3 - UNA SERATA DA DIMENTICARE
Ero riuscita ad arrivare al lavoro in orario, con il fiatone e il viso paonazzo. Ben Marshall, il mio capo, mi aveva come suo solito squadrato da testa a piedi, chiedendomi se fosse tutto a posto. Era un uomo di mezza età dall'aria burbera e il cuore tenero. Fingeva disinteresse verso ogni suo dipendente ma in realtà ci osservava con molta attenzione, assicurandosi che ognuno di noi desse il meglio di sé ma al contempo stesse bene. Eravamo un gruppo affiatato.
Quando gli dissi che non era successo nulla di grave, non insistette. Aveva un carattere molto riservato e rispettoso, non si impicciava più di quanto gli fosse concesso. Confidava sul fatto che contassimo su di lui qual ora ce ne fosse bisogno; un po' come uno zio.
Appena indossai la divisa, la tensione causata dalla combo Claiton-Lattner sparì, facendomi immergere nel lavoro con più concentrazione e determinazione che mai. Era facile passare le ore lì dentro, soprattutto quando il locale era pieno di gente e il tuo cervello doveva mettere in stand-by i pensieri opprimenti che lo tormentavano. Molto spesso mi ero rifugiata in quelle ore di lavoro quando avevo bisogno di mettere a tacere le mie preoccupazioni.
La serata partì con slancio, tanto che non mi sorpresi quando il campanello da banco proprio accanto alla cassa venne fatto risuonare tre volte. Era il nostro segnale. Il Joily era in chiusura. Veniva suonato quando il locale era spoglio di clienti e bisognava iniziare a fare le pulizie.
Il tempo era volato. La mente era stata zitta e buona, spoglia.
«Stasera ce la siamo cavate proprio alla grande, Rob.» Le dita di Olive mi sfiorarono una spalla mentre mi passava il panno per la polvere. Venni travolta da un brivido prima di sottrarmi a quel tocco, stringendo la pezza tra le mani. I contatti mi hanno sempre fatto un certo effetto. «Sono rimasta sorpresa... eri così veloce ed energica che non abbiamo avuto nemmeno tempo per scambiarci due parole durante il servizio.» Olive era più grande di me di cinque anni eppure non dimostrava affatto la sua età. Aveva un viso dai tratti delicati e molto femminili, occhi allungati e un taglio a caschetto che la ringiovaniva parecchio; inoltre, spesso indossava dell'abbigliamento sportivo che la faceva sembrare una collegiale.
«Sì, è vero... mi spiace. Ero molto nervosa e ho scaricato qui tutto lo stress.» Mi allungai ripulendo le mensole e alle mie spalle sentii il fruscio dello straccio passato sul pavimento.
Eravamo veloci e collaborative. Secondo Marshall il team del Joily era il più organizzato di tutti i ristoranti che possedeva. E credetemi, Marshall ne aveva parecchi di ristoranti.
«Stress? Ti hanno fatto arrabbiare?»
La fissai senza nasconderle la brutta e corrucciata espressione spuntata al ricordo dei fatti. «Sono stata messa in punizione a causa di un idiota.»
Olive scoppiò a ridere. La sua risata trillò come il cinguettio degli uccellini, riempiendo l'intera stanza. Sembrava illuminare tutto ciò che le stava attorno e ogni volta non si poteva evitare di restarne colpiti. Era contagiosa. «Un idiota, dici?»
Gonfiai le guance cercando di mascherare l'imbarazzo. «Un idiota molesto» precisai.
«I maschi sono sempre idioti. Ma... non è che magari ti viene dietro?»
Dannazione! È così palese?
Mi sentii colpita sul vivo e non riuscii a trattenere un grugnito costernato e pieno d'indignazione. Presi a pulire con più foga, come se eliminare la polvere dal Joily potesse in qualche modo eliminare Claiton dal mondo.
Oh, sì! Ti eliminerò dall'universo piccolo lurido ammasso di depravazione, testosterone e stupidità.
Vomitevole scarto umano! Meriteresti di essere strizzato come questo panno.
«È davvero così terribile?» chiese, senza nascondere l'espressione giocosa. Le mie disgrazie la divertivano.
Perché diciamocelo... Claiton era una disgrazia. Una gigantesca e problematica disgrazia.
Avrei preferito non parlare di quella piaga anche sul posto di lavoro ma le parole mi uscirono senza filtri: «Petulante, egocentrico, appiccicoso, cafone e stupido. Molto stupido. Troppo stupido.»
