7 - ANCORA TU

«Signorina, da questa parte.»

«Sì, venga qua, Signorina.» Un uomo di mezza età si sbracciò attirando la mia attenzione.

Impuntai i piedi bloccandomi di scatto, con una pila di piatti sporchi in una mano e due impattati da servire nell'altra. «Eccomi, ditemi pure.» In realtà avrei voluto gridargli addosso qualche improperio e cacciarli dal locale a suon di calci ma erano clienti del Joily e come da contratto dovevo sorridere e annuire. Peccato che i tre piccoli stronzi mi continuassero a chiamare da oltre un'ora per le motivazioni più inutili, solo per il gusto di farmi perdere tempo al loro tavolo o vedermi impazzire per richieste assurde e irrealizzabili.

Stai tranquilla, Rob. Fai un respiro, sorridi, annuisci. Sorridi e annuisci, cazzo!

«Questa posata è sporca.»

«Mi pare scontato visto che l'ha usata proprio ora per mangiare la tagliata che le ho servito.» Feci un profondo respiro. «Vuole che gliela cambi lo stesso?»

Non aveva nemmeno senso dato che teoricamente avevano terminato la loro cena.

Il tizio annuì, lanciandomela svogliatamente sulla pila dei piatti sporchi. Mi defilai con un grugnito portando prima le due portate calde a un altro tavolo e imbucandomi nella cucina subito dopo. «Una forchetta per il tavolo dodici.»

Nate, il mio collega, sorrise e sospirò. «Ancora quei tre maniaci?»

Quella sera eravamo in turno io e lui. Olive era di riposo.

Tra tutti, lui era il veterano del Joily, cinque anni alle spalle di onorato servizio. Aveva istruito tutti gli altri camerieri meno che me. Io ero stata sin da subito assegnata a Olive, infatti, fare un turno con Nate era strano dato che ci incrociavamo davvero poco: faceva il turno di giorno.

Con un brontolio mi appoggiai al bancone e chiusi gli occhi. «È tutta questa sera che mi tartassano. Non c'è una sorta di tacita regola dove i clienti a un certo punto devono levarsi dalle palle?»

Colpendomi con una frustata dello strofinaccio che teneva in mano, scoppiò a ridere. «Vorrei che fosse così ma... ahimè, quando consumano possono restare tutto il tempo che vogliono.»

Per aver trentatre anni non li dimostrava affatto. Alto, massiccio, con spalle larghe e fisico prorompente. Ero quasi sicura facesse palestra con una certa regolarità. Era di bell'aspetto e questo spiegava le ricche mance che riceveva durante il suo turno di mezzogiorno.

L'aiuto cuoco mi passò la posata pulita che fui tentata di non riportare al tavolo dei clienti molesti. «Bene. Allora vado.» Mi bloccai sulla soglia della cucina, indicando Nate con la forchetta. «Ma qui lo dico e qui lo confermo: se mi chiedono qualche altra assurdità, li mando a fare un giro a Vaffanculandia.»

Uscii da lì sentendolo ancora ridere. Sembrava un tipo a posto quando non gli prendevano i suoi cinque minuti di protagonismo e impartiva ordini a destra e a manca.

Raggiunsi il tavolo dei tre maleducati il più lentamente che potei. «Ecco qui la vostra posata. Mi scuso per avervi fatto attendere.» Posai la forchetta vicino all'uomo brizzolato che ancora non mi aveva staccato gli occhi di dosso e sorrisi. «Volete ordinare qualcos'altro? Un caffè... o un dolce, magari. Abbiamo delle torte fatte in casa che sono davvero deliziose.»

Se gli parlo ancora una volta con questo tono di voce, vomito arcobaleni!

Sorridi e annuisci, Rob. Sorridi e annuisci.

Il brizzolato scosse la testa e lasciò schioccare la lingua sul palato. «Niente dolci» biascicò con un tono impastato dall'alcol che gli fece mangiare la maggior parte delle parole. Allungò una mano pizzicandomi il grembiule e mi sorrise sornione. «Però non mi dispiacerebbe assaggiare te.»

