42 - UN SALTO AL CENTRO COMMERCIALE

«Robin! Ti prego! Basta tenermi il muso!» biascicò Lattner, afflosciandosi contro il volante dopo aver parcheggiato in uno dei tanti posti auto vuoti del centro commerciale. Si girò a guardarmi con quella faccia che avrei volentieri riempito di schiaffi e baci e, il solo osservarmi così intensamente, mi fece sussultare. Aveva uno sguardo capace di uccidere e non ne era nemmeno consapevole.

Rinserrai la presa sulle braccia che da una buona mezz'ora continuavo a tenere incrociate al petto. «Zitto o ti ammazzo» ringhiai.

Sospirò. «Eddai, Rob... come posso farmi perdonare?»

Non riuscii a evitare di guardarlo, di affondare in quegli occhi azzurri, di perdermi in quelle linee dure e maschili del viso, di imprecare mentalmente per il casino che si era creato tra noi. Mi passai la lingua sulle labbra e voltai lo sguardo fuori, verso il parcheggio. Guardarlo bruciava come quando guardi troppo a lungo il sole.

Perché non mi hai detto che sei il motociclista?

Perché sei sempre venuto in mio soccorso?

Perché abitiamo sotto lo stesso tetto e tu sapevi tutto mentre io non sapevo un cazzo?

Ero arrabbiata con lui per mille motivi e l'ultimo della lista era quello stupido e maldestro tentativo di salvataggio. Sì, bé... non potevo dire che non mi interessasse, in fondo mi aveva vista nuda; ma prima di quello c'erano talmente tante altre cose a riempirmi i pensieri che ironicamente passava quasi in secondo piano.

«Ehi...» fu un richiamo dolce, che mi scaldò il viso; con un dito mi pungolò debolmente la spalla.

Mi girai a fissarlo, furente; non sapevo più come comportarmi in sua presenza. Se abbassavo la guardia il cuore mi schizzava in gola e finivo per diventare rossa e balbettare, se mantenevo un certo distacco come in quel momento sembravo incazzata e sul punto di picchiarlo.

Anche dopo la scoperta era stato difficile decidere la strategia da adottare. Il mio corpo, il mio cuore e la mia mente non ne volevano sapere di calmarsi. Era stata una dura lotta riprendere possesso del mio già precario autocontrollo, avevo passato molte ore fuori casa ed ero rientrata a pomeriggio inoltrato quando pensavo che tutte le mie angosce fossero state messe sotto chiave.

Mi sbagliavo.

Era bastato vederlo un attimo per riportarmi al punto di partenza, dove anche un briciolo di saliva bastava per strozzarmi, dove anche un suo sguardo sapeva uccidermi.

«Allora? Come posso farmi perdonare?» domandò, piano. La sua voce mi rotolò addosso come una carezza. Era straordinario il modo in cui riuscisse semplicemente con un leggero mutamento d'inflessione vocale a far crollare quelle barriere architettoniche che avevo cercato di costruirmi attorno al cuore. Mi sentivo stupida e fragile. Una ragazzina a suo confronto.

Chiusi gli occhi e sospirai.

Mi hai baciato, dannato!

Anzi, no... io ti ho baciato... ma tu hai ricambiato. Dannato!

E ora? Cosa siamo ora?

Cosa vuol dire tutto questo?

Perché quando sei il motociclista mi fai credere di essere interessato a me e quando sei semplicemente tu ti fingi un fratellone?

Mi fumava il cervello. Ci avevo pensato e ripensato, avevo dato un significato alla sua doppia identità ma non riuscivo a dare un senso al suo modo di comportarsi con me quando era nei panni del Re dei Teschi.

"Dopo stasera sarà molto più difficile trattenermi"

"Non sarò tanto paziente e magnanimo la prossima volta, ragazzina"

Aveva detto così, lasciandomi immaginare i più indecenti scenari, dando adito alle più sordide fantasie. Ma voleva davvero intendere qualcosa a sfondo erotico?

«Robin, guardami...» Le dita di Lattner mi toccarono una guancia e dal punto di quel contatto si diramò un calore che mi pervase da cima a fondo. Era come lava, come fuoco liquido che mi colava addosso. Faceva male e bene, era piacere e tormento.

Non si rendeva conto dell'effetto che mi faceva.

Ero confusa, agitata, in balia completa di quei sentimenti, spaventata a morte per l'andamento della nostra relazione ed eccitata. Quando mi toccava riusciva sempre a eccitarmi.

