9 - UN PIANO PERFETTO... PIU' O MENO

La casa di Takeru era... normale. Non aveva nulla di giapponese. Era una semplice casa moderna che si diramava su due piani.

Quando entrai ci togliemmo le scarpe e lui mi porse delle pantofole rosa che probabilmente erano di una delle sue sorelle. Sorprendentemente erano del mio numero.

«Sai, pensavo che... non so, fosse diversa.» Le pareti erano di un bianco candido, il pavimento era in laccato grigio. Il mobilio aveva un design particolare che mi sembrava molto attuale. Sfumava tutto dai toni del bianco, al grigio e il nero. Non aveva nulla che rimandasse alle sue origini giapponesi e questo un po' mi deluse. «Sì, diversa» ripetei, sovrappensiero.

«Ti prego, non dirmi che pensavi di trovare pavimenti in tatami, shoji e fusuma come divisori delle stanze... il kotatsu al posto del tavolo normale e magari vedermi dormire su uno scomodo futon.» Si appoggiò a braccia incrociate contro il tavolino in vetro lungo il corridoio d'entrata e mi guardò con aria divertita, cercando di mascherare il sorrisetto sornione.

Totalmente colta in fallo. Come un bambino con le mani affondate nella nutella. «Hai appena infranto i sogni di una piccola otaku» borbottai goffamente sentendomi così stupida da non riuscirlo a guardare in faccia.

Bene, Rob. È l'occasione buona per ucciderlo e nascondere il suo cadavere. Così non potrà dire in giro questa piccola e imbarazzante parte di te.

«A che diavolo stai pensando con quell'espressione? Se sorridi così mi inquieti.»

Ritornai in me abbandonando i miei pensieri da serial killer e mi guardai nuovamente attorno. «Non c'è nemmeno un... che so... Buddha infilato da qualche parte?»

Rise. «No, spiacente. Se vuoi però mio padre nel suo studio ha una vasta collezione di katane.» Si divertiva a rigirare il coltello nella piaga. Terribilmente crudele.

Mi coprii la faccia con le mani accusando tutta l'umiliazione della gaffe. «Dai, smetti. Sei cattivo!» frignai sentendo le guance scottarmi contro i palmi.

Lo sentii ridere e poi mi diede un buffetto in testa. «Su, vieni. Da questa parte.» Mi indicò le scale e lo vidi arrossire mentre le imboccava prima di me. «Sei la prima ragazza che porto in camera mia.»

«E non otterrai nemmeno del sesso gratis... che disfatta, eh?» lo punzecchiai.

Si voltò di scatto e mancò poco che scivolasse giù dalle scale. «Ma ti sembrano cose da dire? Stupida!» Si passò una mano nel ciuffo e andò ad aprire una delle innumerevoli porte del secondo piano, lasciandola aperta e facendomi segno d'entrare.

Quando lo sorpassai aveva ancora le guance rosse e mi parve trattener il respiro.

«Permesso» dissi, facendomi strada conscia che fossimo soli.

La camera di Takeru era tutta sui toni viola, che avevo scoperto essere il suo colore preferito. Aveva poster di cantanti appesi ai muri, una chitarra viola elettrico in un angolo e una tastiera musicale sul suo supporto con tanto di sgabello. La tastiera sembrava aver un posto d'onore all'interno della stanza, visto che era posizionata in bella vista, occupando gran parte dello spazio.

Rimasi sorpresa da tutta quella mole di cd, vinili, e altrettanti oggetti legati al campo della musica ma cosa che più mi sorprese fu la presenza di una quantità infinita di microfoni professionali, con tanto di filtri per rendere i suoni più limpidi. Mi continuai a guardare attorno come se mi avessero appena spinto in una porta spazio-tempo e fossi appena stata catapultata in qualche dimensione parallela. In realtà, non ci vedevo nulla di strano nel coltivare una simile passione, anzi, mi affascinava parecchio. «Ti piace cantare?» riuscii finalmente a chiedere staccando lo sguardo da tutti gli strumenti sparsi per la stanza.

«Sì, anche suonare.» Si grattò la nuca e lasciò vagare lo sguardo nella stanza. «Vu – vuoi sentire qualcosa?»

«Oddio, sì... ti prego.» Gli afferrai energicamente il braccio scuotendolo con troppa enfasi, tanto che il viso iniziò ancora una volta ad assumere le colorazioni più assurde di rosso. Deglutendo ripetutamente si staccò da me barcollando.