Rabbrividii. Non c'era niente di peggio di un vecchio bavoso ubriaco che ti guardava con aria lasciva scoccandoti battutine volgari.

Strinsi il pugno sentendo le nocche scrocchiare e la vecchia me spintonò nella mia testa per aver la sua fetta di scena. Se gli avessi spaccato il naso probabilmente sarebbe scoppiato un casino.

No, Rob. Se ti comporti come un tempo ti ritrovi licenziata in tempo zero.

Feci un sorriso tirato che son certa sembrasse più una smorfia demoniaca. Il Satana rinchiuso nel mio animo scalciava per fargli ingoiare i denti uno ad uno. «Spiacente... non posso proprio accontentarla.»

Una mano mi risalì lungo la gamba, la sentii soffermarsi sulla fascetta delle calze autoreggenti e in cuor mio imprecai contro il Capo per l'indecente divisa che dovevamo indossare io e Olive. Perché quella dei maschi doveva essere così semplice e pudica mentre noi sembravamo appena uscite da un maid caffè? «Sicura che dopo la chiusura non vuoi divertirti un po' con noi?» domandò uno dei tre, quello con più barba di Gandalf.

Pizzicandogli la mano gliela scostai dalla gamba. Un fremito di rabbia mi costrinse a serrare i denti e la frase che gli rivolsi uscì con un tono davvero poco amichevole: «Sicura come la morte.» Feci un lungo respiro e aggiunsi con più gentilezza: «E poi, dopo la chiusura sono così stanca che non ho nemmeno le forze per trascinarmi in un letto. Sono praticamente un cadavere che cammina.»

Racimolai i piatti e le posate nella speranza che quel gesto gli facesse capire che era ora di alzarsi e andare a fanculo altrove ma i tre rimasero ancorati lì con l'aria più beata del cosmo così afferrai la pila e feci per andarmene. Nell'esatto istante che mi voltai, sentii una mano calarmi a pacca sul sedere. «Offrici un caffè, ragazzina» disse uno dei tre, scoppiando subito dopo a ridere sguaiatamente.

La scena sembrò rallentare di colpo, come in slow-motion: il colpo mi fece sobbalzare e i piatti iniziarono a sfuggirmi di mano. Ero certa che si sarebbero sfracellati in terra ma Nate sbucò all'improvviso, posando una mano sulla pila indifferente al fatto che i piatti fossero sporchi e si sarebbe imbrattato tutto il palmo.

Con l'altra afferrò il brizzolato a una spalla e gli fece un sorriso da brivido.

Avete presente quei sorrisi che ti riescono a mettere una paura fottuta? Quelli che sembrano sorrisi ma in realtà sono solo le soglie dell'inferno sceso in terra? Ecco, Nate fece proprio uno di quelli, spiazzandomi totalmente fra l'altro. Non l'avevo mai visto così arrabbiato e al contempo sorridente. Metteva paura anche a me. E diamine, ce ne vuole per farmi paura.

«Se vuole glielo offro io un caffè» bisbigliò, lasciando la presa di scatto e guardandoli uno ad uno.

I tre si alzarono in contemporanea e dopo aver ringraziato abbondantemente per la cena si defilarono alla cassa per pagare. Nessuno pretese il caffè.

«Stai bene?» mi chiese un attimo dopo, sollevando la mano dai piatti che ora non rischiavano più di cadere. Si pulì contro il grembiule.

«Penso di sì.» Avrei dovuto ringraziarlo ma il mio orgoglio si sentiva calpestato e surclassato. Era una parte della vecchia me che a fatica riuscivo a mettere a tacere. Ero una tipa testarda e molto presuntuosa in certe situazioni e odiavo essere aiutata. Non amavo sentirmi debitrice. «Me la sarei potuta comunque cavare da sola» aggiunsi stizzita voltandomi verso la cucina.

Lo sentii sghignazzare alle mie spalle mentre si incamminava a sua volta nella mia stessa direzione. Non lo avevo ancora del tutto inquadrato ma ogni volta che facevamo servizio insieme, sembrava divertirsi un sacco in mia presenza. Forse gli stavo simpatica.

