35 - QUANTI DANNI FANNO LE TEMPESTE

Era la prima volta che lo vedevo senza la sua moto, in piedi.

Era più alto di me, slanciato. Le spalle larghe e il fisico asciutto ma ben delineato. Aveva i vestiti impregnati di acqua, attaccati così tanto al corpo da sembrare una seconda pelle, una guaina. La maglietta bianca era quasi diventata trasparente, lasciando vedere più di ciò che forse avrebbe voluto.

Mi afferrò per una mano, tirandomi in piedi e in silenzio mi trascinò verso la moto che era parcheggiata poco più in là.

Da quanto vagava sotto quell'acqua? Sembrava essersi gettato in un fiume da quanto era zuppo.

«A - aspetta! Dove stiamo andando?» farfugliai, cercando di impuntare i piedi scalzi che però affondarono nella fanghiglia del parco.

«Dove stiamo andando?» domandò, incazzato. «Ma sei idiota, ragazzina? Ti riporto a casa, ovvio! Sono le tre di notte e c'è un tempo da lupi... ti ha forse dato di volta il cervello?»

«No! A casa, no! Non - non voglio.» Mi liberai dalla sua presa e caddi indietro, col culo proprio dentro una pozzanghera. «Io non... non posso tornare a casa, non ora.» Divagai con lo sguardo. Mi sembrava di essere un imputato sotto accusa. Anche se non vedevo i suoi occhi, nascosti dagli occhiali, era come se quel suo sguardo cercasse di trapassarmi la nuca per leggermi dentro e giudicarmi.

Mi strinsi nel suo giacchetto e chiusi gli occhi.

Il suo profumo mi cullò dolcemente e per un attimo ebbi quasi la sensazione di conoscerlo.

Dannazione! Sono più patetica del previsto.

«Forza, allora!» disse, piegandosi sulle ginocchia fino ad arrivare alla mia altezza. «Ti porto in un posto dove non piove così mi dici perché sei così stupida da scappare di casa mezza nuda, scalza e restare sotto la pioggia per ore.» Mi sollevò da terra come se non pesassi niente, tenendomi in braccio come una principessa. Lo sentii sussultare mentre si spostava il mio peso tutto su un lato.

Forse dovrei dimagrire.

Mi portò alla moto in quel modo, senza ascoltare le mie flebili ma persistenti obiezioni. Quando mi mise a sedere sulla sella restò per alcuni minuti con le mani a lato delle mie cosce poi mi ravviò i capelli usandone una. Solo in quel momento mi accorsi che era senza guanti.

Aveva mani belle, delicate. Le sue dita affusolate si insinuarono tra le ciocche bagnate, in una carezza bollente e morbida, delicata quanto il bacio di un amante. Chiusi gli occhi e lasciai che mi carezzasse, che la sua mano scendesse fino alla mia guancia, passandomi il pollice sul labbro in un gesto che riusciva a portare la mia mente su sentieri tutt'altro che puri.

Era piacevole. Eccitante.

«Stupida ragazzina» biascicò, strizzandomi il naso tanto da farmi sgranare gli occhi.

«Ahio!» lo massaggiai. «Che - che ci facevi qua in giro?» domandai, curiosa.

Guardandomi attorno compresi che a dir il vero non sapevo nemmeno io dove mi trovavo. Avevo vagato così tanto e senza meta che mi ero persa. Forse era un bene che mi avesse trovato lui.

«Io giro sempre.»

«Fai delle ronde?» Ero incredula.

Annuì.

«Tipo vigilantes?» domandai, ancora più incredula.

Gli uscì una risata secca e scrollò le spalle.

Avrei tanto voluto sfilargli il casco, per guardarlo dritto negli occhi, per capire come mi guardava e quali espressioni faceva, per farmi un'idea di cosa pensasse di me.

«Non era il mio turno ma... i miei sensi di ragno mi dicevano che avrei trovato una stupida ragazzina sperduta nel bosco.»

Riuscì a farmi ridere. «Oddio, no! Anche tu sei un fan dei supereroi? Sai, anche Thom-» tacqui di colpo. Mi morsi il labbro.

Lattner.

Chissà come sta.

Non ho nemmeno il diritto di preoccuparmi per lui dopo tutto ciò che gli ho detto.

Togliendo la moto dal cavalletto saltò in sella. «Andrò piano ma tieniti stretta. Con la pioggia è molto pericoloso.» L'accese con un colpo. «Dovrò imparare a portarmi dietro un casco in più.»

«Grazie.» Sentii le gote pizzicare e abbassai il viso sui suoi fianchi.

Fu in quell'instante che notai il tatuaggio.

