Capitolo 13
❝ Mon amour, je sais que tu m'aimes aussi
tu as besoin de moi dans ta vie...
Tu ne peux vivre sans moi
et je mourrais sans toi. ❞
Mi vidi camminare completamente nuda.
Addosso avevo soltanto un corsetto di pizzo bianco, che mi lasciava il cuore scoperto, e stretto sull'addome da lacci che andavano a incrociarsi sulla schiena.
I capelli sciolti e liberi come non mi sarei mai permessa di tenere in quanto, come mi avevano insegnato, li avrei considerati qualcosa in disordine.
Sulle labbra la decorava un rossetto scuro come il rosso dei lamponi maturi, immaginai avessero anche lo stesso identico sapore e morbidezza, e il mascara che le allungava quelle ciglia già lunghe da cerbiatta.
Virginale com'era, non si sarebbe mai conciata così e infatti, si capiva benissimo quanto si sentisse completamente a disagio.
Sarebbe toccato a me, prenderla tra le mie braccia e svuotarla di tutte le inibizioni che la tenevano prigioniera con una pietra legata al collo.
Sentivo un caldo nauseante espandersi dentro il mio stomaco e di contrasto, dei brividi di freddo mi strisciavano come vermi sulla pelle, aggricciata dal vento che soffiava dal portone rimasto aperto.
Sentivo il cuore andare così a mille da pensare che non sarei riuscita mai più a prendere respiri profondi.
Lo trovai girato di spalle, bivaccato sulla panchina di legno della prima fila, di quella che mi sembrava l'interno di una chiesa in perfetto stile gotico come le avevo viste nei libri di mio zio Claude, claudicante. Mi piaceva sfogliarli quando da piccola mi lasciavano con lui mentre dava a diversi studenti le sue lezioni private.
Seppure di derivazione europea, ho sempre pensato che la grafia del suo nome assomigliasse a quella della nuvola, cloud, e io non le sopportavo. Mi chiedevo sempre perché fossero così egocentriche da voler coprire l'azzurro del cielo e persino il sole.
Feci per raggiungerla. Il fruscio dei pantaloni neri e lo scalpiccio dei miei piedi scalzi erano gli unici rumori che arrivavano alle mie orecchie, misti al suo respiro ansante e spaventato amplificato sulle pareti.
Metà del mio profilo era illuminato dal blu della luce proveniente dalle croci a neon sulla fiancata destra.
La giacca nera che indossavo rimaneva aperta, lasciandomi scoperta una striscia di pelle che andava dal petto all'addome, liscia e lucida, interrotta soltanto da una scritta nera.
Le sorrisi per cercare di tranquillizzarla.
"Da oggi in poi ci sono io, amore mio."
Si sarebbe potuto anche benissimo trattare di una cappella come quelle, nei cimiteri, della gente più ricca che se la poteva permettere.
Mi distrasse una solfata del profumo che lo avvolgeva. Aveva le tonalità sensuali del legno e del cuoio.
Subito seguì un odore di rose e agrumi che mi pizzicò le narici.
Mi fece cenno con le dita di avanzare, di sedermi sulla sede – la sedia solenne dove il sacerdote presiede le celebrazioni sacre – intarsiata d'oro e i cuscini di velluto rosso acceso, ormai scura e invecchiata.
Mi fece sentire di nuovo una bambina, sedere su questo trono gigante.
Quando mi lambì con uno sguardo intenso e smanioso, accrebbe in me la sensazione di essere perdutamente innamorata di lui.
Avevo la consapevolezza che fosse così vulnerabile da farsi fare qualsiasi cosa, anche se questo fosse significato persino farsi inchiodare sulla croce.
Ma in realtà, quello che desideravo, era liberarla da qualsiasi passione di sacrificio o sofferenza che la opprimeva ogni volta che volevo fare l'amore con lei.
Si pose di fronte a me e con due dita sotto il mento mi fece alzare la testa. «La mia piccola peccatrice» sibilò.
Con la mano scese aprendo il palmo sul collo e dopo averlo agguantato, mi fece reclinare la testa sullo schienale morbido.
«Quando lo confesserai?»
La sua voce roca si mischiò a quella di un organo a canne che riuscivo a udire in lontananza.
Cosa avrei dovuto confessare?
Scosso dal guizzo di due occhi che non le sarebbero mai appartenuti, lasciai la presa ma lei rimase immobile in quella posizione.
