capitolo 1
Tutto questo è solo una prova. Dovete dirmi voi se continuare il libro o no. Vi avviso che mi è stato difficile scrivere questo capitolo perché mi fermavo di continuo a causa delle lacrime.
---------------------
||Era un periodo difficile per me. Facevo tutti i giorni le stesse cose e la mia vita mi sembrava solo un susseguirsi di azioni quotidiane e desideravo che qualcosa accadesse nella mia vita per cambiare un po' , ero arrivata a desiderare anche cose negative (non troppo serie) come un richiamo dal preside, una disgrazia in generale o che mi facessi male io stessa. Mio padre era tornato in città il giorno prima e per festeggiare, quella sera, lui e mia madre sarebbero andati in un ristorante di lusso per una cena romantica. Avevo sedici anni e mi lasciarono a casa a badare a Emily. Quando mia mamma era uscita dalla porta con un meraviglioso vestito porpora da cerimonia accompagnata da mio padre in smoking, mi aveva ripetuto le regole della casa e detto di mandare a letto Emily prima delle nove, per poi salutarci con un bacio e un "vi voglio bene" da entrambi.
Io non ho risposto a quella frase che mi sembrava tanto ordinaria.
Io e Emily mangiammo cheesburger davanti alla televisione. Guardavamo i suoi cartoni animati preferiti: The loony Touns Show . Come da copione, dopo quattro puntate si era addormentata sulle mie gambe, così la portai nel suo letto e ritornai sul divano per potermi guardare un film decente. Alle 11:47 il telefono squillò. Ricordo bene l'ora perché prima di rispondere avevo guardato per capire quanto fosse tardi. Non scorderò mai quella telefonata.
«Pronto?»
«Sto cercando Elizabeth Sandrey?»
«Sì, sono io, con chi parlo?»
«La chiamo dal Jackson Memorial Hospital; i suoi genitori sono stati coinvolti in un incidente stradale, dovrebbe venire qui il prima possibile.»
«Arrivo.»
Incredibile quanto poco tempo ci voglia per distruggere delle vite. Corsi a prendere Emily e la misi nella mia macchina mentre era ancora mezza addormentata e partii verso l'ospedale. Era abbastanza lontano, ma impiegai quindici minuti per arrivare. Spesso sottovalutiamo il tempo. Quando arrivai all'ospedale e riuscii a parlare con un infermiera, lei mi disse che, in quei 15 minuti, mio padre era morto. Mi bloccai.
Senza rendermene conto mi ritrovai seduta in una di quelle gelide sale d'aspetto vuote, con i rumori che arrivavano attoniti alle mie orecchie. Faceva davvero freddo. Dopo quasi un'ora seduta con Emily sulle mie ginocchia, un'infermiera mi condusse in una stanza altrettanto fredda. Niente quadri di paesaggi silenziosi, niente fiori nel vaso vuoto alla finestra. Non c'era niente a renderla accogliente e questo mi terrorizzò. Non sarebbe stata occupata a lungo. Poi vidi mia madre: decine di tubicini la collegavano ai macchinari rumorosi che la tenevano in vita ma quando incrociai il suo volto pieno di lividi dopo aver fatto scorrere lentamente i miei occhi sul suo corpo, appresi il motivo per cui ci avevano permesso di vederla così presto: avremmo dovuto salutarla. Anche se il mio corpo era paralizzato, le lacrime iniziarono il loro percorso verso i miei occhi. Erano lacrime isteriche. Emily lasciò la mia mano per correre dalla mamma. Non capivo cosa si stessero dicendo perché ero sotto shock. Non volevo crederci. Riuscivo chiaramente a sentire le mie ossa cigolare sotto la tensione inusuale dei muscoli.
Stavo per dire addio alla mia mamma.