La maglietta bianca, bagnata, gli aderiva completamente alla schiena e lì, in quel triangolo formato da spalle e vita stretta si estendeva un gigantesco tribale di un teschio con la corona. Si allargava su tutta la lunghezza del dorso, come un dipinto.

Come una falena attirata dalla luce, le mie mani si protesero infilandosi sotto il tessuto, sfiorandogli la pelle, carezzando i contorni del tatuaggio quasi seguissi un percorso invisibile. Lo sentii irrigidirsi a quel contatto, inarcò leggermente la schiena e mi parve esalare un respiro simile a un ansito. La pioggia però scendeva fitta, mangiava ogni rumore, era impossibile decifrarlo completamente. Restava come sempre avvolto nel suo alone di mistero.

Con le dita carezzai ogni tratto, ogni sfumatura, ogni curva. Risalii fino al centro della schiena, osservando la macchia di colore nel ritaglio sollevato della maglia e smaniando per passarci non solo le dita.

Come sarebbe passarci le labbra? La lingua?

Come sarebbe baciare quella pelle colorata?

Avevo sempre fantasticato di trovare un uomo tatuato e poterglielo fare. Nessun uomo con cui ero stata aveva una vastità di pelle così dipinta, né lo avevano mai fatto a me, in quel braccio macchiato della mia vecchia vita.

Mandò un po' la testa all'indietro e si lasciò sfuggire un mugolio che questa volta, per la vicinanza, riuscii a sentire perfettamente.

«Robin» disse, chiamandomi per nome. Una rarità che riuscì a farmi arrossire di nuovo, catapultata nella realtà, staccata da quei pensieri perversi. La bandana filtrava la voce, la distorceva, eppure in quel tono avevo captato un piacevole turbamento. Così piacevole che ogni parte di me sembrò prendere fuoco. «Infilati il giacchetto. Se me lo perdi sono guai.»

Stai cercando di distrarmi? Cerchi di farmi togliere le mani dal tuo corpo?

Oppure lo dici perché sei sinceramente preoccupato per il giacchetto? O magari per non farmi prendere freddo?

Staccai le mani, imponendomi di stare buona e feci come mi aveva detto poi gli circondai la vita con le braccia. Ancora una volta si tese.

C'era una strana alchimia tra noi, una particolare ma intrigante carica erotica che rimbalzava dal mio corpo al suo. E cosa ancor più assurda, il suo corpo sembrava cedere ai miei inviti con un docile piacere.

Chiusi gli occhi.

Lasciai che i pensieri fluissero, lasciandomi cullare dal movimento della moto che si muoveva. La pioggia, il vento, i tuoni che creavano una musica di sottofondo, i lampi che illuminavano a giorno quella notte buia; era tutto sorprendentemente intenso, tutto perfetto e perfettamente sbagliato al contempo.

Restai abbracciata a lui cadendo in un tempo privo di secondi, minuti, ore; un tempo senza lancette, dove ci si abbandonava alle sensazioni. Strofinai il viso contro la sua schiena calda, avevo il naso congelato e anche se i suoi vestiti erano fradici, il suo corpo era bollente.

Quando si fermò, faticai a tornare alla realtà. Mi sembrò quasi di risalire a galla dopo una lunga sessione di apnea. Riemersi da quello stato di semi incoscienza con un brivido.

Sarei voluta restare così per ore.

Era un dolce conforto quel suo tiepido tepore, quelle gentilezze nascoste da parole taglienti e quella preoccupazione nei miei confronti che mi coglieva impreparata ogni volta.

«Eccoci qui! Non è una suite ma almeno non ci piove sulla testa... bé, più o meno.»

Sollevai il capo accorgendomi che eravamo sotto un ponte. Il terreno era in pendenza e scendeva verso un fiumiciattolo con le sponde traboccati.

Per certi versi era romantico.

Aiutandomi a scendere dalla moto avanzò silenziosamente verso il centro del ponte, sedendosi in terra e premendo la schiena contro il muro. Le sue gestualità mi ricordavano qualcosa, o meglio, qualcuno.

Era un pensiero che non mi aveva mai abbandonato, eppure non riuscivo ad acciuffare quella somiglianza, né a farla combaciare con i soggetti dei miei sospetti.

Lo raggiunsi mettendomi a sedere al suo fianco, raccogliendo le gambe al petto e abbracciandole. Nascosi il viso nelle ginocchia. Mi sentivo stupida. Per molti motivi.

Tu sei stupida! Baka!

La voce di Takeru sembrò risuonarmi nella testa dando voce a quei pensieri poco gentili che già avevo di me. Era una verità con cui prima o poi avrei dovuto fare i conti.

