43 - MANI SPORCHE DI SANGUE

Era l'ultimo giorno al Missan prima dell'inizio delle vacanze natalizie. Lo attendevo come una bambina può attendere la vigilia per scartare i regali.

Nei corridoi si respirava aria di festa, la gente girovagava euforica anziché trascinarsi come zombie verso le proprie classi e i professori ti salutavano con un sorriso.

Anche a me. Me, la teppista.

Era proprio Natale.

«Sai, dicono che sia già tornato Sullivan a scuola.» La voce di Takeru si infilò nel mio cervello avvolto da balli e canti festosi come una freccia.

Mi voltai scaricandogli addosso la mia espressione più furente. Se il collo avesse cigolato come nei film horror mi sarei potuta ritenere soddisfatta al cento per cento. E invece no, dovevo accontentarmi della mia semplice espressione omicida. «Grazie per aver interrotto Jack Skellington mentre cantava "Cos'è" nella mia mente.»

Takeru strabuzzò gli occhi. «Che? Hai fumato merda liofilizzata prima di venire qui?»

Assottigliai lo sguardo e lui sollevò le mani per rabbonire la mia aria demoniaca.

«Pietà?» domandò, incerto.

«Bene, visto la tua uscita infelice... ora mi canterai "Cos'è" di Nightmare before Christmas.»

Rise. «Tu sei pazza.»

Lo afferrai per il colletto scuotendolo come un centrifugato alla frutta. «Ridammi il mio Natale, maledetto Giappo-Grinch!»

Takeru rantolò, afferrandomi le mani e cercando di liberarsi da quello scuotimento continuo. Era diventato paonazzo. «La – lasciami. Muoio.»

«Impossibile! Voi non morite mai. Non ho mai visto un necrologio di un giapponese qua attorno.»

Ero intenzionata a chiudere l'anno bene visto che ci saremmo rivisti a gennaio. Le intenzioni buone c'erano tutte, almeno quelle. E invece, quell'infame di Takeru mi aveva appena azzerato l'umore.

L'unico modo per risollevarlo era un bagno di sangue, la sua redenzione o vederlo saltellare per i corridoi cantando canzoni di Natale. A lui la scelta.

«Parlay» rantolò.

«E che cavolo è?» Lo scossi ancora un po' e gli occhiali gli scivolarono sulla punta del naso.

«È il codice dei pirati ne "La Maledizione della Prima Luna".»

Stavo per ridere. Mi morsi un labbro cercando di restare seria. «Mi prendi per il culo?»

«No, ma non sapevo se ne esistesse uno per i teppisti.»

«Sì, certo che esiste. Si chiama "chiudi gli occhi e stringi i denti".» Lo mollai con uno sbuffo e gli passai una mano nei capelli consapevole che lo odiava. «Ti va bene perché sono una teppista in pensione.»

Si sistemò il colletto, gli occhiali e i capelli tutto impettito, lanciandomi un'occhiata malvagia. «E per fortuna! Comunque non lo dicevo per rovinarti la giornata ma solo per metterti in guardia nel caso lo incrociassimo. Lo dicevo per te, baka

«Oh, grazie tante del pensiero Giappo-Grinch!»

Rise. «Eddai, ti ho preso anche un regalo... non sono poi così tanto Grinch.»

Mi voltai a fissarlo sorpresa. Non immaginavo mi facesse un regalo, anche se a dire il vero ci avevo pensato anche io a fargli qualcosa; inerente al mondo della musica visto che ne era così appassionato. Era l'unico a cui avevo preso un regalo. Non lo avevo preso nemmeno a Lattner ancora. «A me?»

Divenne tutto rosso e mi spintonò. «E a chi sennò? A Claiton?»

«Buon Dio! Perché questa mattina vuoi ferirmi con questi nomi demoniaci?»

«Preferiresti se ti dicessi che sta venendo verso di noi?»

Sentii un tic nervoso farsi strada sul mio viso, tanto che l'occhio mi traballò pericolosamente. Un ghigno feroce mi spuntò sulle labbra e cercando di reprimere il mio istinto omicida gli posai una mano sulla spalla. Strinsi la presa fino a stritolargliela. «No, dai... non sei così crudele, vero? Vero?»

«O'Neil! O'Neil! Mio raggio di sole!» gridò qualcuno alle mie spalle che conoscevo fin troppo bene. Mi vennero i brividi.

I miei occhi incontrarono quelli rassegnati di Takeru. «Percentuale di riuscita in caso di fuga?»

«Bassa. Molto bassa. Fatti forza e affronta il tuo cracker.»

«Si dice Kraken, idiota. Stamattina sei leggermente fissato con i pirati, eh?»

Si passò una mano dietro la nuca e sospirò stancamente. «Mizuki mi ha costretto a fare una maratona no-stop ieri sera.»

«Oh, ecco perché oggi sei un dito in culo.» In tutta risposta mi beccai una gomitata.

«O'Neil!» gridò ancora Claiton, sempre più vicino. Fingere che non esisteva, non l'avrebbe fatto sparire, purtroppo. Mi voltai per vedere l'entità del danno e lo vidi allargare le braccia sbracciandosi in mia direzione. Ci raggiunse di corsa. Sembrava star bene per essere stato pestato brutalmente. Forse gli serviva una rinfrescata. «Mio amore, mia luce divina, mia creatura magina, mio-»

«Omicida seriale?» conclusi al posto suo la frase.