Alla mente mi tornò il suo maldestro tentativo di baciarmi. L'idea mi innervosì così tanto che iniziai a strofinare i tavoli così energicamente da farli cigolare. Quel bastardo era riuscito a bloccarmi. E per di più era dovuto intervenire Mr.Lattner.
Mr.Lattner. Dannazione! Che pessimo modo per farci la prima chiacchierata!
«Quindi ti piace?» Olive era la classica ragazza curiosa, di quelle che ti tartassano di domande fino allo sfinimento se non ottengono la risposta che desiderano. Quella sera aveva trovato il suo nuovo passatempo. «Ti piace quel tipo?»
Quel tipo chi? Claiton?
«Mi piace? Eh? No! Dannazione, proprio no!» La mente s'incagliò ancora una volta all'espressione di Lattner fissa nel vuoto, allo sguardo perso e doloroso, alle dita lunghe e affusolate che si passava distrattamente lungo il corpo. Mi ritrovai a trattenere il respiro e venni travolta da un'intensa vampata di calore. «A – a – assolutamente no.»
Stupida! Stupida! Stupida! Ma che ti salta in mente di pensare a Lattner proprio ora, eh?
Olive inarcò un sopracciglio, smettendo di dare lo straccio solo per rivolgermi una delle sue occhiate allusive. «Sicura? Sei tutta rossa, Rob.»
«Ma certo che sono sicura!» Claiton non mi piaceva. E in fondo, si stava parlando di lui, no? Lattner non c'entrava nulla in tutto questo. Nulla.
E allora perché continuava a spuntarmi davanti agli occhi la sua immagine?
Mi sfiorai le guance sentendole scottare sotto i polpastrelli. Con la coda dell'occhio osservai la mia immagine riflessa alla vetrata del locale: capelli arruffati, vestito sgualcito e il viso in fiamme.
Serrando la stretta sul panno mi defilai il più rapidamente possibile negli spogliatoi. Era imbarazzante; anzi, no... io ero imbarazzante.
Sin da piccola avevo questo fastidioso problema: se si toccava un argomento che mi creava un certo turbamento, il mio viso assumeva varie gradazioni di rosso per poi spiccare come un semaforo. Non riuscivo a nasconderlo. Per via della mia pallida carnagione era così facile leggermi le emozioni in viso che spesso ero incappata in scomode situazioni.
Cercando di debellare Mr.Lattner dalla mia mente come si può fare con un virus, iniziai a cambiarmi in tutta fretta. Se mi sbrigavo, potevo evitare l'interrogatorio di Olive.
Mi riuscii a infilare soltanto i pantaloni prima che aprisse la porta dello spogliatoio e mi raggiungesse sghignazzando. Il suo braccio mi circondò per i fianchi mentre apriva l'anta del proprio armadietto. Anche se tra noi si era creata una certa confidenza, non riuscivo a sopportare quel genere di contatti prolungati. Il mio corpo s'irrigidì senza che riuscissi a prevenire quella mia spiacevole reazione. «Stai scappando, Rob?»
Tipico di lei tentare di stuzzicare il mio orgoglio con simili trucchetti. Tentai di liberarmi dalla sua stretta senza lasciar trapelare l'irritazione crescente che si stava facendo strada in me. Non sapevo per quanto avrei sopportato quella specie di placcaggio. «Non so di cosa tu stia parlando.»
Serrò la presa, allungando la mano libera fino a prendersi il cambio. «Avanti, non fare la finta tonta. Stavamo parlando di un ragazzo che ti dà alcune grane. Mi stavi per dire quanto ti piace... poi però sei diventata tutta rossa e sei scappata via alla velocità della luce.»
Diamine, Olive... come te lo dico che stavo pensando a un professore, eh?
«Divento rossa solo perché... perché è un discorso inutile e imbarazzante!» Distolsi lo sguardo sentendo ancora le gote pizzicare. Ero così negata a dire le bugie che i soldi del monopoly si riuscivano a spacciare per veri meglio di me.
«È imbarazzante perché ti piace?»
«È imbarazzante punto e fine.» Infilai la divisa sporca nella borsa. L'avrei portata a casa a lavare. Il cambio pulito era piegato sul letto.
Rise, mollando la presa per potersi cambiare. Approfittai dell'occasione affrettandomi a indossare la felpa e subito dopo il giacchetto. Se fossi fuggita, forse l'indomani non avrebbe risollevato l'argomento. Forse.
