8. cameratismo
"Allora, assunto?" l'ispettore andava dritto al sodo.
"Non ancora... Stasera faccio un provino. Vuoi venire a vedermi? Magari se ti metti in tiro e non mi punti addosso questo affare ti offro anche qualcosa. Oh, ma la vuoi mettere giù?"
"Sei un ragazzo dal sangue freddo, Mike, e tu neanche te ne rendi conto. Molti non avrebbero retto a tutti questi shock. Mi chiedo come fai, qual è il tuo segreto..."
"Magari per il fatto che sono praticamente un giovane all'ordine del giorno sulla via della santità e che tu non me ne risparmi una, ma ti sopporto lo stesso?" gli mostrai un sorriso tirato.
"Mah... C'è da dire che molte volte sembri una mamma chioccia impazzita. Ti preoccupi per delle scemate!" rise di gusto, sfoderando il suo repertorio di colpi di tosse e facendo tremare tutta la macchina.
Per tutto il resto del viaggio verso casa l'umore solare cambiò dal detto al fatto e parlammo del più e del meno inizialmente, poi sempre più del meno, fino ad arrivare a non spiccicare più una sillaba. Con l'investigatore non si poteva nemmeno pensare liberamente e lui non si sforzava certo a mantenere viva la conversazione; qualcosa doveva averlo impensierito.
Non appena spensi il motore sul vialetto di casa mia, gli chiesi diretto: "Che intenzioni hai?"
Simon mi fissò con quei suoi occhietti porcini: "Cattive, Mike, molto cattive. Ed è meglio che tu non ne venga al corrente per il momento."
Scese dalla mia macchina violata, allungando l'enorme schiena per stiracchiarsi con grande soddisfazione. Per il momento... Me lo avrebbe quindi rivelato?
"Quando mai troverò un'anima buona che abbia pietà di me?" mugugnai, impermalito dalla rispostaccia.
Purtroppo mi sentì, e il pugno che ricevetti al braccio fu estremamente doloroso: "Mike, stai attento quando parli se non vuoi che rispolveriamo il passato seduta stante!"
Annuii entrando a casa per cercare un po' di ghiaccio. Fortunatamente non mi aveva colpito al viso, altrimenti non sarei riuscito a superare la serata di prova e, molto probabilmente, nemmeno a salire quei due gradini dell'entrata di casa mia.
Non provavo rancore per quello che mi aveva fatto Simon, lo capivo benissimo. Dopotutto, lei era morta a causa mia...
***
È incredibile come un locale cambi volto dal mattino alla sera. Il gioco di luci sul Caesar casinò era talmente maestoso da rendere la piattaforma di giochi illegali e piccoli vizietti sfiziosi il tempio della Notte.
Per non parlare dei fedeli pellegrini che, agghindati con perizia, procedevano gioiosamente sulla gradinata esterna e da lì, una volta entrati, sfilavano nelle varie sale affollate.
Respirai l'aria vibrante della serata e mi recai sul retro dell'edificio. Conoscevo quel casinò piuttosto bene da evitare i luoghi più aperti e non essere visto.
Il retro in confronto all'accogliente entrata si può ben immaginare come fosse... senza nemmeno guardare più di tanto, scavalcai in punta di piedi tutto ciò che non avrei voluto calpestare.
Entrai tappandomi il naso per non svenire in quel posto dimenticato da Dio, ma non dai ratti. Dopo aver svoltato chissà quanti corridoi, giunsi ai camerini tutto sudato. Là trovai una delle cameriere ad aspettarmi: stava per iniziare il turno assieme a me.
"Ciao, sono Daisy. Sei tu il nuovo barista per questa sera?" mi tese la mano guardandomi da sotto in su.
"Mike, molto piacere. Sì, sono proprio io," dissi sorridendo e ricambiando la stretta.