Mentre stavo per ricadere nella spirale di depressione da cui ero appena sfuggita, il mio misterioso cavaliere mi allungò un pacchetto di sigarette.

Era malridotto ma la plastica esterna aveva preservato l'involucro e il suo interno dall'acqua.

Sigarette! Nicotina!

Ne avevo bisogno. E forse una sola non sarebbe bastata.

«Non ti facevo un tipo da Marlboro. Sai, anche Thom-» Mi morsi la lingua e subito abbassai gli occhi sui piedi nudi. Davanti a me, un persistente gocciolare aveva formato una pozza d'acqua nel terreno.

Dannazione, Rob. Che diavolo ti prende?

Ormai quel che è fatto è fatto.

È da stupidi ripensare alle cose che hai detto a Lattner adesso.

Lo hai fatto per lui. Fine.

Sospirai.

Pensavo di non aver alternativa, ma era davvero così? Era stata la scelta giusta? Una volta uscita dall'appartamento mi ero fatta prendere dal panico ed ero stata assalita da milioni di dubbi.

Nella mia testa pensavo fosse giusto ma il mio cuore diceva altro.

«Thom... sta per Thomas?»

Con la coda dell'occhio lo fissai mentre si aggiustava la bandana. Parlava così piano che con quel temporale avevo sempre la sensazione mi sfuggisse qualcosa, qualche parola. «Già» borbottai.

«E chi sarebbe?»

«Il mio... uhm, ecco... coinquilino.»

Si voltò a guardarmi, girando il busto verso di me e occupando tutta la mia visuale. Più cercavo di non guardarlo, di distogliere lo sguardo, più i miei occhi si incollavano a lui, al suo corpo, alla sua misteriosa identità che mi sfuggiva dalle mani come granelli di sabbia. «Raccontami di lui.» Mi allungò un accendino e solo al quarto tentativo la fiamma divampò permettendo di accendermi quella tanto agognata sigaretta.

Aspirai. Fumo, nicotina, un vizio che non perdona. Inizi per gioco e finisci per esserne dipendente. Dici che puoi smettere ma poi non smetti mai. Diventa il tuo attimo di quiete, un time out dalle sfighe della vita.

«Thomas è... uhm... forte. Un tipo davvero forte.» Un'altra aspirata. La tensione che si allenta piano piano, come un nodo che viene sciolto lentamente. «È sempre tutto d'un pezzo, sembra non scomporsi mai. Ha un passato doloroso e questo lo ha reso molto severo con se stesso... ha sofferto molto... eppure sorride sempre. Non so come ci riesca. È straordinario.» Sollevai gli occhi guardando le gocce che cadevano dalla fenditura nel cemento del ponte e candendo si mischiavano alla pozza poco distante dai miei piedi. «Sai, è un professore del college che frequento. Dicono tutti che sia davvero bravo... e detto tra noi, non l'avrei mai messo in dubbio. È un testone ma quando si impegna in qualcosa non è contento finché non la porta a termine nel migliore dei modi.» Parlarne era un tormento, da una parte era piacevole dall'altra mi scavava in petto un vuoto che non sapevo più come colmare. E forse nemmeno dipendeva dall'ultimatum della Wood, forse stargli accanto così non mi bastava più.

«E immagino abbiate litigato stasera... altrimenti non saresti qui bagnata come un pulcino.»

Bingo.

Si abbassò leggermente la bandana, piazzandosi la sigaretta tra le labbra. Fu la prima volta che gliele vidi e anche se il resto del volto rimase coperto e irriconoscibile, bastò quella nuova parte di lui ad accendermi una viva curiosità. Aveva una bella bocca, dava l'idea di morbido, aveva linee simmetriche e delicate che sembravano quadrare perfettamente sul suo viso.

Era provocante, sensuale.

«Sì, bé... no.» Strinsi la sigaretta tra i denti ed espirai un respiro fatto di fumo. «In realtà ho fatto tutto da sola. Gli ho detto cose spregevoli... tutte bugie. Cose cattive che nemmeno pensavo. Nemmeno lontanamente.»

Lo sentii espirare rumorosamente. «Per fortuna» biascicò. Sembrò sollevato.

«Come?»

«Uhm... cioè... dico "per fortuna" perché... insomma, non è bello aver certi pensieri tanto brutti sul proprio coinquilino, no?»

«No, infatti. Anche se purtroppo lo sarà ancora per poco visto che dovrò andarmene.»

Si girò verso di me, la sigaretta a penzoloni tra le labbra. «Dovrai? Quindi non è una cosa che vuoi.»

