40 - UN NUOVO INIZIO

Sapeva tutto. 

Sempre.

Lo aveva sempre saputo.

In ogni occasione. In ogni istante.

Ogni singolo attimo di noi che credevo scandito dal mio alter ego maschile, non esisteva, era una menzogna.

Esistevamo io e lui.

Io e Thomas.

E improvvisamente crollavano tutte le certezze che mi ero costruita in quel mese, lasciando aperto uno spiraglio a un pensiero torbido che mi aveva sfiorato qualche volta ma che avevo accantonato pensando di aver immaginato tutto.

Ora mi sembrava perfino di capirlo un po' di più, capire quei suoi atteggiamenti bizzarri o quelle sgridate da ragazzo geloso.

Non che lui lo fosse, credo.

Però sicuramente era un tipo protettivo. Con me lo aveva dimostrato più di una volta.

Ma perché?

Perché ero sua alunna?

Per via del mio triste passato?

Perché ero più piccola di lui?

Perché ero una ragazza?

Avrei pagato una montagna d'oro pur di farmi un salto nei suoi pensieri. Solo 5 minuti. Solo un po'.

Nate mi passò accanto, sporgendosi davanti al mio viso per attirare la mia attenzione; qualcosa che quella sera proprio non riuscivo a dargli. «Chiudiamo, O'Neil?» domandò con il solito sorriso gentile.

Dopo l'appuntamento, tra noi era andato tutto a rotoli, uno scatafascio.

Non appena compreso che il motociclista non era lui il mio interesse era appassito e via via del tutto sfumato.

E questo la diceva lunga su ciò che credevo ci fosse tra noi.

Rimpiangevo quei baci che ci eravamo scambiati, perché ero convinta che avevo affrettato tutto, avevo preso la palla al balzo come faceva la vecchia Robin, avevo cavalcato l'onda di quel tenue interesse scambiandolo per qualcos'altro.

Ed ero caduta. Dando proprio una bella culata in terra.

Per fortuna non mi ero fatta male ma non potevo dire lo stesso di lui.

Notavo come mi guardava, come a volte spiava i miei movimenti, come si incantava. Non potevo dire con assoluta certezza che fosse già innamorato ma il suo interesse era palese.

E mi dispiaceva.

Avevo preso un abbaglio. Ero stata superficiale. Ma alle persone non puoi dire che le hai baciate per capire le tue emozioni, no? Non funziona così.

Bé, tranne con il motociclista.

Con lui ha funzionato. Non si è lamentato.

Mi passò la scopa e iniziai a spazzare svogliatamente, lo sguardo perso nei tavoli ancora da sparecchiare e nella polvere che sembrava depositarsi sulle cose con una tenacia invincibile. Più invincibile di qualsiasi spolverino.

Il campanello d'entrata tintinnò, sintomo che qualcuno era appena entrato.

«Siamo chiusi» dicemmo all'unisono ma quando mi voltai e vidi Lattner in piedi al centro del locale le mani mi tremarono e tutto sembrò ancor più reale.

Indossava un paio di jeans neri pieni di strappi, una camicia del medesimo colore e il solito giacchetto lungo. Niente occhiali che filtrassero l'azzurro di quegli occhi e i capelli ribelli lasciati liberi da ogni acconciatura.

Bellissimo, come sempre.

Spaventoso più di prima.

Quel giorno, al ritorno a casa, ero scappata come una ladra.

Avevo messo piede su "suolo nemico" giusto un secondo prima di fuggire al Joily come se scappassi dalla Morte in persona. E dire che prima dell'inizio del mio turno avevo tre abbondanti ore vuote.

In realtà cercavo solo del tempo per metabolizzare il tutto.

Lo avevo accettato, certo. Anzi, pensavo mi fosse andata perfino di lusso dopotutto.

Eppure restargli di fronte nei miei panni, nei panni della vera Robin, ora mi spaventava più di quanto avrei mai ammesso.