«Io non...» Cercai di fare resistenza. Un po' come un bambino che resiste a una montagna di dolciumi. «Non... cioè...» Aprii gli occhi e mi voltai a guardarlo.

Troppo, troppo vicino. Così vicino che il suo respiro solleticò il mio viso e la sensazione di averlo addosso sembrò quasi concreta. Per un attimo mi chiesi come sarebbe stato spingerci oltre, senza maschere, senza segreti. Sarebbe stato imbarazzante? Piacevole?

Non lo sapevo ma una parte di me era disposta a sperimentarlo.

«Sono stato un coglione.»

«Come sempre» mi affrettai ad aggiungere.

«Già, non lo nego.» Le sue dita scivolavano sulle mie guance in una strana danza, avvicinandosi troppo alle mie labbra e tornando indietro. Un piacevole tormento che stava iniziando a farmi venire i brividi. Sembrava giocare con le mie terminazioni nervose, accenderle e spegnerle a intermittenza. «Sono entrato in bagno senza considerare che sei una ragazza. Sì, è stato stupido, davvero stupido.» Inarcai un sopracciglio e lui continuò a parlare. «Ormai è un mese che sei entrata nella mia vita... e ho sempre dovuto attenermi a certe regole. Tu eri Robert e dovevo in qualche modo fingere che fossi un ragazzo.»

«E ci riuscivi?» domandai di getto. Una domanda che mi ero posta tantissime volte in quella notte insonne e a cui non avevo trovato alcuna risposta soddisfacente.

«Decisamente no... ma Robert era una confort zone anche per me. Di certe cose mi preoccupavo, di altre lasciavo che eri tu a preoccupartene.»

Aveva senso. Abituato a vedermi sempre attenta a mascherare la mia natura, non aveva pensato che in quell'occasione sarei stata semplicemente io, Robin. Niente trucchi, niente inganni. Feci un respiro profondo. «Ti penti di avermi detto che sapevi tutto?»

«Sì e no. Ma non avevo alternativa d'altronde.» Risalì con le dita fin alla punta del mio naso. «Ci son stati momenti che avrei voluto dirtelo subito e altri in cui ringraziavo il cielo che ti fingessi un uomo.»

Quella risposta mi lasciò di stucco, accese la mia curiosità. «Che - che genere di momenti?»

Il suo tocco scivolò sugli zigomi incagliandosi sulle mie labbra e lo vidi esitare. Il cuore mi prese a pompare più forte, così forte che il suo battere sembrò invadere l'intero abitacolo. «Tipo momenti come questo... dove il tuo ricordarmi costantemente che sei un ragazzo non avrebbe creato quest'atmosfera intima e imbarazzante.» Con il pollice mi passò sul labbro inferiore, spingendo abbastanza da far attrito contro i denti. Un formicolio persistente iniziò a farsi strada in tutto il mio corpo, scivolandomi dalla bocca lungo il petto e finendo tra le mie cosce. Era qualcosa di indecente e caldo, di travolgente ma sbagliato.

Siamo professore e alunna.

Non lasciò un attimo i miei occhi, travolgendomi con quello sguardo che era misterioso e allo stesso tempo sincero, che celava segreti ma che sembrava tanto trasparente su certi altri aspetti.

Non riuscivo mai a leggerlo completamente.

Sospirò con la solita aria indecifrabile.

Si allungò sul mio corpo costringendo ad appiattirmi contro il sedile e quando riemerse con in mano la fasciatura a tracolla che si era sfilato prima di mettersi alla guida il mio cuore perse un battito. Per un attimo, un solo attimo, avevo creduto ci baciassimo. Forse lo avevo anche sperato.

Sicuramente lo avevi sperato.

«Bene. È meglio andare. Non vorremo certo farci rubare gli alberi migliori, eh?» Mi liquidò con un sorriso bugiardo e non attese nemmeno di indossare il bendaggio, si precipitò fuori dall'auto avviandosi a prendere il carrello.

Dal mio canto, prima di raggiungerlo rimasi ancora qualche istante seduta, cercando di riprendere controllo dei miei pensieri e soprattutto dell'uso delle gambe. Mi tremavano così tanto che se mi fossi alzata in quel momento sarei caduta a faccia in giù nell'asfalto.

Patetica. Sei proprio patetica.

Sospirai, imprecai e mi feci forza. Scesi dall'auto con ancora le gambe molli ma intenzionata a non farmi dominare dalle mie emozioni.