«Che?» Sembrò confuso.

«Preferisci demone cannibale? O magari, picchiatrice di giovani stupidi iscritti al Missan?»

Lasciò cadere le braccia lungo il corpo. Aveva il viso pieno di lividi, il busto e un braccio ingessato fino al gomito. Sembrava reduce di una apocalisse. «Son descrizioni molto colorite della tua personalità» ammise, strappandomi un ghigno.

«Vero?»

Quando notò che continuavo a fissarlo aspettando mi dicesse per quale motivo era apparso dal nulla per infastidirmi, diventò tutto rosso e chinò il capo. «Ecco, sono venuto per dirti che... cioè... grazie!»

«E di cosa?»

Alzò di scatto la testa e per una volta, insolitamente, lo trovai carino. «Bé, ma non è ovvio? Pe – perché sei venuta in mio soccorso nonostante non c'entrassi nulla.»

«C'entravo eccome visto che eri lì per aver preso le mie difese, scemo!» Gli strizzai il naso e sorrisi. Forse qualche tratto di Lattner stava passando a me visto che era lui quello solito strizzare i nasi altrui.

Quel mio gesto tanto spontaneo però turbò – e non poco – Claiton. Lo fece incespicare nei propri passi e cadere in terra, quando sollevò gli occhi rimasi colpita da quel viso tanto rosso e quell'espressione così imbarazzata. «T – tu sei... sei...» Deglutì.

Era carino quando non faceva lo spaccone.

Mi piegai sulle ginocchia e lo fissai dritto negli occhi assicurandomi di avere la sua attenzione. «Promettimi che non farai più una stronzata simile.»

«Ma-» Gli tappai la bocca con un dito.

«Ma, un cazzo. Dillo e basta... o ti spacco tutti e quattro gli arti così magari starai buono per un po'.»

Scoppiò a ridere e si coprì con una mano la faccia. «Dannazione, O'Neil... mi batte il cuore da morire. Credo sia la prima volta che ti preoccupi per me, anche se devo dire che sei contorta, eh? Hai minacciato di farmi male... per il mio bene. Non è un controsenso?»

Roteai gli occhi pentendomi di quella cortesia appena usata. «Promettilo, Zack.» Serrò le labbra e diventò ancora più rosso. Usare il suo nome era un mezzuggio crudele, lo ammetto.

«Pro – prometto» farfugliò, gonfiando le guance e assumendo l'aria da cucciolo abbandonato. «Giochi sporco, tu.»

«Una ragazza fa quel che può.» Gli feci l'occhiolino e lui si lasciò cadere in terra allargando le braccia e scoppiando a ridere. Fu abbastanza comica la sua reazione, tanto che mi unii alla sua risata.

«Oh, Dio... aiuto! Ho bisogno di un dottore! Dottore! Aiuto, Dottore! Ho un problema al cuore... aiuto!» gridò, sollevando le braccia verso il nulla e artigliandosi platealmente il petto con la mano del braccio sano. «Questo amore mi uccide, Dottore!» Esibizionista come sempre.

Mi rialzai da terra mascherando un sorriso e Takeru scosse la testa con disapprovazione. «Lo sai che ora non la finirà più, vero?»

«Problemi suoi... mi son solo assicurata che non ripetesse una simile stronzata!»

«Sei stata gentile» ammise lui, seguendomi lungo il corridoio mentre lanciavo l'ultima occhiata a Claiton ancora steso in terra. I suoi amici lo avevano raggiunto e la sua euforia sembrava essersi triplicata. Dovevo fuggire prima di tornare sui miei passi e rimediare all'incompetenza di Sullivan abbandonandolo in un bagno di sangue.

Non sarebbe stato fortunato per due volte consecutive.

«Gentile, dici, eh? Sarà il Natale.»

«Possibile che tu sia una fan di questa festa? O magari c'è qualcosa di speciale che ti aspetta questo Natale?» domandò lui, piegandosi verso di me per farmi il terzo grado da più vicino. Gli spiaccicai una mano in faccia per allontanarlo e impedirgli di vedere il rossore che mi aveva imporporato le gote.

Colpita e affondata. Quella sera io e Lattner avremmo fatto insieme l'albero di Natale e mi sentivo stranamente trepidante.

«Zitto e cammina. Questa mattina sei portatore di sventure tu.»

«Non lo fai anche a me l'occhiolino?» mi canzonò.

Quando mi voltai gli rivolsi un ghigno crudele. «Posso farti tutti gli occhiolini che vuoi» sibilai, scrocchiando le dita e serrando il pugno.

«Magari dopo, eh? Zombie ore dieci.»

Ci voltammo entrambi in tempo per vedere l'avanzata funebre di Eve e Beth. Più che impazienti per l'imminente Natale, sembravano in procinto di partecipare a un funerale.

«È morta?» domandai a Takeru, fissando preoccupata Beth, quella più pallida delle due.

«Credo di sì. Se allungano le braccia e fanno versi strani... una botta in testa e ci diamo alla fuga, okay?» biascicò a denti stretti mentre si avvicinavano.

Eve ci raggiunse sospirando mentre teneva un braccio attorno alla vita di Beth che sembrava appena stata investita da un tram o da qualche informazione dalle conseguenze catastrofiche. Ci lanciò un'occhiata preoccupata e mettendo la mano davanti alla bocca disse, piano: «Si è confessata a Lattner.»

