41 - L'ARMADIO

La mia notte da Robin era stata travagliata e pressoché insonne. Avevo faticato ad addormentarmi e mi ero rigirata nel letto con tormento.

Dormire come semplice ragazza sotto lo stesso tetto di Lattner non era così facile come pensavo.

Allargai le braccia e fissai il soffitto, guardando con la coda dell'occhio l'orologio.

Erano le dieci. Di domenica mattina.

E io non volevo alzarmi.

Quando bussarono alla porta della camera ringraziai il cielo che Lattner non fosse entrato con il suo solito passo di carica aprendo tende, finestre e gridando al mondo il suo entusiasmo mattutino.

Lo stesso entusiasmo che io avevo davanti a un pacchetto di sigarette e una pizza. Ma questi son dettagli.

«Sei sveglia, Rob?»

Mugolai.

«Posso aprire?»

Mugolai ancora.

Lo sentii ridere e un attimo dopo spuntò la sua testa mora dietro l'anta semiaperta della porta. «Allora? Dormito bene?»

Sì, certo. Come può dormir bene un tossico in astinenza della sua dose.

«Ho dormito dei quarti d'ora scaglionati lungo tutta la notte.»

Aprì del tutto la porta allungando un braccio fino a toccare l'architrave sulla propria testa. Con lo sguardo seguii il movimento notando che i muscoli del braccio si gonfiavano, tesi sotto la maglietta.

Eh, bé... mica male come risveglio.

Quando era dentro i suoi completi pomposi da professorino severo non si notava ma, in realtà, Lattner aveva un fisico da paura. Lo avevo visto con i miei occhi scettici al Count. E da lì i suoi addominali scolpiti avevano popolato qualche mio particolare sogno che c'entrava ben poco con la matematica.

«Pensavo di fare colazione e poi andare al centro commerciale. Che ne dici?»

Mi misi a sedere sul letto con uno sbuffo, passandomi una mano nei capelli. Le punte andavano per i fatti loro, facendomi assomigliare alla brutta copia di un riccio che ha appena ricevuto un gavettone.

«Devo farmi una doccia prima.»

«Allora io nel frattempo vado a fare un salto al minimarket qua vicino e prendo tutte le cose della lista che abbiamo fatto l'altro giorno.»

Mi massaggiai le tempie. «Aggiungici lo shampoo.»

«Non ce n'è più in bagno?»

«Poco. Lo finisco ora che ci vado.»

Mi posò la mano sulla testa, affondando le dita nelle ciocche e le agitò scompigliandomi ancor più i capelli. «Così avremo lo stesso odore.» Nel suo tono non vi lessi malizia, eppure, la mia mente perversa andò subito a toccare pensieri lascivi e di conseguenza arrossii.

Era seccante.

Odiavo fare questi pensieri, odiavo vedere come il mio corpo rispondeva al suo tocco con tanta naturalezza, odiavo la debolezza delle mie intenzioni. Più cercavo di vivere questa convivenza normalmente, più cadevo vittima dei miei sentimenti contrastanti.

Era imbarazzante.

Probabilmente Lattner mi vedeva come una sorellina o un impiccio di cui si era preso carico. Mentre io mi rendevo conto con sempre più fatica che i miei occhi lo guardavano diversamente.

«Ehi, è tutto okay?» mi chiese, staccando la mano dalla mia testa e facendo qualche passo indietro.

No, diamine! Non è tutto okay.

Non è per niente okay dentro questa testa e questo cuore, cazzo!

«Sì, sì... sono solo un po' stanca.»

«Bé, cerca di riprenderti!»

«Senti un po'... ma che senso ha andare al minimarket se poi andiamo al centro commerciale?»

«Ah, bé... al centro commerciale ci andiamo per fare un giro e ovviamente... per scegliere un albero di Natale.»

La notizia mi rianimò. «Che? Facciamo l'albero?»

Lo sguardo che mi rivolse fu l'ennesima stilettata al mio strano cuore. Fu la tipica espressione che un padre può rivolgere al proprio figlio.

Non potevi aspettarti sguardo differente.