Stiamo solo andando al centro commerciale. Niente di più.

Due coinquilini.

Quando lo raggiunsi, ero più tranquilla.

Ad ogni modo, ciò non cancellava il problema. La vicinanza con Lattner si era trasformata in ciò che temevo: un groviglio rantolante di emozioni capaci di strangolarmi sul colpo dopo avermi mandato in ebollizione corpo e cuore.

Era una preoccupazione che avevo già da prima di scoprire cosa ci fosse nell'armadio, semplicemente perché avevo timore che i miei sentimenti avrebbero preso il sopravvento. Proprio come ora, quando camminare fianco a fianco lungo i corridoi del centro commerciale sembrava quasi un gesto epico.

Lo seguivo da lontano, lo guardavo mentre scivolava tra la gente con estrema facilità, spiavo il suo modo di muoversi e mi maledicevo.

Come ho fatto a non accorgermene?

Come ho potuto dubitare di Nate e Märten senza prendere mai in considerazione Lattner?

Lo avevo sotto gli occhi tutti i giorni, ci interagivo con costanza; eppure, non ero riuscita a cogliere tutti quei segnali che ora mi sembravano chiarissimi.

Con ogni probabilità non li avevo voluti cogliere di proposito, inconsciamente.

Sorpassando un gruppetto di turisti al centro di una corsia mi resi conto che le mani mi stavano tremando e il mio umore oscillava pericolosamente rendendomi molto più instabile del necessario.

Presi un respiro cercando di ricordare a me stessa il motivo della nostra presenza lì: l'albero di Natale. Dovevamo solo comprare un albero. Niente di troppo complesso.

«Allora, Rob... hai pensato a cosa vuoi da me?»

Sgranai gli occhi sobbalzando sul posto e nel farlo quasi mi addossai contro lo scaffale. Ero così persa nelle mie frustranti considerazioni da non aver notato che si era avvicinato. «Da - da te?»

Lattner mi rivolse un'espressione buffa e sorrise. «Sì, bé... come regalo, no?»

«Che regalo?» Okay, lo ammetto. Dopo la scoperta della sua vera identità il mio cervello aveva qualche problema di connessione. Sentivo la mente sovraccarica di pensieri e ogni volta che lo guardavo, alla sua faccia si sovrapponeva quella del motociclista e mi prendevano le palpitazioni.

Era come avere due al prezzo di uno e faticavo a contenere quello stordimento e quel grondare d'eccitazione.

Perché sento di non poterti dire niente?

Perché sento che dicendotelo, ti perderei?

Se Lattner adottava quel mascheramento per mantenere l'anonimato era chiaro che non aveva intenzione di essere scoperto. Non volevo fare passi falsi. Non volevo rischiare di rovinare tutto proprio ora. Dovevo andare con cautela con quella scoperta.

Era come se improvvisamente i nostri ruoli si fossero invertiti. Prima era lui a conoscere la mia doppia identità, a saper che io ero Robin e Robert. E ora, ero io a sapere che lui era Thomas e il motociclista.

E così come aveva fatto lui, ora toccava a me mantenere il segreto; almeno fin quando non si sarebbe presentata l'occasione giusta per dire tutto.

«Ehi, ma... mi stai ascoltando?» Quando lo misi a fuoco era a un palmo dal mio naso.

La mia impenetrabile compostezza si sgretolò in un battito di ciglia. Dalle labbra mi uscii un verso stridulo e il mio corpo schizzò indietro colpendo con forza la scansia. Mi crollarono in testa alcuni oggetti non identificati che lui afferrò al volo rimettendoli prontamente a posto.

Troppo, troppo vicino.

Il suo profumo invase i miei sensi, mi si abbattè addosso come uno schiaffo o un'onda contro gli scogli.

Rabbrividii.

«Ma che ti prende, Rob? È ancora per la questione di stamattina?»

«Ah?» Lo guardai stralunata. Sentivo la tensione salire e scendere come la marea, il tutto in proporzione alla vicinanza o meno del suo corpo al mio. Mi guardò confuso e la sua espressione ingenua prese tacitamente a cazzotti il mio autocontrollo.

No. Calma.

Sei Scorpion Queen, no? Hai gestito molto peggio.

Giusto. Giusto.

Presi un respiro e lui allungò la mano acciuffandomi una ciocca di capelli ribelle. «Non vedo l'ora che ti ricrescano abbastanza da farti una treccia. Al Missan ho visto che te le facevi ed eri graziosa da morire.»