«Ho sempre desiderato fare un salto a vedere dove lavori» disse Lattner, guardandomi con insistenza. Teneva la mano sana dietro la schiena mentre quella del braccio lussato era abbandonata morbidamente lungo un fianco. Avrei voluto prenderlo a testate solo per il fatto che fosse lì senza la fasciatura a tracolla.

«Ci sei venuto. Mi hai portato le chiavi di casa il primo giorno che son venuta ad abitare da te, ricordi? Le hai date proprio a Nate.» Segnai il collega con la punta della scopa e questo si girò a darmi le spalle sistemando la pila di alcolici dietro la cassa.

Indubbiamente non faceva i salti di gioia per la presenza di Lattner lì, sul suo territorio.

I maschi sono strani.

L'altro annuì con un ghigno. «Sì, ma non ti ho mai visto vestita così» disse indicandomi con un'alzata di mento.

Abbassai lo sguardo sulla mia divisa da maid café e irrigidendomi feci qualche passo indietro mentre avanzava divertito.

Nate ci osservava in silenzio dal riflesso nello specchio attaccato al muro dietro gli alcolici. La sua espressione era paragonabile a quella di qualcuno che ha appena succhiato un intero limone.

«È - è solo una divisa. Non dobbiamo far nulla di ciò che pensi.» Non so perché ma ce lo avrei visto bene a Lattner in un maid café.

Lui ghignò. «Quindi non mi chiamerai Padrone... non sarai la mia personale cameriera... non mi servirai con sguardo adorante e completa devozione.» A ogni parola un passo in mia direzione.

Troppo vicino.

Troppo, troppo vicino.

Gli posai una mano sul petto per mantenere quella distanza che già mi sembrava poco accettabile e una scarica mi attraversò il palmo colandomi a picco lungo la schiena.

Possibile che quel contatto e il mio cuore scalpitante fossero correlati? Sì, decisamente. «No – non scherzare.»

«E chi scherza? Ho sempre desiderato sentirmi chiamare Padrone!»

«Zitto! Zitto!» Lasciai cadere la scopa cercando di tappargli la bocca ma prima di raggiungerlo sfilò la mano da dietro la schiena e interpose tra noi una rosa.

Una rosa rossa.

Strabuzzai gli occhi fissando il fiore quasi fosse l'arto di un cadavere, con un certo turbamento e una certa perplessità. Nessuno mi aveva mai regalato una rosa. Mai.

A dir il vero nessuno mi aveva mai regalato dei fiori. Era una novità per me.

«Per te» disse Lattner, aspettando che la prendessi; invece la continuai a guardare come si può guardare una boccetta di veleno, con sospetto e timore.

Il cuore iniziò a marciarmi in petto a un ritmo più sostenuto.

Sentivo crescere tra noi un imbarazzo in grado di strapparmi il respiro e farmi arrossire ma non volevo dargliela vinta.

Mi aveva preso in giro per tutto questo tempo. Sì, bé... era stata una presa in giro reciproca, lo so... ma volevo imparare a essere meno fragile vicino a lui, meno debole a questi assalti inattesi.

Anche se lui riusciva a spezzarmi con solo un'occhiata.

«E per cosa sarebbe?» Temevo la risposta. Se mi avesse detto qualcosa di dolce o di carino probabilmente gli sarei collassata davanti schiumando dalla bocca come un cane idrofobo.

Chiaramente morta.

Non sapevo come gestirla questa situazione, né come muovermi ond'evitare di farmi male.

Perché sarebbe finita così se avessi ceduto. Mi sarei fatta male, molto male.

«Bé... di solito si portano i fiori quando si diventa donne, no?»

Strabuzzai gli occhi e gli strappai la rosa di mano. «E questo che vuol dire?»

Si piegò in avanti afferrandomi il naso con due dita. «Non sei diventata una donna oggi, Robert?» Scandì bene il nome del mio alter ego, trattenendo un sorrisetto che riusciva a risvegliare la mia vena teppista.