Scossi il capo e improvvisamente sentii di nuovo le lacrime pizzicarmi gli occhi. Affondai il viso nelle ginocchia per mascherare quella pietosa versione di me. Se anche il solo pensiero mi faceva venire questo magone, non osavo immaginare come avrei reagito a uscire da quella casa e dalla sua vita. «Ci sono delle... bé, delle complicazioni.» Non mi andava di parlarne.

Anche se sentivo la necessità di sfogarmi, il motociclista non mi sembrava la persona adatta con cui farlo. Inoltre il debole che avevo per lui riusciva a giocarmi brutti scherzi. I miei pensieri oscillavano da Lattner a lui, come un pendolo.

Era bene sprecare questo tempo insieme per parlare di un altro uomo?

Non avrei dovuto approfittarne per conoscere qualcosa di più sul suo conto?

Forse ero solo un caso disperato e nemmeno io sapevo più dove sbattere la testa.

«Che genere di complicazioni?» Sembrava interessato.

Aspirai l'ultima boccata di fumo e gettai il mozzicone lontano, dopo averlo spento nel terreno. «Una persona ha scoperto che abitiamo insieme e mi sta ricattando.»

Si accigliò. O meglio, questa fu l'impressione che mi diede, visto il mascheramento. «In che senso?»

«Sì, bé... insomma, una studentessa che convive con un professore senza alcun legame di parentela non è qualcosa di normale. È fraintendibile.»

«Immagino che lui abbia messo in conto questa eventualità prendendoti con sé.»

«Ma se mi sono finta maschio...»

«Ah, già.»

Già.

Lui non sapeva niente di me. E niente doveva continuare a sapere. Sarei sparita dalla sua vita. Robert sarebbe sparito. Robin sarebbe rimasta in disparte, la solita di sempre, una collegiale del Missan con cui non aveva nulla a che spartire salvo qualche scambio di parole ogni tanto.

Ma fa male. Dannazione!

«Hai provato a parlargliene? Se è un professore sarà sicuramente un tipo intelligente, brillante... un tipo intuitivo, perspicace... dotato.»

Scoppiai a ridere. «Si vede che non lo conosci. Thomas è così tonto che non si accorgerebbe che piove nemmeno sotto la pioggia.»

«Oh, bé...» Strinse la sigaretta finita tra due dita, l'indice e il pollice, e la lanciò lontano facendomi tornare ancora una volta una strana sensazione di deja vu. «Magari finge.»

Scossi il capo con un sorriso a incresparmi le labbra. «No, no... non credo proprio. Lui è così e basta. Ma va bene così. Insomma, a me piace anche per questo.» Mi tappai la bocca troppo tardi.

Trasalimmo entrambi proprio nell'attimo esatto che un tuono schioccò nell'aria, come un boato.

Restammo qualche istante in silenzio prima che lui lo spezzasse con una domanda che speravo mai nessuno mi facesse: «Quindi lui ti... ecco, uhm... ti piace?»

Avvampai. Dannazione! «No, no... per carità. Ma chi, lui? Cioè... no, assolutamente no.» Roteai gli occhi esasperata e sospirai. «Sì, dannazione... sì. Ma - ma è decisamente complicato.» Abbassai gli occhi sulle punte dei piedi, chiedendomi se fosse meglio sparire, esplodere o scavarmi una fossa e lasciarmi morire lì dentro.

«Puoi dirlo forte» convenne, accendendosi un'altra sigaretta e aspirando il fumo che subito buttò fuori dalle narici. Sembrava nervoso. E segretamente mi chiesi se fosse geloso di Lattner, forse lo sperai anche.

«E - e poi ci sei tu. Insomma, nei miei pensieri intendo.» Mi tremavano le mani.

Era una dichiarazione? No, diamine, no.

Però glielo dovevo dire. Glielo volevo dire.

Era l'occasione buona per mettere le cose in chiaro, per superare lo scoglio di quegli incontri furtivi e sfuggenti e sperare magari di ottenere qualcosa in più. Magari anche solo un nome, un'identità.

E ti basterebbe?

«Io?»

«Sì, tu. Credo che tu mi abbia in qualche modo incuriosito. Da sempre. Dalla prima volta che ci siamo incontrati.»

Gli sfuggì una risata secca. «Ironico.»

«Perché?»

«Eh?» domandò, agitandosi. «Bé... ma è ovvio... ecco, uhm... ecco, non mi hai mai visto in faccia, no?» Si affrettò a dire. Sembrava imbarazzato.

«Sì, forse hai ragione... forse è la mia vena romantica a parlare.»

Aprì la bocca per dire qualcosa ma la richiuse, serrando i denti sulla sigaretta. Aspirò l'ultima boccata di fumo e lanciò la sigaretta lontano, di nuovo.