"Ottimo, devi metterti questa..." mi porse la "divisa" che mi avrebbe garantito l'accesso a qualsiasi sala e imprigionato dietro il bancone del bar (perché tanto sarebbe finita così).
Non c'era molto tempo, così mi cambiai sul posto, scambiando un'occhiata complice con la giovane cameriera, che incrociò le braccia al petto e si appoggiò al muro con una spalla, controllando chissà quale piega della sua divisa.
"Già che ci sei, sistemati i capelli e togliti l'orecchino. Qui non si possono portare oggetti personali..." mi consigliò, sbirciando in un'altra direzione.
La guardai per un attimo, quasi tramortito dal colpo inflittomi psicologicamente: il mio orecchino!
"Daisy," misi nel suo nome tutta la carica persuasiva di cui un tempo tanto mi vantavo.
"Non posso proprio separarmi da questo orecchino. È una promessa che ho fatto a qualcuno che non c'è più. Fa parte di me..." giunsi le mani in atto di estrema supplica.
Mi liquidò con un divertito "Amputati quella parte allora."
Sgranai gli occhi, incredulo.
"Qui non lasciano spazio ai tuoi sentimenti. Se hai scelto questo lavoro devi essere come l'acqua: inafferrabile; lasciare che tutto ti scorra addosso e non fare una piega. Nessuno deve soffermarsi a guardare i dipendenti. Il locale viene prima di tutto. Queste sono le regole," spiegò sciorinando la sua severa disciplina.
E dire che all'inizio mi era sembrata simpatica! Compresi a pieno il significato sotteso al suo avvertimento: meno avrei svelato della mia personalità, meglio sarebbe stato. Qualsiasi dettaglio mostrato inconsapevolmente poteva nuocere al barista o a qualcun altro...
"Non è che se copro con i capelli non si nota?" tentai comunque: in fondo, i capelli lunghi servivano a qualcosa...
"Ma sei veramente un barman?" mi chiese, insospettendosi sempre più.
"Vuoi scherzare? Solo l'orecchino non si tocca."
Su questo non transigevo.
Daisy mi osservava con aria un po' seccata: "Sono le 18.45. Fra dieci minuti si comincia e tu vuoi dirmi che non riesci a toglierti uno stupido orecchino in questi dieci minuti? Ma te lo tolgo io! A meno che tu non voglia nemmeno essere preso in considerazione. Senti, ma che ci sei venuto a fare qua se nemmeno hai voglia di cominciare?"
La cameriera aveva voglia di rompere le scatole, e non poco.
"Senti tu... Io il lavoro lo faccio e bene. Solo l'orecchino deve starsene attaccato a me. È un pegno. Basta."
Daisy scrollò il caschetto: "Devi solo tenerlo addosso allora, non per forza all'orecchio, no? Aspetta un secondo, forse ho qualcosa nella borsa..."
Veloce come un fulmine sui suoi tacchi a spillo, uscì e rientrò nel camerino con un minuscolo pendente a forma di sacchetto. Con un movimento furtivo mi tolse l'orecchino e lo mise dentro il piccolo ciondolo.
"Bene, adesso... Hai una catenina?"
Presi il pendente che mi porgeva con il mio prezioso orecchino e lo infilai nella collana di acciaio e caucciù che avevo indosso, sotto la camicia, il papillon e la giacca. Non si vedeva nulla ed ero ancora tutto integro, con il mio inseparabile orecchino.
"Grazie, sei un genio," le dissi, per farmi perdonare.
"E tu un cretino! Adesso muoviti, sistemati i capelli ché ti porto su. Non so a quale bar tu sia assegnato."
A quella notizia rimasi di stucco: "In che senso? Quanti bar ci sono?"
Tre anni prima ce n'era solo uno...
"All'incirca uno per ogni sala".
Era una presa in giro: mi sentii sprofondare. Neanche se avessi voluto avrei trovato Sonia, a meno che non si fosse fatta avanti lei.
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