Capitolo 2

Alexa

-Il professore mi ucciderà- brontolo mentre mi faccio largo tra gli studenti, superandoli nel modo più educato possibile, vorrei evitare altri incontri ravvicinati per oggi.

Sfreccio per i corridoi, sperando di non perdermi come ho già fatto altre volte, l’aula di matematica non è così facile da trovare.
Non ho la più pallida idea di che ore siano, ma so che sono in ritardo; è come avere un costante presentimento attaccato addosso, non riuscirò a farmi perdonare questa volta.
Esausta e con il fiatone raggiungo la classe giusto in tempo per vedere il professor Wilson che chiude a chiave la porta.
-Professore!- gli faccio un cenno disperato con la mano, non riuscirò a convincerlo a tenermi nel corso di statistica.
- Signorina Evans- si gira con il suo classico tono di voce pacato e tranquillo, il professor Wilson è come circondato da un’aura rilassante e piacevole, i suoi baffi grigi sono sempre ben curati così come il suo abbigliamento, elegante e sobrio. Una volta ci ha confessato di essere inglese, non che conti molto ormai, le nazioni non esistono più, la gente dichiara guerra per i propri interessi personali, non per il proprio stato.
-Mi scuso per il ritardo, io ho avuto un contrattempo- abbasso la testa e stringo i miei libri al petto, voglio che sappia che sono davvero dispiaciuta.
-In effetti non mi aspettavo venissi- sorride e posa le chiavi dell’aula nel suo borsone di pelle.
-Questi sono i miei calcoli, ho impiegato giorni per finirli- glieli porgo e lui incuriosito afferra i miei quaderni. Il professore è una delle poche persone più basse di me alla Base, ma nonostante questo riesce a farsi rispettare anche dagli studenti più svogliati.
Si mette gli occhiali che gli pendevano dal collo e inizia a studiare il mio lavoro. Io mi torturo freneticamente le mani, spero davvero di aver trovato qualcosa che so fare, certo non sono una cima, ma sono sicura che con il tempo riuscirò ad essere una calcolatrice umana come quella ragazza riccia che frequenta il corso di matematica avanzata.

-Signorina Evans- si sfila gli occhiali delicatamente e mi porge i miei compiti.
-sì?- inclino la testa di lato cercando di capire qualcosa dalla sua espressione, ma non lascia trasparire nessun sentimento particolare.
-Sono tutti sbagliati- mormora sistemandosi la bretella della borsa sulle spalle, forse non vede l’ora di andare via da questa situazione imbarazzante.
Faccio il possibile per non mostrarmi troppo delusa, dovevo aspettarmelo, ad ogni lezione mi veniva sonno e finivo per dormire sopra il banco; di certo la matematica non è la mia specialità.
-Non fa nulla, non è colpa sua- alzo le spalle e mi incammino verso la mia stanza, un altro buco nell’acqua.
-Aspetti- esclama mentre sono quasi a metà corridoio, abbasso lo guardo verso di lui, odio quando la gente lo fa con me, ma è inevitabile se voglio guardarlo negli occhi.
Mi aspettavo di vedere delusione o disprezzo, ma la sua espressione è tranquilla come al solito.
- Si sente bene? In questi giorni ha costantemente un’espressione confusa- rimango sorpresa, non pensavo fosse così palese.
- Sì, sono ancora in cerca del mio talento- lo rassicuro abbozzando un sorriso, ma dalla sua espressione perplessa capisco che non è molto convincente.
- Un vecchio poeta diceva che l’ambizione è di natura così aerea e leggera da essere l’ombra di un’ombra- mi guarda intensamente, come se avesse colto qualcosa che io non riesco a vedere.
- E tu sei molto ambiziosa, signorina. Per quanto possa essere etera, non lasciarti offuscare la vista- aggiunge serio, ma non sembra un rimprovero, più un avvertimento.
Sto forse esagerando?
- Io credevo di dover cercare il mio destino- rispondo imbarazzata, le mie parole sembrano così sciocche rispetto alle sue.
-Il destino non va cercato, ma solo accettato a tempo debito- ribatte annuendo leggermente con il capo.
Io abbasso lo sguardo, mi rendo conto che non posso continuare la conversazione sul suo stesso livello, le sue parole sono intrise in un passato che probabilmente io non potrò mai capire, che nessuno qui dentro potrà mai fare. Ci limitiamo a portare sulle spalle degli avvenimenti di un mondo ormai finito, che non abbiamo mai visto né udito le voci della sua gente; le lezioni di storia ci vengono inculcate più come favole che come eventi.