Oh, merda!

Oh, doppia merda!

«Oh, merda!» Sì, bé... okay. Il filtro dei miei pensieri doveva essersi per un attimo inceppato. «E – e quindi?»

Beth strinse le labbra e afferrò Takeru per un braccio. Un rantolo le uscì dalla bocca e fu divertente notare il pallore già permanente del mio amico orientale scivolare verso un cianotico pre-morte.

«Mayday! Mayday! Mayday!» rantolò, fissandomi come Jack poteva aver guardato Rose quando si era fottuta tutta la tavola lasciandolo morire assiderato.

Lo staccai dalla presa ferrea di Beth e lui si rifugiò dietro di me, spingendomi in avanti. «Vai tu... tranquilla! Se vogliono mangiare cervelli non avrai di che preoccuparti.»

Lo fulminai con un'occhiata digrignando i denti e sputando fuori la domanda in un sibilo: «Cosa stai cercando di dire stronzo di un giappo-minchia?»

Ghignò. «Non è chiaro?»

Per ripicca gli arruffai con una mano i capelli. «Zitto, baka!» Quando mi voltai verso Beth cercai di tornare seria. In realtà mi spiaceva se era stata rifiutata da Lattner, visto che dalla sua espressione non poteva essere altrimenti, ma non si poteva dire che non l'avessimo avvisata. «Come... ehm, come ti senti?»

Beth si girò a guardarmi. Aveva gli occhi così gonfi che l'unica volta che avevo visto una cosa simile era stato su un pesce Demerik in un acquario. Mi aveva fatto così pena che ero scoppiata a piangere e mio padre mi aveva dovuto portare via in braccio. Terribile. A tre anni già il mio primo trauma. «Lui ha... ha detto che...» Si portò le mani alla faccia e scoppiò ancora a piangere.

Il viso di Takeru assunse una colorazione verdognola e lanciandomi occhiate stralunate si passò più volte la mano sotto la gola, di taglio.

Cosa? Vuole che le tagli la gola?

Cristo! Lo sto traviando a questo ragazzo!

«Fai un respiro. Bé, fanne anche due.»

Beth mi strinse la mano come se stesse per partorire e nella medesima maniera di una partoriente sputò fuori due boccate d'aria.

Bene. Ora spingi! Manca poco... vedo la testa.

Scossi furiosamente il capo.

No. Robin, fa' la seria!

«Raccontaci com'è andata.»

Così a casa lo pesterò a sangue per essere uno stronzo insensibile.

Questo non glielo dissi. Sorrisi.

Lei riprese a piangere ed Eve decise di parlare al posto suo. «Era un po' che si era decisa a dichiararsi, ricordate?»

Mai cosa fu più sbagliata.

Io e Takeru annuimmo.

«E oggi, prima delle feste, ha preso coraggio e ha deciso di farlo... così in caso di rifiuto avrebbe avuto tutto il tempo per metabolizzare la cosa e magari tornare al Missan dopo essersela fatta passare.»

«Ma – ma è stato così scortese?» Lattner aveva tanti difetti ma non mi sembrava il tipo da rispondere con scortesia a una dichiarazione. In caso, avrebbe dovuto scontrarsi con il mio pugno.

Beth scosse la testa. «Oh, no... lui è stato davvero gentile... proprio tipico di lui. Mi – mi ha anche ringraziato per aver trovato il coraggio di fare questo passo confessandogli i miei sentimenti.»

E allora dove cazzo sta il problema?

Non dirmi che si aspettava davvero che ricambiasse.

Avrei voluto darle una pacca comprensiva sulla spalla ma tenni a bada il mio lato burbero e insensibile.

«Diciamo che Beth è rimasta turbata più per quello che le ha detto dopo.»

E cosa le ha detto dopo?

Diamine! Ma glielo devo davvero chiedere?

Mi sembra di essere finita in uno di quei telefilm stile Beautiful.

«È fidanzato» squittì l'interessata, scoppiando ancora a piangere.

«Che cosa?» berciammo io e Takeru all'unisono, afferrandoci in contemporanea per la manica della divisa. Alcuni ragazzi si girarono verso di noi e quando videro i nostri sguardi scintillanti di rosso sangue si affrettarono a entrare in classe.

Piccoli yandere crescono!

Per mancanza di tempo ancora non avevo detto a Takeru che Lattner era il motociclista, però dalle cose che gli avevo raccontato sembrava convinto che tra noi ci fosse uno strano rapporto con un labile confine che ci separava dall'essere coinquilini al diventare altro.

Non si era sprecato a spiegarmi cos'era questo "altro".

«Sì, bé... così sembra, almeno da come l'ha messa lui.»

«Ha – ha detto di essere lusingato dei miei sentimenti ma – ma di doverli rifiutare perché – perché...» Beth prese fiato e recitò le parole di Lattner come se lo avesse già fatto mille volte, memorizzate nel suo database mentale di rifiuti epici che mai avrebbe dimenticato. « Pe – perché ha detto: " Attualmente ho per le mani una persona che mi da parecchio da fare e mette a dura prova anche uno come me. È un po' come... uhm, vediamo... un problema affascinante che il mio animo da matematico non può fare a meno di risolvere. Un problema pericoloso capace di toglierti sonno e lucidità." Testuali parole.» Ripetere l'intera frase sembrò costarle una gran fatica visto che si appoggiò a Eve che subito la strinse con gentilezza.

