4 - PRENDITI CURA DI ME

Non avevo dormito niente. Nemmeno un minuto. Avevo alternato ore di pianto isterico a ore di sguardo perso nel vuoto ad altre ore di ricerca matta e disperatissima. Alla fine ne ero uscita con le occhiaie in una mano, un fazzoletto smoccolato nell'altra e tra i denti un fottutissimo giornale di annunci.

Niente. Detroit sembrava la città degli affitti impossibili, quelli che una poveraccia come me non era in grado di permettersi nemmeno con un mutuo.

Sbattei la testa contro il banco. Una volta, due volte e pure una terza.

«Rob, è tutto okay?» La mano di Beth si posò gentilmente sulla mia spalla, sollevai la testa dal banco mantenendoci premuta la guancia e mi limitai ad annuire.

Tutto okay. Tutto dannatamente okay. Tutto fottutamente e schifosamente okay. Chiaro, no?

Eve mi carezzò gentilmente la nuca, scostandomi una ciocca di capelli dal viso. «Sei sicura di stare bene? Hai delle occhiaie da paura e anche gli occhi arrossati.» Sembravano davvero preoccupate per me.

Probabilmente era la prima volta che qualcuno oltre ad Adam si preoccupava così tanto per la sottoscritta. I miei genitori erano sempre stati due figure poco presenti nella mia vita e dopo quello che avevo combinato, lo erano stati ancor meno. Si erano dati alla macchia. In quello erano stati davvero bravi.

«Ho dormito poco.» Facciamo niente. Facciamo zero assoluto.

«È successo qualcosa di brutto durante l'ora di punizione con Mr.Groner?» domandò una delle due.

In automatico cercai con lo sguardo Claiton. Il bastardo sedeva ancora al suo posto e mi stava osservando. Quando i nostri sguardi s'incrociarono, il viso gli divenne paonazzo e subito chinò il capo sulla pila di libri.

Non ebbi nemmeno tempo per disintegrarlo con la mia aura demoniaca. Sospirai. «No, nulla di importante.» La mia testa deletò in automatico l'immagine di Mr.Lattner.

Lui no. Non ci pensare. Non ha alcun senso pensarci.

«Dai, andiamoci a fumare una sigaretta allora... così prendi un po' d'aria.»

Accettai di buon grado il suggerimento di Beth e dopo aver raccolto le mie cose ci defilammo dall'aula raggiungendo il giardino. Fuori il freddo era così tagliente che mi bloccai sul posto tentennando un secondo. Mi accesi la sigaretta dopo essermi sistemata bene la sciarpa e ne aspirai una grossa boccata prima di guardarmi attorno.

Il giardino era per lo più vuoto. Con quelle temperature erano pochi gli studenti che uscivano. Solo qualche fumatore incallito che come noi riusciva a sopportare quel gelo giusto il tempo della propria pausa sigaretta.

«O'Neil.»

Signore, ti prego... fa che sia un incubo. Fa che la mia stanchezza da sonno arretrato mi stia giocando un brutto tiro. Fa che il mio cervello stia solo sentendo voci immaginarie.

Finsi di non sentire. Continuai a fumare.

«O'Neil, ti prego... posso parlarti?» L'espressione da cucciolo abbandonato di Claiton mi apparve a distanza ravvicinata, così tanto che feci un balzo indietro per evitare di ripetere lo stesso errore del giorno prima. Quella mia repentina reazione sembrò ferirlo profondamente, dato che si strizzò le mani guardandosi i piedi. Dondolò sul posto, come un bimbo di tre anni in procinto di chiedere l'ennesimo giocattolo inutile. «Vorrei solo scusarmi.»

«Scuse accettate. Ciao e addio.» Aspirai ancora un'altra boccata e mi spostai seguendo Eve e Beth che come loro solito cercavano di defilarsi per creare la giusta atmosfera tra me e Claiton.

L'unica atmosfera che si può creare tra noi è quella di una fottutissima veglia funebre.

«Aspetta, ti prego.» Mi afferrò per un polso, bloccandomi.

Lo guardai così male che mollò subito la presa come se avesse appena afferrato una pentola di acqua bollente. Il suo sguardo si fece, se possibile, ancora più affranto. Nemmeno lo avessi schiaffeggiato. Cosa che ammetto, mi allettava parecchio.