Gli schiaffeggiai la mano liberandomi il naso e assottigliai lo sguardo fissandolo trucemente. Dovevo immaginarlo che non ci sarebbero state parole dolci o frasi tenere. Non era qualcosa da Lattner. Stupida io che ci avevo anche solo pensato. Eppure c'era quella rosa, nonostante tutto. «Non lo stai dicendo per davvero, vero?» Sibilai.

«Non è un pensiero carino?»

Strinsi la rosa tra le dita, pungendomi con una spina. «No, cazzo, no» berciai, trafiggendolo con l'ennesima occhiata. «Sono sempre stata donna. Sempre. Sempre e sempre. E tu lo sapevi! Lo sapevi!»

Alzò le mani in segno di resa, cercando di placare quel mio inveire. «Perché ho come l'idea che tu voglia picchiarmi con la rosa?»

«Perché mi conosci abbastanza bene da sapere che sto per farlo» gli risposi a denti stretti.

Sghignazzò, scompigliandomi i capelli. «Non sei felice che sono venuto a prenderti?»

Rimasi un attimo interdetta.

Già, mi era venuto a prendere. Ed era una cosa carina, lo dovevo ammettere.

Ed ero felice, sì.

Mi coprii la faccia con una mano cercando di nascondere il rossore. Ora più che mai avrei voluto picchiarlo.

Si abbassò su di me, vicino all'orecchio. «La puoi portare la divisa a casa?»

«C - che?» sbottai, alzando di scatto la testa, viola. Come riusciva a dire frasi così sfacciate con quell'espressione tanto tranquilla?

«Te l'ho detto, ho sempre desiderato aver una cameriera personale.»

Alzai il braccio con la rosa pronta per colpirlo ma lui mi afferrò prima per un polso poi per l'altro.

Bloccarmi le braccia fu un ottimo escamotage per non essere picchiato a sangue.

«Ma quindi ora sa tutto? Sa anche di quella... com'è che si chiamava... Wood?» chiese Nate, ricordandomi solo in quel momento che era lì anche lui. E probabilmente ci stava fissando con l'irrefrenabile voglia di sbatterci entrambi fuori dal Joily.

Ci voltammo in sua direzione e Lattner, tenendomi ancora per il polso, fece oscillare la mia mano libera che lasciata a peso morto si mosse mollemente su e giù in segno di saluto. Come uno stupido burattino. «Ciao, Newt.» lo salutò, sbagliando nome di proposito.

«Nate» lo corresse immediatamente l'altro che si voltò verso me come a volerlo ignorare. «Allora questo vuol dire che non c'è più bisogno che ti trovi un altro posto. Ho capito bene?»

«Bé, sì... a quanto pare tutto risolto.»

«Quindi Nick sapeva tutto?» domandò Lattner, indicandolo con la mia mano ancora afflosciata nella sua presa. «Sia di te che ti fingevi Robert, sia di Theresa?»

Odiavo quando la chiamava per nome.

«Nate» lo corresse ancora.

«Sì, bé... Nake.» lo liquidò Lattner, sempre usando la mia mano come se stesse giocando.

«Nate con la T.» grugnì l'altro.

«Oh, ma davvero? Okay, scusa Tate.»

Nate si voltò a fissarmi con l'aria di uno che avrebbe tanto voluto sbattergli la testa sulla cassa. «Mi sta prendendo per il culo, vero?»

Trattenni una risata con uno sbuffo. «Temo di sì, Nate.»

Lo vidi digrignare i denti ricacciando in gola qualche frase scortese e poi alzò lo sguardo fissandomi con sgarbo. «Rimettiamoci al lavoro, così chiudiamo e puoi andare a casa con il tuo professore» scandì bene la parola professore, suscitando un ghigno di Lattner a cui non passò inosservato il tono sgarbato.

Per fortuna Lattner non disse nulla e ringraziai mentalmente quella sua accortezza anche se personalmente fui sul punto di dirgli qualcosa io.

Quello che c'era me e Lattner, riguardava solo me e lui. Non erano affari di Nate.

Per la seguente mezz'ora pulimmo nel più totale silenzio, ognuno la sua zona di ristorante e senza alzare la testa dalle proprie mansioni.