Ansimava dalla paura e cercava disperatamente di riprendere fiato.
Dalle tasche della giacca mi vidi estrarre due pezzi di corda tranciati, gli stessi che avevo usato in macchina facendo appiglio alle maniglie, per calmarla.
Questa volta sfruttai i braccioli per legarle i polsi e i piedi anteriori della sedia per le caviglie.
Ma Dio mio, quant'era bello quando mi sovrastava mentre, guardandomi d'alto, mi legava di fronte a lui. Non sapeva non sarebbe stato necessario, per quanto non volessi essere lì, non sarei andata da nessun'altra parte.
Cercai comunque di tenere le ginocchia più vicine possibili, formando un'ampia A con le gambe, ma fece subito schioccare la lingua sui denti.
Posò i palmi sulle ginocchia e abbassandosi alla mia altezza, mi allargò le cosce con prepotenza e si avvicinò pericolosamente al mio viso, penetrandomi con gli occhi.
Il formicolio lungo le membra mi faceva sentire indifesa e con la testa leggera, come se avessi bevuto molto alcool.
Cercai di oppormi con la parte più razionale e credente di me. «Siamo in una chiesa, professore».
Non riuscii quasi a sentire la mia voce, come se fosse stata ovattata dall'improvviso afflusso di sangue alla testa che passava dai capillari delle orecchie.
Mi fissò con un sorriso di scherno sulle labbra.
«Non è il posto migliore per confessare i propri peccati?»
Premetti le labbra sulla sua fronte, passai dopo all'altezza del petto, per finire prima sulla spalla sinistra e poi su quella destra.
Non ero mai stato molto credente, ma avevo appena disegnato con la bocca il segno della croce sulle sue ossa perché lei lo era.
«Adesso va meglio?» le chiesi incurvando la bocca verso l'alto.
Avvicinai le labbra, rimanendo sospeso a pochissimi millimetri, alle sue. Si sarebbe aspettata un bacio che non le avrei ancora concesso.
Deglutì e non rispose, non fissava nemmeno me ma un punto lontano alle mie spalle.
Strinsi fra i denti il suo labbro inferiore e lo tirai a me, costringendola a guardarmi negli occhi.
Mi aspettavo che ad un certo punto sarebbe entrato Lucifero in carne e ali nere, per congratularsi con Galen di essere riuscito ad appropriarsi della mia anima per cedergliela su un piatto d'argento.
L'avrebbe sfidato pur di tenersela?
Forse era proprio lui il serpente tentatore che, avendomi costretta ad assaggiare il frutto proibito dell'Eden, mi avrebbe fatta cacciare per sempre dal Paradiso pur tenermi con sé.
«Non sei all'Inferno, signorina Grant» mi disse, leggendomi nel pensiero. «O almeno... decidi tu se la tua anima assomigli all'Inferno».
Capii finalmente a cosa servisse la Fede, quando me la spiegava zio Claude, perché pregare il Padre Nostro affinché non ci inducesse in tentazione.
Nessuno era capace di proteggere la propria anima e salvarsi da solo.
«Confessa che sei tu a volerlo» continuò.
No... io non volevo peccare di lussuria, era lui che mi stava trascinando a farlo.
In silenzio, mi osservò di nuovo spaventata inginocchiarmi davanti a lei, intrecciare le sue dita ai lacci finali del corsetto come a volerla liberare da quella gabbia.
La sua pelle così sensibile e arresa al mio tocco che mi bastava sfiorarla con le dita, per farla balzare in aria.
La punta della lingua disegnava cerchi concentrici attorno ai suoi capezzoli ispessiti come chicchi di more, prima uno e poi l'altro fino a che l'avrei sfinita.
Per scaricare la tensione la vedevo arricciare le dita dei piedi contro il pavimento di marmo.
Servendosi a me, piegò inevitabilmente l'intero busto in avanti con gli occhi al cielo e sorrisi di gusto.
Ci stavo riuscendo.
Dietro quel sorriso si nascondeva per me una così meravigliosa consapevolezza: se con così poco ero riuscito ad ottenere questa reazione, chissà quanto avrei potuto ottenere se mi fossi spinto ben oltre.
Se il sesso era davvero diventato un gioco bastardo di potere, dove per difendersi bisognava imparare a dominare...
Mi rassegnai al pensiero che con lui non avrei vinto mai.
