Capitolo tre - Tradimento

Quando Reven riprese conoscenza, nella piazza regnava il caos. La gente gridava di paura: le madri stringevano a sé i loro figli, alcuni uomini correvano impazziti, altri se ne restavano fermi con un'espressione vuota in volto.

Tutti sembravano profondamente in lotta con se stessi, incerti se considerare le parole di quel giovane, misero mortale che aveva deciso di sfidare Dio o se continuare a seguire la voce persuasiva di Uhr che li distoglieva da quella blasfema esibizione di pensiero.

Tutti sembravano indecisi, titubanti, sospesi su un sottile e invisibile filo, e quell'esitazione era il segno che le parole di Reven in fondo avevano fatto centro.

Un paio di donne erano accovacciate accanto a lui e lo scuotevano, cercando di farlo riprendere. Sul loro viso c'era un sottile velo di preoccupazione e Reven si meravigliò di tutto quell'interesse nei suoi confronti.

Si mise a sedere, piano, con la testa che sembrava volergli esplodere; poi afferrò una mano tesa verso di lui e si alzò in piedi. Le gambe lo reggevano a stento, vittime di tremiti implacabili, ma cercò di non badare al dolore che gli ottenebrava i sensi.

Si guardò intorno. Qualcuno doveva averlo portato giù nella piazza mentre era incosciente e la scalinata su cui aveva tenuto il suo discorso ora brulicava di uomini in divisa grigia e blu. Erano Agenti di Controllo, armati dell'immancabile astaluna.

Reven sentì un brivido lungo la schiena. Diverse volte aveva visto multare e trascinare via persone innocenti, colpevoli di un'azione impulsiva o di un pensiero difforme; ma adesso era tutto diverso. Stavolta erano lì per lui.

Qualcuno doveva averlo tradito, qualcuno aveva avvisato i Funzionari. Ma a Reven non importava: sapeva fin dall'inizio che sarebbe andata a finire così.

Il suo sguardo indugiò sugli strumenti che gli Agenti di Controllo brandivano fieri e altezzosi. Le sottili asticelle di metallo scintillavano a ogni loro movimento e il contrasto con le minuscole mezzelune azzurrine sulla loro sommità, al termine di un piccolo segmento snodabile, ricordava l'avanzare delle onde del mare sotto al sole di primavera. Ma erano vere e proprie armi, quelle; capaci di collegarsi al contatto, di identificare le loro vittime e provocare delle reazioni sedative dolorose come nient'altro.

Reven rabbrividì ancora una volta. Aveva sentito dire che i colpi delle astelune fossero qualcosa di terribile, di indescrivibile, ma cercò di calmarsi e di non pensarci. Se si fosse lasciato trascinare via senza protestare, forse gli Agenti di Controllo gli avrebbero risparmiato quell'ulteriore sofferenza.

Uno degli uomini, l'unico a indossare una divisa tutta grigia, strillò qualcosa in tono autoritario e fece un paio di passi avanti. Era Yersha, il Comandante degli Agenti dello Shedir, celebre per i suoi modi arroganti e violenti.

Sul viso di Reven comparve un sorriso amaro. Il caso sapeva essere davvero bastardo, se quell'uomo si era ritrovato a passare nei dintorni del suo Quartiere proprio nel momento in cui qualcuno l'aveva denunciato ai Funzionari.

«Scappa, ragazzo» bisbigliò una donna accanto a lui, gli occhi sgranati dalla paura.

Reven però non si mosse. Sarebbe stato impossibile ingannare gli Agenti di Controllo: non v'era gesto capace di sfuggire ai loro sguardi, e dove non arrivavano i loro sensi c'era l'aiuto onnipresente di Uhr, tant'è che in gergo erano chiamati "gli Occhi".

Yersha, poi... Mai si sarebbe fatto scappare un Profanatore del genere. Ovunque Reven sarebbe andato, alla fine i suoi uomini l'avrebbero trovato comunque. Il ragazzo non poteva far altro che affrontare a testa alta ciò che l'aspettava, tenendo a bada la paura.

Yersha avanzò ancora verso la piazza agitando un megafono, l'incedere autoritario e la consueta espressione di dispotica arroganza stampata sul volto.

