

Mi sforzo a non balbettare, mi sforzo a non farle vedere che non voglio avere questa conversazione.

Fallisco.

-Lo spero-

Ci sono attimi di silenzio dall'altra parte della linea e io rabbrividisco appoggiandomi al muro. Questa cosa non promette mai nulla di buono.

-Dopo la tua mancanza di impegno durante questo primo quadrimestre sono stata costretta a chiamare i tuoi docenti- sibila, e una morsa fredda mi attanaglia lo stomaco. -Con mia grande vergogna ho scoperto che non solo i professori di ballo, ma anche quelli delle altre materie sono estremamente delusi dal tuo comportamento poco professionale negli ultimi mesi. Sai cosa mi hanno detto?-

Non alza nemmeno di un tono la voce, ma ho la netta impressione che vorrebbe urlare. E se fossi stata lì con lei, avrebbe voluto anche darmi uno schiaffo.

Non oso fiatare. Quando si ferma un attimo per valutare la mia reazione, io non penso nemmeno di rispondere.

-Mi hanno detto che hai perso tutta l'attenzione. Non segui le lezioni, certe volte non ti presenti proprio. Alla sbarra a malapena ti reggi, non ti sforzi- mia madre scandisce le parole lentamente, sapendo esattamente cosa dire e come farlo. È sempre stata la sua specialità. -Non fai assolutamente niente-

Mi copro il viso con l'unica mano libera e reprimo l'istinto di urlare. Le mie dita sfiorano le ciglia. Sono bagnate.

Non voglio ballare. Non voglio studiare lí. Non voglio stare nove mesi all'anno rinchiusa in quel posto. Non voglio esercitarmi.

Non voglio che mia madre mi detesti. Non voglio che mio padre sia assente. Non voglio soffocare.

Non voglio non essere in grado di dormire senza i sonniferi. Non voglio sentire la gola chiudersi ogni volta.

Non voglio essere rotta, spezzata, frantumata in mille pezzi come un vaso di vetro.

Non voglio.

Non. Voglio.

-Quando torni a Milano ricomincerai con gli allenamenti anche al weekend. Mattina e sera. Non mi importa se hai degli impegni, degli amici con i quali divertiti a fare la sgualdrina-

Mi ricordo di aver letto da qualche parte che piangiamo perché una forte emozione o uno stimolo esterno possono attivare il nostro sistema nervoso, che a sua volta attiva il fenomeno della lacrimazione.

Il mio psicologo una volta mi ha detto che dobbiamo cercare di allontanare le persone che ci causano dolore e troppi pianti. Non sa che io non ne sono in grado.

Piangere è uno sfogo.

Piangere è l'unica cosa che so fare.

-E quando ci vediamo desidero una spiegazione alla tua mancanza di rispetto verso tutti i sacrifici che ho fatto per te-, la sua voce e l'impatto che essa mi provoca può essere paragonata all'effetto dell'iceberg che ha fatto al Titanic quando è colliso contro di lui. -Ci siamo intesi?-

Sento un tintinnio cristallino. Deve star bevendo, anzi, deve aver sicuramente bevuto per aver fatto questa telefonata.

-Noelle-, mia madre usa molto spesso il mio nome come un insulto. Mi rimprovera come se fossi una bambina che ha rotto qualcosa. -Ci siamo intesi?-

Sento l'inclinazione dell'impazienza.

Non riesco a parlare.

E poi, prima che lei possa aggiungere qualche altra cosa, sento come il telefono mi viene tolto dalle mani. Una mano si poggia sulla mia spalla con estrema delicatezza, come se potessi rompermi.

-Amélie, ma che piacere sentirti!-, esclama mio zio con cosí tanto entusiasmo che quasi scoppio a ridere. Quasi.

-Tua figlia? È proprio qui con me-, mi lancia una veloce occhiata e mi sorride. Mi sorride per dirmi che va tutto bene, che ci pensa lui. -No, al momento non può parlare.-

Non sento quello che dice mia madre, ma deve essere sinceramente e sicuramente alterata fino all'inverosimile. -Perchè? Beh, ci sono molti motivi con i quali non voglio annoiarti.-, sta in silenzio per qualche secondo, roteando gli occhi a qualunque cosa mia madre abbia pronunciato. -No, non posso proprio passartela al momento.-

Fa una smorfia e io mi sforzo a sorridere.

-Senti, ne parliamo un'altra volta, Amélie. È stato un vero piacere sentirti-

Donatello attacca senza nemmeno darle tempo di ribattere. Mi rimette il cellulare tra le mani e fa capolino nella stanza di Livia, dicendole qualcosa su come ha bisogno di parlarmi un attimo.

Quando torna nel corridoio, indossa un sorriso leggero.

Mi scompiglia leggermente i capelli. -Che ne dici parlare un po' dietro a una tazza di cioccolata?-


***


Ho cominciato a balbettare all'età di quindici anni e mezzo.

Credo sia l'ora che lo sappiate.

Mia madre non lo ha notato subito, in realtà, pensava che andasse tutto bene con me all'inizio. Poi sono finita in ospedale e quando mi sono risvegliata a malapena riuscivo a rispondere a qualunque sua domanda senza incepparmi. Succedeva la stessa cosa con i dottori, mio padre. Le persone che non conoscevo.

Ma la cosa più strana è che con Donatello non c'era nulla di tutto questo. Nemmeno con Davide o Camilla.