Il resto della serata sembrò andare per il verso giusto. Niente clienti molesti, niente maleducati, niente ubriachi. Tutta gente a modo che riuscì a farmi passare quelle ore velocemente e con il sorriso.

Quando andai a cambiarmi negli spogliatoi, ero stanca ma contenta.

Non sono mai stata una persona socievole, mi piace la solitudine e il silenzio; infatti il Joily è la mia prima esperienza a contatto con il pubblico. Secondo Olive me la cavavo bene, secondo me era più un arrancare e fare cose a caso. Ad ogni modo, quel lavoro mi serviva.

Infilai il giacchetto, ci salutammo tutti e uscii nella via sul retro. Il Joily chiudeva sempre alla stessa ora ma Nate era l'ultimo a lasciare il ristorante. Quando faceva turno di sera si fermava a fare i conti e mi era giunto a orecchio che spesso lasciava il locale un'ora dopo la chiusura.

Il Capo aveva molta fiducia in lui, tanto che la gestione del Joily era quasi interamente sulle sue spalle.

Socchiusi brevemente gli occhi e poi li sollevai verso il cielo scuro. Era così limpido che si potevano vedere le stelle. Il freddo d'inizio dicembre però ti entrava nelle ossa, soprattutto a sera inoltrata.

Detroit era stupenda in inverno: i locali pieni di vita, le luci già appese in previsione del Natale, le strade affollate di gente festosa, i chioschi con dolciumi e souvenir.

Mi aggiravo per le vie del centro guardando dappertutto, come una bambina. C'erano sere che al ritorno a casa mi perdevo tra le bancarelle, troppo assorta nei miei sogni irrealizzabili e nelle mie speranze bruciate.

Il Natale per me era un periodo triste. Speravo sempre di passarlo in famiglia, magari a scambiarci i regali dopo aver cenato tutti insieme; e invece, erano anni che quella festa per me era diventata un giorno come un altro. Era solo grazie ad Adam se in me c'era ancora un briciolo di spirito natalizio. Era l'unico a farmi gli auguri e il regalo.

Quest'anno, così lontana da casa, chissà come l'avrei passato.

Oramai, vedere tutti quei sorrisi felici e quelle famiglie unite riusciva solo a farmi venire una stretta al cuore e l'invidia mi mangiava viva. Anche io per Natale volevo una casa calda, una tavola imbandita, gente felice e sorrisi. Una famiglia. Era questo che mi mancava.

E invece, pensa... tra poco ti ritroverai pure senza un tetto sotto cui dormire. Sei felice, Rob?

Mi incamminai lungo il vialetto e un fischio alle mie spalle attirò la mia attenzione. Sembrava il tipico fischio fatto per richiamare qualcuno. All'inizio non ci diedi peso ma quando venne ripetuto un paio di volte aumentai il passo senza voltarmi. Mi ero ripromessa che se potevo, avrei evitato i guai come la peste. Ed ero certa che quel fischio insistente, fosse proprio preludio di guai.

Non feci però in tempo a sbucare nella strada principale che la mia corsa venne arrestata.

«Ti abbiamo aspettato, dolcezza» Il brizzolato mi sbarrò la strada allargando le braccia e avanzando minacciosamente. Puzzava così tanto di alcol che nemmeno la distanza che ci separava riusciva ad alleggerire il fetore acre dei liquori che si era ingurgitato una volta uscito dal Joily. Se a tavola nel ristorante mi erano sembrati alticci, ora erano completamente ubriachi.

Gli altri due mi bloccarono da dietro, afferrandomi per la vita e spingendomi energicamente contro il muro. Cercai di allontanarli con una spallata ma quello con la barba stile Gandalf mi assestò uno schiaffo a pieno viso. «Siamo andati a farci un paio di birrette solo per aspettare te» mi sussurrò all'orecchio, stringendomi per i capelli e sbattendomi la nuca contro il muro.

Sentivo il cuore pomparmi con frenesia nel petto, la gola secca, le mani strette a pugno, l'adrenalina che mi batteva nelle orecchie fischiando come un treno. Mi morsi il labbro cercando di riprendere controllo sul mio corpo, sulla paura serpeggiante che riusciva sempre ad attanagliarmi lo stomaco.

