Capitolo 10
❝ Come on, baby, let's ride
we can escape to the great sunshine.
I know your wife and she wouldn't mind
we made it out to the otherside ❞
Compresi che se volevo riuscire a dominarlo, avrei prima di tutto dovuto farlo innamorare di me.
Mi pungeva ancora al cuore, il momento in cui mi aveva detto che l'amore non esisteva. E mi ritrovai a pensare che il sesso fosse l'unica arma che avevo a disposizione per fargli cambiare idea.
Asciugate le lacrime, andai a cercarlo nell'area della biblioteca dei professori con un libro qualunque di Kierkegaard in mano.
Mi finsi interessata ad "Aut-Aut" mentre gli bisbigliavo, vicinissimo alla sua bocca per non disturbare quel silenzio stordente, un appuntamento più tardi al mio dormitorio.
Non sapevo nemmeno se sarebbe venuto.
Eppure lo fece.
Era solo la prima delle volte in cui si sarebbe spinto a farmi visita fin lì e decisi di accoglierlo come lui, probabilmente, non si sarebbe mai nemmeno aspettato.
Fino a quel momento era sempre stato lui a cercarmi, ma in quel frangente ero io ad essere intenzionata a reclamare il suo desiderio, possederlo, farlo cedere come faceva lui ogni volta con me.
Quando gli aprii la porta non avevo ancora indossato gli slip. Solo una canottierina sottile, quasi trasparente, che finiva poco sotto il pube e la collana di finte caramelle colorate.
Per finire, un fiocco rosa a legarmi due ciocche di capelli sulla testa.
«Entri, professor Galen» lo assecondai.
Mi aveva sì concesso, sempre solo in privato, di potergli dare del tu ma io non volevo. Mi piaceva l'idea di conservare la gerarchia, tenerlo comunque in un posto più in alto di me.
Avevo però ceduto a non usare più il cognome.
«Perché sei senza slip?» mi chiese disorientato.
Una smorfia sorniona mi increspò le labbra. Se ne era già accorto, aveva già abbassato lo sguardo sul mio inguine scoperto.
«Aspetti e vedrà» gli risposi, esaltandomi con un'aria di finta innocenza.
Mi superò, senza indugiare oltre, andando verso il bagno e lo sentii aprire il getto del rubinetto. «Come mai non condividi il dormitorio con nessuna delle altre studentesse, Lana?» lo udii chiedermi curioso a voce alta.
«Non sono riuscita a fare gruppo. Le altre sono invidiose della mia bravura, forse le mette in soggezione e così, tranne lo stretto necessario, mi stanno lontane. Il vivere da soli è uno dei vantaggi» risposi, facendo spallucce.
Non aggiunse nient'altro.
Si asciugò le mani e tornò da me. «Stenditi» mi ordinò.
Obbedii e seduta sul bordo del letto, mi stesi di schiena sul materasso.
Si inginocchiò, mi divaricò le gambe e fra quegli strati rosa e morbidi, infilò le dita ed estrasse quel maledetto dilatatore.
Finalmente fui di nuovo libera.
Mi stranì però la velocità con cui si rialzò per andarsi a sedere sulla sedia di fronte, senza nemmeno soffermarsi un po' più a lungo su di me.
Mi poggiai sui gomiti e lo guardai con un sorriso smaliziato.
Era a gambe distese, larghe e si passò una mano sulla faccia, per la stanchezza della giornata appena passata.
«Tutto qui?» sibilai cercando i suoi occhi.
Mi alzai e, a mia volta, mi posizionai a cavalcioni sulla sua coscia. Gli circondai il collo con la braccia mentre lui, con la testa reclinata si soffermò sul mio viso.
Stirai la schiena come un felino, in modo tale che avesse un'ottima panoramica sui miei seni.
«Lana» sospirò, mentre lascivo mi attraversava il busto cercando disperatamente di controllarsi.