Sollevai gli occhi al cielo, pregando ogni Santo presente nel Creato affinché mi desse la forza necessaria per sopportare quella conversazione. «Dimmi, Claiton. Dimmi tutto quello che mi devi dire.»

Sorrise. «Ecco... sì. Volevo... ecco, volevo scusarmi con te per come mi sono comportato ieri. Sono stato un vero cretino.»

«Cretino è dir poco.»

Sorrise imbarazzato, grattandosi la nuca. «Hai – hai completamente ragione. Sono stato un vero coglione.»

«Okay... appurato ciò che molti, tra cui me, sapevano già da tempo... di grazia, che altro devi dirmi, Claiton?»

«Non è così che doveva andare. Insomma... i – io ti guardo sempre a lezione e ti trovo... ecco... fenomenale. Sei una tipa sveglia e intelligente, hai sempre una risposta a tutto e quando sorridi mi sembra che l'intero ambiente che ti circondi si illumini e...» Arrossì.

Sollevai lo sguardo verso il cielo in una specie di supplica silenziosa.

Dio, perché mi vuoi così male? Ti ho fatto qualcosa? Dimmelo. Dimmelo e regoliamo i conti... ma non farmi queste cose, Dio. Non farmele.

«E?» lo spronai a continuare.

«Ieri la situazione è degenerata. È degenerata perché a volte quando ti sono vicino non ti resisto ma – ma questa non è una scusante, ecco... io in realtà, vo – vorrei corteggiarti sul serio perché credo che tu mi pia-»

Sollevai la mano di scatto mettendolo a tacere prima che finisse la frase. Erano le dieci di mattina, non avevo dormito, presto mi sarei trovata senza una casa... e cazzo, no... la fottutissima dichiarazione di Claiton non la volevo. Non la volevo, non la volevo e non la volevo. Se per rendere la cosa più chiara avessi dovuto pestare i piedi in terra stile bambino capriccioso, lo avrei fatto. «Non funzionerebbe.» Secca. Concisa. Crudele.

«Eh?» Claiton strabuzzò gli occhi e sembrò cadere dalle nuvole per poi beccarsi un pugno dritto dritto nella bocca dello stomaco da un immaginario omino delle friend zone.

«Mi spiace, Claiton... ma io non sono interessata. Né a te, né a nessun altro a dire il vero.» La sua espressione sembrò sgretolarsi e ammetto che quasi mi fece pena. Quasi. «Non è colpa tua... sono io che al momento ho messo l'amore in stand-by e non me la sento di impegnarmi.» Darmi la colpa era la soluzione migliore per fuggire da questa brutta situazione. Non era la prima volta che lo facevo, funzionava abbastanza bene con i tizi insistenti come lui.

È tutta colpa mia, bla bla bla... sono una stronza, bla bla bla... tu non mi meriti, bla bla bla... meriti una tipa che ti ami davvero, bla bla bla. Morite tutti male. Ho sonno.

Claiton si passò una mano dietro la nuca, scompigliandosi i capelli. Ci fu un lungo silenzio tra di noi e per un solo istante ipotizzai che tutto fosse finito così, con lui morto lì, in piedi; e invece sollevò lo sguardo, negli occhi uno strano bagliore e dopo avermi fatto la lingua sorrise maliziosamente. «Ma io non mi arrendo, O'Neil.» Oscillò da un piede all'altro prima di andarsene di corsa gridando: «Quindi... tieniti pronta! Mi prenderò il tuo cuore!»

È una minaccia? È una fottutissima minaccia? Preferisco quasi pensare sia una proposta creepy dove occultando il mio cadavere usa il mio cuore per...

No, Rob. Riprenditi.

Aiuto. Ho sonno.

Sentii il viso andarmi in fiamme e maledii la sua sfacciataggine. «Provaci se ci riesci!» gli gridai di rimando, con il desiderio cocente di lanciargli dietro uno dei miei libri.

Restai a guardarlo sparire dentro l'istituto con la vena del collo che continuava irrimediabilmente a pulsare. Se avessi dato retta alla vecchia me, lo avrei costretto a ignorarmi usando la mia cara e affidabile politica del terrore. Funzionava bene. Alcuni ne restavano traumatizzati, però, bé... almeno smettevano di venirmi dietro. Solo che avevo appeso al chiodo la mia veste da delinquente e dovevo cavarmela con le poche risorse che avevo a disposizione. Era molto più imbarazzante doversi arrangiare avendo come sola arma la me attuale.