«Sappi che oltre alle mie sorelle... sei il mio primo vero pubblico» farfugliò mettendosi seduto dietro la tastiera. Con movimenti precisi sistemò alcune cose, accostò il microfono e sbirciò lo spartito sussurrando qualcosa che non compresi. Quando sembrò pronto a iniziare, picchiettò le dita sul microfono per sentire la qualità del suono emesso. «Questa l'ho composta io. È una canzone d'amore... la mia preferita.»

Guardandomi attorno cercai un appiglio dove appoggiarmi per poterlo ascoltare comodamente ma lo sguardo mi cadde solo sul letto. Era matrimoniale, semplice; di certo non un futon.

Mi ci sarei potuta sedere sopra con disinvoltura, sperando che non ne fosse infastidito altrimenti l'alternativa era quella di restare in piedi come uno stoccafisso aspettando la fine della canzone.

Optando per la prima soluzione, sicuramente meno pudica, mi misi a sedere sul bordo con le mani strette tra le ginocchia. Non sapevo bene il perché, però mi emozionava l'idea di sentirlo suonare; forse perché sembrava tutto molto intimo, era una concessione speciale che mi faceva e io mi sentivo estremamente fortunata.

Proprio in quell'istante le dita di Takeru si iniziarono a muovere sui tasti e una musica dolce riempì la stanza e il mio cuore. Fu travolgente e d'impatto, così tanto che sentii la necessità di chiudere gli occhi e lasciarmi trasportare dalla melodia.

Quando iniziò a cantare gli occhi presero a pizzicarmi e fui costretta ad asciugarmi velocemente le lacrime per non sembrare una di quelle ragazzine smielate che si commuovono per nulla.

Aveva una voce così delicata e amabile da trapassarmi cuore e anima. Mi sentivo totalmente sopraffatta.

La porta si aprì di scatto. «Stai ancora provando "Everytime I say You"?» Una ragazza fece capolino bloccandosi sulla porta non appena notò la mia presenza. Divenne tutta rossa e si coprì la bocca con entrambe le mani. «Oh, mio Dio... scusa, Onii-chan... credevo fossi solo!»

Il mio animo otaku gongolò silenziosamente per quel vezzeggiativo fraterno.

Takeru si sollevò dallo sgabello e corse verso la sorella spingendola fuori senza mezze misure. «Mizuki quante volte ti ho detto che devi bussare?» gridò chiudendole la porta in faccia e appoggiandosi al legno con la schiena. Quando mi guardò aveva il fiatone e le guance rosse. «Mizuki è la più piccola di casa... i – io sono il penultimo» disse, come se fosse un'adeguata spiegazione.

Risi. «Sai, vi somigliate molto.»

Takeru scosse energicamente la testa. «Proprio no. Lei è troppo... bé, troppo di tutto a dire il vero.» Iniziò a sistemare le cose e un po' restai delusa. Il nostro speciale attimo era sfumato così velocemente che non ero riuscita ad assaporarlo a pieno. «Quindi hai pensato a come fare per bypassare la questione del coinquilino maschio?» chiese, cambiando totalmente discorso.

«Ma certo. Basterà che divento un ragazzo, no?»

Takeru inarcò un sopracciglio. «Ci son diversi problemi a riguardo.»

«Tipo?»

Tossì, sbottonandosi la camicia della divisa del college per non morire soffocato. «Tipo i capelli. E poi... anche, ecco... que - quelle» M'indicò il seno e chinò lo sguardo iniziando a trafficare con gli spartiti. «Que – quelle sono decisamente poco maschili.»

Mi abbandonai sul letto con le mani sulla pancia e seguii i suoi movimenti con lo sguardo mentre si adoperava con frenesia a mettere via una pila di fogli. «E come posso fare? Pensavo bastassero dei vestiti larghi.»

Chiuse con uno scatto un cassetto e sollevò lo sguardo per assicurarsi che non lo stessi prendendo in giro. «Sei seria, Rob? Okay che noi maschi non siamo particolarmente svegli... ma non così tanto. In queste condizioni sei troppo... ehm, femmina... per poter essere scambiata per un ragazzo.»

Mi rizzai a sedere di scatto. «Allora mi taglierò i capelli» dissi, decisa.

Takeru sgranò gli occhi così tanto che per un attimo temetti che gli sarebbero schizzati fuori dagli occhiali trapassando le lenti. «Cosa? No! I capelli, no, Rob! Mi rifiuto. Non te lo permetterò.» Il tono di voce gli era diventato stridulo, quasi disperato.

«Ma tanto mi ricresceranno.»

Si lasciò cadere sul letto al mio fianco, voltandosi verso di me. Allungò una mano e mi afferrò una ciocca di capelli. «Diamine, Rob... odio questa idea.» Lisciò la ciocca tra le dita. «Son così belli che è un peccato tagliarli. Dici che non può esserci nessun escamotage?»