Con otto anni di differenza come speravi ti guardasse?

«L'albero di Natale non può mancare in una casa.»

Ora che improvvisamente l'ingombrante presenza di Robert era stata spazzata via, cercavo di capire il significato delle espressioni che mi rivolgeva. Ed era molto più difficile di quanto crederessi.

E molto più doloroso.

A volte sembrava un fratello maggiore, altre un padre protettivo. Non capivo mai se nei suoi sguardi c'era l'amorevole dolcezza che si ha verso un familiare o qualcos'altro.

In caso contrario, era pazzo di me.

Innamorato fino al midollo.

Altrimenti non si poteva spiegare il suo spiccato senso di protezione e certi comportamenti affettuosi.

Sì, certo. Nei tuoi sogni.

Sorrisi alla mia ingenuità e spostando le coperte posai i piedi in terra, pronta per iniziare anche quella domenica.

Lattner rimase immobile dov'era fissandomi per un attimo e girandosi di colpo. «Me - me ne vado» sbottò andando come un fulmine verso la porta e richiudendosela dietro con un tonfo.

«E ora che diavolo gli prende?» berciai, passando davanti allo specchio e notando che avevo il pigiama aperto che mostrava in tutta il suo splendore la mia quarta abbondante tenuta a bada da un reggiseno verde menta con disegnate delle angurie.

Il viso mi si accese di rosso quasi in automatico.

Finto fratello premuroso o meno, almeno le tette me le aveva notate se si era dato alla fuga.

Mi passai le mani sulla faccia.

Dannazione, Lattner!

Quando uscii dalla camera con tutto il materiale per farmi il bagno lo vidi intento a trafficare con i piatti in cucina. Dopo che la Wood ci aveva fatto quella scenata rompendone un paio, ci era venuta l'idea di cambiare l'intero servizio.
Ne aveva scelto uno davvero colorato, con disegni astratti e sfumature di rosso. Come sempre i nostri gusti erano combaciati. Era bizzarro come anche per le cose più insignificanti ci trovassimo d'accordo.

«Bé, io vado a lavarmi allora...»

«Okay... okay... io sistemo qui e vado.»

Mi chiusi in bagno e lasciai scorrere l'acqua nella vasca, aspettando che si riempisse.

Nel frattempo restai di fronte allo specchio a guardarmi.

Era cambiato così tanto in questo ultimo mese... in me, soprattutto.

Potevo ancora definirmi la vecchia Robin? Sì e no.

Ero io e allo stesso tempo ero diversa. Certi tratti di me erano rimasti uguali, altri li avevo smussati.

Potevo dire che fosse anche grazie a Lattner? Sì, forse sì. Forse qualche merito andava anche a lui.

Quando notai che la vasca era colma, mi tolsi i vestiti immergendomi completamente.

Calda al punto giusto e schiumosa come piaceva a me. Ci avevo gettato dentro una bomba di sapone. Adoravo quegli aggeggi. Le lanciavi in acqua e sprigionavano il sapone come se stessero per esplodere da un momento all'altro. L'acqua era verde e profumava di menta.

Un paradiso.

Appoggiai la nuca contro le piastrelle del bagno e chiusi gli occhi.

Questo era il mio momento.

Questo era il mio attimo di pace.

Nella vecchia casa non avevo la vasca. Mr.Brenn aveva installato solo una misera doccia.

Sbattei le mani sulla superficie e il movimento creò voluminose nuvole di schiuma.

Ripeto: il paradiso.

Ne avevo bisogno. Dopo gli ultimi eventi sentivo la necessità di ritagliarmi un attimo di coccole solo per me.

Lo sfratto, la ricerca dell'appartamento, la nascita di Robert, Lattner, la Wood, il motociclista, Nate che non era chi speravo, Sullivan che sapeva bene chi invece ero... tante, troppe cose. Ne erano successe tante, di belle e brutte.

Avevo solo bisogno di un break.

E magari un milione di dollari.

Ero entrata da meno di dieci minuti e già il movimento leggero dell'acqua mi stava cullando per trasportarmi in un'altra dimensione.