«Bene, bene» esordì la sua voce amplificata. «Pare che qui vi divertiate a pronunciare e a prestare ascolto a idiozie blasfeme: qualcosa che mai dovrebbe accadere.»

La folla si immobilizzò e ammutolì di colpo, concedendogli tutta l'attenzione e la visibilità che pretendeva. Soddisfatto, l'uomo continuò a parlare.

«Come potete pensare di compiere un atto così irrispettoso? Come potete pensare di ribellarvi al vostro Dio? Colui che veglia su di voi, che mantiene la pace, che nutre per voi un infinito e ineguagliabile amore?»

Nessuno osava parlare. Reven si guardò intorno, frastornato, e trattenne un moto di rabbia al pensiero che gli uomini come Yersha erano Funzionari di Uhr, persone favorite dal mondo e circondate dal benessere che era stato invece tolto a quelli come lui. Come potevano sapere cosa significasse lottare per sopravvivere in una realtà in cui bambini innocenti vivevano nella miseria? Come potevano rendersi conto di quanto quella situazione fosse così atroce e ingiusta, se loro stessi contribuivano a mantenerla saldamente in piedi?

Gli Agenti di Controllo non conoscevano il dolore che ogni giorno attanagliava le viscere di Reven da quando era venuto al mondo, e se l'avevano conosciuto avevano deciso di dimenticarlo, trasformandosi negli artefici della rovina che un tempo loro stessi avevano temuto.

«Voi non siete degni di contraddire la parola di Uhr!» proseguì Yersha. «Voi non siete altro che minuscoli puntini insignificanti, incapaci di comprendere le azioni di Dio ma troppo orgogliosi e arroganti per ammetterlo. Che cosa credevate di fare? Quale traguardo bramavate di raggiungere? Farvi notare? Suvvia, che cosa ridicola!»

Il Comandante scoppiò in un'insopportabile risata, fastidiosamente amplificata dal megafono che stringeva tra le mani.

«Qui non si scherza. Uhr esige rispetto. Come vi permettete di bestemmiare colui che vi ha dato tutto ciò che avete e di cui godete? Colui che vi ha donato la vita che voi esibite come se fosse una cosa certa, come se vi fosse dovuta e appartenesse a voi soltanto. Massa di stolti senza fede, né cervello! Proprio non riuscite a capire quanto Uhr vi ami, quanto Egli si prenda cura di voi e vi protegga dal Male.»

«Siete voi, il nostro male» avrebbe voluto gridare Reven, ma la voce non seppe uscirgli.

Yersha prese a camminare in circolo con passi sicuri, in attesa che qualche anima pentita tra la folla denunciasse i responsabili delle eresie che erano state pronunciate. La gente confabulava, confusa, e la vista di Reven cominciò pian piano a offuscarsi di nuovo. Il ragazzo si sentiva vittima di un'atroce stanchezza fisica e mentale.

«Sapete bene perché siamo qui» riprese l'uomo, voltandosi verso gli altri Agenti di Controllo. «Prenderemo i colpevoli di questo scempio. Ma, sapete, siete davvero tanti e non ho voglia di perder tempo a cercarli con l'astaluna. Mi auguro che qualcuno di voi abbia la lucidità mentale di indicarmeli.»

Non aver paura, Reven. Presto sarà tutto finito, sarai con me. Io ti aiuterò.

Il ragazzo sobbalzò. Si guardò attorno, le gambe che tremavano senza sosta, e attese di essere vigliaccamente smascherato.

In piazza, tuttavia, regnava il silenzio più assoluto. Si poteva udire solo il lento, nervoso incedere di Yersha, che continuava a girare in tondo. Nessuno si tradì guardando Reven, coperto dalla folla silenziosa che con suo enorme stupore lo stava sostenendo.