La vista iniziò ad essere annebbiata ai lati quando pensai fosse troppo presto. Ogni figlio, arrivato a una certa età, capisce che un giorno dovrà dire addio ai propri genitori, ma non ora. Non così. In pochi secondi pregai ogni singolo dio in mia conoscenza di fare a cambio con lei. Emily l'abbracciò da in piedi a una sedia e riuscii a capire solo "lasciaci sole" prima che uscisse dalla stanza con l'infermiera che aveva aspettato sulla porta. Ricordo di essermi avvicinata al letto in preda al terrore, come se mi stessi avvicinando al cratere di un vulcano che stava per eruttare e di essere esplosa in quel pianto isterico che prima soffocavo, mentre mia madre mi sussurrava che andava tutto bene. Respirava a fatica con la mascherina dell'ossigeno.
Riuscii solo a scuotere la testa con energia tra i singhiozzi.
«Devi essere forte.» Prese un respiro profondo. «Per Emily.» rimase in silenzio per un po', quindi allungai una mano per poter ancora sentire la sua pelle morbida sulla mia. «Poco fa, ho fatto scrivere il mio testamento.» Si fermò ancora per respirare. «So di papà e so che tra non molto lo raggiungerò.» Deglutì con fatica, il suo respiro si fece più affannato. Credo stesse cercando di non piangere. «Nel testamento,» continuò con quel poco fiato che le rimaneva, «tu prenderai tutto quello che ci appartiene. La casa, i mobili, i soldi e..... Emily. Quando tra due anni compirai diciotto anni, sarà tutto tuo e sarai responsabile di tua sorella.» Abbassai lo sguardo sulla mia mano quando sentii le sue dita stringerla con la forza di un bambino. «So che puoi farcela. Elsa, voglio che tu mi faccia una promessa.» Stava ancora cercando di risparmiare il fiato, soffocando pianti che le avrebbero solo impedito di vedermi chiaramente un'ultima volta.
«Dimmi.» Fu l'unica cosa che riuscii a dire.
«Devi promettermi che ti prenderai cura di tua sorella e che la proteggerai. Sei una ragazza intelligente e sono fiera della donna che stai diventando.» Notai i suoi occhi lucidi. Concesse ad una sola lacrima la fuga da quella prigione che si stava spegnendo.
«Lo giuro, mamma. Lo giuro.» Mi resi conto che stavo promettendo come se così l'avrei potuta tenere con me ancora un po'. Era una supplica.
«Ti voglio bene Elizabeth.» E ancora non so se lo disse davvero o immaginai la sua voce mentre vedevo muoversi lievemente le sue labbra sotto la mascherina di ossigeno ormai inutile.
Piansi per quelle che mi sembrarono ore. Non piangevo solo per aver perso i miei genitori ma perché trovavo ingiusto il fatto che fosse stata una morte dolorosa e consapevole. Dopo non so quanto, un'assistente sociale mi portò da Emily. Mi vide in lacrime e mi chiese dove fosse la mamma. Non ebbi il coraggio di dirle che mamma e papà erano morti. Ricordo di aver pensato: "è solo una bambina!"
Quello che dissi fu: «Ricordi quando andavamo in chiesa tutte le Domeniche per pregare che papà stesse bene dov'era? E la mamma ci diceva che se anche se non fosse, lei sarebbe stata tranquilla perché sapeva che lui si sarebbe unito a Dio e ci avrebbe protetto anche se noi non lo vedevamo. Ecco. . .» come si fa a dire ad una bambina di quattro anni che non potrà più vedere mamma e papà?! Non ce la facevo. «La mamma e il papà sono. . . sono stati chiamati da qualcuno molto importante per essere stati delle brave persone. Purtroppo papà non ha fatto in tempo a salutarci, ma la mamma si. Voglio che ti ricordi sempre quello che ha detto la mamma.»
«Dove sono andati?» Era così innocente.
«Sono andati a parlare con Dio.» Sforzai un sorriso, ma credo che ne uscì solo una smorfia. «E mentre sono lì, ci vedono e continueranno a proteggerci.»
«E quando tornano?» Non ce la facevo più.