Palpitazioni. Salivazione assente. Sudorazione dei palmi eccessiva. Elettrocardiogramma piatto.

Seh, Scorpion Queen 'sto cazzo!

Questo mi manda in pappa il cervello anche con una frasetta buttata lì.

«Questo!» farfugliai, afferrando di getto la prima cosa a portata di mano.

Lattner abbassò lo sguardo. «Un trapano?»

«Eh?» Gli avevo appena dato un trapano? Uccidetemi, vi prego.

Rimase un attimo in silenzio, stringendo le labbra per trattenersi poi scoppiò a ridere così forte che si dovette coprire la bocca con una mano, girandosi a darmi le spalle per calmare l'eccesso di risa. «E quindi vuoi un trapano come regalo di Natale?» domandò, asciugandosi gli occhi. Aveva le gote arrossate e il più bel sorriso mai visto sulla faccia della terra stampato in viso.

«Eh? No! Bé, ovvio che no! Era... era per - per fare la simpatica.» Sì, certo, come no. Simpatica come una imbecille. Una completa, assoluta imbecille.

Lo rimise a posto e mi posò la mano sulla testa, trattenendo ancora un ghigno che gli arricciava i lati della bocca. Vederlo così felice illuminava l'intero centro commerciale. Un suo sorriso riusciva a migliorare la giornata perfino a una musona come me. «È un modo per dirmi che non sai cosa vuoi?»

È un modo per dirti che la tua vicinanza mi agita e sembro una idiota.

E faccio cose da idiota.

E penso da idiota.

«Ehm... sì, già... proprio così.»

«Allora vedrò di ingegnarmi io.» Vedendo che tentennavo mi afferrò per un polso trascinandomi lungo la corsia. «Forza, dobbiamo trovare un albero adatto a casa nostra.»

Nostra.

Mi vennero i brividi.

Restammo così per la seguente ora a discutere davanti a un'infinità di alberi dalle misure e forme più svariate, strano a dirsi ma non avevamo in mente la stessa tipologia di scelta. Almeno su qualcosa però eravamo d'accordo: niente alberi veri, erano uno spreco. Lui però lo voleva verde con degli spruzzi bianchi, come se fosse innevato. Io lo trovavo troppo irrealistico, si vedeva che era finto. A me bastava il classico abete verde, che era finto sì ma meno di quello che piaceva a lui.

Vinsi io. Cedette a un albero semplice e totalmente verde, dai rami rigogliosi e con un bel vaso per mantenerlo in equilibrio. Alto più di me, meno di lui. Muffin si sarebbe divertito un mondo a scalarlo e distruggere le palline che gli avevamo preso in abbinato.

Quando uscimmo dal supermarket tornando negli ampi corridoi del centro commerciale mi sentii stranamente meglio. Per certi versi sollevata.

La scelta dell'albero mi aveva distratta e per un po' non avevo pensato ai nostri casini.

Andare a comprare un albero di Natale era qualcosa che non facevo più da una vita. Da quando ero piccola e la mia famiglia sembrava ancora potersi considerare come tale.

Mi aveva messo malinconia e aveva tirato fuori dei ricordi caldi e piacevoli che avevo dimenticato e forse sarebbe stato meglio non riportare a galla. Quando pensavo ai momenti felici della mia famiglia sentivo sempre un peso opprimente al petto e una sensazione di colpa a corrodermi l'animo. La colpa di aver aver rovinato tutto, di aver rovinato la mia intera famiglia.

«Ti va un gelato?» mi chiese, fermandosi al centro del corridoio e rivolgendomi uno dei suoi caldi sorrisi.

«Uhm?»

«Gelato. Ge. La. To.» scandì le parole con un ghigno e anche se non me lo disse a voce mi diede della stupida.

«Oh, sì... perché no.»

«A volte sei proprio una bambina.» Passandomi un braccio intorno al collo mi tirò contro di sé e la quiete appena conquistata andò a pezzi.

La reazione del mio corpo fu imbarazzante e psicologicamente devastante. Mi resi conto nell'immediato di come la sua presenza e il suo tocco riuscissero a destabilizzarmi. Era frustrante sentirsi sgretolare, sentirsi esplodere e soffocare a ogni sua gentilezza mentre lui non sembrava minimamente scalfito da quella nostra vicinanza.