«È stato così dolce che mi stava per scoppiare il cuore.» Eve sospirò con aria sognante, seguita a ruota da Beth. Non appena Claiton se n'era andato, loro erano tornate al mio fianco per spettegolare sui nuovi risvolti.

«Così dolce che sto morendo» rantolai io. Lasciai cadere il mozzicone della sigaretta e lo schiacciai con il tacco dello stivale.

«Avanti, Rob. Non mi dire che non ti ha fatto piacere.»

«Uh, un sacco. Non vedete? Sono un tripudio di gioia.» Il piattume della mia voce coronava l'espressione della mia euforia.

Le due mi rifilarono una doppia gomitata. «Acida» gracchiarono all'unisono.

Era difficile fargli capire che Claiton era quanto di più lontano possibile dal mio ideale di ragazzo. Non c'era nulla di lui che mi attirasse e sinceramente non sono mai stata il tipo che si attacca al primo soggetto che mostra interesse nei miei confronti.

«Forza, torniamo dentro! Fa così freddo che ho le chiappe gelate.» Eve si frizionò le braccia.

Beth scoppiò a ridere. «Quali chiappe? Sei piatta come una tavola.»

L'altra gonfiò le guance e mostrò il dito medio scappando dentro l'istituto seguita a ruota dall'amica.

Avevano una gran vitalità per essere solo le dieci di mattina. Io mi attivavo all'incirca verso ora di pranzo, a volte nemmeno attorno a quell'ora.

Mi spostai i libri da un braccio all'altro, pronta per entrare a mia volta, quando un gemito mi bloccò sul posto.

Uno schianto e poi delle risa.

Sapevo perfettamente a cosa corrispondevano quei rumori, troppo spesso ne ero stata l'artefice.

Esitai un attimo prima di voltarmi. Non tanto per il timore di essere coinvolta, quanto più per timore di ciò che sarebbe accaduto e infatti, non appena mi girai, vidi il pugno di un tizio schiantarsi contro il mento di Takeru Ogawa, il mio interessante e misterioso compagno giapponese.

Ogawa crollò in terra, i libri sparsi malamente attorno. Si pulì la bocca da un rivolo di sangue e si sistemò gli occhiali. Anche in una situazione del genere sembrava posato ed equilibrato.

«Ti abbiamo già detto che devi darci un compenso» ringhiò la voce dell'energumeno. Era il classico bullo che faceva leva sull'aspetto massiccio e la faccia da stronzo. Una delle razze peggiori di essere umano. «Gli stranieri che frequentano il Missan College devono pagarci un dazio.» Rise e altri due tizi lo seguirono a ruota, come dei caproni belanti.

Mi sarei aspettata che Ogawa cedesse, invece il ragazzo fronteggiò i tre con uno sguardo carico di disgusto e senza dire nulla si alzò da terra. Ovviamente non passò molto che lo spinsero nuovamente giù, con l'ennesimo pugno al viso.

«Se ti rifiuti di pagare... ti spacchiamo le ossa una ad una.»

Strinsi i pugni e mi imposi di restare calma. Dovevo solo respirare. Respirare e calmare la vecchia me che stava ribollendo peggio di un vulcano.

Rob, calma. Hai promesso ad Adam che non avresti fatto a botte. Lo hai promesso. Niente risse, ricordi?

E poi finirai nei casini. Ieri sei stata brava, no? Ti sei controllata. Devi farlo o il Missan ti spara fuori con un calcio nel culo.

Inspirai.

«Non ho soldi» fu l'unica risposta di Ogawa. Tentò di rialzarsi ma questa volta l'energumeno lo colpì allo stomaco e lui crollò carponi, in ginocchio. Le braccia lo sostennero con fatica, tremanti.

Strinsi così forte il pugno che le nocche scrocchiarono rumorosamente.

Rob, respira. Respira ti prego.

Sapevo che non era affare mio, che non dovevo immischiarmi e che la mia presenza in quel college era più un evento divino che un merito ma più me lo ripetevo, più quelle parole mi risuonavano a vuoto nella testa. Da quando ero diventata una che si voltava di fronte a una persona in difficoltà? Non credevo di essere diventata questo.

«Avanti, muso giallo... dacci i soldi.» Il bullo sferrò un calcio a Ogawa, ancora chino in terra. Era inutile alzarsi se poi venivi subito ributtato giù, no?