La mia presa sulla manica di Takeru si rinserrò e improvvisamente mi sentii il viso incandescente.

«Ehi, Rob... stai bene? Sei tutta rossa...» Eve mi carezzò il braccio.

Parlava di me. Parlava di me.

Non so come potevo avere questa certezza, era più una sensazione. Eppure, era una descrizione che sembrava calzare a pennello alla nostra situazione. Era un po' come se in quelle parole criptiche avesse in qualche modo descritto il nostro rapporto.

Mi girava la testa. «Ecco, io credo di... credo di... sì, cioè, sì... certo, sto bene.»

Col cazzo che sto bene!

«Ah, diavolo! Mi viene da vomitare da quant'è sdolcinato quel tizio!» biascicò Takeru, colpendomi in testa di piatto con la mano. «Andiamo in classe, baka

«E Beth?» farfugliò Eve, guardando l'amica e noi nella speranza che la aiutassimo a consolarla.

Takeru si girò verso l'interessata dal cuore infranto e afferrandola per la cravatta della divisa la scosse un po' come avevo fatto io prima con lui. «Svegliati, bakayarou! Ha ventisei anni, è un tuo professore e sapevi che non ti avrebbe cagato nemmeno se ti fossi presentata da lui completamente nuda e con il corpo ricoperto di operazioni matematiche da tradurre. Falla finita!»

«Takeru! Piccolo bastardo!» Lo strattonai e lui si liberò dalla mia presa, piccato.

«Non indorarle la pillola. Lo sapeva che avrebbe potuto dirle qualcosa di simile. Mica può pretendere che lui resti single per lei o che provi qualcosa se non prova niente.»

Beth diventò rossa come un peperone e poi gli affibbiò uno schiaffo che mi rifiutai di bloccare. Gli fece perfino saltare via gli occhiali. «Stronzo insensibile del cazzo!» gli gridò contro, scappando lungo il corridoio, seguita da Eve.

Lo fissai a braccia incrociate mentre massaggiandosi la guancia raccoglieva da terra gli occhiali.

«Lo so. Sono uno stronzo» borbottò, le spalle contratte e tese per la rabbia.

«Per fortuna che lo sai» dissi, seguendolo verso la nostra classe. «Perché le hai detto quelle cose? Non bastava il rifiuto di Lattner? Dovevi per forza rincarare la dose? Le hai dato perfino della cogliona!»

«Perché trovo stupido confessarsi a qualcuno che sai di non poter avere.»

«Lo dici per esperienza personale?» Mi bloccai in mezzo al corridoio e anche se lui mi superò fece altrettanto, poco più avanti. Serrò i pugni, irrigidì la schiena e poi si sistemò gli occhiali.

«Può essere» mi rispose, infine.

Da quando? Come?

Perché non me ne sono accorta?

Perché non me lo ha detto?

Lei chi è?

«Mi dispiace, Take...» Allungai la mano per sfiorargli una spalla ma lui si ritrasse prima che lo toccassi.

«Non mi commiserare, Rob. L'ho scelto io. Ho scelto di non mettermi in gioco. Fine.»

«Bé... ma così non saprai mai se lei-» la voce mi morì in gola quando si voltò con gli occhi lucidi. Non lo avevo mai visto piangere e mi bastò vederlo in quelle condizioni per sentire il cuore stritolarsi in petto.

«Lo so già. Lo so già da molto tempo, cazzo!»

Era Beth? Gli piaceva Beth e invece lei andava dietro a Lattner? Merda!

Macinai la distanza con qualche falcata e lo abbracciai incurante del suo disappunto e della gente che ci passava a fianco. Cercò di divincolarsi dalla mia stretta ma quando vide che era inutile la ricambiò nascondendo la faccia contro la mia spalla. Gli sentivo il cuore battere così forte contro il mio petto che i suoi fremiti sembravano trasmettersi al mio.

«Diamine, sei fastidiosa!» ringhiò contro il mio orecchio. «Troppo, troppo, troppo fastidiosa.»

«Lo so, scusa.» Ero troppo presa dai miei problemi per accorgermi che c'era qualcosa che non andava in lui. Egoista e stupida. «Non – non avevo idea che ti piacesse qualcuno... non me ne hai mai parlato.»

«Non ce n'era bisogno.»

«Sì, invece.» Mi cercai di staccare ma lui serrò la presa bloccandomi contro il proprio petto.

«Ferma così che sono patetico. Lasciami un attimo riprendere.»

«Mi stai per caso attaccando il moccio sulla divisa?»

«Può essere» disse, ridacchiando.

Restammo immobili mentre il mondo ci girava attorno. Era un momento solo nostro. Un ritaglio di noi strappato via dalla routine di tutti i giorni, dalla frenesia della vita.

Mi rilassai contro il suo corpo e affondando il naso nell'incavo del suo collo respirai una ricca dose del suo profumo. Chissà perché, riusciva sempre a calmarmi.

La mia ancora, la mia salvezza.

Il primo che aveva preso a piene mani e senza giudicare ciò che ero, sia bianco che nero, sia buono che cattivo. Il primo che mi aveva teso una mano, che aveva illuminato gli angoli del mio cuore buio, che solo con la sua presenza mi aveva dato un posto giusto dove stare.