Mi faceva anche capire quanta differenza ci fosse tra noi, quanto diversamente mi guardasse. Per lui non ero una ragazza, una donna. Per lui ero Robin, una ragazzina. Proprio come mi chiamava.

Una fitta al cuore. Il sorriso mi svanì dalle labbra.

Posai una mano sul suo fianco e lo allontanai da me, beccandomi uno sguardo interrogativo. Sembrò preoccupato. «Vado a prendere un tavolo» sussurrai, insoddisfatta di quella reazione.

Rimase immobile mentre prendevo le distanze. «Robin...»

«Uhm?»

Scosse il capo e abbozzò un debole sorriso. «Nulla. Che gusti vuoi?»

Scrollai le spalle. In quel momento sentivo lo stomaco chiuso in protesta. Se lo avessi ascoltato non avrei mandato giù niente. «Scegli tu. Stupiscimi.»

Patetica. Sei proprio patetica.

Annuì, continuando a guardarmi come se cercasse di decifrare il mio sguardo o volesse dirmi qualcosa. Poi si passò una mano nei capelli e lasciandomi lì andò verso la gelateria.

«Che sfigata. Sono senza speranza» biascicai a denti stretti, insultandomi senza mezze misure.

Se non fossi mai diventata sua coinquilina sarebbe stato meglio.

Mi sarei risparmiata queste scene patetiche.

E dire che all'inizio non ne ero nemmeno così attratta. Al Missan tutte gli sbavavano dietro, nessuna eccezione. E io i primi tempi, quando era argomento fisso di Eve e Beth, lo trovavo bello ma ingessato; troppo gelido per i miei gusti.

Ma nel privato...

Nel privato Lattner cambiava sotto un'infinità di punti di vista e quel professore dall'aria austera e antipatica si trasformava nel giovane uomo che riusciva a mandarmi in tilt il cervello.

Simpatico, dispettoso, premuroso e poi forte e determinato, coraggioso e spaventoso quando la sua parte oscura usciva a galla.

Avrei dovuto capirlo quando mi ha bloccato il pugno in corridoio che era di tutt'altra pasta.

O al modo in cui ha atterrato Sullivan e i suoi.

O a quando ci siamo baciati così avidamente, come se ne dipendesse la nostra vita...

Sbuffai. Era inutile pensare a lui sotto una luce romantica. Non c'era niente tra noi. Non ci sarebbe mai stato.

L'attrazione che provava quando calava i panni del motociclista era quel genere di trasgressione che nasceva indossando una maschera.

Niente limiti, niente paletti sociali, niente identità.

In realtà era solo il brivido del proibito, nulla di più.

Andai a prendere posto in uno dei tavolini liberi e lo guardai mentre faceva la fila. Era inconsapevolmente bello e questo lo rendeva se possibile ancor più pericoloso.

Stupido Lattner!

I jeans neri gli fasciavano le gambe come una seconda pelle, evidenziando il sedere sodo che riusciva a ipnotizzare lo sguardo. Ne avevo viste parecchie di compagne al Missan schiantarsi contro le più svariate cose mentre glielo fissavano. Gli strappi sulle ginocchia e le cosce insieme ai capelli sciolti e spettinati poi lo gettavano nell'immediato nella categoria dei cattivi ragazzi. Quelli in grado di farti battere il cuore fino a scoppiare per poi strappartelo dal petto con la medesima facilità.

Se fosse venuto al Missan vestito in quel modo, ci sarebbe stata una moria consistente di collegiali. Avrebbe fatto esplodere cuori, impazzire ormoni e azzerato le speranze degli altri maschi. Ci sarebbe stato un bagno di sangue. Le ragazze si sarebbero uccise pur di camminargli vicino. Era una fortuna che addotasse un abbigliamento differente e non sorridesse a quel modo.

Potevo quasi considerarlo uno spettacolo privato, che potevo godermi solo io.

Mi afflosciai sul tavolino e tornai a guardarlo. Oscillava da un piede all'altro aspettando il proprio turno. La fasciatura al braccio non sminuiva minimamente la sua aura da figo, tanto che alcune ragazze gli si affiancarono e li vidi parlare.

«Sei così stupido che nemmeno ti rendi conto che ci stanno provando» biascicai, appoggiando la guancia al palmo della mano.

Le ragazze ridevano più del necessario, si toccavano nervosamente i capelli e lo mangiavano con gli occhi. Come dar loro torto?