Succedeva sempre così, ogni volta che stavo per fare a botte entravo in una sorta di trance indotto dove mi chiudevo a bolla in me stessa e cercavo di raggruppare ogni briciolo di coraggio che avevo in corpo.

Cerca di stare calma. Mente lucida. Pensa a mente lucida, Rob.

Era difficile restare lucidi e concentrati. Avrei potuto fare a botte una vita intera ma ogni nuova rissa portava con sé nuove paure e nuovi timori. Non ero mai preparata. Non si è mai preparati a una vita come questa.

Mentre il brizzolato e la brutta copia di Gandalf mi tenevano bloccata, quello che mi era sembrato il più equilibrato tra tutti e tre si slacciò i pantaloni. Passò una mano sulla testa rasata e sghignazzò. «Ho vinto una scommessa e quindi ho io la precedenza.» Si abbassò la zip dei jeans. Anche lui puzzava di alcol.

D'istinto, visto che avevo le gambe libere, ne sollevai una con tutta la forza che avevo in corpo. La scarpa si impiantò proprio al centro del suo cavallo, lo vidi accartocciarsi su se stesso trattenendosi la parte colpita e grugnendo di dolore.

Gli altri due, spiazzati, allentarono un po' la presa e fu in quello spiraglio di distrazione che sferrai una gomitata al brizzolato e mi staccai dal muro. Il barbuto strinse i capelli troppo tardi, riuscì a serrare la mano solo attorno alle punte che liberai con un leggero strattone.

Recuperando la borsa in terra schizzai verso la strada principale. Passare per quel vicolo non era mai stata una brillante idea ma mai prima d'ora mi ero sentita tanto esposta e a rischio.

La vecchia me sarebbe rimasta a massacrarli di botte finché non avessero gridato pietà, quella nuova arrancava cercando di tirarsi fuori da quel profondo letamaio in cui era scivolata.

Ero quasi riuscita a raggiungere l'uscita quando due braccia mi agguantarono sollevandomi di peso. Dalle labbra mi sfuggì un grugnito bestiale e furioso ma troppe mani mi tapparono la bocca e improvvisamente mi ritrovai sulla lercia superficie del vicolo, con tre uomini addosso a bloccarmi e la sensazione che presto mi sarebbe successo qualcosa di tremendamente spaventoso.

Ero stata sciocca. Mi ero distratta convinta di essere in salvo e invece avevo abbassato la guardia e ora non riuscivo nemmeno a sollevarmi da terra. Calciai alla cieca, liberandomi dal peso del brizzolato che si sollevò in piedi con un ghigno terrificante sul volto. L'altro, quello rasato, si sfilò con uno scatto la cintura lasciandola schioccare a vuoto. «Adesso ti puniremo per aver fatto la difficile.» Alzò il braccio in aria per colpirmi e unica cosa che potei fare fu chiudere gli occhi.

Mi avevano bloccata. Non riuscivo a muovermi. Avevo paura.

Signore, lo so che ho fatto un sacco di cazzate nella mia vita e forse nemmeno lo merito... ma ti prego. Ti prego... non farmi stuprare in un vicolo.

Il rombo di una moto spezzò il silenzio di quella notte. Aprii gli occhi giusto in tempo per veder due fari luminosi raggiungerci a velocità sostenuta. Il rimbombo dell'accelerazione sembrò il ruggito di un leone pronto a divorare le sue prede. Il motociclista sterzò di netto e facendo un testacoda andò a colpire con il posteriore il brizzolato. Il bastardo crollò in terra, rotolando contro una pila di bidoni.

Gli altri due cercarono di attaccarlo in simultanea senza però riuscirlo a colpire. Sebbene fosse a cavallo del suo mezzo sembrava totalmente a proprio agio, come se la moto stessa fosse un'estensione del suo corpo. Era come se nella sua vita non avesse mai fatto altro che quello: risse a cavallo del suo bolide.

Mi cercai di sollevare ma le gambe non ne vollero sapere così restai seduta in terra rapita da quei movimenti così agili e calcolati.