«Credo sia inevitabile.»

«E se non lo convinci? E se decide di non prenderti nemmeno in prova? Avrai fatto tutto per niente.»

«Non ci voglio nemmeno pensare. Se lo facessi mi prenderebbe il panico perché non ho un piano B da usare qualora fallisca il piano A.»

Lasciò andare i miei capelli e sospirando allungò la mano verso il soffitto, chiudendola a pugno come se volesse acciuffare la luce del neon. «Comunque per il seno ci sono delle fasce contenitive.»

Mi girai verso di lui pizzicandogli un fianco. «E tu come lo sai? Depravato!»

Rise. «Mia sorella Etsuko fa arti marziali. Lo trova comodo e quando lo indossa sembra piatta come una tavola da surf.»

Sì, forse potrei farcela. I capelli tagliati, una tuta larga, una fascia contenitiva, un cappellino che mi copra un po' il viso... bé, forse non è così impossibile, no?

Forza, Rob. Non può sempre andare male, no?

Quando in gioco non c'era il tuo culo era molto più facile fingersi positivi. Sospirai. «Sì, me lo dovrò comprare.» Raccolsi le gambe al petto e guardai il suo profilo mentre continuava a muovere nell'aria la mano come se seguisse una musica che solo lui riusciva a sentire.

«Sei stato cattivo però» borbottai.

Si girò di scatto verso di me. «Perché?»

«Dopo che Mizuki è andata via... non mi hai più fatto sentire il resto della canzone.»

«Ho pensato che... bé, si fosse rotta la giusta atmosfera.»

Restammo un attimo a fissarci prima che allungassi la mano verso il suo viso. Chiuse d'istinto gli occhi mentre gli carezzavo una guancia. Nel farlo gli sfilai gli occhiali. «Sai, Eve ha ragione. Sei molto bello senza occhiali, Take.»

«Ma – ma cosa dici, stupida?» Risucchiò l'aria con un fischio e si coprì la faccia con il braccio. La sua timidezza mi faceva apprezzare quel lato tenero che io non ero mai riuscita ad avere e che spesso avevo cercato nelle figure che mi stavano attorno, ricadendo sempre su scelte sbagliate.

«Giuro! Sei davvero molto carino.» Indossai i suoi occhiali cercando di mettere a fuoco la stanza. «Certo che ti manca proprio un sacco, eh!»

Levò il braccio da sopra la faccia e si voltò a guardarmi. «Vedo tutto appannato senza.» Allungando la mano la mosse alla cieca fin quando non mi sfiorò il mento con due dita. Le lasciò risalire delineando una scia con i polpastrelli che mi passò prima sulle labbra e poi sul naso, fin quando non raggiunse gli occhiali. «So – solo i contorni» farfugliò sfilandomeli e nell'indossarli si mise a sedere sul letto.

Restammo un po' così: immobili, assorti nei pensieri, distanti. Mi sentivo stanca di tutti quei problemi più grossi di me, stanca di quella ricerca forsennata del posto che un giorno avrei chiamato casa. Sembrava una ricerca a vuoto, tanta fatica per stringere in mano il niente.

«Potrei indossare degli occhiali finiti, sai?»

«Uhm?» Takeru si voltò. Aveva tutta l'aria di essersi appena materializzato lì e non saper affatto di cosa stessimo parlando.

«Per fingermi maschio, no?»

«Ah, già... giusto.» Aveva lo sguardo assente, sembrava altrove con la testa.

Lo afferrai per la camicia strattonandolo con forza sul letto. Si lasciò cadere nuovamente al mio fianco con una strana aria corrucciata che lo faceva sembrare lontano mille anni luce. «Ehi, è tutto okay?»

«Pensavo.»

«Il giappo-genio che è in te ha qualche idea?»

Un sorriso gli passò veloce sulle labbra per spegnersi subito dopo. «No, è che-» si bloccò, sollevò lo sguardo, scosse la testa e sorrise. «Insomma... un conto è farlo per un'ora... ma come farai per giorni e mesi? Lo vedo complicato.» Non aveva torto, anche se ebbi la sensazione che non fosse ciò che realmente voleva dirmi.

«In realtà la vedo solo come una soluzione temporanea. Se mai il proprietario dovesse accettare la convivenza, continuerei comunque a cercare altro.»

Le mie parole sembrarono rassicurarlo. Con un breve gesto si sistemò meglio gli occhiali e poi mi fece la lingua. «Bene. E ora spogliati pure, Rob!»