«Non li ho» ripeté, con più voce. Non sembrava spaventato ma per esperienza ero certa che stesse cercando con tutto se stesso di farsi coraggio, di sembrare sereno.

Da quanto andava avanti questa situazione? Da quanto lo obbligavano a dare dei soldi in cambio di un po' di tranquillità?

«E allora dì addio alla tua faccia.»

Cazzo! Scusami Adam. Scusami davvero.

Fu più forte di me. Come un richiamo. I piedi si mossero da soli. Il mio corpo agì di conseguenza. La vecchia me esplose come una bomba. Forse mentivo quando dicevo di averla relegata in un angolino o appesa al chiodo. Non si può mettere in gabbia una tigre sperando diventi un micetto.

Scattai in avanti mollando i miei libri in terra e quando fui abbastanza vicina mi piegai in avanti usando la spalla come leva per colpirlo allo sterno. Il bestione barcollò ma non cadde. «E tu chi cazzo sei?» fu la prima cosa che grugnì dopo aver ripreso fiato. I due amici mi fissarono disorientati.

«Solo una compagna di classe.»

Tre contro uno. Tu sei abile ma lui è grosso. Tu sei donna e quello solleva divani nel tempo libero. Sei nella merda, Rob... come sempre. Brava! Un applauso al tuo istinto di sopravvivenza!

«Non mi piace picchiare le femmine.»

«Nemmeno a me infatti.»

Ogawa si coprì la bocca soffocando una risata per la sottile allusione. Il bel viso orientale era stato rovinato da escoriazioni e lividi. Aveva un taglio sul labbro e ogni tanto perdeva un rivolo di sangue che continuava a scivolargli sul mento storpiando la sua impeccabile aura composta e misurata.

Ero incazzata.

«Brutta puttana!» L'energumeno non era un tipo di tante parole, probabilmente il suo vocabolario era sì e no composto da un centinaio di vocaboli, si fiondò in avanti con pugno teso. Per me fu un ritorno alle origini, un rewind dei vecchi tempi. La vecchia me gongolava.

Botte. Botte. Botte. Ti ammazzo. Ti sfascio quella faccia di merda che ti ritrovi.

Frantumerò ogni piccolo ossicino di quel corpo dopato che usi per camminare su questo mondo.

Mi spostai di lato e gli assestai una ginocchiata al fianco, probabilmente non era stata abbastanza potente per un accumulo di grasso e muscoli come lui ma sentirlo ansimare mi diede una certa soddisfazione. «Sei lento.»

Digrignò i denti prorompendo in un grido animalesco e si gettò su di me come una bestia: privo di tattica. Schivai il primo fendente e mi abbassai per schivare il secondo. Con la coda dell'occhio notai il luccichio di una lama.

«Attenta! Dietro di te!» mi gridò Ogawa.

Feci giusto in tempo a slittare indietro di un passo, prima che uno dei suoi amichetti brandisse un coltello serramanico, cercando di colpirmi al fianco. Con il palmo della mano gli colpì il polso e il coltello rotolò lontano. Nel frattempo il bestione mi sferrò un gancio in pieno viso e crollai in terra sputando sangue.

«Lento, dici?»

Tossii. Sentivo il sapore metallico del sangue scivolarmi in gola. «Lento, sì. Mia nonna a confronto è una staffettista.»

«Allora non ti dispiacerà se con questa lentezza spacco qualcosa anche a te.»

Aspettai che si avvicinasse prima di allungare la gamba e colpirlo con tutta la forza che avevo al polpaccio. Il colpo lo fece scivolare in avanti, battendo al suolo con il ginocchio. Senza perdere di vista i due alle mie spalle mi sollevai da terra cercando di colpirlo con un calcio alla faccia, peccato che il bestione fu abbastanza previdente e mi afferrò per la caviglia.

Venni tirata in avanti e trascinata in terra, per fermare la corsa mi impiantai con le mani sulla ghiaia sentendo i piccoli sassolini farsi strada nei miei palmi. Riuscì a rifilarmi un pugno al fianco e quando mi lasciò si rimise in piedi con uno scatto, distanziandosi abbastanza da mettere qualche metro tra noi. «Puttana!» Sputò in terra. «Ora ti mostrerò chi sono gli Hunters.»

Gli Scorpion se li sarebbero mangiati a colazione e cagati a ora di pranzo!