È lui. È ancora lui.

Cosa ci fa qui? Che mi abbia riconosciuta?

La ruota stridette sull'asfalto. Schivando un colpo, afferrò il sosia di Gandalf per il colletto della camicia e sbattendolo sul serbatoio della moto gli calò sullo sterno una gomitata. L'uomo crollò in terra tossendo. Era rimasto solo il rasato in piedi.

Prima ancora che si muovesse, il motociclista accelerò sul posto fino a far fumare la ruota e lo inchiodò contro il muro con il pneumatico ancora bollente tra le gambe divaricate. L'altro lanciò un grido di dolore ma si zittì subito quando venne preso per la gola. «E – era solo uno scherzo» iniziò a farfugliare come giustificazione. «Ve – vero? Di – diglielo» Mi guardò supplichevole sperando che in qualche modo lo aiutassi.

Col cazzo! Muori bastardo!

Distolsi lo sguardo rabbrividendo. Sentivo ancora le loro mani addosso e i loro corpi che mi tenevano premuta in terra. Il mi vomito raschiò per un attimo la gola. Avevo bisogno di una doccia calda per lavarmi via quella sensazione di sudicio. Il motociclista arretrò un poco liberandolo dalla pressione della ruota e lo spinse accanto agli altri due amici sul gelido asfalto. «Sparite da qui. Se vi rivedo... finirà male. Molto male... ve lo assicuro.» Fece ruggire la moto. «Intesi?»

I tre si rialzarono barcollando e reggendosi l'uno con l'altro sparirono da lì di corsa, senza voltarsi, come se avessero il diavolo alle calcagna. E forse era proprio così. Chi era quel motociclista? Non sembrava un tipo qualsiasi.

Mi frizionai le braccia, il gelo nelle ossa mi stava ghiacciando. La paura era stata sostituita dallo shock e ora non smettevo più di tremare. Avrei dovuto ringraziarlo, in una occasione simile anche la vecchia me lo avrebbe fatto, eppure non riuscivo nemmeno a parlare. L'insostenibile peso sul cuore non se n'era del tutto andato. Quella sensazione sgradevole mi era rimasta in corpo e nonostante tutto sembrasse finito, il petto continuava a farmi male.

«Sempre tu.» La voce uscì ovattata per via della solita bandana con la stampa del teschio. Si allungò sul serbatoio incrociando le braccia sul manubrio. Inclinò la testa e sembrò guardarmi, anche se dietro quelle spesse lenti non riuscivo a scorgere nemmeno degli occhi. «Ti cacci facilmente nei guai, eh?»

La frecciatina mi colpì dritta dritta nel mio orgoglio ferito. Gli scaricai addosso uno dei miei peggiori sguardi truci. «Come se lo volessi» grugnii.

Mi tese la mano guantata e la strinsi, con una certa stizza, solo dopo un lungo attimo di esitazione. Non appena fui di nuovo in piedi mi lasciò posando entrambi i palmi sul serbatoio. «Non è prudente andare in giro da sola.»

Che genio! È arrivato Capitan Ovvio a impartirmi la lezioncina.

È ironico farsi fare la paternale da un delinquente.

«Me la cavo benissimo anche da sola.»

«Oh, certo. Ho visto.»

Il viso mi andò a fuoco. «Cosa? Che vorresti dire? Guarda che potevo benissimo sistemarli da sola.»

«Ah, sì? Davvero? E come? Facendoti stuprare?»

«Prima che arrivassi tu a far la tua entrata plateale li stavo conciando per le feste.»

«Bloccata in terra? Bel modo di conciare per le feste tre ubriaconi.»

Il sangue mi andò al cervello. Quel tizio mi mandava in bestia. Era come se attingesse direttamente alla mia parte peggiore, cavandomi dai denti anche le reazioni più sgradevoli. Perché non riuscivo a stare calma e ringraziarlo semplicemente? Eppure con Takeru funzionava. Con lui quella parte di me non usciva tanto facilmente, ribollendo come una pentola sul fuoco. Com'era riuscito quel giapponesino ad ammansire quella bestia indomabile che ero?