«Cosa?» squittii, sentendo il viso incandescente. «Che diavolo dici?»

Mi afferrò per la vita trascinandomi più a sua portata e con un sorrisetto malizioso stampato in viso iniziò ad armeggiare con i bottoni della mia camicia della divisa.

«Takeru ma che fai?» gridai paonazza.

A pensarci bene, non avevo minimamente calcolato il fatto che fossimo soli, a casa sua, sul suo letto. E in fondo... bé, anche lui era un ragazzo.

Mi diede una pacca a mano aperta in piena fronte e rise. «Stupida! Non volevi provare dei miei vestiti?» Le guance rosso vivo smascheravano il suo mal riuscito bluff.

Espirai rumorosamente e mi portai una mano al petto. Mi aveva preso alla sprovvista. Per un solo e brevissimo secondo lo avevo guardato con occhi diversi dal solito. «Mi hai fatto prendere un colpo, sai?»

«Era per vendicarmi del sesso gratis che non avrò.» Mi pizzicò il naso e alzandosi dal letto raggiunse l'armadio. Aprendo un'anta tirò fuori una tuta nera, molto semplice. «Prova questa. È la più grande che ho. Sta grande anche a me» disse, porgendomela.

La strinsi tra le dita e non potei fare a meno di portarmela al viso per annusarla. «Ha il tuo profumo.»

«Stu – stupida! Ti sembrano cose da dire?» Si sistemò gli occhiali. «Adesso esco, così ti cambi.» Si defilò dalla stanza come un razzo, lasciandomi sola nel suo mondo dalle sfumature viola.

Restai per qualche altro istante seduta sul letto poi mi sfilai maglia e gonna della divisa e subito imbucai i pantaloni della tuta. Erano comodi, caldi, larghi al punto giusto e sapevano di lui. Era confortante. Quella tuta mi dava l'idea di averlo vicino e questo mi sarebbe stato di gran sollievo al colloquio. Takeru aveva su di me uno strano effetto calmante.

Strinsi la felpa al petto coprendo lo striminzito reggiseno che avevo indossato quella mattina. Era di un rosa pallido che ricordava tanto un lavaggio andato a male, ma la cosa più imbarazzate erano i centinaia di pulcini disegnati sulla trama della stoffa. Di sicuro non era un abbigliamento intimo degno di qualche sessione erotica con il proprio partner. A meno che non abbiate partner dai gusti particolari.

Tenendo la felpa ancorata addosso, iniziai a sbirciare qua e là dando sfogo alla mia curiosità. Stavo per abbandonare la mia inopportuna indiscrezione quando mi bloccai davanti a una foto di famiglia che Takeru teneva in un bel quadretto sulla scrivania. Quattro sorelle, lui e i genitori. Erano felici, belli, sereni. Sui loro volti c'era stampato un sorriso sincero e smagliante.

Da quando non avevo una foto con la mia famiglia? Non lo ricordavo nemmeno più. A fatica ricordavo il sorriso dei miei genitori.

Papà sempre chiuso nel suo studio. Mamma sempre con quello sguardo rancoroso e un bicchiere pieno in mano.

Non c'era più una famiglia. Non c'era più da molti anni.

Bussarono. «Hai fatto?» La porta si aprì con un leggero cigolio facendo sbucare la faccia di Takeru. Mi voltai di scatto con ancora la foto tra le mani e sussultando lasciai cadere la felpa. Il reggiseno con i pulcini stagliò in bella vista. E addio reputazione.

Takeru si coprì la faccia con le mani. «Cazzo, Rob. Sei ancora nuda? Cazzo. Cazzo.» Indietreggiò sbattendo contro lo spigolo della porta; per non cadere si sorresse alla maniglia e con l'altra mano per coprirsi meglio gli occhi si strappò involontariamente gli occhiali che schizzarono in terra. Grugnì. «Non potevi avvisare che ancora non eri pronta?»

«Ma se non mi hai nemmeno dato il tempo per risponderti.» Rimisi la foto al suo posto. «E poi mi ero incantata a guardare la foto della tua famiglia. Sai, è bello come siete affiatatati e come vi volete bene.» Avevo una voce così malinconica che sperai di non contagiarlo con la mia tristezza. Raccolsi la felpa e la indossai andando a recuperare gli occhiali.

Quando lo raggiunsi si aggrappò alla porta come un gatto troppo vicino a una vasca piena d'acqua. «Ti sei coperta?» Aveva ancora le mani sugli occhi.

«Coperta? Ma non mi avevi detto che in cambio di questa tuta avremmo dovuto far sesso?»