Prima di chiudermi nello spogliatoio lanciai l'ultima occhiata incuriosita a Lattner. Si era seduto a un tavolo e stava giocando con la rosa che gli avevo barbaramente riconsegnato.

Mi piaceva il modo in cui si perdeva nei suoi pensieri, aggrottando le sopracciglia e mettendo una specie di muso. Riusciva a essere bello anche quando era concentrato.

Senza contare che l'assenza di occhiali rendeva più facile leggere le espressioni che faceva e in qualche modo leggere lui.

Forse rimasi troppo tempo a fissarlo perché sollevò lo sguardo e mi sorrise.

Uccideva quel sorriso.

Faceva a brandelli il cuore e lo ricomponeva attaccando i pezzi in maniera imprecisa e imperfetta, creando una nuova sfumatura di te e dando ai tuoi sentimenti nuova forma.

Era come se quel sorriso riuscisse a cambiarti dentro, poco a poco, facendo filtrare la luce nei tuoi angoli bui e dissipando le tue ombre.

Non so da quando ne ero diventata dipendente. Non so nemmeno da quando la sua presenza fosse diventata determinante per l'andamento delle mie giornate.

Sapevo solo che la sua vicinanza mi faceva fischiare le orecchie come un treno e battere il cuore come la scarica di una batteria.

Era qualcosa di indefinibile o che forse non avevo ancora coraggio di definire.

Sapevo solo che dal momento in cui avevo messo piede in casa Lattner, la mia vita era stata rivoluzionata da cima a fondo.

Gli accennai un sorriso in risposta, che lo sorprese, defilandomi subito dopo.

Quando riemersi dallo spogliatoio vestivo i miei soliti panni di Robert. Una abitudine che mi sarei dovuta togliere.

«Direi che questa sera non ti servirà la mia scorta» ironizzò Nate, percorrendo al mio fianco lo stretto corridoio che portava dagli spogliatoi alla sala. Sapevo che era seccato ma non potevo farci nulla.

Spuntammo di nuovo tra i tavoli e fu una sensazione strana quella che provai nel veder Lattner in mia attesa.

Mi sentii scaldare il cuore, lo sentii battere così forte che automaticamente mi portai una mano al petto. Nate mi scaricò addosso un'occhiata glaciale.

«Sì, bé... non serve la tua scorta» lo liquidai, senza riuscire a staccare gli occhi da Lattner che appena intercettò i miei si alzò e aprì la porta. Con la mano mi fece segno di andare.

Potrei seguirti in capo al mondo.

Per un attimo lo pensai davvero.

Poi la mia coscienza mi schiaffeggiò con un libricino romance di serie B e io ripresi controllo della mia sanità mentale.

Uscimmo nel freddo di Dicembre avvolti nei cappotti, con i visi affondati nelle sciarpe e silenziosi come ladri. Tornare a casa non mi sembrò mai tanto imbarazzante.

Nate ci salutò con la mano, defilandosi prima che Lattner lo apostrofasse con qualche altro finto nome sbagliato. E così restammo soli.

L'aria era piena dell'odore della pioggia. Le strade erano ancora bagnate, disseminate di pozzanghere. In giro c'era tanta gente e il chiacchiericcio si mescolava all'odore di dolciumi.

Le bancarelle sembravano aumentare in quantità esponenziale con l'arrivo di Natale. Una settimana e poi il gran giorno sarebbe arrivato.

E io potevo festeggiarlo con Lattner. Mi sembrava quasi troppo bello da credere.

E non gli hai ancora comprato un regalo, baka!

«Tieni» Mi tese la rosa e quando la strinsi mi acciuffò la mano, intrecciando le dita alle mie e tirandomi verso casa.

Palmo grande, dita lunghe e affusolate, pelle morbida e calda. Erano una delle prime cose che avevo notato di lui.

Non avrei mai pensato che quella mano si sarebbe chiusa in maniera tanto naturale attorno alla mia. Non avrei mai pensato che ci saremmo toccati con tanta naturalezza come ci era già capitato.