Era diventato una presenza essenziale. Non mi riuscivo a immaginare senza di lui.

«Smetti di fare cose strane, pervertita. Mi fai venire i brividi» borbottò contro la mia spalla provocandomi una scarica di risa.

«Oh, Dio...mi sto per commuovere» gracchiò una voce spiacevole alle nostre spalle. Non riuscii a staccarmi in tempo da Takeru né prevedere il colpo che mi arrivò dritto allo stomaco e che mi sbalzò contro il muro. Cozzai contro la parete e crollai in terra sputando un getto di sangue.

Mi ero morsa la lingua, dannazione!

Sullivan si scrocchiò le dita e ci sorrise. Aveva proprio un'aria da psicopatico. La fasciatura al naso mi ricordò di come gliele avessi suonate bene sul tetto. «Eravate così carini abbracciati che non ho resistito e sono dovuto intervenire.» Prima che riuscissi a rialzarmi da terra mi sferrò un calcio alle gambe e un pugno alla bocca dello stomaco. Crollai a terra tossendo, troppo sorpresa di quell'attacco in pieno corridoio, con ancora i nostri compagni ad aggirarsi tra un'aula e l'altra.

Ma in fondo, lui era un Sullivan. Aveva le spalle coperte il farabutto.

Pomposi ricchi bastardi!

Takeru lo afferrò per un braccio tirandolo indietro. «Lasciala stare, figlio di puttana! Non ti ha fatto niente.» Sullivan si liberò dalla sua presa con uno scossone che lo fece barcollare. La differenza di fisico era fin troppo evidente.

«Levati, muso giallo. Levati prima che ti riduca una poltiglia.»

Anziché dargli ascolto, quello stupido giappo-minchia allargò le braccia interponendosi tra noi, facendomi scudo con il proprio corpo. «Non le farai male. Non te lo permetto. Non più.»

Sullivan si girò a guardare i suoi scagnozzi e scoppiarono tutti e quattro a ridere, fissandolo con un pizzico di compassione. «Ti stai per caso mettendo contro di noi? Quattro contro uno?»

«Per lei, sì. A – a costo di farmi ammazzare.»

Merda, no!

Idiota! Cretino! Vattene via! Cazzo, no!

La paura e l'adrenalina mi diedero una scarica così forte da togliermi il respiro.

Sullivan si sporse a guardarmi, mentre mi tenevo lo stomaco e cercavo di respirare. Sentivo le gocce di sudore scivolarmi sul viso. «Hai sentito Scorpion Queen? Il muso giallo ti protegge a spada tratta, eh? Che tenero...» Avanzò e con una manata lo spostò di lato, chinandosi su di me per afferrarmi la cravatta. La tirò verso di sé, sollevandomi vicino al suo viso fin quasi a strangolarmi e mi rise in faccia. «Lo vedi questo?» domandò segnandosi il naso rotto tutto fasciato. «Adesso ti farò pentire amaramente di questo, sì.»

Un pugno gli arrivò dritto sulla guancia, così forte che scivolò in terra lasciando la presa sulla mia cravatta. Quando ci voltammo restammo sorpresi che il pugno fosse arrivato niente meno che da Takeru. Si era tolto la giacca, arrotolato le maniche della camicia e aveva le mani serrate a pugno. Tremava ma nello sguardo leggevo una rabbia che mai prima d'ora gli avevo visto. Sembrava fuori di sé. E stava per fare la cosa più stupida che gli avessi mai visto fare.

No, no, Take... non lo fare.

Stupido! Stupido! Stupido!

Cercai di alzarmi ma le gambe mi tremarono.

Cazzo, no! Non di nuovo.

Non può succedere di nuovo.

Un flusso di ricordi vecchi di anni mi travolse. La mia migliore amica che mi difendeva a parole, il boss di New York che le faceva del male, io che perdevo il controllo.

Io che perdevo il controllo.

«Lasciala stare! Vattene, Sullivan! Non mi ripeterò» gridò Takeru, alzando i pugni. Respirava come un toro, sputando l'aria dalle narici. Il corpo scosso dai fremiti, la fronte imperlata di sudore, lo sguardo arrabbiato ma arreso. Sapeva che le avrebbe prese. Eppure non si tirava indietro.

Perché?

Perché deve succedere di nuovo?

Una fitta al petto si diramò in tutto il corpo mentre lottavo per riprendere possesso delle mie funzioni corporee. Era un po' come se con quei colpi mirati mi avesse momentaneamente disattivato i movimenti.

Devo alzarmi. Cazzo, devo alzarmi. Subito.

La paura, la disperazione, giocano brutti scherzi alla mente umana.

A volte annichiliscono, a volte spronano.

«Oh, cielo... ora sì che sto tremando.» Con un ghigno Sullivan si rialzò da terra. Cercai di afferrarlo per una gamba prima che si allontanasse ma riuscii solo a toccargli con le dita il bordo dei pantaloni della divisa.

«N – no, Sullivan! La – lascialo stare» rantolai cercando di alzarmi mentre una fitta allo stomaco mi faceva vedere le stelle. Avevo bisogno di qualche altro minuto per riprendermi.

Solo qualche minuto. Solo qualche minuto, cazzo!

«E quindi, muso giallo... vuoi difenderla, eh?» lo canzonò, scrocchiandosi le dita e mettendo su la tipica espressione da predatore.