«So che Uhr vi sta parlando. So che vi sta dicendo di facilitare il nostro lavoro, e vi consiglio di ascoltarlo. Segnalare i Profanatori alle autorità è il primo passo per aiutarli a ritrovare Uhr e renderli consapevoli del suo amore. Inoltre, se continuate a starvene lì impalati e muti, saremo costretti a multarvi tutti e a ricorrere a metodi, diciamo, meno pacifici. E poi mi basta attivare l'astaluna per scovare i Profanatori: coprirli è del tutto inutile. Non siate stupidi: approfittate dell'opportunità che vi sto dando e parlate. Chi lo farà verrà premiato.»

Yersha si fermò per qualche secondo, stuzzicando minaccioso l'impugnatura dell'astaluna che portava alla cintola, ma la gente continuava strenuamente a tacere.

«Allora? Qualcuno mi dica chi è stato!» sbottò poi, i primi segni di rabbia sul volto tirato.

«Ragazzo, va' via da qui!» sussurrò una voce all'orecchio di Reven.

Lui si guardò intorno. Un uomo, lo stesso che l'aveva interrotto e contestato durante il suo discorso, gli teneva una mano sulla spalla con fare paterno. La sua espressione era di fiero sostegno, ma una scintilla nei suoi occhi tradiva una paura profonda.

Ovunque attorno a lui la sua gente sembrava combattuta tra angosce e timori, sensazioni che conosceva fin troppo bene, e qualcosa di diverso che iniziava a farsi strada nel petto di ognuno, insinuandosi là dove il malsano individualismo al quale erano sempre stati abituati cominciava pian piano a retrocedere, spinto dalle parole di Reven.

Era solidarietà quella che si poteva leggere sui loro volti stanchi e spaventati: un forte e inaspettato sentimento di unione che era riuscito a legare quella folla di persone sole, vittime di un mondo che si nutriva della rivalità nella quale erano avvezze a sopravvivere, a destreggiarsi con irrinunciabile egoismo.

Ma che cosa stava facendo? Si comportava da codardo proprio adesso, e per giunta con le persone che gli stavano mantenendo la loro lealtà? Stava rischiando di mettere in pericolo quella stessa gente a cui aveva affidato i suoi segreti, le sue idee, la sua vita.

«Chi è il colpevole?» ripeté per l'ultima volta il Comandante.

«Sono io.»

A Reven sembrò che la sua voce provenisse da un altro corpo. Fece un passo avanti e la folla, stupita e irrequieta, creò un varco attorno a lui. Yersha lo fissò con ribrezzo e gli si avvicinò a passi superbi.

«E così questo moccioso, da solo, è la causa di tutto questo disordine?» fece incredulo.

Gli Agenti di Controllo ridacchiarono, mentre la piccola folla rivolgeva loro sguardi supplichevoli e al tempo stesso disgustati.

Reven rimase immobile al suo posto, fiero e a testa alta, nonostante il suo corpo fremesse dal desiderio di scappare.

«Sì, sono io» ripeté, beffardo.

Ormai era fatta. Fuggire dalle proprie responsabilità era inutile: avrebbe accettato ciò che Uhr aveva in serbo per lui, che fosse stata morte o salvezza. Era spossato: la testa gli girava forte, la vista sembrava non voler più tornare a fuoco e gli occhi bruciavano dalla stanchezza.

Yersha lo raggiunse, il rumore degli stivali sulle pietre del selciato che scandiva ogni terribile attimo. Impugnò l'astaluna, ne premette un pulsante e azzittì la folla con una mossa decisa del braccio. Davanti a Reven, l'arma vibrò ed emise un suono acuto, e la mezzaluna si accese di una luce rossa.

«È vero. Sei tu, dunque. Il Profanatore.»

«Sì.»

«Sei tu che hai osato ripudiare la parola di Uhr, che hai osato rinnegarlo. Tu hai provato a infettare la mente di questa gente, a fuorviarla con i tuoi discorsi dettati dal Male e a convincerla delle tue idee blasfeme. Tu, razza di manipolatore, sei indegno di Uhr! Sei indegno del dono della vita, sei indegno di colui che ogni giorno ti protegge dal Male di cui tu sei portatore!»

«Siete voi, il nostro male!» urlò finalmente Reven a voce più alta che poté, riservando a Yersha il suo migliore sguardo di disprezzo. La folla emise un sottile boato di approvazione che il giovane Profanatore accolse come il più grande dei doni.