I dottori hanno ipotizzato che molto probabilmente ho sviluppato un mutismo reattivo allo stato di shock, anche detta balbuzie psicogena, causata da esperienze traumatiche estremamente gravi. Nessuno sapeva quali fossero quei cosiddetti eventi che abbiano portato qualcosa nella mia testa a incrinarsi. Nessuno sapeva perché con certe persone era come se nulla fosse successo. 

Non lo sapevano perché io non ho mai detto niente. Ho paura.

Alcuni specialisti hanno ipotizzato che non balbettavo solo con le persone delle quali mi fidavo. E questo portava quindi a una conclusione: non mi fidavo dei miei stessi genitori.

Da allora ho visitato una miriade di medici per una miriade di motivi diversi. Ero una ragazzina depressa con istinti suicidi, mi era successo qualcosa ma nessuno sapeva cosa esattamente, non mi piaceva di stare nella presenza di troppe persone, potevo accasciarmi a terra in preda all'ansia, incapace di respirare.

C'era qualcosa che non va in me, dopo...il tutto. Forse non sono mai stata davvero normale, e come ha detto Simone c'è sempre la nostra goccia che fa traboccare il vaso, che ci rompe.

La mia però non è stata una sola.

Mio zio mi porge una tazza piena fino all'orlo di cioccolata calda, persino il manico scotta. Siamo seduti su degli sgabelli alti attorno l'isola della cucina, i gomiti appoggiati sul ripiano di marmo, in silenzio.

Donatello Giordano è una persona paziente, non mi spinge mai a fare conversazione. Si mette lì e aspetta che io prenda il mio tempo per parlare, non gli importa quanto ci potrebbe volere. Lui aspetta.

E' quel tipo di persona che quando ti abbassi per allacciarti le scarpe, si ferma subito senza protestare.

Lui aspetta. E io finalmente parlo.

- La scuola va male nell'ultimo periodo-, mormoro stringendo le mani a coppa attorno al bicchiere. E' molto caldo, ma mi incute sicurezza. -Certe volte ho attacchi di panico frequenti e non riesco ad andare in classe, e quando sono in classe il mio cervello è mezzo spento per le pasticche. Se le prendo sto male, e se invece non le prendo sto peggio. E' un circolo vizioso che non mi lascia andare.-

Quello che mi esce è un fiume di parole che avrei paura di confidare ad alta voce con chiunque altro.

- Sono stanca morta, zio, sono stanca morta-, biascico, -gli allenamenti per migliorare, la dieta speciale per non prendere peso, i farmaci, il dosaggio giusto delle pastiglie, la terapia, il fatto che quando sono alla sbarra voglio solo scappare. Sono stanca. Non voglio queste cose.-

Lui non dice niente, non mi interrompe nemmeno una volta. Ascolta, paziente.

- Lei vuole che io danzi, abbia quello che lei non si è potuta permettere a causa mia, ma io non lo voglio. Ballare mi fa stare male, mi fa venire la nausea, perché sono obbligata a farlo. Non è ciò che desidero io-, continuo. Sto piangendo, non riesco a fermarmi. La tovaglia è fradicia delle mie lacrime, non faccio niente per impedirlo. -Io voglio che lei mi guardi e non veda un progetto da realizzare. E' così difficile da fare? E' così difficile preoccuparsi per me?-

Singhiozzo. Probabilmente mi hanno sentito tutti, ma non me ne importa adesso.

Sono stanca e lui mi abbraccia forte.

Sono stanca e lui si preoccupa per me.

- Perché non posso essere normale? Perchè?-, la mia voce è rauca, appena udibile. Affondo la faccia nel suo maglione blu elettrico e lascio che mi accarezzi i capelli, mentre il mio corpo è scosso da tremori. 

- Sai, Noelle...molto spesso i nostri genitori ci vedono come un prolungamento di noi stessi, vedono in noi il modo con cui riparare i propri fallimenti, un mezzo per realizzare qualcosa che non sono riusciti in grado di fare. Molto spesso non gli importa in che modo arrivano al loro fine e non si accorgono che ci feriscono profondamente. Ci vogliono perfetti e molto spesso ci spezzano il cuore nel farlo-, dice lui, dandomi delle leggere pacche sulla schiena mentre mi stringe. - Tua madre non vede che non sei come lei. Tu sei meglio di lei, perchè tu sei tu. Hai i tuoi sogni, le tue passioni, il tuo modo di fare. E questo non te lo toglierà nessuno, mai-, Donatello lascia che questo mi si imprima addosso. Che questo mi faccia stare bene. -Un giorno, Noelle, ti guarderai allo specchio e non vedrai più l'ombra di tua madre. So che sarà così. Un giorno ti sveglierai e penserai a quello che hai affrontato e sorriderai, perché sarai solo Noelle Giordano, una ragazza dolce e gentile. Una ragazza forte. Quel giorno arriverà, io ne sono sicuro-

Le sue parole mi entrano dentro e ci rimangono. Me le tengo strette.

- Non c'è mai stato nulla di sbagliato in te, Noelle, e mai ci sarà. Sei normale, una ragazza normalissima. Non dimenticarlo.-

Forse lo zio ha ragione, forse un giorno mi guarderò allo specchio e il mio vaso andato in frantumi sarà di nuovo intero.

Forse un giorno vedrò la Noelle Giordano di cui parla.

Quel giorno arriverà e io lo aspetterò.


N.A. Donatello che cura non uno, ma ben due protagonisti depressi. 

Best boy ever <3


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