Aveva già capito cosa avessi intenzione di fare, che non riguardasse soltanto il dilatatore. Forse addirittura da quando era appena entrato.
O dalla biblioteca, e per questo si era arreso a venire.
Ma non sapeva ancora fare i conti col fatto che questa volta ero io ad aver intrapreso il ruolo che di solito si arrogava lui.
Lo agguantai per il collo, come se nella mia mano avessi dovuto soggiogare un pitone, alzandogli il mento e portandolo a concentrarsi di nuovo sul mio sguardo, per leggere cosa ci fosse dritto nel suo. «Sì, professore?» gli dissi squillante, di nuovo un po' impaurita.
Sotto il mio pollice, sentii il suo pomo di Adamo fare su e giù.
Feci salire la mano sulla nuca, affondando le dita fra i suoi capelli e tirandoli un po', gli feci abbassare ancora di più la testa, così da trovare l'angolazione perfetta per poter poggiare le mie labbra sulle sue.
«Si ricordi che sono sposato... e che lei è una mia studentessa.»
Quando mi aveva sbattuto sulla cattedra o recluso nella sua macchina non si era ricordato di nessuna delle due cose però...
E nemmeno quando mi aveva infilato quel coso fastidioso in attesa del suo che, ero sicura, sarebbe stato decisamente più piacevole.
«Ohh... credo che a sua moglie non importerà» lo rimandai, sulla cosa su cui si sarebbe potuto pentire di più, per metterlo alla prova.
Lui deglutì di nuovo. Credevo ormai ovvio che mi desiderasse e lo avrei voluto al più presto gettato ai miei piedi, in modo tale che gli rimanesse nemmeno il tempo di tentennare.
Chiuse gli occhi e, piegandomi su di lui, affondai dentro la sua bocca, appropriandomi subito della sua lingua.
Strofinai la mia contro di essa, girandogli attorno per stuzzicare i suoi istinti più primordiali. Volevo farlo uscire fuori di senno.
Non volle opporsi. Accompagnava deciso i movimenti della mia bocca, si rendeva complementare alle inclinazioni della mia testa.
Chiuse i palmi sulla mia vita e sollevò piano la vestaglietta, fece scorrere le dita lungo le sporgenze della mia colonna vertebrale, fino ad aprire i palmi sulle mie scapole.
Anelai e mi maledissi; era fin troppo facile per lui avermi subito in pugno.
Per me, non sarebbe mai stato altrettanto facile, con lui.
Non sapevo se lo stesse facendo di proposito perché voleva lo stesso che volevo io, volesse seguirmi nel mio desiderio, oppure perché si era semplicemente lasciato prendere dalla foga del momento.
Non ci pensai più di tanto, mi bastava che avesse incominciato ad arrendersi.
Con dei movimenti ritmici da cavallerizza incominciai a strusciarmi contro la sua coscia; il tessuto ruvido dei jeans era una manna per stimolare il mio piacere sessuale.
Non avrebbe potuto avere addosso abbigliamento migliore.
Afferrai i bordi della vestaglietta e la sfilai verso l'altro. La mia anima era rimasta rivestita solo della mia pelle bianca, morbida e liscia. Per lui. Ancora vergine, ero convinta, sotto le sue mani.
Lo presi per la mascella e affondai in lui un altro bacio, mentre col pollice gli accarezzavo la guancia; continuavo a muovermi verso di lui. Non mi sarei fermata fino a quando non mi avesse reso completamente sua.
E questa volta, per davvero.
Ricambiò con una scia di baci a raso di pelle, scivolando fino ad arrivare alla base del collo. Scossa dal piacere, socchiusi gli occhi, mi sfarfallarono le ciglia e inclinai la testa dal lato opposto, in modo tale da agevolarlo nei movimenti.
Cercò poi il mio sguardo, guardandomi dal basso, le palpebre ridotte a due fessure per l'estasi e mi sentii potente. La Statua della Libertà di New York.