Il Comandante iniziò a fremere dalla rabbia: le gote gli divennero scarlatte, le labbra aguzze si irrigidirono e una vena gli pulsò violenta su una tempia.

Afferrò Reven per una spalla e lo scosse con forza.

«Che Uhr possa punirti nel peggiore dei modi per le assurdità di cui oggi si sporcano le mie orecchie. Tu non sei degno di predicare una giustizia che non comprendi.»

«Perché, voi lo siete?» sbottò Reven, senza riuscire più a controllarsi. «Voi vi ritenete degni di parlare di giustizia, ma vivete sulle spalle di un popolo che muore di stenti. Credete davvero che seminando il panico tra la gente che dite di proteggere otterrete il nostro rispetto? Pensate che campare a discapito delle persone con cui dovreste condividere la vostra vita vi renda superiori, e vi crogiolate in questa vostra squallida idea di superiorità così a lungo da dimenticarvi di non essere i soli al mondo che sono degni di vivere!»

«Stai zitto, stupido ragazzino!»

«Voi non avete idea di che cosa sia la giustizia! Giustizia è prima di tutto accettare di non essere migliori degli altri, trattare ognuno come un pari e non come qualcuno di inferiore o di ostile! Giustizia significa comprendere che siamo tutti uguali ma allo stesso tempo siamo unici e meravigliosi nella nostra individualità. Giustizia significa difendere questo sottile confine che se da una parte ci separa come individui, dall'altra ci unisce come uomini. Significa tutelare, e non segregare: la giustizia dovrebbe proteggere ogni singolo uomo, anziché sopprimerlo per imporre un'unica massa di idee astratte e inconsistenti!»

«Non parlare di cose che non conosci!»

«Come potete pensare che questa vita sia giusta? Come fate a fidarvi delle parole di un dio così lontano dalla giustizia? Come riuscite a uccidere?»

Reven, è tardi ormai. È inutile, non ti ascolterà più nessuno. Presto sarai con me e capirai.

«Come potete essere fieri di aver condotto un uomo a morire solo perché i suoi pensieri non coincidevano con i vostri? Come riuscite a inseguire un dovere che vi impone di umiliare e calpestare una persona come voi, come fate a rimanere indifferenti davanti a uno sguardo colmo di paura?»

«Basta, basta!» esclamò Yersha furibondo. «Sta' zitto, lurido Profanatore, e consegnami il tuo giracrediti. Tanto non ti servirà, nella Dimora della Luce!»

«Potete farmi quello che volete. Potete multarmi, portarmi via tutto ciò che ho, potete uccidermi, ma sarà inutile. Anzi, sapete cosa vi dico? A me non importa più nulla di guadagnare crediti sulle spalle dei miei fratelli. Io non voglio trarre profitto da questo. Ho diciassette anni solo da pochi mesi e sono già stanco di dover contare ogni giorno i miei debiti e di scontarli con subdoli crediti ottenuti gettando fango sulle mie idee e sui poveri disgraziati come me!»

Reven si strappò il giracrediti dal polso e lo gettò a terra con indignazione, ai piedi di Yersha.

«Come osi...» sibilò lui, i denti stretti e le tempie gonfie dall'ira, ma il ragazzo lo ignorò ancora una volta.

«E io dovrei osannare un dio che permette tutto questo? Che pretende rispetto ma non è capace di offrirne, che ci dona la vita ma poi richiede un prezzo troppo alto per poterla mantenere, che ci pone in un mondo pieno di persone del tutto simili a noi per poi esortarci a sopravvivere di egoismo, anziché di unione, armonia e solidarietà!»

Il colpo arrivò dritto all'addome, preciso e spietato.

Reven cadde in ginocchio e si piegò in due dal dolore, immobile, il fiato spezzato. Qualcuno gli si avvicinò e lo tenne fermo, probabilmente un altro Agente di Controllo, e l'astaluna scese ancora una volta su di lui. Stavolta mirò dritta al contatto, dietro all'orecchio destro.