- Chi era il poeta che ha citato prima?-
- William Shakespeare. Sono sicuro che troverai il tuo talento imparando ad osservare; a poco ti serve l’ambizione se non distingui le menzogne dalla realtà- per la prima volta noto una sfumatura di amarezza nel suo tono di voce che credevo fosse imperturbabile.
Decide di terminare il discorso così e s’incammina per la direzione opposta alla mia.
-Grazie comunque professore- esclamo abbastanza forte perché possa sentirmi. Non so bene il motivo, ma invece di percorrere la mia strada mi fermo a contemplare il corpo di spalle dell’uomo che si sta allontanando lentamente; i suoi passi sono decisi come il suo tono di voce e la sua giacca marrone è spenta e scura come le sue frasi, pronunciate in un tempo che non le merita, finiscono per risaltare sulla realtà come il suo abbigliamento per i corridoi freddi e semplici della Base.
-Cerchi la verità signorina, perché solo lei ti potrà dare emozioni vere, con le bugie muore anche l’animo umano- recita in fretta, ma senza macchiare la solennità che spesso lo accompagna.
-E questa di chi era?- mi chiedo come faccia a ricordarsi tutte queste citazioni. Il professore si volta e mi sorride, un sorriso stanco, mutato da chissà quali avvenimenti che conserva nel cuore.
-Mia-


-Ciao mamma- apro la porta bianca del laboratorio e le mie narici vengono travolte dal odore di disinfettante; una presenza praticamente costante in quel posto, così come sui vestiti di mia madre; è un odore così forte da essersi mischiato, ormai da parecchio tempo, con il suo, trasformandolo in un tratto distintivo.
-Ciao tesoro- mi lancia un veloce sguardo per poi tornare a sistemare gli oggetti sul ripiano, anche esso bianco splendente, come tutto in quella stanza. Non so cosa esattamente mi abbia portato qui, detesto venire a trovarla.
-È da un po’ che non ti fai vedere- commenta per poi tornare ad immergersi nel suo mondo di ordine e pulizia che adora tanto, spesso penso che abbia una specie di mania. So che l’igiene è fondamentale in un laboratorio di analisi, ma sistemare gli antibiotici ed i farmaci in ordine alfabetico mi sembra esagerato.
- Quasi sono contenta che tu te ne sia accorta- borbotto sottovoce, non mi importa se lo sente o no.
-Alexa smettila di fare la bambina, parli come se non me ne importasse- perché, è il contrario? Odio avere discussioni con lei, sono completamente inutili, visto che a malapena mi ascolta.
Mi limito a stare in silenzio, tra poco introdurrà un altro argomento che ci porterà a litigare come al solito.
- Com’è andata oggi?- chiede come se non sapesse la risposta. Forse è proprio questo che non sopporto, il fatto che lei conosce la mia situazione e non fa nulla per aiutarmi, o almeno sollevarmi il morale.
-Il solito. Ho fatto una pessima figura durante l’allenamento, il professor Wilson mi ha gentilmente fatto capire che non posso continuare a seguire i suoi corsi perché sono negata in matematica e dei ragazzi mi hanno presa di mira- appena finisco faccio un respiro profondo, non pensavo che le parole mi sarebbero sfuggite dalle labbra così velocemente.
-Ti sei fatta male?- non mi ha guardato nemmeno una volta da quando sono entrata.
-No, tutto bene- in realtà non mi sento le costole e credo di avere ancora i segni dello schiaffo, mi brucia la guancia come se fossi vicino al fuoco. Finalmente si volta, ma solo per andare a posare dei farmaci in un mobiletto, mi guarda per un attimo e poi torna al suo lavoro. Abbiamo gli stessi capelli castani, che lei tiene sempre legati in una crocchia, ma per il resto non ci assomigliamo molto. Lei ha la pelle rosea; la mia è pallida e bianca, come tutti i ragazzi della Base. I suoi occhi sono color nocciola, mentre i miei sono grandi ed azzurri.

