19. Obbligo o verità

"Sai perché sei qui?"
"Perché mi ci hai portato." 
Si sedette, massaggiandosi le tempie: "Due anni e mezzo. Ho aspettato due lunghissimi anni e sei mesi interminabili che tu facessi un mezzo passo falso!"
"Cosa?" 
Se mi trovavo in quella situazione era per via della sua proposta bislacca: vai a fare il barista al Caesar, scopri con chi ha a che fare Sonia, aiuta la polizia, guadagna e sei libero. Credici, babbuino.
I miei denti però trattennero con qualche scricchiolio la sfuriata: rimasi miracolosamente incollato alla sedia. Dovevo lasciare che fosse lui a illuminarmi perché avevo il cervello ridotto a un minestrone.

"Ti ho dato la libertà con un nuovo nome, una nuova casa e città, una nuova identità, 'Mike'... una nuova vita, insomma. Invece che tenerti qui, a portata di mano. Pensavo: Questo qui non apre bocca, aspettiamo che si rilassi e diamogli pure la maniera per farlo. Facciamolo sentire protetto e libero. Tornerà indietro, prima o poi. Non hai idea di quanto tempo e denaro mi sei costato fino ad ora, dei dispiaceri che mi hai causato... Non credi che sia venuta l'ora di ripagarmi per tutto quello che mi hai tolto?"
"Wo-wo-wo, frena! Che stai dicendo?" I miei occhi non si scollavano dal suo volto. Lui faceva altrettanto, faceva sul serio. Mi lasciò un attimo senza più appigli, poi la lampadina, installata nel dimenticatoio delle sinapsi, cominciò a riscaldarsi. Forse avevo capito a cosa si riferiva, anche se dare voce alla rivelazione mi costava molta più fatica di quanto pensassi. Farfugliai: "Non posso ridarti Marianne... Sei impazzito?"
"Non lei!" ruggì mortificato. Ci guardammo in cagnesco per un po', fino a che Paul si schiarì la voce.
"La mappa."

Due parole insignificanti che mi avevano rovinato l'esistenza e la relazione con Simon. Ritornai con la mente al giorno in cui me le sbatté in faccia per la prima volta. Non potevo crederci. Che il tempo si fosse fermato?
"Ma che cosa c'entra? Un conto è se ti avessi ostacolato nelle indagini del falsario a cui mi hai detto di stare alle calcagna. L'ho fatto? No! Non so come aiutarti. Non so di che parli e, soprattutto, credevo che questa storia fosse un capit-"
"Raccontalo a tua nonna! Se te l'ho chiesto è perché c'entra eccome! Ora mi sono stancato di aspettare, perciò farai come ti dico io o non uscirai più da qui."

La nota dolente. A quel punto era d'obbligo che saltasse fuori una spiegazione plausibile, anche per me, che stavo per impazzire e morire ignorante.

La verità, la pura, sola ed unica, incontestabile verità, era che non sapevo nulla della mappa che voleva Simon (insomma, poteva usare Google maps, ma censuravo ogni fantasticheria su come l'avrebbe presa qualora l'avessi accennato). E glielo avevo detto fin dal primo interrogatorio che fu, vediamo un po'... Due anni e nove mesi prima. Ci conoscevamo già da tre mesi, ma non in termini giuridici. Eravamo conoscenti a distanza e l'unico tassello a tenerci buoni fu Marianne.

Ripensandoci, non ho mai avuto un buon occhio per le donne. Sonia, Marianne... Due ragazze – senza nominare le precedenti, perché tutto sommato sono state innocue in confronto – che mi si sono scaraventate addosso senza avere l'intenzione di rimorchiarmi. Era pessimo istinto, credo. E il cattivo gusto della sorte nel farle capitare nel posto sbagliato con il povero disgraziato sbagliato.

Come Sonia, anche Marianne era comparsa nella mia vita correndo, ma fu assai più gentile e aggraziata: mi fulminò con un sorriso raggiante per zittirmi, quando si sedette di fianco a me, allo stesso tavolino, sempre in un bar. Si avvolse il capo con uno scialle e si tolse il cappotto, rabbrividendo ancora di più nell'umidità autunnale. Dopo neanche mezzo minuto sfilarono, piuttosto di fretta, tre uomini, ombre aguzze tra i passanti, che la cercavano con l'ansia alle costole. Passati che furono, lei mi rivolse la parola con una voce da elfa: "Adesso penserai male di me."
Incantato dalle onde bionde dei suoi capelli, che si sollevavano sul petto accompagnandone la ricerca d'aria, non riuscii a mentirle. Feci di tutto per trattenerla, ignaro del pericolo che correvamo. Furono di nuovo le sue labbra umettate di rosa a rivelarmi che la diva che mi stava accanto non era frutto della mia immaginazione: "Mi sono messa in un bel guaio e temo che, sedendomi qui, tu sia già terribilmente coinvolto..."
Allora ero bravo a fare il cascamorto e non mi faceva paura niente: "Calma, prendiamo qualcosa dentro, ti va? Qui fuori, senza niente addosso... E se sono dentro a un brutto affare, meglio sapere con chi gioco, che dici?"
Mi scrutò con quei suoi occhi scuri, increspando un lieve sorriso che fuse tutti i pochi ingranaggi funzionanti della mia coscienza. La accompagnai all'interno, portandole il cappotto grigio scuro e offrendole un cappuccino in uno dei tavoli più circondati da avventori. Per aumentare il senso di protezione. Erano le cinque e mezza di un pomeriggio di novembre e il tempo era parecchio incerto.