Ci chiudemmo entrambi in un silenzio pesante e imbarazzante. Avrei voluto fargli tante domande, scoprire molte più cose di lui ma quella rivelazione mi aveva prosciugato di tutto il coraggio.

«Forza, ragazzina! Direi che è ora di tornare a casa, no?» disse lui, d'un tratto.

Mi tesi. Fu come ricevere la scossa. «Cosa? No. Io non sono pronta. Cioè... non credo di... di avere il coraggio.»

Si voltò a guardarmi e nonostante gli occhialoni per un attimo mi sentii piccola piccola ai suoi occhi. Avete presente quando un adulto fissa un bambino dopo una marachella? Ecco, uguale. «Sono le quattro di notte... non pensi sarà preoccupato?»

«Dopo le cose che gli ho detto? Mi avrà chiuso fuori. O meglio... non lo farebbe mai, però lo capirei. Ne avrebbe tutte le ragioni.» Rimbalzai più volte la fronte contro le ginocchia. Se mi fossi colpita più forte magari la parte stupida di me sarebbe scivolata fuori dal mio corpo e finalmente sarei tornata una persona normale, no?

No, lo so. Non funziona così. Non è mica così facile. Altrimenti avrei avuto una lunga lista di persone a cui consigliare il metodo.

«Per come lo hai descritto non sembra il tipo.»

Merda. Lattner!

Ebbi una folgorazione.

Quello stupido mi sarà venuto a cercare. Cazzo!

Mi alzai di scatto ma il piede mi affondò nella pozza di fango, quella che avevo tenuto d'occhio fino a un attimo prima.

Persi stabilità e in un attimo mi ritrovai senza equilibrio. Il motociclista si sporse per afferrarmi ma gli crollai rovinosamente addosso.

Cademmo nella fanghiglia e lui dovette impiantare uno stivale nella terra per non farci rotolare giù nel fiume. Quando il pericolo sembrò scampato mi accorsi che gli ero completamente sopra.

Fu imbarazzante. Eccitante. Riuscì a farmi deglutire senza salivazione.

«Scusami! Oddio, scusami. Ho perso l'equilibrio... sono proprio una idiota.»

«È tutto okay... credo ormai di esserci abituato.»

«A rotolarti nella fanghiglia tipo lottatore di sumo?» ironizzai, troppo imbarazzata.

Mi passò le dita nei capelli ancora bagnati e sospirò. «Diciamo più a farmi mettere K.O.»

Rabbrividii. Le sue dita erano fredde, nude, delicate. Scivolavano sulla mia pelle quasi temessero di consumarmi o spezzarmi. Erano una carezza impercettibile, quasi invisibile. Un po' come lui.

Restammo a fissarci a lungo, lui nascosto dietro quegli enormi occhiali e il suo casco, io spoglia di ogni cosa, con i sentimenti che mi campeggiavano in faccia peggio di un libro aperto. Non appena vide che i miei occhi erano incollati sul suo viso con un'intensità quasi tormentosa si tirò su la bandana, coprendosi.

«N - no... aspetta!» Gli bloccai la mano, tentando di abbassargliela ancora ma lui me la bloccò con l'altra mano libera. «Solo - solo un attimo. Voglio capire una cosa.»

Se la lasciò abbassare. Il tessuto impregnato d'acqua gli lasciò sulla pelle una scia di goccioline che si raccolsero fin sul mento.

«Capire, cosa?» domandò piano, con affanno.

La pioggia, i tuoni, mangiavano le nostre parole. Toglievano la voce alle nostre parole sostituendoli con la tempesta. Una tormenta che imperversava fuori nel tempo e nel mio cuore.

«Capire cosa mi fa provare la tua vicinanza.»

«E non lo hai capito stando seduta un'ora vicino a me?»

Feci una smorfia. «Certo che sei proprio bisbetico, eh?»

Sussultò e voltò la testa verso il fiumiciattolo. Nel buio sembrò che le sue gote si fossero arrossate. Era complicato decifrarlo con l'oscurità che giocava con le nostre ombre illudendo gli occhi. «È che... questa vicinanza mi imbarazza.»

Sentii il viso andarmi a fuoco. Imbarazzava anche me, eppure non riuscivo a staccarmi da lui.

Avrei voluto essere più razionale ma in sua presenza mi sentivo strappare via tutto l'autocontrollo.

Respirai con affanno sentendo salire un desiderio opprimente, una voglia intensa e indomabile.

Non mi importava chi c'era sotto quella maschera, chi nascondeva quel travestimento. Sentivo solo questa folle attrazione che era inutile nascondere.

Mi sporsi verso il suo viso e allungando la lingua raccolsi la goccia di pioggia sul suo mento, risalendo con le labbra a prendergli le altre gocce.