-Forse dovremmo cambiare medicine, quelle che mi hai dato non mi aiutano con l’emicrania- sospiro, sono qui da dieci minuti e già mi sono stancata di questo luogo, un laboratorio così perfetto da brillare di luce propria, dove ogni cosa ha il suo posto. Qualche anno fa pensavo che lei tenesse più al suo lavoro ed a questa stanza che a me; passa quasi tutto il suo tempo a ordinarlo e pulirlo, non deve aver paura che faccia stupidaggini o che non ascolti i suoi consigli, o meglio, lei comanda qui dentro, decide tutto. Ma purtroppo ha anche me, una figlia deludente e acida, che non le dà mai retta e combina disastri; ci credo che ha preferito rinchiudersi tra antistaminici e siringe.
-Non posso dartene di più forti, ti farebbero stare peggio. Quelle che hai vanno benissimo- mi rimprovera con un tono quasi rassegnato.
-Non credo di poter sopportare questi mal di testa ancora a lungo, non riesco ad allenarmi- ribatto seria, forse non le importa più nemmeno della mia salute.
-Allora forse dovresti smettere con tutta questa idiozia del talento- dice scocciata, siamo di nuovo tornati a questo discorso. Mi lascio scappare un sospiro, non voglio discutere, è stata una giornata pesante e ancora non è finita.
-Non voglio stressarti o dirti cosa fare, ma l’ultima volta hai quasi colpito qualcuno mentre provavi con il tiro con l’arco, ti sei quasi rotta un osso provando a fare gli esercizi di riscaldamento a danza e quelli del corso di teatro mi hanno detto che una saponetta reciterebbe meglio. Io voglio solo dirti che-
- Carino da parte tua informarti su di me per poi rinfacciarmi tutto quando ti conviene- la interrompo infastidita, forse oggi non era il giorno adatto per le visite.
-Forse dovresti solo lasciare perdere- conclude come se fosse la cosa più ovvia e probabilmente lo è, ma non ho intenzione di passare tutta la mia vita a chiedermi qual è il mio talento.
-Tu non capisci e nemmeno t’importa- le faccio notare mantenendo la calma, non posso mostrarle che le sue parole mi feriscono.
-No Alexa, sbagli. Proprio perché m’importa non voglio che tu frequenti tutti questi corsi, potresti farti male- mentre fissa l’armadio grigio davanti a lei, interessata come non mai alla sua superficie lucida e brillante.
-Sopravvivrò- non ho più voglia di battibeccare con lei, soprattutto se non mi guarda nemmeno in faccia e si concentra su un mobile. Prendo il mio borsone, che avevo posato sopra il lettino bianco e mi dirigo verso la porta.
- è così importante per te?- lei scrolla le spalle e finalmente distoglie lo sguardo dall’oggetto del suo interesse, ovvero tutto tranne me.
-Mi duole dirti, mamma, che il motivo per cui sono qui è perché sono brava in qualcosa – sarebbe ora che lo accettasse, ha da sempre la capacità di rompere tutte le mie certezze, far crollare le mie speranze con qualche parola. Senza un talento non sono nulla, tanto vale che mi gettino fuori tra le bombe, la mia vita qui dentro sarebbe peggio della morte.
-Non c’è solo questo nella vita- mormora quasi dispiaciuta dal mio comportamento, ogni tanto mi chiedo se lei voglia che io sia speciale o no, perché proprio non riesco a capirlo.
A volte penso anche al perché lei sia qui, tutti i ragazzi della Base non conoscono i loro genitori; io invece potrei vedere mia madre ogni giorno, se solo volessi infliggermi questa tortura gratuita.
Tutti fantasticano sulle loro origini, mentre io posso solo rassegnarmi e tutte le volte in cui ho provato ad estorcerle anche solo una piccola informazione, non ho ottenuto nulla. Perché non vuole dirmi assolutamente nulla? Come può nascondere la verità a sua figlia?
-Questa è la mia vita, non ne conosco altre- stringo la maniglia tra le mani, adesso sono io che non voglio guardarla.
-Se continui così puoi solo metterti nei guai- continua impassibile, perché per una buona volta non smette di mettere alla luce le mie paure? Mi dice sempre di arrendermi, che questo posto non fa per me e che non posso sempre fare di testa mia. Apro la porta e quasi mi catapulto fuori, come se il corridoio scuro e sterile possa essere in qualche modo la mia salvezza.
- Un giorno mi ringrazierai!- mi lancia il suo ultimo e disperato tentativo di attirare la mia attenzione, ma ne ho abbastanza per oggi.

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