Conoscevo bene quello sguardo. Era lo sguardo di chi non ha niente da perdere, di chi vuole farsi male e non vede l'ora di trovare l'avversario giusto contro cui battersi.

Takeru deglutì. «Sì, esatto. La voglio difendere perché lei merita di aver a fianco qualcuno che la difenda.»

Gli occhi mi bruciarono, deglutii imponendomi di non piangere. Quello stupido non sapeva in che guaio si era cacciato. E lo faceva per me. Solo per me.

Oh, Take... sei così sciocco e così amorevole! Così imprudente e così di buon cuore!

Sullivan sembrò divertito e gli fece segno di farsi sotto. «Mostrami pure il tuo valore, muso giallo. Fammi vedere come vuoi proteggerla.»

Takeru scattò in avanti e riuscì a eludere un suo colpo, si abbassò per sferrargli un cazzotto nello stomaco ma Sullivan alzò il ginocchio e glielo conficcò dritto in faccia. Un getto di sangue schizzò come pioggia tutt'attorno e Takeru barcollò indietro tenendosi una mano sul naso.

Il grido di terrore che riempì i corridoi sorprese tutti, anche me. Eppure veniva proprio dalla mia bocca.

Lo sentivo estraneo, eppure era mio.

Era uno squarcio sul cuore, un dolore profondo e intenso. Era il pianto di una vita misera che non valeva la pena di esser protetta. La rabbia di un inetto che non riesce mai a fare la cosa giusta.

La bestialità del bullo però non sembrò sazia di quel colpo, si scatenò in tutta la sua crudeltà, scagliandosi su Takeru e cominciandolo a colpire da ogni parte.

Un colpo allo stomaco, una ginocchiata, un pugno in faccia.

«Non lo toccare! Non lo devi toccare!» gridai, mentre allungando un braccio sul muro cercavo di far pressione sul palmo per alzarmi. Sullivan mi ignorò, continuando a colpire Takeru che si era trasformato nel suo personale pungi ball.

Non potevo restare a guardare. Non potevo rimanere in terra a leccarmi le ferite quando qualcun altro si addossava i miei peccati.

Ti ammazzo. Ora ti ammazzo.

Ora ti ammazzo.

Sullivan però sembrava completamente preso da quello scontro, chiuso in quel brandello di violenza che trovava sfogo su Takeru.

Sapeva che non c'era storia. Sapeva che non c'era paragone.

Eppure continuava a colpirlo con rabbia, senza sosta. E il rosso era tornato a far padrone in quel corridoio.

Lo farà a pezzi.

Lo farà a pezzi.

E c'era qualcos'altro in me che si stava sgretolando, perdendo per strada. E l'adrenalina mi pompava dritta nelle vene. E la paura mi fischiava come un treno in corsa nelle orecchie.

«Non lo toccare!» gridai, sollevandomi finalmente da terra. Presi una grossa boccata d'aria e la rabbia sembrò il combustibile giusto per farmi mettere da parte il dolore.

Non lo toccare.

Non lo devi toccare.

Non lo devi toccare.

Paura, rabbia, vendetta.

Anni di soprusi. Anni di ingiustizie. Anni di giudizi sputati addosso.

Montavano dentro di me. Martellavano fino a fottermi il cervello. Strappavano a brandelli le ultime parti della mia razionalità.

Takeru cercò di liberarsi dalla presa di Sullivan che tenendolo per il colletto tirò indietro il braccio pronto per scaricargli addosso l'ennesimo pugno.

Ero così spaventata e arrabbiata per quello che stava succedendo che il dolore allo stomaco sembrava passato in secondo piano.

Non lo toccare.

Non lo devi toccare.

Non lo devi toccare.

Respiravo veloce, respiravo male. Sentivo bruciare il corpo. Sentivo il cuore pompare.

Tum. Tum. Tum. Tum.

Una batteria. Un treno. Un martello pneumatico.

Una tempesta. Un uragano. Un maremoto.

Sullivan caricò il braccio. «E ora, crepa, bastardo!»

Restò sorpreso quando lo afferrai per il polso bloccandogli sul nascere il colpo. «Ti avevo detto di non toccarlo... cosa non hai capito?» sibilai e con il pugno mi pulii il rivolo di sangue alla bocca. Lo fissai passandomi la lingua tra le labbra e Sullivan trasalì mentre la mia presa si faceva più salda attorno al suo polso.

Lasciò andare Takeru che crollò a terra e lo vidi trattenersi lo stomaco addossandosi alla parete. Era sporco di sangue, il corpo carico di botte ed ecchimosi, tagli ovunque, occhi gonfi, labbra spaccate.

«Altrimenti che fai?» domandò Sullivan con tono provocatorio, mettendo però distanza tra noi. Preparandosi ad accogliere la mia furia.

Takeru tossì sputandosi sulla mano un getto di sangue. Si strinse lo stomaco e dalla bocca gli uscì un rantolo soffocato da un singhiozzo.

Non lo toccare.

Non lo devi toccare.

Mi tamburellai due dita sulle tempie. Veloce, con psicosi.

Una rottura. Silenziosa ma evidente. Le catene che imbrigliavano la mia parte oscura si spezzarono lasciando uscire tutti i mostri che con fatica tenevo a bada.

Non lo devi toccare.