Sorrisi divertita. Sembravo una psicopatica. Ero così abituata a sguazzare nelle bande che una rissa riusciva perfino a mettermi di buon umore. «Hunters, dici, eh? Siete per caso la nuova boyband del quartiere? La versione attuale dei Backstreet Boy?»

Bestione e amici imprecarono sonoramente e mentre i due mingherlini restarono in disparte a osservare, l'energumeno mi si avventò nuovamente addosso. Questa volta non schivai il suo colpo, aspettai fino all'ultimo momento afferrandogli il braccio e colpendolo con la piana del piede proprio poco sopra l'inguine. Cacciò un grido ma mentre crollava in terra per il dolore riuscì comunque ad afferrarmi la treccia.

Fanculo! Ora ricordo perché quando ero negli Scorpion preferivo tenere i capelli corti!

Mi trovai in un batter d'occhio sovrastata dal suo corpo, troppo grosso e pesante da riuscirlo a spostare di dosso con tanta leggerezza. «Se non fossimo a scuola magari avremmo potuto continuare in un altro modo» mi biascicò all'orecchio, tenendo la presa ben salda, in modo che i movimenti della testa fossero bloccati.

«Spiacente... non faccio beneficienza ai casi disperati.»

Il bestione lasciò di scatto la morsa sui capelli e afferrandomi per la gola si alzò da terra sollevandomi come se fossi un fuscello. Mi ritrovai sospesa di qualche centimetro. Rantolando un'imprecazione cercai di dimenarmi per riuscire ad allentare la stretta. La gola bruciava, il respiro andava e veniva a scatti e le sue gigantesche mani restavano serrate peggio di tentacoli attorno al mio collo.

Ogawa si alzò da terra barcollando. «Lasciala stare! Era me che volevate, no?» gridò, paonazzo in viso. Gli altri due amichetti tentarono di bloccarlo ma lui fu più veloce e caricando l'energumeno come un'ariete – o forse meglio dire come un agnellino – lo colpì con tutto il peso del proprio corpo. Circa dieci chili di ossa, due di vestiti e uno di occhiali. Insomma, niente di eclatante; se da bagnato arrivava ai sessanta chili era tanto. Eppure crollammo tutti e tre in terra, tra grugniti e maledizioni.

Nel contorcermi tra le braccia del bestione gli rifilai una testata sotto il mento e d'istinto mi tirai indietro afferrando Ogawa per una spalla e trascinandolo al mio fianco.

«Ehi, voi! Che state facendo lì?» tuonò una voce da lontano. Non la riconoscevo ma era abbastanza ruvida da farmi pregare per una volta tanto che si trattasse di qualche vecchio professore del college.

Subito i due amichetti aiutarono l'energumeno ad alzarsi e dopo averci lanciato una sequela di minacce con tanto di "non è finita qui" se la diedero a gambe levate.

Quando vidi che il pericolo era scampato poggiai le mani in terra cominciando a tossire e sputai un rivolo di bava misto sangue.

Insomma, niente degno di una principessa.

Con una mano mi tenni il fianco, costellato di fitte dolorose e chiusi per un istante gli occhi nella speranza che il mondo smettesse di girare. L'adrenalina stava pian piano tornando al suo normale livello e mi sentivo improvvisamente infreddolita e stanca.

«Tu sei pazza. Pazza da legare. Pazza come la merda» continuava a biascicare piano Ogawa, sistemandosi istericamente gli occhiali da vista. «Pazza come la merda.»

Ora, se voi sapete dirmi com'è qualcuno pazzo come la merda... ve ne sarei grata. Perché son certa che è un dubbio che mi resterà a vita.

Ansimai. «Oh, prego... non c'è di che.»

«Ah, già... bé, grazie O'Neil.»

Oh, sa il mio cognome! Allora sa chi sono!

Restammo seduti in terra, immobili, fermi a respirare; o meglio... a tentare di respirare. Avevo dimenticato quanto un pugno ben assestato potesse spezzarti lo stomaco. Avevo anche dimenticato quanto cazzo facesse male dopo, ma questo non importava. Eravamo vivi, no? Era sempre quello che contava.

Quando sentii di essermi ripresa abbastanza da ragionare lucidamente, mi fissai attorno e fui tremendamente grata che la voce che intervenendo ci aveva salvato non fosse venuta a bacchettarci.