"Mi stanno cercando."
"Questo lo vedo," bisbigliai, imitandone la postura rilassata e lo sguardo disinteressato.

"No, vedi, la situazione è molto più complicata di quanto tu possa immaginare..."

Alzò un sopracciglio per lasciarmi intendere quanto bastava da quell'affermazione e per farmi trarre le dovute conseguenze. "Quanto a te..."

"Reed."

"Piacere, Marianne. Quanto a te, Reed, mi dispiace tanto, ma non avevo altre vie d'uscita e al momento ho agito d'impulso."

"Intendi dire che, avendoti incontrato e appoggiato per pochi minuti, ora potrei essere in pericolo di vita?"

"Sì."

"Questo già lo sapevo. Passiamo ad altro: sei pericolosa? Per chi lavori? Perché ti cercano?"

Non seppe nascondere una risata calda come una cioccolata con la panna. Si tolse lo scialle dai capelli, liberando così la folta chioma.

"Meno cose sai e meglio è. Non si sa mai, la tua ignoranza potrebbe comunque aiutarti, sempre che sia ancora possibile..."
"Sei stata addestrata a rispondere così?"
Sorseggiò il resto del cappuccino e si asciugò le labbra con una salvietta.

"Sei un'infiltrata? Lavori per la polizia?"
Si ritoccò il rossetto: "Pago io."
Potevo vedere le mie domande giacere sul tavolino, vittime di un invisibile acchiappa-mosche.
"No, non se ne parla!" la seguii.

All'uscita la accompagnai a prendere il treno, strappandole un bacio. Sempre con calma: noi in pericolo? Quando mai! 

Allora non avevo veramente paura di niente. Ero l'uomo più stupido e felice della terra. Talmente tanto che, anche se non la vidi per tre settimane, continuavo a credere che tutto sarebbe andato per il meglio tra di noi.
Fino a che una sera proposi di andare al cinema a tre amici di vecchia data e, pagati i biglietti, mi diressi con loro a fare la coda per lo smistamento. Ed ecco, l'apparizione che mi lasciò imbambolato.

"Ti senti bene Reed?" mi chiese Malcom, i cui occhi chiari mi misero un po' a disagio per la sincera preoccupazione che vi leggevo.
"Forse ho le traveggole."

"Eh, certo... Chi hai visto? La Madonna?" La finezza di Alan mi rincuorò un po', ma il suo braccio attorno al collo pesava come un tronco di pino. E il suo maglione sfregava contro il mio collo in una maniera talmente fastidiosa che dovetti sciogliere l'abbraccio fraterno: "Che razza di lana è? Fa un prurito micidiale!"
Mi aveva persino fatto dimenticare la causa di quella riunione di aggiornamento sui miei occhi. Fu Donny, taglio a scodella, naso schiacciato e occhiali, a ricordarmelo in un lampo: "Avete visto la bionda là davanti? Altro che Madonna..."
Gli confiscai le lenti, nel timore di sognare a occhi aperti: era in piedi tra la folla, in fila per entrare nella sala in cui avrebbero trasmesso una commedia romantica che non mi diceva niente. Io ero lì per la fantascienza e l'avventura!

Arricciai il naso per il disgusto: per una sera potevo anche sopportare a denti stretti... Salutai la mia compagnia accampando la scusa della dissenteria improvvisa, mi fiondai nel bagno il tempo necessario perché i miei amici – che già facevano fatica a trattenere le lacrime – entrassero in sala senza vedermi, e corsi di nuovo in biglietteria.

Esasperai la cassiera dalla dentatura equina e dal colletto rigidamente abbottonato con mille domande, descrizioni, moine e complimenti abbozzati, pur di strapparle l'esatta posizione di Marianne. Purtroppo non c'era spazio di fianco, ma dietro sì, più o meno.

Entrai che il film era appena iniziato, assieme ad altre quattro persone. Perciò nessuno prestò molta attenzione alle mie mosse. Quando raggiunsi la mia fila, la Q, mi accorsi che esattamente dietro a Marianne stava una coppia di teenager. Riuscii a convincere il ragazzo nerd a fare scambio con me, tanto era sempre vicino al suo amore. Ne guadagnò i miei popcorn e un bicchiere di caramelle gommose. Un ottimo affare.
A dieci minuti dall'inizio del film sussurrai il suo nome. Fece finta di nulla. A fianco a lei un tizio si schiarì la voce e capii l'antifona: muto dovevo stare.

Attesi la pausa, che arrivò dopo due ore di noia abissale. Tutti sembravano colti da risate isteriche, di quelle che ti lasciano senza polmoni, io invece non sentivo più le dita dei piedi da quanto scalpitavo.