Unì l'indice e il medio della mano destra e me li infilò in bocca con forza, spingendomi di nuovo la testa verso lo schienale.
Sembrò volesse darmi la Comunione che con forza doveva farmi ingoiare, mentre il mio respiro si sottometteva a questo movimento.
Rise ancora, vedendomi così assoggettata a lui, senza nemmeno la volontà di oppormi o le forze per ribellarmi.
Un dolore piacevole mi punse nella parte più intima, stappando qualcosa che di caldo aveva incominciato a fuoriuscire macchiando il velluto rosso su cui ero seduta.
«So che stai soffrendo lì sotto e vorresti toccarti o che io soddisfacessi quella parte di te...» iniziò col dire mentre, con le stesse dita bagnate dalla saliva, strisciò come il serpente che era i bordi delle labbra. «Ma non è ancora arrivato il momento.»
Mi leccai le punte dei polpastrelli umide di ogni sapore di lei.
Estrassi velocemente un coltellino dalla tasca e adesso che si era arresa a me, avendo cura di non lasciarle tracce, lo interposi uno alla volta all'altezza della pelle tenera dei carpi e dei tarsi, tranciando tutte e quattro le corde.
Si massaggiò i polsi mentre io lanciai tutto a terra, al lato di quel trono dove l'avevo tenuta prigioniera; la lama tintinnò un paio di volte prima di fermarsi sul marmo lucido.
Prima di alzarsi e procedere verso l'altare, mi fissò come se stesse ragionando su ciò che sarebbe stato meglio fare, per salvarsi da uno come me.
Rimasi fermo fingendo che, ogni volta che si allontanava da me, non mi assalisse sempre più forte una voglia disperatissima a causa della quale morivo dalla voglia di urlarle che volessi farla mia, mia e ancora mia, così che avrebbe finalmente smesso di sentirsi sola.
Afferrò cinque rose e fece scorrere il gambo fra le dita. «Sai a cosa servono le spine?» sibilò.
Nell'attesa durante la quale lo vidi andare a prendere qualcosa, cercai di respirare a pieni polmoni per recuperare l'aria che mi aveva rubato. Le mie narici si riempirono del profumo di rose appassite e legna marcia.
Poi, lo schiocco deciso di un flagello sbatté a terra, alle mie spalle, cogliendomi di sorpresa. Rimbombò nelle mie orecchie, che incominciarono a fischiare come se fossi improvvisamente diventata sorda.
Mi girò attorno e me lo mostrò: piccole strisce di cuoio erano ornate da spine di rovi.
«I rovi si formano su terreni incolti ma anche su macerie» mi spiegò, strofinando quei lacci spinosi all'altezza del petto e delle mie spalle, seguendo con lo sguardo il suo stesso percorso.
Scossi piano la testa.
«E le spine sono una difesa che usano le piante contro la voracità degli animali» continuò, volendomi istruire.
Mi fece ridere che paragonò se stesso ad una sorta di edera velenosa e me sostanzialmente ad un animale con la sua missione suicida.
Cercò nuovamente di legare al suo il mio sguardo, che era completamente concentrato su quella frusta.
Probabilmente voleva imprimerle sul mio corpo e quelle spine si sarebbero conficcate nella mia pelle fino a farmi sanguinare.
Non avevo nemmeno capito di cosa volesse punirmi.
Meritava tutto questo odio l'averla desiderata così tanto?
«Le tue voglie di violazione sono sempre impertinenti e... voraci, lo sai?» sibilò con un'espressione bastarda sul viso così improvvisa da sorprendermi.
«Io non...» feci per rispondergli, ma prontamente mi mise l'indice sulle labbra e mi sussurrò uno "sshhh" dolce quanto perentorio. «Visto? Qualcuno dovrebbe insegnarti la disciplina, prima o poi.»
«In ginocchio» mi ordinò perentorio.
«No. Io non la voglio.»
Inarcò un sopracciglio, incuriosito e sorpreso. «Sei sicura?»
«Non qui.»
Fu quel chiarimento a tradirmi.
Ma quando insistetti a non inginocchiarmi, mi afferrò per il braccio e mi scaraventò a terra, facendomi sbattere le ginocchia.
Urlai per il dolore ma non volevo ancora dargliela vinta e così, aspettai prima di piangere.