La mezzaluna metallica vi fece presa, vibrò di una lieve luce azzurrina e Reven non fu più in grado di capire alcunché: ovunque era solo un immenso, insopportabile gelo che prese il sopravvento sulla sua mente e sui suoi pensieri. Si sentiva la testa trafitta da miriadi di schegge di ghiaccio che continuavano a ferirlo, mentre un bianco abbacinante gli riempiva la vista e il corpo non gli rispondeva più.

Non riuscì a comprendere quanto fosse durato, né a ricordare se aveva urlato o se lo straziante silenzio della sua mente aveva avvolto tutto ciò che lo circondava. Seppe soltanto di aver provato in un unico atroce momento tutto il dolore del mondo, di averlo sentito dimorare nella sua mente come un parassita inespugnabile.

Inspirò forte, trattenendo a stento lacrime di rabbia e di dolore, e rimase rannicchiato a terra con la testa tra le mani, del tutto incapace di muoversi.

La folla strillò, scossa. I metodi imposti da Uhr, nonostante fossero scorretti e irrispettosi, erano pur sempre contrari alla violenza, e non capitava tutti i giorni di vedere un Funzionario perdere le staffe e scagliarsi su un ribelle, soprattutto se si trattava di un ragazzino. Reven stesso aveva visto utilizzare l'astaluna una sola volta in tutta la sua vita, su un uomo adulto che aveva cercato di uccidere un Agente di Controllo.

Il ragazzo sorrise amaro tra sé. A quanto pareva, le sue parole valevano quanto le gesta di un potenziale assassino.

La paura prese il sopravvento: urla sempre più forti riempirono la piazza, così intense e laceranti che neanche i gesti minacciosi di Yersha riuscirono a placarle.

Reven avvertì degli spostamenti d'aria accanto a sé e pensò che presto sarebbero fuggiti tutti, lasciandolo da solo nella piazza deserta ad attendere la propria morte. Solo che le grida non si affievolirono, né la piazza sembrò spopolarsi.

Nonostante i suoi sensi fossero ottenebrati dal dolore e dallo stordimento che il colpo di astaluna gli aveva donato, Reven capì.

Non erano urla di terrore quelle che agitavano l'aria attorno a lui. Erano grida di sostegno, di vicinanza, di protesta. Erano grida di ribellione.

«Non è giusto!»

«Questo è abuso di potere!»

«È solo un ragazzo!»

«Andatevene via e lasciateci in pace!»

Reven si sentì scuotere. Qualcuno lo chiamò, lo scrollò per le spalle, lo voltò per verificare che stesse bene. Lui non riuscì a distinguere i volti, né le voci, ma seppe che in fondo non era poi così solo.

Yersha si frappose subito tra Reven e i suoi soccorritori, li allontanò scuotendo furioso la sua astaluna e strillò un paio di ordini isterici ai suoi Agenti di Controllo. Con molta probabilità, progettava di arrestare o come minimo multare l'intera piazza.

«Quanto a te» bofonchiò a mezza bocca, rivolto a Reven, «ci seguirai alla Dimora della Luce più grande dello Shedir, dove mi impegnerò perché Uhr ti riservi una sorte particolarmente dolorosa. Non c'è pace, né speranza, per i Profanatori come te.»

Reven non ebbe neanche il tempo di alzare lo sguardo vuoto sul Comandante che due Agenti lo tirarono su, tenendolo per le brac­cia, e iniziarono a trascinarlo via.

Non si ribellò. Non aveva neanche la forza di camminare, e se non fosse stato per gli Agenti che lo sorreggevano sarebbe caduto a terra. Tutto ciò che riuscì a fare fu guardarsi intorno e respirare, cercando di calmarsi.

Il suo corpo era ancora scosso da tremiti dolorosi, ma pian piano il mondo riprese colore e le sue orecchie furono di nuovo in grado di distinguere i suoni.

Nella piazza dove Yersha l'aveva umiliato e arrestato, ora imperversava il caos: gli Agenti di Controllo correvano ovunque, tentando di fermare le proteste che erano esplose in una vera e propria rivolta. Alcuni uomini, i più temerari, si erano fatti coraggio e si erano scagliati con ferocia contro di loro, brandendo sicuri le loro armi improvvisate per difendersi dalle astelune: bastoni, rami, pietre, qualche vecchio coltello dalla lama arrugginita.