Finalmente la mia bionda preferita si alzò e si fece largo per raggiungere l'uscita. Due minuti e imboccai la stessa porta. Percorsi il corridoio fino al bagno, pensando di farci comunque una visitina. L'odore di urina stantia rafforzò la mia risoluzione a impiegarci mezzo secondo. Entrando non trovai anima viva nell'antibagno, cosa che non mi insospettì, ma mi lasciò un po' a disagio. Avevo infatti notato tre paia di scarpe, visibili dalle fessure sotto le porte smeraldine dei gabinetti. Tutti della sala horror?

Aprii la porta dell'unico cubicolo libero e rimasi con la bocca spalancata. Marianne era seduta a gambe incrociate sulla tazza e teneva in mano l'iphone, puntandomi lo schermo illuminato in faccia. Nelle note mi aveva lasciato due ordini perentori:

Zitto.

Chiudi immediatamente.

Non fiatai e mi sigillai con lei tra le quattro pareti di cartongesso.

Per comunicare scrivi sul cell. Avvicinati a me e voltati verso la porta.Telecamere e ficcanaso ovunque...

Obbedii, pescando lo smartphone e cominciando a digitare, dopo aver scartato tutti i messaggi goliardici lasciati dal trio:

Che ci fai qui?

Che ci fai tu! Non parlarmi durante il film. E neanche dopo. Vai subito a casa o in un bar, non cercarmi.

Torsi il collo per vederla. Era furiosa, preoccupata, spaventata. Aveva gli occhi lucidi per la tensione: non mi stava mentendo. Le accarezzai una guancia e mi sorrise. Cominciai allora a sbottonarmi i jeans.

Che fai?

Pipì e co.

Corrugò la fronte, incredula. Io accennai con il capo agli altri cubicoli. Si sarebbero insospettiti se non facevo nulla. E poi, perché tutti i water erano occupati, proprio quella sera e in quel momento? 
Marianne si morse il labbro sempre più preoccupata.

Fidati.

Le lanciai uno sguardo carico di ottimismo e le feci segno di mettermi le mani attorno al collo. Passai le sue gambe sul mio torso e sollevai il coperchio della tazza con una mano. Invitai Marianne ad appoggiarsi ai bordi in punta di piedi e a fissare il soffitto, se si vergognava. Io no, non avevo paura di niente allora... Calai i jeans e mi sedetti sullo spazio che rimaneva. I boxer erano ancora al loro posto e io avevo avuto la mia piccola vendetta sulla biondina, che, da come vedevo, non amava essere presa in giro.

A fianco a noi, il rumore dello sciacquone e della porta che sbatteva. Meno uno. 

Respiravo a fatica, accovacciato più che potevo per lasciare il resto dello spazio a Marianne, in modo che anche lei si acquattasse perché non si vedesse la sua testa da sopra la porta. I suoi capelli mi sfioravano il naso, le sue braccia tremavano per la tensione. 

Erano passati cinque minuti da quando avevo abbandonato la fila Q, lei doveva rientrare senza di me, per non far insospettire i sospettosi a cui voleva darla a bere...
Anche il secondo cubicolo si liberò, poi venne la volta del terzo: eravamo soli. Tirai su la mia dignità e uscii a controllare che fosse veramente così. Via libera. Le feci segno di sbrigarsi e ci separammo. Io giù a prendermi da bere, lei di nuovo in sala, a recitare. Non mi guardò più, ma riuscii a scorgerne le guance infuocate.

Al bancone stavo aspettando pop corn e coca cola quando sentii una presenza massiccia alle mie spalle. Mi voltai con l'intenzione di farla arretrare. Incrociai invece lo sguardo porcino di Simon, che all'epoca non conoscevo, e lo avvertii: "Amico, arriva anche il tuo turno, non c'è bisogno di fare pressione."
Mi spiattellò davanti al naso il distintivo. Déjà vu?

"Ispettore Simon Martel. Ho fretta."

Non guardava me, ma il cassiere, che sbiancò.

Gli feci largo, attonito: serviva sfoderare il titolo per un po' di mais soffiato?

"Mi faccia vedere cosa tiene là sotto, ragazzo," disse al giovane che non sapeva se restare o sparire nella notte. Da come mi parve di capire dai discorsi successivi, era coinvolto in alcune operazioni di riciclaggio.
Mi voltai in direzione delle scale che mi avrebbero portato alla sala dove c'era Marianne.

"Dove credi di andare?"

La voce era dell'agente.

"A finire il film."

"Lo farai un'altra volta. Ora è in corso un'operazione e il film è stato interrotto, nessuno può muoversi finché non lo dico io."

Mi accorsi solo allora degli altri poliziotti sparsi per il locale, tutti in borghese ma con lo sguardo vigile, e della mia mano stretta attorno al coltellino svizzero che tenevo sempre in tasca.

Allora vivevo un po' nel torbido, ero un ignorante e, come ho già detto, non avevo paura di niente. 
Mi inchiodai sulle scale, con un solo pensiero che si faceva eco nella mia testa: non avevo chiesto il numero a Marianne.


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