Lo vidi prendere anche una rosa e spezzarne il gambo a mani nude, lasciando la sommità con i petali chiusa nel suo pugno, stando ben attento a non farsi pungere dalle spine nel palmo.
Mi afferrò i capelli e mi tirò la testa all'indietro, ficcandomi il calice della rosa in bocca dalla parte del gambo reciso, facendo in modo che la corolla rimanesse ben aperta verso fuori, e la ricevetti come un'altra Comunione lasciandola nel palato.
«Prova a sputarla prima che te la tolga io e non avrò pietà per te» mi minacciò.
Sentii improvvisamente un sapore amaro di petali di rosa in bocca, si mischiò a quello metallico del sangue che, misto a saliva, tinse di rosso quel fiore bianco ai miei piedi quando provai a sputare.
Strinsi gli occhi per controllare il bruciore delle spine che mi pungevano ancora sulla lingua e nel palato.
Riuscivo a malapena a respirare e incominciai a temere volesse farmi morire lì.
Solo per essermi permesso di amarla e liberarla da quelle maledette catene.
Ma porre fine a ogni mia sofferenza e dolore sarebbe stato troppo facile e lei non sarebbe permessa di essere così gentile con me, come io ero stato con lei.
Fece scattare quei gambi con tutte le spine sul mio petto, all'altezza del cuore.
E mi inarcai cadendo all'indietro.
Non ero per niente pronta a quell'impatto, al dolore atroce che avrei sentito per mano delle sue torture.
Poggiai i palmi aperti sul marmo freddo del pavimento a mo di sostegno e mi piegai in avanti, pregando che non sarebbe diventato ancora più violento, come se fosse stato persino possibile più di così.
Caricò la seconda e poi la terza, sulla pelle tenera della mia schiena.
Strinsi i denti sui petali teneri della rosa chiedendole mentalmente scusa per quello alla quale l'aveva e mi stava sottoponendo Galen.
Ma degli stami che non venivano più irrorati dalla linfa, che lui aveva bruscamente interrotto, erano già morti.
C'era la morte nella mia bocca.
Aveva portato la morte dentro di me.
E regnava la morte, ormai, dentro il suo cuore. Me ne sarei dovuta fare una ragione.
Fu in quel momento che mi resi conto che quella non era davvero la mia anima. Ma era ciò che si sarebbe probabilmente venuto a creare dalla nostra unione.
Alla quarta scarica, il bruciore dei tagli e gli strappi dei rovi, su una pelle così delicata incominciò a farsi più vivo.
Inarcai la schiena piegandomi in avanti e sgranai gli occhi piagnucolando.
Sentii la scarica per la quinta volta sul mio addome, sempre con più ferocia, e credetti di star finalmente per svenire.
Quei gambi mi parsero essere diventati lunghi rami che avrebbero voluto stringersi attorno al mio collo, per controllarmi e bloccarmi.
Perché se non mi fossi controllato, sarebbe stata la mia fine.
Ero completamente stordito e non riuscivo a vedere più niente di ciò che ci fosse attorno a me.
Tremavo per il freddo, per il dolore, per quanto mi facesse paura sentire la cattiveria che continuava a riversare su di me.
Sentii il tonfo sordo del flagello cadere a terra e il rumore dei suoi passi alle mie spalle, come se per camminare dovesse trascinare una gamba.
Quello scalpiccio che avevo sempre trovato insopportabile finalmente cessò del tutto e lui si sistemò di fronte a me.
Alzai la testa verso di lui ma non avevo la minima intenzione di fargli leggere la sconfitta nel mio sguardo.
Lo fissai con aria di sfida e insieme, lo invasi con tutto il mio odio e non solo quello nei suoi confronti.
«Dolly...»
"Sì, Galen. Non sei poi così tanto diverso da lui."
Carmen (tratta dall'album "Born to Die")
Eccomi di nuovo qui!
Questo capitolo è stato scritto anche un po' a mo di esperimento (ancora più degli altri presenti in quest'opera d'altronde) dunque non garantisco sulla riuscita 😂 spero di sì ma, al di là della crudezza, ho tentato di farvi immergere nelle sensazioni provate dai nostri due protagonisti così come se voi fosse stati voi, al loro posto, ad essere gli spettatori.
Ebbene, vi rimando alla prossima settimana ringraziandovi, come sempre, di tutto il supporto preziosissimo che ogni volta date a "Prom (gone wrong)"! ❤️
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top