Non lo devi toccare.

Chinai un attimo la testa guardando in terra e quando la risollevai, sorridevo.

Il sorriso di Satana.

Il sorriso dell'apocalisse.

Buonanotte Robin. Ben svegliata Scorpion Queen.

Inclinai la testa e le parole mi uscirono con un sospiro di piacere, una liberazione. «Altrimenti ti ammazzo. Giuro su Dio che ti ammazzo.»

Fu piacevole vederlo sbiancare. Il mio sorriso divenne se possibile ancor più ampio. Mi passai la lingua sul palato, gustando il suo terrore.

Sapete, ha un sapore il terrore. Ti si attacca addosso, nei vestiti, nel corpo, nell'anima.

«Ro - Rob» rantolò Takeru in terra, tenendosi il fianco.

«Zitto, stupido. Dopo facciamo i conti.» Allargai le gambe e presi stabilità col terreno. Ruotai il collo facendolo schioccare rumorosamente.

Respira piano. Centra il corpo. Acquista equilibrio.

Lascia fuori tutto. Niente oltre voi. Solo voi. Tu e Sullivan.

Quando tornai a guardarlo lo vidi fare qualche altro passo indietro, cercò con la coda dell'occhio gli scagnozzi. Aveva perso un po' della spavalderia che fino a un attimo prima aveva sfoggiato con Takeru.

Sapevo cosa stava succedendo. Era il mio corpo, la mia postura, il mio sguardo, la mia aura.

Tutto era cambiato di me.

Trasudavo male. Ero il male.

«Allora, Sullivan... lo facciamo qui? Ora?» Allungai le dita muovendole velocemente e usando il pollice le scrocchiai una ad una. «Decidi tu. A me non importa. Tanto so già come finisce.»

Lui sputò in terra e rise. «Parole arroganti per una ex-teppista che ha perso il suo smalto.»

Inclinai la testa e sorrisi. «Hai ragione... ma se vuoi piangere questo è il momento giusto.» Fu il giusto colpo basso.

Lanciò un grido furioso, da uomo con l'orgoglio ferito e si scagliò contro di me come un treno.

Non si torna indietro, Rob.

Cavalca l'onda della tua fama e ricordagli chi sei.

Tu sei solo questo.

Sei il male che corrode e corrompe. Il male che divora.

Quando sferrò il suo colpo decisi di non limitarmi. Ero stanca dei limiti. Ero stanca di essere la buona e inutile Robin. E poi, la gente nei corridoi era poca e io ero troppo, troppo incazzata.

Basta essere qualcuno che non sei.

Sii te stessa. Sii il male.

Tutti. Poteva toccare tutti. Perfino Lattner, visto che sapeva difendersi. Ma non lui. Non Takeru. Non il mio Takeru.

Il pugno di Sullivan fendette l'aria con un sibilo, pronto a schiantarsi contro la mia faccia.

Gli parai il braccio con il mio e inclinandomi leggermente preparai il piede per colpirlo. Usai tutta la forza che avevo per essere sicura di fargli male e allo stesso tempo farlo cadere. Il piede lo centrò in pieno stomaco e quando lui barcollò saltai in avanti afferrandolo con entrambe le mani per le spalle e piegando le ginocchia contro il suo sterno lo atterrai.

Ero sopra di lui ed ero arrabbiata. Ed ero fuori controllo.

Inghiottita. Persa. Rotta.

«Quando ti dico di non toccarlo... tu non devi toccarlo.» gli gridai addosso. Iniziando a colpirlo. Ad ogni parola un pugno in faccia. «Non devi toccarlo. Non. Devi. Toccarlo. Non devi toccarlo.»

Pugni su pugni. La mano colpiva in automatico, come se non avesse mai dimenticato il movimento. Come se fosse nata per fare dolore.

Mani sporche di sangue.

Mani macchiate di dolore.

Maledetta e sporca fin dentro l'anima.

Tu sei una bestia.

La figlia del demonio.

Sei sporca. Sei cattiva. Sei sbagliata.

Non dovevi nascere.

E più lo colpivo, più sentivo scivolare via il controllo, più sentivo la rabbia sgorgare.

Maledetta. Puttana.

Figlia indegna. Bastarda.

Meriti di morire.

Sei solo feccia.

Sei solo una cagna.

«Non. Lo. Devi. Toccare.» Il sangue schizzava sul pavimento mentre sentivo le nocche spaccarsi ad ogni pugno. La fasciatura saltava lontano perdendosi tra le gambe dei suoi scagnozzi che non osavano muovere un solo muscolo. «Non. Devi. Toccarlo. Non devi toccarlo.»

Uno. Due. Tre colpi.

Colpivo. Colpivo. Colpivo.

Vedevo rosso. Solo sangue. Solo la rabbia. Solo la furia cieca.

Come quella volta. Come anni fa, quando avevo perso il controllo.

Non. Toccarlo.

Non devi toccarlo.

«Adesso ti ammazzo. Hai capito faccia di merda? Hai capito?» ringhiai, con un sorriso che mi squarciava in due la faccia.

Questo era il mio mondo.

Questa ero io. Una bestia. Satana mi aveva aperto le porte di casa.

Un colpo. Due. Tre.

Sangue. Sangue ovunque. Sangue dappertutto.

Le mani sporche. L'anima nera. Il cuore mangiato e corrotto. 