Lo sentii ansimare, irrigidirsi sotto di me. A cavalcioni su di lui riuscii a sentire perfino l'attimo esatto in cui la sua erezione si tese tra i nostri corpi, dura e presente, grossa e irrequieta. Una piacevole reazione a quel nostro contatto. Il sincero palesarsi di un suo interesse nei miei confronti.

Fu quella consapevolezza a far capitolare ogni mio razionale buon proposito, ogni limite che mi ero imposta.

Lasciai scivolare la lingua sulle sue labbra, morbide e fredde, carnose e cariche di peccato.

Ero sicura che mi rifiutasse, che si scostasse da quel gesto azzardato. Invece gemette, ansimò contro le mie labbra, le sue mani scivolarono sulle mie cosce attirandomi più vicino a sé, lasciando che sentissi meglio il suo desiderio.

Mi strappò un gemito che troncò a metà infilandomi le dita tra i capelli e attirandomi contro di lui, scontrandosi con la mia bocca.

Ci divorammo a vicenda.

Bruciammo insieme, all'unisono, come un incendio che prende fuoco e viene alimentato dal combustibile. Una fiamma alta, che consuma, che brucia, che divora.

Mi aprì con forza la bocca facendosi strada con la lingua.

La durezza del piercing mi fece trasalire, rabbrividire; fu una sorpresa piacevole e inaspettata che riuscì a strapparmi l'ennesimo mugolio di piacere.

«Da quando hai il piercing alla lingua? Non te l'ho visto mentre parlavi» domandai, ansimando.

«Da una vita. Se si fa attenzione passa inosservato.»

Non è Nate. Dopo questo... posso metterci una croce sopra.

Mi morse il labbro inferiore, prendendo quel bacio come se mi rubasse anima e cuore. Una sua mano scivolò su un mio fianco, s'insinuò sotto la maglietta, mi toccò la pelle suscitandomi un brivido.

Sentivo la sua lingua contro la mia, prendere un ritmo tutto loro, un mix perfetto di dolcezza e impetuosità, di delicatezza e desiderio. Quando me la lasciò rotolare sul palato venni squassata da un fremito. La pallina del piercing fu un eccitante e netto contrasto con la tenera morbidezza della sua lingua, uno stuzzicante e provocante gingillo che avrebbe potuto darmi piaceri ben maggiori.

Arrossii.

Voglia, lussuria e bramosia scandivano quel bacio lasciando che le nostre bocche si carezzassero, parlassero una lingua tutta loro, si muovessero in sincronia come una danza o una musica fatta di note stupende.

Tra le sue braccia mi sentii liquida, creta da modellare, pronta per essere plasmata a suo piacere. Le sue mani spaziarono sulla mia schiena, sulla pelle nuda, fino a risalire sui fianchi, sul ventre e infine sul seno. Lo carezzarono debolmente da sopra il tessuto ancora intriso d'acqua; un tormento, una piacevole e lenta agonia. Lo sentii fremere sotto di me all'idea di osare di più, di andare oltre; mentre il bacio aumentava d'intensità, si perdeva nell'ardore abbandonando ogni razionalità.

Sussurrò il mio nome, piano, contro la mia bocca. Lo mimò con le labbra contro le mie labbra, lo ansimò sulle mie, dentro le mie.

Le sue dita scivolarono sul tessuto del reggiseno, lo strinsero proprio in prossimità del capezzolo. Gemetti e istintivamente strinsi le gambe, inarcando la schiena, premendomi contro di lui, strofinandomi contro la sua erezione che sembrava crescere ogni attimo di più.

Ci staccammo per prendere fiato e lui mandò indietro la testa, respirando con affanno. «Merda, Robin... merda» la voce bassa era arrochita dal desiderio.

«È stato...» espirai, le gote arrossate e il petto che si muoveva su e giù con forza. Il corpo mi pizzicava tutto e non per il freddo.

«... troppo» concluse lui, per me.

«Dici? Io... oddio... non ti ho... ecco, non ti ho nemmeno chiesto se lo volevi.»

Sollevò il bacino, facendomi saltellare sul suo. Ad ogni scontro potevo ben sentire la reazione che gli avevo provocato. Una dura e ben dotata reazione, oserei. «Tu che dici, ragazzina?»

Avvampai, coprendomi con le mani la faccia.

Esplicito!

Cazzo se è esplicito!

Mi cinse la vita con un braccio, posandomi la mano sulla schiena e con l'altra si spinse in terra, facendo leva e pressione per tirarci su.

Gli fui cavalcioni solo un altro attimo, abbastanza da provare un misto d'eccitazione e struggimento quando ci strofinammo per l'ultima volta, prima di tornare entrambi in piedi.