«Bé, allora? Com'è andato il lavoro?» chiese.

«Bene. Il Joily inizia a riempirsi di gente. Sotto Natale non abbiamo un attimo di respiro.»

«Sono sicuro che non deluderai le aspettative del tuo capo. Sei in gamba, ragazzina.»

Mi lusingava sapere che aveva questa opinione di me. Soprattutto considerando il fatto che non ero certa di meritarlo. «Sai, è strano» borbottai, stringendogli la mano.

Si girò giusto un attimo a guardarmi con la coda dell'occhio. «Uhm?»

«Essere qui come Robin intendo.»

E tenerti per mano come una semplice ragazza può fare con un ragazzo.

«Perché? Tanto non cambia nulla. Io lo sapevo già.»

«Tu sì, io no. Insomma, Robert era un po' una confort zone per me... era un alter ego in cui rifugiarmi quando ero stanca di me stessa, quando volevo staccare la spina.»

«Bé, non ci riuscivi molto bene in ogni caso. Sei una pessima attrice, Robin. Leggerti dentro è più facile di quanto credi.»

Ci fermammo e pregai che le luci della strada principale riuscissero a giocare con le ombre abbastanza da nascondere il mio imbarazzo.

«Senti... che ne dici di farci un giretto per le bancarelle, eh?»

«Perché diavolo non hai la fasciatura?» sbottai improvvisamente, rispondendo alla sua domanda con un'altra domanda; che oltretutto non c'entrava nulla con il contesto. Ma non ce la facevo più. Avevo tentato di farmi gli affari miei, di tenermi per me quella curiosità, e invece, alla fine ero esplosa. Quello stupido la doveva tenere per tre settimane prima di iniziare la riabilitazione ma si ostinava a toglierla sforzando così il braccio. Non potevo ignorare questa sua superficialità nel curarsi.

«Eh?» Sembrò confuso da quella domanda.

«Lo sai che la devi tenere per non sforzarti troppo. Vuoi forse rovinarti la spalla?» continuai, rincarando la dose peggio di una moglie arrabbiata.

«Ogni tanto ho bisogno di toglierla. Mi soffoca. E poi...» si passò l'altra mano dietro la nuca e sorrise. Sembrava in imbarazzo. «...bé, non volevo venirti a prendere fasciato come un derelitto.»

Oh.

Oh, Lattner. Dannazione!

Il silenzio scese pesante.

Strofinai la suola delle scarpe sul marciapiede, guardando in terra. Sentivo le guance scottare e continuavo a rigirarmi la rosa tra le dita della mano libera.

Se fossi stata Robert l'avrei preso come un gesto stupido ma gentile. Ma come Robin? Come dovevo prendere questi suoi atteggiamenti che riuscivano a smuovermi in petto un magma di emozioni contrastanti?

Dei fari ci illuminarono mentre eravamo ancora immobili su quel marciapiede.

Con un movimento veloce Lattner mi tirò contro di sé, allargando il cappotto fino a coprirmi proprio quando le ruote dell'auto in corsa trasformarono una pozzanghera in una secchiata d'acqua.

Mi strinse tra le sue braccia riparandomi col suo corpo mentre venivamo investiti da quell'onda gelida.

Da quando succedeva?

Da quando ero entrata a far parte di quella ristretta cerchia di affetti da proteggere?

Sentivo il suo respiro sul viso e anche se era buio sapevo di avere i suoi occhi puntati addosso.

«Ti sei bagnata?» lo domandò così piano che sentii tutto il corpo scosso da un brivido.

Non nei posti che vorrei.

Pensai, con il mio solito romanticismo alla Rocco Siffredi.

Strinsi un po' la presa sulla sua maglia, sentendo con le nocche il bordo dei suoi jeans. Altro brivido. «Poco»

Mi passò due dita sulla guancia. Ancora non mi aveva lasciato. «Dio... sei già congelata. E tremi.»

Già. Ma non per quello che pensi tu.