Reven tentò di opporre resistenza, divincolandosi tra le braccia dei due Agenti con tutte le forze che riuscì a racimolare, ma la presa delle loro mani era salda e il loro incedere rapido, e presto il ragazzo venne portato lontano dallo scontro.

Il senso di frastornazione non l'aveva ancora abbandonato del tutto: si sentiva debole, la testa e il contatto pulsavano più che mai e il punto in cui Yersha l'aveva colpito con l'impugnatura dell'astaluna faceva ancora molto male. Ma, se avesse potuto, Reven si sarebbe gettato nella mischia senza esitazione.

Avrebbe voluto combattere al fianco delle persone che l'avevano sostenuto, avrebbe voluto lottare per difendere il loro coraggio, avrebbe voluto morire così, e non in un luogo lontano e terribile come la Dimora della Luce, solo e dimenticato dal mondo, scontando una pena che non meritava.

Era ciò che l'attendeva. Chiuse gli occhi, scoraggiato: chissà a quante altre atrocità sarebbe dovuto andare incontro, chissà quanto altro dolore avrebbe dovuto sopportare, prima di trovare un po' di pace in una morte ingiusta.

Era giovane. Troppo giovane per una fine del genere.

Si ritrovò a pensare a suo fratello, colpito a morte da un Agente di Controllo durante l'ultima protesta sugli Omaggi alimentari. Strinse con violenza i pugni, sfogando la rabbia e la costernazione: il suo assassino doveva essere uno degli uomini che in quel momento stavano placando la ribellione in piazza.

Pensò a sua madre, a suo padre. Pensò a suo fratello minore e a sua sorella di appena undici anni. Sapeva che avrebbero sofferto molto la sua mancanza, ma sapeva anche che avrebbero compreso le sue ragioni, che avrebbero capito.

Gli Agenti che lo scortavano si fermarono, in attesa dell'arrivo di Yersha, e Reven si ritrovò a cercare i suoi familiari tra la folla in lontananza, rimpiangendo di non averli potuti stringere a sé un'ultima volta.

Fu quasi lieto di non scorgerli da nessuna parte. Incontrare i loro volti disperati l'avrebbe solo fatto sentire ancora peggio di quanto si sentisse già.

Senza rendersene conto, cercò con lo sguardo anche Darvan. Nonostante tutto, gli voleva un bene dell'anima e sperava che non gli fosse accaduto nulla di male.

Gli Agenti ridacchiarono e Reven li guardò interrogativo.

«Guarda cos'hai fatto!» fece uno di loro.

«Questo è il risultato delle tue bestemmie» disse l'altro, indicando con il capo un punto nella piazza. Reven si volse, strizzò gli occhi stanchi e ancora annebbiati e quando si rese conto di ciò che stava accadendo rischiò di cadere, sconvolto.

L'imponente quercia secolare che troneggiava sulla sommità dei gradini di pietra era in fiamme. Un fumo rossastro si stava espandendo ovunque, dalla piazza fino alle case più vicine: presto il suo odore acre raggiunse anche Reven, che trattenne un conato di vomito e si portò le mani alla bocca.

La piazza brulicava ora di Agenti di Controllo in ritirata: la folla in rivolta sembrava essere svanita, ma le raccapriccianti urla di terrore si sentivano ancora, alimentate dalle fiamme che lambivano i rami della quercia e miste al lento, inesorabile scricchiolio del fuoco che ardeva consumando il legno vivo e annerendo le pietre dei gradini.

«No!»

Uno straziante senso di colpa si fece strada nel petto di Reven: si sentiva responsabile di quello scempio, si sentiva una vittima ma al tempo stesso un ignobile carnefice.

Intravide il sorriso di trionfo di Yersha, che si avvicinava in testa alla sua schiera di Agenti, e desiderò con tutto se stesso di spezzarlo per sempre.

Intravide anche un volto molto più familiare, impegnato a discutere col Comandante in maniera quasi cordiale, e ancora una volta ricevette un duro colpo.