È notevole.

Decisamente notevole.

Troppo notevole.

Così notevole che ora non penserò ad altro ogni volta che lo fisserò.

Cazzo!

Già, per l'appunto. Proprio quello.

Il pensiero mi obbligò a chinare la testa, troppo imbarazzata per guardarlo.

«Ti riporto a casa» mi disse debolmente, contro l'orecchio, suscitandomi un brivido che mi costrinse a stringere spasmodicamente la maglia sui suoi fianchi per non crollare a terra con le gambe molli e un persistente fuoco nel bassoventre. Questa vicinanza e al contempo lontananza mi dilaniava.

Perché? Perché non posso sapere chi sei?

Quando si staccò da me, allontanandosi per lasciarmi libertà di movimento, le gambe mi tremarono e fu costretto a riacciuffarmi. «Dannazione, ragazzina... non fare quella faccia per me... sennò mi rendi tutto più difficile.»

«Che - che tipo di faccia?»

«Quella che mi fa spegnere il cervello e mi fa venire voglia di scoparti qui, subito» mi sussurrò rocamente all'orecchio.

Un brivido. Un brivido che scivolò giù, fin dentro le mutandine.

Allargò le braccia di scatto mollando la presa sul mio corpo e voltandosi si diresse verso la moto.

Restai a boccheggiare qualcosa di incomprensibile perfino per me, con il respiro corto, pesante e il corpo ridotto a un tizzone ardente.

Lo fissai con un'avidità indecente. Le spalle larghe, la vita stretta, il tatuaggio che si intravedeva sotto la maglia, il culo sodo... fui attraversata da un fremito e sospirai.

Sospirai molto. E rumorosamente. Molto, molto rumorosamente.

Fu quasi uno sbuffo di autocommiserazione mentre la mia libido mi schiaffeggiava virtualmente con un vibratore immaginario.

Bene. Grazie per la performance Mr.Motociclista.

Ora sono bagnata e insoddisfatta.

E non certo bagnata per la pioggia.

Mi pizzicai il naso, maledicendo la mia indecenza e lo raggiunsi calcando la camminata. Ad ogni passo sembravo schiacciare nella fanghiglia il mio desiderio.

E forse è così, piccola depravata repressa.

Roteai gli occhi al cielo esasperata e sospirai ancora.

Il motociclista riusciva ad accendere una fiamma sotto i miei impulsi più fisici, carnali; la sua vicinanza era una piacevole tentazione, stimolava la mia brama, alimentava il mio desiderio. Era un tormento pericoloso ed elettrizzante, qualcosa che hai paura ad affrontare ma che ti scarica addosso la giusta dose di adrenalina per cui non vuoi lasciartelo sfuggire.

Mi capitava così solo in presenza di un'altra persona.

Lattner.

Diavolo, ragazza. Sei complicata.

Affondai il viso nelle mani, le guance scottarono sotto i palmi.

Feci un respiro profondo e mi colpì il viso, cercando di riprendermi da quello stato di sconcezza in cui ero scivolata.

È inutile fartene cruccio ora.

Ti piacciono due uomini. Fine.

Ed entrambi sono a loro modo irraggiungibili. Fine.

Che voce della coscienza del cazzo! Eppure aveva ragione.

Da una parte il professore intoccabile, dall'altra il motociclista misterioso. Entrambi a loro modo elettrizzanti ed eccitanti. Entrambi lontani dalla mia misera portata.

Quando lo raggiunsi si era coperto di nuovo il viso con la bandana. «Andiamo?» fu l'unica cosa che mi chiese e colpita dalla vergogna salii sulla moto senza nemmeno fiatare.

Ci saremmo dovuti dire qualcosa? Promettere qualcosa?

No, lo sapevo bene.

Era uno spirito libero, lui. Evanescente come una nuvola di fumo, incorporeo come il vento. Inafferrabile e irraggiungibile. Impossibile da imbrigliare.

Non c'era spazio per una come me nella sua vita. E forse nemmeno la voleva una come me nella sua vita.

Sembrava aver già la sua lunga lista di cose a cui pensare. Tipo essere un misterioso eroe mascherato che salvava donzelle in pericolo e sotto la pioggia.

Chiusi gli occhi e mi cullare dalla solita oscillazione della moto in movimento.

Fui consapevole di essere arrivata a casa solo quando si fermò e mi passò le mani sulle mie.

«Eccoci» disse, guardandomi mentre scendevo e gli allungavo il giacchetto. Un po' mi spiaceva restituirglielo.

«Grazie di... tutto?» domandai, come se in quel tutto dovesse finirci anche il bacio.