Gli scatti del mio bacino si fecero più impazienti, ero un fremito, un coro di hallelujah quando chiuse attorno alle sue labbra il mio capezzolo, del colore delle rose e turgido, tirandolo a sé più volte.
Gemetti forte, col cuore che pompava di adrenalina; era decisamente meglio di essere sull'otto volante a Coney Island.
Poggiai il palmo sul suo petto. «Mi lasci il suo cuore» gli sussurrai ansimante sulla fronte, come se volessi direttamente comunicare con la sua mente.
Come se gli avessi detto che lo avrei stritolato l'istante dopo, preso d'impeto, si alzò con me in braccio per metà e una gamba ancora legata alla sua. Mi staccò da lui e mi scaraventò con violenza sul letto dall'altra parte della stanza.
Mi sentii precipitare e ci misi qualche secondo a capire quello che era appena successo, guardandomi intorno con una mano poggiata sulla tempia per zittire il frastuono che era scoppiato nella mia testa.
«No» ringhiò. «Lascia il cuore lì dov'è» mi urlò, così furente da spaventarmi.
Socchiusi gli occhi. «Cosa?» sussurrai a mia volta, tremante per i brividi di un amplesso, bruscamente interrotto, che mi facevano vibrare ancora.
«Tu vuoi solo avere il controllo su di me. Così che puoi avermi quando lo decidi tu» concluse, col tono di voce più calmo ma pericolosamente glaciale.
Respirava affannosamente per la rabbia. «Di te mi piaceva l'idea che avresti potuto gratificarmi. Far godere il tuo corpo sarebbe stata l'unica cosa che meritavi.»
"Sarebbe stata"?
Boccheggiai sgomenta, guardandolo a bocca aperta per lo stupore di ciò che mi aveva appena detto.
«E comunque lo decido io come e quando» concluse, fulminandomi con lo sguardo.
Mi fece sentire, per l'ennesima volta, rifiutata e umiliata.
Era davvero la prima volta che non mi sarei mai aspettata quella reazione. E più in alto si sta, più dolorosa è la caduta.
Il mio istinto era di piangere, ma mi trattenni. Non volevo assolutamente mostrarmi così debole e fragile.
Mi cadde l'occhio sulla macchia bagnata che si era allargata sul tessuto dei suoi jeans, dove pochi attimi prima c'ero io ed ebbi una fitta di malinconia allo stomaco.
Afferrai il cuscino con rabbia e lo appallottolai, salendoci sopra.
Sembrava che un demone, quello della lussuria e dell'eros sfrenato, si fosse impossessato di me. Forse la dea Afrodite, ad essere blasfemi supplicando altri dei.
Sapevo che non sarei riuscita a fermarmi fino a quando non avrei raggiunto l'orgasmo che gli avevo chiesto. Un orgasmo così forte e potente che solo lui avrebbe potuto aiutarmi a raggiungere.
Ma nonostante questo, gli avrei dimostrato che ne sarei stata in grado anche senza di lui.
Incominciai a cavalcare il cuscino, furiosa senza alcuna delicatezza o passione come quelle che stavo usando contro la sua coscia, ma solo per il puro e semplice scopo di arrivare a sentire quella sensazione di godimento che desideravo egoisticamente solo per me.
«Fai schifo» mi disse osservandomi sconcertato ma non se ne andò. Forse voleva solo vedere umiliarmi un altro po'.
Forse gli era uno spettacolo divertente.
O forse stava aspettando fino a quando, prima o poi, sapeva che stasera avrebbe finalmente ceduto.
Forse era l'attesa lo spettacolo che lo eccitava davvero, quel cedere agli istinti.
Continuavo a strusciarmi, con movimenti lunghi e profondi, cercando di premere il più possibile verso il basso, in modo tale che il bordo del cuscino mi penetrasse al punto da strofinare almeno le piccole labbra.
Chiusi fra le mie mani i piccoli seni, strizzandoli maldestramente e cercando di far diventare di nuovo turgidi i capezzoli, sfregandoli irruenta col pollice.