«Non lo so.» A quel punto la strinsi in un forte abbraccio e provai in un altro modo. «Qualche giorno fa mi hai chiesto cosa studio a scuola. A scuola mi hanno detto che noi creiamo tutto quello che ci circonda e anche le cose che succedono. Noi non possiamo più vedere mamma e papà con i loro corpi perché a Dio piace la loro compagnia e vuole che stiano con lui. C'è un motivo per ogni cosa e c'è un motivo per cui a noi sembreranno immobili ma sono ancora vivi nei nostri ricordi.» Speravo che usando la scuola come fonte sarebbe stato più semplice per lei accettarlo senza altre domande, perché non avrei avuto fiato per rispondere. Ma stavo convincendo entrambe con le mie parole. Era il mio modo per superare il dolore: dare un senso al dolore stesso. «Finché noi li ricorderemo, loro vivranno.»
A quanto pare le mie parole le fecero capire che non c'era bisogno di altre domande. Avrà pure avuto solo quattro anni ma era davvero intelligente.
Dopo quella notte, fummo portate in una casa-famiglia dove fummo divise a causa dell'età in punti diversi della casa. La vedevo tutti i giorni e facevo in modo che non fosse mai sola. Non mi ha più fatto domande sui nostri genitori. Il giorno del funerale non piansi io, non pianse lei. Rimasi sbalordita dalla durezza del suo volto. Non sembrava più una bambina innocente, solo una persona insofferente ma sapevo, dal suo sguardo, che tratteneva a stento le sue lacrime. Non le feci vedere le salme, volevo che avesse un ricordo vivo dei nostri genitori. Per nostro padre si presentarono i suoi compagni con i fucili e la bandiera americana da posare sopra la bara. Anche se non era morto in azione, i suoi amici gli vollero dare una degna sepoltura con tanto di discorso, poi vennero da noi e ci dissero quanto nostro padre fosse stato leale. Scoprii che aveva salvato al vita a cinque di quegli uomini.
Uno in particolare mi colpì. Non poteva avere più di vent'anni, capelli biondi accompagnati dai classici occhi azzurri; mi si avvicinò porgendomi un foglio con su scritto il suo nome, numero di telefono e indirizzo.
«Tuo padre mi ha salvato la vita più volte di quanto mi piaccia ammettere. Mi parlava sempre delle sue figlie. Gli devo più della mia vita. Se avrai bisogno di qualsiasi cosa, a qualsiasi ora, puoi chiamarmi.» Ci guardò entrambe. «Elsa e Emily, vostro padre mi diceva sempre che quando sarebbe . . .» non ce la faceva nemmeno lui a dire quella parola. «. . .Avrei dovuto darvi questa.» Mi porse una lettera sigillata con su scritto i nostri nomi. Io la presi tra le mie mani tremanti e lo ringraziai.
Mi strinse la mano e si diresse verso la sua auto, io guardai il foglio. Christopher Hunter.
Una volta tornati a casa, io e Emily restammo qualche minuto da sole e mi accorsi che lei tentava in ogni modo di non piangere ma i suoi occhi erano evidentemente lucidi, così mi avvicinai e le dissi in un sussurro: «Emily, se piangi, significa che volevi loro bene.» Si lanciò tra le mie braccia e si sommerse in lacrime degne di una bambina.||
La segretaria mi rivolse uno sguardo vuoto e mi indicò l'ufficio del preside senza che aprissi bocca. Bussai timidamente alla porta già aperta.
«Buongiorno.» Mi accolse un uomo sulla cinquantina in giacca e cravatta, seduto dietro la sua grande scrivania di legno. Non ebbi nemmeno il tempo per rispondere al saluto che continuò a parlare. «Lei deve essere la signorina Sandrey.» Disse porgendomi la mano oltre la scrivania. La strinsi, annuendo, poi presi posto come mi aveva indicato. «Mi hanno detto che ha fatto richiesta per poter uscire prima.» Incrociò le mani sul tavolo e i miei occhi verdi si scontrarono con quelli scuri di lui. Per un solo momento mi ricordarono quelli di mio padre. «Quale sarebbe il motivo?»