«Ti è possibile non cacciarti nei guai per un altro po'? Chessò... un mese o due... sai, per farmi riprendere.»

Impuntai lo sguardo nei piedi e sentii di nuovo il viso andare a fuoco. «Già, credo che dopo stasera ti servirà del tempo per riprenderti dalle mie lagne e i miei problemi.»

Mi agguantò per un fianco, tirandomi contro di sé, facendomi cozzare contro la moto che oscillò pericolosamente pur restando in piedi. «Non l'hai capito, vero, ragazzina?» chiese, maliziosamente.

Deglutii. «Capire cosa?»

«Quanto fino ad ora sia stato difficile trattenermi.» Passò la mano sulla mia guancia e quasi di riflesso mi piegai per accogliere meglio quella carezza.

«Ed è necessario che lo fai?»

«Vorrei non farlo ma tu, ragazzina... tu sei un fuoco indomabile... ci devo andar con cautela con te perché sei pericolosa vicino a uno come me.» La mano risalì contro il mio fianco, prendendomi a coppa il seno. Strinse fino a farmi mugolare. La staccò come se avesse preso la scossa e rise. «Vedi? Sei una tentazione. Dopo stasera sarà molto più difficile trattenermi.»

Quindi gli piaccio.

Gli piaccio e ha sempre cercato di contenersi.

Arrossii. Saperlo era quasi peggio. Almeno prima avrei potuto fingere che se non gli interessavo, non interessava nemmeno lui a me.

Lasciò la presa sul mio corpo e per un attimo ebbi la sensazione che quel distacco lo infastidisse. Forse non ero l'unica ad aver sperato qualcosa di più.

«Ecco, io... credo che... bé, sì... devo andare, no?»

Rise. «Decisamente sì»

Feci per andarmene, troppo agitata per restargli un solo altro istante di fronte ma lui mi afferrò per un polso e mi trattenne. «Non sarò tanto paziente e magnanimo la prossima volta, ragazzina.»

Un brivido. Una contrazione proprio tra le cosce. Sentii il viso prender fuoco, piano piano. E fui certa che quelle parole fossero una promessa indecente e scottante.

Mi lasciò andare subito dopo, partendo e sparendo alla mia vista come suo solito. Scappai sul cordolo di scale senza nemmeno respirare, trattenendo l'aria nei polmoni come se prendere fiato in quel momento fosse una opzione non contemplata dal mio corpo.

Arrivai di fronte alla porta di casa un attimo dopo e fu come tornare di colpo alla realtà. Espirai rumorosamente e fissai la maniglia, senza nemmeno trovare il coraggio di toccarla.

Entro? Non entro?

Ne ho il diritto?

Rimasi a fissare quella porta così a lungo, immobile di fronte alla soglia di casa, che qualcuno di passaggio avrebbe potuto pensare male; o magari credere che ero morta in piedi.

Fu il tintinnio di un paio di chiavi a strapparmi dalle mie esitazioni. Mi voltai di scatto e lo vidi lì, Lattner.

Era in piedi in mezzo al corridoio, con la fasciatura al suo posto e un'espressione guardinga.

Ringrazia il cielo di indossare ancora quella tuta enorme in grado di mascherare tutte le forme. Bagnata com'ero con vestiti diversi mi si sarebbe notato il seno.

Girò la testa tagliando il contatto dei nostri occhi, fuggendo dal mio sguardo. Indubbiamente era ancora ferito per le mie parole. Eppure era lì. «Ero preoccupato» farfugliò, con il viso arrossato. «Pensavo che... bé, pensavo le peggiori cose possibili a dir il vero.»

Lui pensava a me.

Lui era in giro a cercare me.

E io? Io mi stavo pomiciando un altro.

«Scusa, io... me ne vado.» Gli diedi le spalle. Feci per andarmene, per fuggire di nuovo.

«Aspetta!» Mi afferrò per un polso e trasalii a quel contatto. Era congelato. Aveva le mani gelide come se fosse stato sotto la pioggia tutta la notte, a cercarmi. Eppure il suo corpo e suoi vestiti, sembravano asciutti. Ricordai che il trabiccolo con cui girava non aveva nemmeno il riscaldamento e mi sentii più verme di quanto già non mi sentissi. «Non andare. Non c'è bisogno che fuggi. Non ti chiederò niente ma... vieni dentro.»

Avrei voluto chiedergli scusa per tutto, dirgli che mi sentivo spregevole e vile. Eppure tacqui, mi morsi un labbro con tormento e lo fissai di sottecchi.

«Andiamo in casa, Rob. Andiamo a casa.»

Casa.

La mia casa. La sua casa.

La nostra.

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