Almeno non erano collegiali. E questo automaticamente gli dava qualche probabilità in più di riuscita, anche se speravo incespicassero nelle parole e gli ruttassero in faccia perdendo così tutto il loro fascino.

Oh, sei proprio scorretta. E stronza!

Una le posò una mano sul braccio sano e si avvicinò al suo viso dicendogli qualcosa che non potevo sentire ma che lo fece sorridere. Mi venne voglia di alzarmi e picchiarla usando l'albero di Natale, invece mi colpii la faccia a mano aperta.

Diavolo, sono gelosa?

Quand'è che sono arrivata a essere gelosa?

Lattner rise, si passò una mano dietro la nuca e poi voltandosi in mia direzione mi indicò da lontano con un dito. Le ragazze puntatono su di me lo sguardo e una fitta allo stomaco mi avvisò che probabilmente mi avevano appena lanciato un anatema.

«Oh, bene. Usa me per liquidarle» borbottai, arrabbiata e allo stesso tempo imbarazzata, con le guance pulsanti di vergogna e lo sguardo assottigliato in un'espressione di pura morte.

Le due trasalirono e si allontanarono in tutta fretta. Fu una bella sensazione, anche se durò poco e fu del tutto inutile.

Lattner sorrise e mi fece l'occhiolino poi si voltò per prendere l'ordinazione, era il suo turno.

Volevo morire. Non c'era nulla di più patetico che provare interesse per qualcuno che nemmeno ti considerava una vera donna.

Era umiliante e abbassava drasticamente la pochissima autostima che ero riuscita a raccomolare in quei patetici diciotto anni.

Mi stavo crogiolando nell'autocommiserazione quando sentii picchiettarmi sulla testa e allora sollevai il capo notandolo. Era tornato.

«Ecco qua. Ho preso i miei stessi gusti.»

Tormentai, silenziosa, il labbro mentre afferrando il mio gelato lo ringraziavo tacitamente con un sorriso tirato. Era una giornata no.

Troppi pensieri, troppe preoccupazioni, troppe insicurezze.

Lattner si mise a sedere davanti a me e le sue labbra posate sul dolce catturarono completamente la mia attenzione. Fu come se quel gelato canalizzasse ogni mia perversa e indecente fantasia. «Ti piace?»

Oh, sì... anche troppo.

Con un leggero risucchio spostò le labbra sui vari gusti e infine tirò fuori la lingua leccandolo piano, come se gustasse il loro dolce sapore sciogliersi sul palato.

Deglutii.

Subito mi saltò all'occhio la pallina del piercing e per poco non soffocai al ricordo dell'intenso ed erotico bacio che c'era stato tra noi.

Allora ce l'ha. Ha un fottutissimo piercing alla lingua.

«Da quando hai... insomma, un... un piercing alla lingua?» Era una domanda lecita, non rischiavo di smascherarmi; in fondo ogni persona lo avrebbe chiesto notando una cosa che non aveva mai visto prima. Soprattutto riguardo i piercing che suscitavano sempre un gran interesse anche a chi, come me, non ne aveva. Eppure per certi versi era come rivivere quella notte sotto la pioggia, tra le braccia del motociclista. Le stesse parole, le stesse domande e forse le stesse risposte.

Lattner allungò la lingua leccando il cono ancora più lentamente. Non staccò gli occhi dai miei e quello sguardo diede vita a un susseguirsi di brividi. C'erano momenti che sembrava volermi mangiare e altri che mi guardava come una bambina. «Da una vita» rispose, mentre arrossivo al ricordo delle medesime parole del motociclista. «Sai, se uno fa attenzione a come parla è facile nasconderlo alla gen...» trasalì. «...te» finì, in un bisbiglio.

Diventammo rossi entrambi, quasi in contemporanea e Lattner si alzò di scatto dal tavolo, barcollando indietro.

«Che succede?» domandai, fissandolo mentre il rossore gli divorava il viso, fin sulle orecchie, fin sotto il collo.

«Ho - ho appena... appena ricordato che - che mi sono dimenticato di prendere una... una cosa» farfugliò, indietreggiando e incespicando nella sedia che quasi finì a terra. «Arrivo subito. Aspettami qui.»

«Che?»

Si allontanò quasi di corsa, lasciandomi imbambolata lì con il gelato a gocciolarmi sulla mano.

E ora che gli era preso? Possibile che anche a lui fosse tornato in mente il nostro bacio?

Dannazione, Lattner!

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