Mi schiarii la voce e iniziai a recitare il discorso risoluto che avevo preparato. «Ho appena ottenuto l'affidamento—»
«Se lei vuole diventare madre così giovane, non è un problema mio.» M' interruppe bruscamente. «Doveva pensarci prima.»
«No; lei ha frainteso.» Ma non mi fece finire di parlare che ricominciò ad interrompermi. Mi era stato detto che il preside era un uomo molto loquace ma così era troppo e stavo per fare tardi a lezione. Stuzzicai con le dita l'angolo del fascicolo contenente tutte le informazioni su Emily e me, poi glielo porsi, riuscendo così a zittirlo.
«Oh, io non sapevo dei suoi genitori, non intendevo mancarle di rispetto.» Si scusò dopo aver dato uno sguardo curioso ai fogli.
«Non fa niente.» questa volta fui io a interrompere le sue scuse e vedendo che insisteva a fare silenzio, continuai. «Prima che morisse, ho promesso a mia madre che mi sarei presa cura di mia sorella.» Finalmente riuscivo a dire quella parola. Solo qualche mese prima, avrei usato qualche metafora, ma con l'aiuto di Christopher ero riuscita a superare la cosa e riuscivo a nominare la morte. Lui era diventato un punto fisso nella mia vita e ogni volta che partiva mi sentivo esattamente come quando salutavo mio padre. Scoprii che aveva ventiquattro anni quando ci eravamo conosciuti e che anche lui era rimasto orfano di entrambi i genitori in tenera età. Chris ormai era come un fratello maggiore a cui volevo davvero bene. Il lato migliore era che sapevo che le stesse cose le pensava anche Emily. Non aveva aiutato solo me ma anche lei con l'accettare il fatto che non avrebbe più rivisto i nostri genitori e imparare a sentirli vicino a noi.
«Ho ottenuto da poco il suo affidamento.» proseguii. «L'ho iscritta a scuola e ho comprato un appartamento ma ho bisogno di uscire prima da scuola per poterla andare a prendere, perché non mi posso permettere di pagare lo scuolabus, e poterle preparare da mangiare. Naturalmente recupererei il tempo al pomeriggio.»
Finalmente mi stava ascoltando e sembrava stesse prendendo veramente in considerazione la mia proposta. «E di quanto "prima" stiamo parlando?»
Io feci un rapido conto. «Beh, le elementari sono piuttosto distanti, quindi almeno quaranta minuti prima.» Ero molto speranzosa.
«Senta, ho sempre detestato le ore tagliate. Facciamo che esce un ora prima che poi recupererà il pomeriggio stesso.» non era una proposta. «Inoltre, non ho il tempo per parlare con tutti i professori, quindi ogni volta che dovrà uscire, verrà qui per firmare delle carte. O almeno per il primo periodo.» Era la sua ultima parola. Lo ringraziai e mi avviai verso la porta, quando mi ricordai di una cosa importante.
«Scusi, quando metterà al corrente i professori, potrebbe non dire loro il motivo preciso delle mie uscite? So che se sapessero dei miei genitori, inizierebbero a guardarmi come un cane bastonato e a fare di me una favorita.»
«Certo, non si preoccupi.»
«Grazie.»
Detto questo, mi diressi verso il mio primo giorno di scuola. Ormai eravamo a ottobre: dopo il trasferimento da Miami alla Columbia, mi ci era voluto un mese intero per poter organizzare tutti i miei impegni tra scuola, casa, scuola di Emily e il lavoro temporaneo da barista in un club, secondo il parere dei dipendenti, davvero popolare. Avrei dovuto lavorare di notte ma Chris si era offerto di darmi una mano, quando poteva, per fare da babysitter alla mia sorellina. Ma in pratica eravamo finiti per vivere insieme.
Più ci pensavo e più mi sentivo serena: Chris era un vero tesoro di uomo. Credo che, se non ci fossero stati quei sette anni di differenza e tutto quel rispetto fraterno reciproco, me lo sarei sposata subito. In un certo senso, invidiavo la donna che sarebbe riuscita a fare breccia nel suo cuore.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top