Sospirai trattenendo un sorrisetto soddisfatto e sollevai gli occhi sul soffitto incrociando un enorme corpo peloso con tanto di una infinità di lunghe zampette pelose e dei fottuti occhietti che mi fissavano.

Ve l'ho mai detto che la terribile Scorpion Queen odia terribilmente i ragni? Bé, ora lo sapete.

Fu questione di un attimo prima che il mio corpo e il mio cervello entrassero in allarme rosso.

«Oddio, no!» strillai, perdendo le chiavi del mio paradiso.

Era bastato un dannato ragno e la mia pace era andata istantaneamente a farsi fottere.

Lanciando un grido epico, che sembrava uscito più dalla bocca di qualche creatura che veniva sgozzata, mi lanciai dalla parte opposta della vasca.

«Oddio! No! Vaffanculo, no!»

La porta si aprì di scatto e Lattner si precipitò dentro come un tornado. «Che succede? Che succede, Rob?» Aprì con un colpo secco la tenda della doccia e questo non fece altro che ampliare la mia, già in corso, crisi isterica.

Il bagno sembrò diventare un campo di guerra.

Il ragno cadde in acqua con tanto di movimento rapido di zampette per cercare di salvarsi.

Cercai di calciarlo e di colpirlo mentre Lattner si allungava sulla vasca per fare non so cosa.

«Sono nuda pezzo di stronzo! Sono fottutamente nuda!» gridai lanciandogli lo shampoo, il bagnoschiuma e nel frattempo cercando di non affogare in venti centimetri d'acqua con una mano a coprirmi quel che potevo.

Molto poco, purtroppo.

Lattner si coprì la faccia con le braccia cercando di non guardare. Anche se il suo rossore mi diceva che ormai era troppo tardi.

Il ragno nel frattempo mi era arrivato pericolosamente vicino.

Lanciai l'ennesimo grido.

«Che succede? Che cazzo succede?»

«Un ragno. Un ragno!» gridai aggrappandomi alla tenda mentre sgusciavo, nuda, fuori dalla vasca.

«Lo prendo io! Lo tol–»

Ma prima che riuscisse ad allungarsi verso la vasca il mio piede bagnato si posò sulle mattonelle e scivolò come se lo avessi messo su una saponetta.

Lattner mi acciuffò prima che mi spiaccicassi in terra ma quando la sua mano saldò la presa fu uno shock scoprire che mi aveva afferrato proprio una tetta.

Entrambi sollevammo di scatto la testa per guardarci a occhi sgranati.

«E – ecco io... i – io... mi – mi dispiace... mi...» La sua mano ancora lì, ferma sul mio seno.

Il suo viso iniziò a tingersi di rosso piano piano, dalla base del collo fin sopra le orecchie.

Un tic nervoso iniziò a farsi strada sul mio viso. «T – tu! Tu! Farabutto...» sibilai, quasi in un ringhio.

Mi lasciò di colpo facendo alcuni passi indietro e quasi incespicò nei miei panni che erano caduti in terra.

«Io non – non... ecco, non..»

Lo strattonai per la maglia girandolo verso la porta. «Esci fuori di qui» ringhiai con una voce molto simile a quelle dei demoni che si vedono nei film horror.

Si coprì con entrambe le mani il viso. «Scusa, scusa, scusa... pe - pensavo che – che...»

«Che cosa? Che sono un uomo?» Con un calcio aprii la porta e lo lanciai fuori richiudendogliela subito alle spalle.

Mi ritrovai ansimante, nuda... ripeto: nuda, al centro del bagno.

Sembravo un toro, sbuffavo sonoramente e ringhiavo.

E fanculo il mio paradiso.

Maledetta merda di un ragno!

«Ehm, Ro – Robin?» mi chiamò Lattner dall'altra parte della porta.

«Che c'è?» ringhiai.

«Va – vado a... bé, a fare la spesa!»

«Eh! Vai, vai!» sbottai, appoggiando le mani al lavandino con un colpo secco.

Mi fissai nello specchio e...