Due punizioni in due giorni sarebbe stato troppo anche per me.

«Perché lo hai fatto?» Ogawa si strinse le braccia attorno al corpo, forse aveva freddo o molto più probabilmente la tensione stava lasciando posto allo shock.

«Non so. Forse perché odio i tipi così... o magari perché mi piaci e vorrei diventare tua amica.»

Le pallide gote di Ogawa si incendiarono di un bel rosa intenso. Lo trovai tremendamente dolce e impacciato. Quella fu una conquista per me, non l'avevo mai visto con altre espressioni oltre quella composta ed equilibrata maschera che indossava durante tutte le ore di lezione. Schivò abilmente il mio sguardo e si pulì il rivoletto di sangue che continuava a colargli dalla ferita al labbro. «Non dovevi. Stupida. Ora ti sei attirata le loro antipatie.»

«Uh, mamma mia... sto tremando» gli risposi, monotono. Sfilai una sigaretta dal pacchetto e portandomela alle labbra l'accesi. Ero esausta. Non fare a botte da tempo mi aveva trasformato in una rammollita.

Inoltre la mia coscienza aveva combattuto una estenuante lotta tra la me di allora e quella attuale. Al momento la vecchia me aveva chiuso l'attuale in uno sgabuzzino.

Cattiva ragazza vince su buona ragazza.

Trattenendo la sigaretta tra i denti, mi aiutai a rimettermi in piedi con entrambe le mani e poi ne allungai una a Ogawa. «Che dici, amici?»

Lui arrossì ancora una volta ma accettò la mano e facendo leva con la punte dei suoi piedi contro i miei si aiutò a tirarsi su. «A – amici, sì... qui – quindi... bé, prenditi cura di me» borbottò impacciato, congiungendo le mani e facendo un goffo inchino.

Questa volta fu il mio turno arrossire. Mi sentii defluire tutto il sangue in faccia fino a che le orecchie non mi fischiarono peggio di un treno. Con un movimento veloce mi allungai rifilandogli un leggero scappellotto.

«Ehi... ahia!» Si massaggiò la testa.

«Diamine, Ogawa! Non farmi queste uscite così giapponesi... per un attimo mi sono sentita parte di un manga.»

Le sue guance sembrarono pulsare di un rosso vivido, come semafori lampeggianti. «M – ma... ma da noi funziona così.»

E lo sapevo bene anche io, otaku inside qual ero. Eppure era imbarazzante.

Lo aiutai a raccogliere i suoi libri e ci spostammo a recuperare i miei. Quando mi piegai una fitta al fianco mi fece barcollare ma lui fu abbastanza veloce da prestarmi soccorso: mi cinse con la mano libera la vita e ci ritrovammo molto più vicini di quanto mi sarei mai aspettata. Faccia a faccia, così a poca distanza da fondere i nostri respiri fino a creare un piccolo spazio di calore tra i nostri visi. Profumava di agrumi e ammorbidente. «E- ecco... se dobbiamo essere amici... è – è così che si fa, no? Ci si aiuta.» Si allontanò un po'.

«Già.» Sembravamo due idioti alle prese con il primo e imbarazzante contatto con un essere umano di sesso opposto. Ogawa mi agitava senza un preciso motivo. «Comunque, se dobbiamo essere amici... chiamami Robin.»

«Cosa? Per – per nome?»

Ah, già! Dannazione! Là da loro funziona diversamente questa cosa dei nomi.

In giappone chiamarsi per nome senza nemmeno un onorifico è qualcosa di molto intimo che spesso si ottiene solo dopo molti anni di conoscenza. Lo sapevo bene eppure quella proposta mi era uscita con naturalezza. Non era certo mia intenzione metterlo in difficoltà. «Lascia stare. Non sei obbligato.»

«Ma – ma vorrei» si affrettò a dire.

«Sicuro? Non vederlo come un obbligo, eh.»

Lui annuì, mordicchiandosi nervosamente il labbro, il viso ancora paonazzo non accennava a tornare al suo solito pallore. Sorreggendomi con gentilezza mi aiutò a raggiungere l'entrata dell'istituto e solo dopo alcuni minuti di camminata all'interno del corridoio disse, sotto voce: «Tu – tu però... chiamami Takeru.»

Ci scambiammo un sorriso complice.

Le mie amicizie migliori erano iniziate sempre così: dopo una bella scazzottata.

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