Darvan sorrideva stancamente, mentre Yersha gli stringeva la mano. Reven incontrò il suo sguardo colpevole, supplichevole, e seppe senza dubbio che era stato lui a tradirlo.

Lo fissò indignato, ma presto l'incredulità, la delusione e un tetro sconforto prevalsero sulla sua ira.

Forse le sue parole erano state capaci di toccare l'animo della sua gente, ma non quello delle persone a cui teneva di più.

Il suo migliore amico. A nulla erano valse le migliaia di parole scambiate con lui da quando erano soltanto bambini, gli attimi di felicità che avevano condiviso o le difficoltà che avevano sempre affrontato insieme, sostenendosi a vicenda. Reven avrebbe dato la vita per lui, ed era terribile constatare come invece Darvan aveva contribuito a distruggere la sua.

Quella follia non era servita a nulla. Chissà quante sofferenze aveva causato, chissà quanti altri uomini sarebbero stati arrestati e mandati a morire senza pietà, per colpa sua.

Forse Darvan aveva ragione. Forse era davvero tutto inutile. Forse ribellarsi sarebbe servito solo a generare altro dolore, altre morti ingiuste. Forse l'unica via possibile era quella della rassegnazione, abbandonando ogni speranza di un futuro migliore.

In fondo cosa potevano fare loro, miseri esseri viventi e mortali, contro l'onnipotenza di un dio capace di distruggerli con la stessa facilità con cui li metteva al mondo?

Reven si guardò intorno. La sua gente era lì, lungo la strada: riconobbe molte delle persone che l'avevano sostenuto in piazza. Lo stavano seguendo, lo stavano salutando.

Vi erano per lo più uomini, ma si contava anche un numero piuttosto consistente di donne, molte delle quali tenevano in braccio i loro figli. Avevano l'aria stanca, alcuni zoppicavano ed erano vestiti di stracci, ma nonostante tutto il volto di ognuno era animato da una speranza nuova.

Un forte strattone gli fece abbassare lo sguardo.

Una bambina bionda di sei o sette anni si era avvicinata a lui e si teneva stretta al suo braccio. Lo guardò con gli occhi lucidi: tracce di lacrime versate segnavano il suo bel viso tondo, illuminato da un sorriso fiducioso.

«Kejra! Vieni qui!» la richiamò una donna, preoccupata.

La bambina dedicò ancora per qualche istante i suoi occhioni azzurri a Reven, poi gli mise qualcosa in una mano e tornò correndo dalla sua mamma.

Yersha raggiunse i due Agenti che sorreggevano il ribelle e li guardò interrogativo.

«Vi avevo detto di portarlo via! Portate via il Profanatore, subito, mentre io mi occupo di questa gente!»

Altri due Agenti si unirono alla scorta di Reven e si avviarono verso i confini del Quartiere, gettando un'ultima occhiata sdegnosa alla folla radunata lungo la strada.

Reven li seguì a fatica. Guardò anche lui la sua gente per l'ultima volta, ma lo fece con malinconia e costernazione. Donne, uomini e bambini ricambiarono il suo sguardo, dandogli quel po' di coraggio e conforto che gli occorrevano.

Aprì la mano in cui Kejra gli aveva deposto il suo piccolo dono. Era un fiore, piccolo e ingenuo, dai petali violetti.

Reven inspirò a pieni polmoni la fresca, piacevole aria primaverile e riuscì finalmente a sorridere. Adesso tutto acquistava un senso.

Quel fiore era così puro, così semplice, ed era per lui, per lui soltanto. Era l'inno della natura alla vita. Come ci si poteva rassegnare a convivere con il dolore e con la paura, davanti a un gesto così bello? Come ci si poteva rassegnare alle lacrime sui volti innocenti e indifesi come quello di Kejra?

Ora Reven ne era convinto. Rassegnarsi era la vera sconfitta: finché ci sarebbe stato anche un solo bambino capace di donare un fiore a un condannato a morte, Uhr non avrebbe mai vinto.

C'era ancora speranza, in fondo. La sua era stata una pazzia, ma Reven sapeva di averci provato, e mai avrebbe smesso di lottare.

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