«Ma che diavolo vuoi, eh? Ti credi figo solo perché vieni in soccorso della gente su quella moto costosa e con un bandana che ti copre il viso tipo supereroe?»

Allungò la mano guantata afferrandomi di scatto per il giacchetto e mi tirò contro la moto. Per poco non finii stesa sul suo serbatoio perdendo l'equilibrio. «Dovresti imparare le buone maniere, sai? Bastava solo un grazie.»

Diavolo, lo so! Lo so!

Feci per ringraziarlo ma poi qualcosa andò storto nella formulazione della frase: «Grazie... sì, grazie al cazzo!» gridai.

«Due volte che ti incontro e due volte che ti comporti proprio da ragazzina viziata.»

«Ma come ti permetti? Che ne sai di me?»

«Nulla e nemmeno che ci tengo. Ma una persona che non sa nemmeno ringraziare... o è troppo orgogliosa per farlo o è così viziata da non averne mai avuto bisogno.»

Entrambi avevamo alzato la voce così tanto che nel vuoto di quel vicolo rimbombavano fin quasi a formare un eco. Bisticciavamo come due che si conoscono da una vita o due amici di vecchia data.

Ma che cazzo sto facendo? Sto qui a litigare con un delinquente di cui nemmeno conosco il viso?

Sospirai, pizzicandomi la base del naso. Mi stava esplodendo un mal di testa da urlo. «Senti, Zorro in chiave moderna... non mi serve il tuo aiuto, okay?»

Sembrò ridere ma non ne fui sicura visto com'era coperto. Lasciò di scatto la presa sul mio giacchetto e accese con uno scatto la moto. «Allora direi che posso andare.»

«Oh, sì che puoi andare.» Allargai platealmente le braccia e gli feci segno di levarsi dalle palle. E lui non se lo fece ripetere, sgasò e partì senza nemmeno voltarsi. «Massì, vai. Vai, pure!» gli gridai dietro, calciando una lattina poco distante da me e prorompendo in un grugnito animalesco.

Dannazione, Rob! Ma che ti salta in mente? Eppure bastava davvero ringraziarlo e basta. Perché diavolo devi comportarti così ogni volta che lo vedi? È la seconda volta che non lo ringrazi.

Sentivo le guance bruciare.

Era come se d'impulso ad ogni nostro incontro mi mettessi sulla difensiva. Non riuscivo mai ad essere cortese. Un po' era dovuto al mio carattere, un po' perché mi rendevo conto che lui riusciva a toccare angoli di me che forse cercavo di cancellare. Sapeva far riaffiorare quella me sbagliata e che tanto volevo debellare dall'attuale Robin che ero; o che cercavo di essere.

Il punto non era quella sensazione tumultuosa che mi si agitava in petto ogni volta che lo vedevo. Il punto era che quella sensazione mi piaceva, mi eccitava. Il brivido del proibito, dello spregiudicato, del folle e corrotto. Mi sentii il viso andare in fiamme e biascicai una parolaccia a denti stretti.

Cazzo! Lo hai visto solo due volte, Rob! Solo due fottutissime volte e già ti fai questi viaggi.

Ha ragione lui, sei una ragazzina. E pure un'idiota.

Mi strinsi nel giacchetto, raccolsi la borsa e passai più volte la lingua sulle labbra secche. C'era una fiammella dentro di me che volevo smettere di alimentare. Era quella bizzarra ricerca di uomini sbagliati, perfetti delinquenti e negati nelle relazioni. Ero sempre stata la stupida Robin che correva dietro ai tizi della peggior specie. Con uno così non esisteva futuro.

Restai immobile nel vicolo per un tempo indefinito. Ripresi controllo del mio cervello solo quando il freddo iniziò a pungermi il naso fino a farmi credere che a breve sarebbe caduto. Allora mi riscossi da quei pensieri e feci dietrofront, andando automaticamente verso la porta del Joily.

Non so perché lo feci. Forse fu un movimento automatico, troppo assorta in pensieri contorti a cui non volevo dar voce.