Bé, sembri appena uscita da un manicomio.

Decisamente, sì!

E Lattner ti ha visto nuda.

Completamente nuda.

Interamente nuda.

Volevo morire.

E ti ha toccato una tetta.

Tenendomi al lavandino mi afflosciai in terra, piegandomi sulle ginocchia e appoggiando la fronte al mobiletto sotto il lavabo. Mi sentivo il cuore scoppiare.

Non poteva andare di male in peggio. Insomma, quale professore ti vede completamente nuda e per evitare che ti schianti a terra ti afferra per una tetta?

Ma d'altronde, chi è il sano di mente che abita con un professore?

Tu! Baka!

Giusto. Io.

Grazie voce della coscienza aka Takeru.

Un momento...

Da quando la mia voce interiore si era trasformata nel mio miglior giappo-amico? Va bé, non facciamoci domande.

Afferrai l'asciugamano e me lo passai sul corpo, aprendo l'asciugatrice e recuperando un cambio di abiti per non uscire in intimo. Non si sa mai che Lattner fosse ancora fuori e gli servisse il colpo di grazia per quella giornata partita già di merda.

Una volta vestita, già che c'ero, piegai anche i suoi panni.

Mi piacevano gli abiti che indossava fuori dal contesto lavorativo, quando non doveva sembrare un professore dall'aria impeccabile.

Le tute gli stavano divinamente e quando invece metteva jeans e felpa si svecchiava di almeno cinque anni, sembrando quasi un mio coetaneo.

Per non parlare di quando si lasciava i capelli sciolti e quel nero pece faceva a cazzotti con l'azzurro dei suoi occhi.

Non aveva nulla da invidiare a quei modelli ultra fighi che campeggiavano un po' su tutti i cataloghi stile Vanity Fair.

E ti ha toccato una tetta...

Sì, bene. Grazie per avermelo ricordato cara coscienza.

E ti ha visto completamente nuda come mamma ti ha fatto...

Roteai gli occhi al cielo e afferrando la pila di panni piegati uscii dal bagno.

Muffin mi fece uno dei suoi soliti agguati, gettandosi tra i miei piedi e cercando di farmi cadere.

Lo smarcai con dei zig zag che per poco non mi fecero crollare tutto il carico e raggiunsi la camera di Lattner dopo un'estenuante lotta teppista vs palla di pelo.

Vinse la palla di pelo, dandomi la stoccata finale prima di defilarsi in qualche pertugio pronto per il prossimo agguato.

Quando entrai in camera di Lattner mi parve se possibile ancora più incasinata della volta precedente. «Ah, dannazione! Hai l'animo dell'artista, eh?» berciai, schivando pile di libri, fogli, compiti e documenti di ogni sorta.

Quando arrivai davanti all'armadio sorressi i panni con una mano e con l'altra afferrai il pomello aprendo l'anta.

Guardai la fila di panni appesi meticolosamente, alla ricerca di qualche attaccapanni ma qualcos'altro catturò completamente la mia attenzione. Qualcosa piegato e sistemato in terra, come se fosse un ritaglio che non si sposava bene con il resto del guardaroba.

Sentii i polmoni svuotarsi d'aria e i panni mi caddero di mano.

Poi ricordai.

Ricordai l'ostinazione con cui aveva tenacemente cercato di non farmelo aprire.

Ricordai come mi aveva pregato di lasciare stare.

Non aprire l'armadio.

Le gambe non mi ressero e scivolai in terra, col culo sopra la massa di vestiti che mi erano appena caduti.

L'armadio no, Rob.

Ti prego, lasciali sulla sedia.

Allungai le mani tremanti a sfiorare la risposta a tutte le mie domande.

Un casco. Un paio di occhialoni vintage. Una bandana con la sagoma di un teschio. E quell'inconfondibile chiodo con la scritta The Skulls e disegnato il teschio con la corona.

Non può essere.

Non può essere lui.

Non può.

Passai i polpastrelli sul tessuto, spingendomi l'altra mano sul petto nella speranza che il cuore non mi sfondasse la cassa toracica.