«È solo – solo un po' di stanchezza. Oggi è stata una giornata tosta.»

«Vero. Ti senti pronta alla tua prima notte da Robin? Anche se...» rise, pizzicandomi l'enorme tuta nascosta sotto il giaccone. «Sei ancora vestita da Robert.»

«Forza dell'abitudine» borbottai.

Mi scostò un ciuffo ribelle dal viso e le sue dita esitarono prima di staccarsi dalla mia pelle. «Prendilo come un nuovo inizio. La possibilità di fare un reset e ripartire, di dare il massimo laddove credevi di non averlo fatto e magari di prendere le cose con meno ansia visto che al tuo fianco ci sono io... e a me puoi parlare di tutto, okay? Siamo una squadra, no?»

Già, una squadra... una squadra di coinquilini.

Avrei comunque voluto abbracciarlo.

Abbracciarlo e ringraziarlo per tutto quello che aveva fatto e continuava a fare per me.

Era anomalo questo nostro rapporto eppure non lo avrei scambiato con nient'altro.
C'erano cose che solo lui riusciva a capire di me. A volte sembrava quasi che nemmeno ci servissero le parole.

Ci separammo e prima che mi distanziasse troppo gli presi la mano. Si congelò sul posto. Lo vidi irrigidire schiena e spalle, non si voltò nemmeno.

«Volevo solo ringraziarti per... insomma... hai fatto tanto per me. Anche quando non lo meritavo... anche quando ti ho trattato a pesci in faccia.» Non si girò, mi dava ancora la schiena. Averlo davanti era rassicurante. Il fatto che non vedesse le mie espressioni, la mia tensione, il mio rossore mi faceva sentire più tranquilla. Mi sarei potuta esprimere liberamente e dirgli tutto ciò che volevo. «Avresti potuto mandarmi via subito non appena hai visto che ero io, che ero una ragazza... eppure, hai deciso di farmi comunque restare e...» Non so perchè ma sentivo il bisogno di piangere. Sentivo gli occhi pizzicare e quel magone custodito da un mese era salito a galla rischiando di farmi fare la peggiore figura del secolo. Però dovevo dirgli tutte quelle cose. Dovevo ringraziarlo come si doveva. «E – e il tetto... e tu che ti butti... e tutte le cose che ci siamo confidati... e la visita a Samu... e – e i braccialetti coordinati.» Prendo fiato, stringo la sua mano tra le mie. «Grazie, Thomas. Davvero. Grazie.» Mi piegai in avanti appoggiando la fronte contro il suo dorso, in qualcosa di simile a un inchino, sentendomi ridicola come quando Takeru mi aveva detto di prendermi cura di lui.

Lattner strinse un po' la presa sulla mano, il suo pollice mi carezzò il dorso.

«I – io spero che – che non ti pentirai mai di avermi preso come tua coinquilina.»

Lo vidi stringere a pugno la mano libera e mordersi le nocche poi si girò di scatto, abbracciandomi così stretta a lui da non permettermi nemmeno di alzare la testa dal suo petto.

«Tho – Thomas» farfugliai.

«Zitta, ragazzina!» Mi schiacciò la faccia contro di lui.

«Ma – ma soffoco!»

«Ah, cazzo!» biascicò, acciuffandomi per la vita e issandomi sulla spalla sana. A peso morto, come un sacco di patate. La sorpresa iniziale si trasformò come sempre in esasperazione e frustrazione.

«Ehi! Ma che diavolo stai facendo?» sbraitai, colpendogli a suon di pugni la schiena. «Per una volta che faccio la carina e ti dico cose gentili mi tratti così?» iniziai a scalciare.

«Bé, questo è un chiaro segnale che ti fa capire che non devi far la carina con me.»

«E – e perché?» Ero confusa. «Mettimi giù. Mettimi subito giù. Io non parlo alle persone appesa come una scimmia su una spalla.»

Mi ignorò e per ripicca ripresi a scalciare e colpirlo a suon di pugni.

«Thomas!» berciai.