«Ma – ma – ma co – co – cosa stai dicendo?» Si agitò, ancora con il volto coperto.

Risi. Gli tirai via le mani a forza e gli aggiustai gli occhiali sul naso. «Sei proprio un maniaco, te l'ha mai detto nessuno?»

«Stu - stupida» farfugliò con tutto il viso rosso di vergogna.

«Che dici? Sembro un ragazzo?» Allargai le braccia platealmente per mostrargli come mi stava la tuta.

«G – già... sembri pro – proprio un ragazzo. Sì.» Sembrava la stessa accondiscendenza usata per tenersi buoni i bambini capricciosi.

Abbassai lo sguardo sulla tuta e ghignai. «Bé, mi manca solo un calzino.»

Takeru alzò la testa e mi guardò confuso. «Un calzino? Per cosa?»

Ah, mio piccolo e ingenuo giappo-coso! Sei stato troppo a lungo nel mondo di Verginelandia per una mente perversa come la mia!

Abbassai la mano indicando l'inguine e sghignazzai non appena il suo viso si accese di rosso intenso. «Per il pacco, ovvio.»

«Mi rifiuto.»

Lo agguantai per il collo. «Avanti, Take. Mi serve per simulare un pene. Renderà tutto più realistico, no?»

«Zitta! Stai zitta! Non voglio sentire» iniziò a gridare lui, tappandosi le orecchie. «Non voglio sapere.»

Lo sbatacchiai furiosamente e crollammo sul letto. «Dammi un tuo calzino, maledetto giappo-minchia.»

«Maledizione, Rob! Non avrai un mio calzino per mettertelo lì.» Cercò di divincolarsi ma lo bloccai sotto di me. C'era un motivo se i bulli se la prendevano con lui: era un tipo deboluccio. Tra i due ero sicuramente più forte io.

«Tiralo fuori. Forza.»

«No. Mi rifiuto. Mi fa schifo anche solo il pensiero.»

«E questa la chiami amicizia? Dammelo. Dammelo subito.» Lo cercai di bloccare per i polsi mentre si divincolava peggio di una biscia. «Dammelo! Ne ho bisogno. Dammelo subito.»

«Ragazzi, volete qualcosa per mer-» la voce di Mizuki si affievolì di colpo e la porta si richiuse con un tonfo. «Scusa, Onii-chan. Scusa. Scusa. Non ho visto niente. Giuro. Niente. Non pensavo avresti perso la tua verginità proprio oggi» la sentimmo urlare al di là della porta.

Takeru si mise a sedere di colpo e sbraitò qualcosa in giapponese che mi parve tanto una bestemmia o una maledizione. Quando si accorse che gli ero a cavalcioni si sollevò dal letto facendomi cadere in terra. Iniziò a muoversi avanti e indietro per la camera come una trottola, come se qualcuno gli avesse infilato del pepe su per il sedere.

«Take, è tutto a posto?»

«Zitta. Zitta, stupida. Zitta. Zitta. Zitta.» Aveva il viso così rosso che probabilmente di lì a poco sarebbe andato in autocombustione. Respirava come un treno. «Tu – tu... da – dannazione! Tu!» M'indicò con l'indice spiegato, quasi minaccioso.

«Sì, io. Sono proprio io... la tua amica... Robin O'Neil.» Sollevai le mani arrendendomi a quello sguardo stralunato. «Che hai? Ti serve un bicchiere d'acqua?»

Imprecò in giapponese. «Gua – guarda che sono un ragazzo anche io, eh!» sbottò, fissandomi furente. Le guance rosse gli pulsavano a ritmo del respiro affannato. «Lo sai che – che non sono abituato alle ragazze.»

«Lo so, lo so. È anche per questo che ti faccio i dispetti.» Gli feci la lingua. «E poi sei più carino quando ti arrabbi.»

Takeru si lasciò cader a sedere sul letto. Si allentò la cravatta della divisa e sospirò. «Non è divertente, Rob.» Sembrava essersi calmato e prosciugato di ogni forza. Il viso era ancora rosso ma respirava regolarmente.

Mi sollevai da terra e lo raggiunsi. «E chi ha detto che scherzo?» Gli rifilai un bacio a schiocco sulla guancia e corsi fuori dalla sua camera alla ricerca di Mizuki.

Chissà se quella merenda era ancora disponibile.

Il mio spirito otaku gongolava all'idea di mangiare qualche snack tipico dei loro posti.

Mochi, warabimochi, avocadooza, melonpan, anpan, chinsuko, dorayaki, takoyaki, dango, dango bocchan, manju, pretz, yatsuhashi, tè matcha, pocky... aspettattemi! Sto arrivando!

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