Non c'erano dubbi, quella era la sua roba. Quella era la roba del motociclista.

Tutto questo tempo a cercarlo.

Tutto questo tempo a chiedermi chi fosse.

Ed era qui. Sotto i miei occhi.

Così vicino. Così vicino.

«Oddio... oddio... oddio...» Era una follia, una pazzia, un'idea che non mi aveva mai minimamente sfiorato.

Le dita tremarono sul teschio, strinsero debolmente il tessuto di pelle del giacchetto, sfiorarono piano la durezza del casco.

È lui.

È lui.

È Lattner.

Lui è il motociclista.

E ogni tassello andava a posto. Ogni pezzo si incastrava bene.

Ogni dettaglio arricchiva il complesso personaggio che era Lattner.
E io non potevo crederlo.

E io non riuscivo nemmeno a pensarlo.

E non potevo rallentare quel cuore che mi stava scoppiando in petto, né far uscire quel respiro incastrato in gola.

Fuma Marlboro.

Lancia la cicca della sigaretta uguale a lui.

Era congelato quando ci siamo ritrovati davanti alla porta. Ma certo... aveva lasciato il giacchetto a me.

Richiusi di scatto l'anta assicurandomi che tutto fosse rimasto uguale.

"Non ti lascio cadere."

Me lo aveva detto lui. Due volte. Una da motociclista, una sul tetto.

Ragazzina. Ragazzina. Ragazzina.

Sempre.

Mi ha sempre chiamato così.

Sempre.

Non si voleva far togliere la maglia quando ha avuto la febbre....

Il tatuaggio, ma certo. Non poteva.

"Hai qualche peccaminoso segreto da nascondere?"

"Già."

Raccolsi i panni in terra di tutta fretta, le gambe tremanti e il respiro che ancora non usciva a dovere.

"Hai provato a parlargliene?
Se è un professore sarà sicuramente un tipo intelligente, brillante... un tipo intuitivo, perspicace... dotato."

Mollai il carico di panni sul letto, senza nemmeno premurarmi di ripiegarglieli.

"Si vede che non lo conosci. Thomas è così tonto che non si accorgerebbe che piove nemmeno sotto la pioggia."

"Magari finge."

Magari finge.

Magari finge.

Finge. Finge...

Trasalii. Avevo detto al motociclista che mi piaceva Lattner. E che mi piaceva anche lui.

"Ironico."

Hai ragione Lattner.

Ironico.

Ironico essermi innamorata della stessa persona in due contesti totalmente opposti.

Innamorata? Un. Momento.

Mi passai una mano nei capelli, sulla faccia, cercando di riprendere possesso dei miei pensieri. Cercando di ridarmi un contegno. Cercando di calmare questo cuore. Cercando...

"Non fare quella faccia per me... sennò mi rendi tutto più difficile."

Anche questo. Me lo aveva detto due volte.

Lattner. Il motociclista.

Entrambi.

La stessa persona.

Diversi ma uguali. Opposti ma gli stessi.

Uscii di corsa dalla sua camera. Mi richiusi la porta alle spalle con un tonfo.

Ragazzina. Ragazzina. Ragazzina.

"Ti è così difficile ringraziare?"

Fui costretta ad appoggiarmi all'anta, il respiro che mi usciva in ansiti rumorosi, gocce di sudore che mi imperlavano il viso.

Ero certa di aver una faccia tremenda. Sconvolta.

Mi sentivo un fremito unico. Non capivo nemmeno dove finiva un brivido e dove iniziava l'altro.

Che vuol dire tutto questo?

Che vuol dire, eh?

Annaspando per respirare mi trascinai verso la sala. Mi girava la testa, non riuscivo a smettere di tremare, il cuore pompava così forte che i battiti si erano fusi l'uno con l'altro.

Che vuol dire tutto questo, eh? Che vuol dire, Mr.Lattner?

Mi presi la testa tra le mani, raggomitolandomi in terra con la schiena contro il divano.

Dov'è il confine?

Dov'è che finisce Lattner e inizia il motociclista?