«Ahh, zitta, dannazione! Zitta, ragazzina!»

«Mettimi giù! Ti ho detto di mettermi giù» strillai, mentre i passanti ci fissavano ridacchiando.

«Non posso» borbottò.

Non può? Che diavolo significa che non può?

«E perché?»

«Perché non...» lo sentii esitare prima di rispondere. «non – non voglio che mi guardi in faccia.»

Che diavolo vuol dire una cos...

Ebbi un'illuminazione e i miei pensieri si stopparono da soli. «Per caso non vuoi che veda che sei arrossito?» Non mi rispose. «Avanti, Thomas. Non c'è nulla di male a dire che ti sei imbarazzato.»

«Forse... sì, bé... potrebbe essere, ragazzina» borbottò, a denti stretti. E la sua voce tradì quell'imbarazzo.

Non riuscii a trattenermi, fu più forte di me. Scoppiai a ridere, contorcendomi sulla sua spalla per tirargli le orecchie come si fa con un bambino. «Oh, Mr.Lattner... come siamo sensibili! Un professore di matematica del Missan come lei... un uomo tutto d'un pezzo... così duro e macho... come può finire per essere così goffo e timido?» Forse ero crudele a prenderlo in giro ma se fossi stata seria, mi sarebbe esploso il cuore in petto per quella confessione.

Dovevo sdrammatizzare.

Devo sdrammatizzare o qui finisco male.

«Goffo e timido, io?» ringhiò.

«Oh, sì sì... come i ragazzini. Che tenero!» lo canzonai.

Lo schioccò sul sedere mi fece sobbalzare, accendendomi terminazioni nervose che non sapevo nemmeno di avere.

Mi tappai la bocca con entrambe le mani mettendo a tacere un gemito sorpreso e d'inaspettato e incredibile piacere. C'era stato qualcosa in quella sculacciata che mi aveva svuotato di ogni pensiero, di ogni burla; riempiendomi la mente di indecenti aspettative che mai avrei creduto possibili. Scenari altamente a luci rosse.

Il bruciore sulle natiche si era trasformato nell'immediato in qualcos'altro, in un genere di bruciore in grado a sua volta di consumarmi... ma in maniera del tutto differente.

«Ne vuoi un'altra?» Domandò, divertito, con una sfumatura più calda nel tono, più erotica. Qualcosa che mi fece stringer le cosce con imbarazzo e un certo sconcerto. Non ero preparata a questo, a quest'improvvisa ondata di lussuria che mi era presa. Era come se il mio stesso corpo fosse incapace di accogliere quella nuova ondata bollente di emozioni. «Sai, sei una ragazzina indisciplinata. Ringrazi poco e male e poi ti burli degli adulti... nonché tuoi professori. Forse ti servirebbe più disciplina.»

«E vuoi insegnarmela a suon di sculacciate?» domandai, deglutendo con imbarazzo.

«Se proprio devo...»

Il modo in cui lo disse mi fece rabbrividire.

Col cazzo che è goffo e timido questo qui!

Non risposi nemmeno, respirandomi nelle mani chiuse a coppa sul viso. Ero così felice che non mi vedesse in volto che quasi non mi interessava avesse il mio culo in faccia.

Mi sentivo il cuore esplodere, la faccia rossa e il corpo infiammato di desiderio.

In un attimo aveva spazzato via l'aria da bravo ragazzo, quella da tonto e inguaribile burlone e l'aveva sostituita con una più cruda, esplicita e sfacciata.

E non sapevo se fosse più assurdo il fatto che la cosa mi eccitasse da morire o che volessi essere di nuovo sculacciata.

«Forza! Adesso torniamo a casa.»

Cercai di divincolarmi. «Co – così? Mi porti a casa così?»

Scoppiò a ridere. «Sì, è la tua punizione.» Mi abbandonai sfinita, smettendo di fare resistenza e gonfiando le guance indispettita mi lasciai trasportare come un sacco di patate.

La mia punizione sei tu, Lattner! Altroché!

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