Quando mi trovai di fronte alla porta realizzai che forse ormai era chiuso. Nate doveva essere andato via da tempo ormai. «Diamine, ma che diavolo ci faccio ancora qui?» Mollai di scatto il pomello e scossi il capo.

Ritorna in te, dannazione! Smetti di pensare a quel tizio. Smetti di fare l'idiota instabile! Torna a casa e mettici una pietra sopra!

Questione chiusa! Fine. Stop.

La porta di servizio si aprì proprio in quell'istante e Nate sbucò dall'ombra in tenuta borghese. Indossava una felpa sotto il giacchetto che, grazie al cappuccio, nascondeva la bionda chioma e parte del viso; sotto aveva dei jeans neri strappati. Il mio sguardo si concentrò su quel dettaglio come se improvvisamente i miei occhi fossero una lente d'ingrandimento. Ebbi un sussulto, uno spasmo.

Identici. Sembrano identici. Proprio come quelli indossati da lui... dal motociclista.

Ma no. No, è impossibile... il giaccone è diverso. Lui non può aver...

Trattenni il fiato e alzai lo sguardo. Anche Nate mi stava fissando con una strana espressione, indecifrabile. Quando mi prese il viso tra le mani rimasi bloccata sul posto, i suoi occhi verde smeraldo si incatenarono ai miei e mi accorsi che non stavo respirando. Sentivo il cuore battere così forte da sovrastare ogni rumore. Sembrava che in quel vicolo stesse passando un'intera banda intenta a suonare dei tamburi. «Stai bene, Rob? Che ti è successo, eh? Ti hanno fatto del male? Vuoi andare all'ospedale? Vuoi andare alla polizia?» Era così preoccupato e spaventato che la voce gli tremava.

La sua inquietudine riuscì a rilassare un po' i miei nervi tesi. Non era lui. Non poteva essere lui. Non poteva fingere così bene, no? Sorrisi per rassicurarlo ma lui non sembrò convinto. «Ti porto a casa. Aspetta qui un minuto... anzi, no... vieni dentro con me.»

Cercai di deglutire ma era come se il boccone mi restasse lì, incastrato in gola.

Non sei tu, vero? Non sei tu. Non puoi essere così vicino. Non puoi essere...

«Così vicino» le parole mi uscirono in un soffio.

«Come?» Le sue dita mi sfiorarono il labbro, erano calde perché fino a quel momento era rimasto dentro il locale.

O forse perché indossava i guanti! Parlò nella mia testa quella vocina che si stava attaccando a un flebile dettaglio solo per costruirsi milioni di castelli.

«N – niente» farfugliai senza riuscire a staccare gli occhi dai suoi. Per un attimo, in quel buio, mi sembrò arrossire.

I suoi polpastrelli sondarono ancora qualche secondo le mie labbra. «Sei ferita. Sanguini.» Dove il suo tocco mi aveva raggiunto sentivo la pelle bollente.

Non sei tu. No. Non puoi essermi così vicino.

Non puoi essere così bravo a recitare.

O così attento anche al dettaglio della giacca con lo stemma della banda.

Nate mi posò una mano sulla schiena e mi guardò con apprensione. «Torniamo un attimo nel Joily, ti disinfetto e ti accompagno a casa.»

«S – sì. Arrivo.» Mi girai verso il vicolo silenzioso.

Lui non c'era. Se n'era andato senza che lo ringraziassi. Prima ancora che potessi scusarmi per essere un'eterna stupida. Prima ancora che riuscissi a scoprire qualcosa sul suo conto.

Un cavaliere della notte, una sorta di giustiziere, un enorme punto interrogativo. Una figura misteriosa, senza identità.

Esisteva ma era come se non esistesse, c'era ma era come se non avesse una reale fisicità. Come il fumo: presente ma impossibile da agguantare; o le onde: ad un palmo da te ma pronte a sfuggirti.

«Rob!» mi chiamò ancora Nate.

Tentennai. Restai a fissarlo e lo stomaco si torse in uno spasmo.

Sei tu, Nate? Sei tu quel motociclista? O è tutto un malinteso? Una coincidenza?

Lanciai un'ultima occhiata alla strada ormai vuota.

Chissà se ci saremmo incontrati ancora. 

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