Qual è il vero Lattner? Qual è la vera personalità di Lattner?

La porta di casa si aprì dopo un breve trambusto di chiavi e un attimo dopo Lattner mi ritrovò accovacciata in terra con le mani ancora aggrappate ai capelli.

Ci guardammo in silenzio.

Strabuzzò un paio di volte gli occhi e mi fissò teso. «Ehm... che – che succede, Rob?»

Sei sempre lo stesso o fingi?

Quale sei dei due? Sei uno o entrambi?

Sei il tonto dispettoso o il misterioso pericoloso?

Lo stavo fissando così intensamente che lo vidi deglutire.

«Se – sei ancora arrabbiata per – per il bagno?» farfugliò strizzando la sportina della spesa.

Ti ha visto nuda. Tutta nuda, già.

Al ricordo avvampaii di colpo.

Poi, un'altra consapevolezza si fece strada in me e non potei far altro che registrare la situazione con lo sguardo fuori dalle orbite e la detonazione di un grido isterico che lo fece trasalire abbastanza da lasciar cadere la spesa.

Ci siamo baciati.

Io e Lattner ci siamo baciati.

Lui è il motociclista e io e il motociclista ci siamo baciati pesantemente.

Il ricordo di quella notte sotto la pioggia mi riempì di brividi e batticuore.

Aprii la bocca e presi una grossa boccata d'aria. Mi alzai di scatto da terra, serrando i pugni e sputando l'aria dalle narici come un toro. Sentivo il viso così caldo che cuocermi un uovo sulla faccia non sarebbe nemmeno risultata un'impresa impossibile.

Dovevo fuggire. Sì, darmela a gambe. Ora. Subito. Now.

Perché... tempo qualche secondo e sarei finita a tappeto dopo aver spruzzato un getto di sangue dal naso come una fontanella.

«Se – senti, Rob... parliamone. Ti giuro che – che avevo buone intenzioni.» Sollevò le mani per arrestare la mia corsa.

Gli arrivai davanti tremando peggio di un epilettico durante una crisi e usando ogni briciolo di autocontrollo gli cercai di sorridere. Dalla faccia allarmata che assunse penso che più che un sorriso mi uscì un'espressione degna di un paziente psichiatrico o Joker in una delle sue migliori esibizioni. «Va – vado al minimarket.»

«Che – che?» Sembrava confuso. «Ma ci – ci sono appena stato.»

«Sì, bé... ho dimenticato una cosa e devo assolutamente andare al minimarket. Sì, esatto... proprio così. Al minimarket. Già.» Parlavo così veloce da mangiarmi le parole.

«O – okay.»

Mi fiondai verso la porta come un razzo, afferrando le scarpe senza nemmeno indossarle.

Non appena fui fuori incomiciai a correre.

A correre. A correre.

Correre fino a sentire male ai piedi, fino a perdermi nel pensieri, nei sensi, nella strada, nei posti che non conoscevo, nel vuoto.

Attraversai isolati e isolati, strade, un'infinità di negozi e mi fermai solo quando i miei piedi scalzi affondarono nell'erba diun parco.

Lasciai cadere le scarpe in terra e posai le mani sulle ginocchia, respirando come un trattore.

«È lui. È lui. È lui.»

Ero lontana da casa. Lontana dalla confusione del mio cuore.

La tensione si sciolse in un attimo, facendomi scivolare nell'erba con i muscoli delle gambe che bruciavano tanto quanto i polmoni.

Rimasi alcuni momenti immobile con la faccia premuta sull'erba poi mi girai a guardare il sole alto in cielo, le nuvole bianche e gli stormi di uccelli che sembravano danzare.

Non riuscivo a smettere di sorridere. Sentivo le guance tirare da quanto mi faceva male quella posa. «E così sei tu, eh? E così ti ho trovato...»

Senza nemmeno saper bene il perché scoppiai a ridere.

A ridere fino alle lacrime, a crepapelle.

A ridere così forte che fui costretta a tenermi la pancia.

Ti ho trovato, ti ho trovato, ti ho trovato...

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