Cominciai a provare pena anche io per me stessa, ma ormai ero questa, ero stata corrotta e non avrei più potuto tornare più indietro.
In ogni caso, fu del tutto inutile. Provavo solo fastidio e non sentivo più il calore, come quello familiare prerogativa del suo corpo.
Solo a pensarci, a immaginare a come sarebbe stato volare sopra di lui, credetti di star salendo su verso il culmine e continuai, scoordinata, a scatti fino a quando incominciarono a farmi male i muscoli delle cosce, stremati per quella posizione scomoda, accovacciata seduta, che avevo assunto.
Caddi in avanti per la stanchezza e tutto si fermò, come se non fosse mai avvenuto, tranne per quella sensazione di amaro in bocca che mi ricordava cosa era appena successo rispetto a cosa, invece, purtroppo non lo era.
Avevo voglia di insultarlo, dirgli che era uno stronzo, un bastardo, un porco schifoso che mi aveva scelto per il suo assurdo rito iniziatico e poi mi aveva gettato via perché non riteneva fossi abbastanza.
Per un attimo desiderai di non averlo mai conosciuto.
L'odio mi accecò così tanto che volevo morisse, sparisse per non essere più costretta a vederlo tutti i giorni, essere bloccata in questo campus con lui.
Poi mi ricordai chi vedeva davvero, quando guardava me e una fitta mi strinse lo stomaco.
Provai all'improvviso pena per lui.
«Non sono... Trudi Miller» mi lamentai con voce debolissima, quasi singhiozzando.
Non sapevo che reazione avrei dovuto aspettarmi, ma la nominai senza nemmeno pensarci.
Si pietrificò, fissandomi terrorizzato, come se lo avesse guardato dritto negli occhi una gorgone, completamente in trance.
Li vidi persino diventare lucidi.
Non sapevo che tipo di consapevolezza si fosse scatenata nella sua mente in quel momento. Se fosse amareggiato perché ero lì ma non ero Trudi.
Se quel "fai schifo" era probabilmente ciò che avrebbe voluto dirle quando la vide copulare col suo professore, ma non ebbe il coraggio di fare.
Così, gli era rimasto quel rimpianto e lo aveva scaricato su di me.
«Galen» mi limitai a dire, chiamandolo per farlo ritornare in sé.
Allungai il braccio in alto, verso di lui, svegliarlo dall'incubo che c'era nella sua testa affinché mi raggiungesse, per accoglierlo di nuovo fra le mie braccia.
Coccolarlo.
O almeno, mi lasciasse quella poca pietà che provava per me e decidesse di guidarmi verso le stelle come la donna cannone.
Non poteva aprirmi le porte della bramosia per poi lasciarmi sull'uscio, ad aspettare agonizzante un suo "sì" per godere del paradiso più sublime e celestiale. Anche fosse stato per un minuto soltanto.
Me lo doveva.
Ma lasciò il mio braccio in aria, in sospeso e così, stanca, lo lasciai cadere sul materasso insieme al resto del corpo.
Ripresi fiato, mi feci forza poggiandomi sui polsi e mi misi in ginocchio, guardandolo implorante.
Non poteva lasciarmi in questo languido inferno, non glielo avrei permesso.
Per corromperlo, quasi crudelmente pensando solo a me stessa, capii che sarei riuscita nell'intento solo se fossi stata io a sottomettermi di nuovo a lui.
«Cosa vuoi che faccia? Qualsiasi cosa. Lo giuro» supplicai come una penitente davanti l'altare di una chiesa, che guardava la maestosa statua di un santo immobile e muto di fronte a sé.
Senza nemmeno accorgermene gli avevo dato del "tu". «Mi dica, professore» mi corressi.
Salì allora sul letto pungendo il materasso con le ginocchia e avanzò lento verso di me.
Cola (tratta dalla "The Paradise edition" dell'album "Born to die")
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top