Piacere, sono Scorpion Queen...

Benvenuto nel mio inferno personale.

Alle spalle sentii del trambusto.

«Robin! Robin, basta!» La voce di Lattner mi raggiunse ovattata, lontana.

Sullivan spostò le mani cercando di coprirsi il viso. Scostandogliele con un colpo di avambraccio gli colpii a palmo aperto il pomo d'Adamo. Lo vidi arrancare per respirare. Gli strappai l'aria come avrei voluto strappargli la vita. Non vedevo nient'altro. Solo io e lui. Solo Scorpion Queen che riscuote il suo pegno. «Com'è? Ti piace?»

Un altro colpo. Un altro ancora.

Sotto di lui si allargava una pozza di sangue. Io stessa ne ero impregnata.

Rosso. Mani sporche di sangue.

Tu sei il male.

Sei il demonio.

Non lo devi toccare.

Non. Lo. Devi. Toccare.

Lo afferrai per il colletto scuotendolo così forte da fargli sbattere più volte la testa contro il pavimento. Aveva uno sguardo così spaventato che la mia anima nera beveva la sua paura come se fosse un cocktail afrodisiaco. «Volevi Scorpion Queen? Eccomi! Eccomi, qui. Sarò l'ultima cosa che vedi, stronzo!» gli sibilai addosso. Un braccio mi cinse la vita e mi sollevò di peso mentre cercavo di sferrargli l'ennesimo colpo. Mi divincolai come un animale. Sulla lingua il sapore ferrugginoso del sangue.

«Lasciatemi! Lasciatemi, stronzi! Lo devo ammazzare!» strillai, artigliando il braccio che mi teneva saldamente e spingendomi in avanti contro il suo corpo steso in terra.

Non è abbastanza.

Non è ancora abbastanza.

«Robin, fermati! Basta, Robin!» Lattner fu costretto a gridare per superare i miei strilli in modo che lo sentissi.

«Lasciami. Lasciami, Thomas... lo devo ammazzare!» continuai a strillare, mentre mi tirava indietro a fatica e girandomi verso di lui mi stringeva a sé.

«Basta, Robin... basta. Takeru sta bene. Sta bene.»

Quella frase, quelle semplici parole di conforto e rassicurazione, quella consapevolezza di essere arrivata in tempo spensero in un attimo la mia bestia, il demonio chiuso in me.

Il respiro mi usciva a sbuffi rumorosi. Mi aggrappai alla maglia di Lattner cercando di scaricare l'adrenalina. Improvvisamente sentivo freddo e le gambe tremare.

E paura.

La senti questa paura?

Sei tu che la senti? O sei tu che fai paura?

È parte di te. È il vuoto della tua anima.

«Calmati, ragazzina... ehi, calmati» mi bisbigliò all'orecchio Lattner, scuotendomi senza però lasciarmi. Si girò verso Sullivan e i suoi. «Siete fortunati che il corridoio è vuoto perché sono iniziate le lezioni.»

«Mr.Lattner... l'ha vista, no? L'ha vista?» berciò Sullivan, premendosi la giacca sulla faccia. Aveva perfino i capelli impregnati di sangue. «È pazza! È pazza quella puttana.»

«Fuori dalle palle. Ora. Prima che finisca molto peggio» ringhiò Lattner, perdendo la sua compostezza da professore a modo. Continuò a tenermi premuta contro di sé e lo vidi cambiare. La sua espressione si scurì e vederci il motociclista non mi sembrò più così tanto impossibile.

Non Dottor Jekyll e Mr.Hyde... ma Thomas e il motociclista.

Con la coda dell'occhio vidi Sullivan sollevarsi da terra a fatica, barcollante, scivolando nella pozza rossa con il naso grondante di sangue e gli occhi gonfi e rossi. Lo avevo conciato davvero male. Quel naso non sarebbe mai stato più come prima e forse gli avevo rotto entrambi gli zigomi. I suoi scagnozzi lo afferrarono per aiutarlo a reggersi in piedi e lui guardandomi con aria di sfida rise. Una risata rossa sangue. «Che scoperta interessante, Scorpion Queen. Che scoperta interessante...» Il suo sguardo scivolò da me a Takeru e sulle labbra si dipinse un ghigno crudele.

Quando se ne andò, Lattner mi lasciò andare e si allontanò abbastanza da lasciarmi i miei spazi. Rimase qualche attimo a guardare le mie mani tremare, le nocche spaccate, il respiro pesante, il viso tramutato in una maschera di orrore e disgusto.

Si passò una mano nei capelli con uno sbuffo e spostandosi allungò la mano a Takeru che gliela colpì con stizza. «Posso stare su da solo, cazzo!» ringhiò rimettendosi in piedi a fatica e raggiungendomi zoppicando. «Stai bene, baka

Cercai di farlo. Ve lo giuro. Cercai di trattenermi e invece vederlo camminare anche se ridotto così male azzerò il mio autocontrollo e scoppiai a piangere come una ragazzina, buttandogli le braccia al collo. Tremavo io, tremava lui. «Non lo fare mai più, Takeru. Non lo fare mai più.» Scossa come una foglia. Fragile come il cristallo. Instabile. «Non lo fare mai più. Mai, mai più.»

«Shh...okay, okay... è tutto finito, stupida! Tutto finito.»

Ma non ne ero così sicura.

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