«È meglio che vada, si sta facendo tardi.»
Sfuggente come un'onda. Difficile da afferrare. Tangibile ma non abbastanza da essere stretta. Ero diventata questo. Il tempo e le delusioni mi avevano modellato fino a rendermi un gelido contenitore di sentimenti. Cercavo solo la giusta fiamma per sciogliermi.
Mi voltai verso l'uscita, pronta per la grande fuga ma Olive mi strinse un lembo del giacchetto, trattenendomi. «So che sei un tipo riservato ma ricordati che se hai bisogno anche solo di fare due chiacchiere... io sono qui. Per qualsiasi cosa, Rob... alla fine servono a questo le amiche, no?» Mollò subito la presa e le fui grata che mi lasciasse la possibilità di scegliere se confidarmi oppure no. Per quanto fossi affezionata a lei, per il momento non sentivo la necessità di spifferarle di Claiton, tanto meno di Lattner. E in fondo, non c'era niente da spifferare.
Ci sorridemmo e finalmente potei staccare dal turno. Mi precipitai fuori dal locale e tirai un sospiro di sollievo: anche quella sera avevo dato il meglio di me.
Era mezzanotte e per fortuna il mio appartamento non distava molto dal Joily. Un tempo la notte non mi faceva così paura. Ero una delle sue figlie, la calcavo bevendone ogni attimo. Ero più sicura di cosa avrei trovato in quelle ombre, meno spaventata di cosa avrei potuto incrociare sul mio cammino. Forse la mia sicurezza era dettata semplicemente dalla consapevolezza che anche io, a quel tempo, ero una macchia scura sul cammino di qualcun altro.
Aumentai il passo. Il semaforo era rosso. Mi separava solo qualche altro metro a quella casa confortevole, quell'angolino di felicità che mi ero faticosamente ritagliata.
Quando il semaforo divenne verde avanzai senza esitazione dando una sbirciata al cellulare. Adam non mi aveva scritto quel giorno, sui miei nemmeno ci contavo più.
Il fischio di freni che stridono mi fece sollevare la testa di scatto. Il cellulare mi sfuggì dalle mani rotolando in terra.
Due luminosi fari mi accecarono e l'unica cosa che trovai tempo di fare fu ripararmi con le mani, come se ciò potesse realmente cambiare qualcosa.
La moto s'impuntò proprio davanti a me, la ruota posteriore impennò per la brusca frenata ma il mezzo arrestò la corsa a pochi centimetri dai miei piedi. Tremavo.
Era come se quella bestia della notte fosse sbucata dal nulla per mangiarmi.
«I – io non - non» la voce mi uscì a singhiozzi. Il corpo mi pulsava dolorosamente, come un gigantesco cuore. Era come se il suo battito si fosse esteso su ogni singola parte di me, contraendosi e soffocandomi. La paura mi fece contorcere lo stomaco, come un serpente che si annida in pancia e si muove impaziente. Fui costretta ad allungare le mani e posarle sul muso del motore per non crollare in terra dallo spavento. Le gambe mi fremevano come foglie in balia del vento e il respiro usciva a scatti, con fatica.
Il motociclista non si scomodò. Rimase a fissarmi senza togliere il casco, né rivolgermi la parola, ancora leggermente allungato sul serbatoio come un puma accucciato che punta la propria preda. Indossava un casco modulare a cui aveva tenuto la visiera sollevata. Aveva enormi occhiali vintage che gli coprivano gran parte del viso e dove non arrivavano quelli, ci pensava una bandana con la stampa di un teschio disegnata sopra.
Espirai rumorosamente cercando di riprendere il controllo del mio corpo, nella speranza che smettesse di tremare. Cercai di focalizzare la mia attenzione su altro per aiutarmi in questa impresa, così mi concentrai sulla la moto.
Era una Honda, la riconobbi subito: una CBR 1000RR Fireblade nera e lucida come l'ossidiana; Adam aveva una passione quasi maniacale per le moto, al punto che quando abitavamo sotto lo stesso tetto mi faceva la testa come un pallone con tutti i modelli e le nuove uscite. «Sei – sei passato con... con...» La voce mi sfumò in gola. Faticai perfino a deglutire dalla tensione accumulata. Ritirai le mani strizzandomele l'un l'altra nel tentativo di scaldarle: erano gelide come ghiaccio. Dovetti stringerle a pugno per farle smettere di fremere.
«Ehi! Sveglia, ragazzina!» Il motociclista, ancora steso sul serbatoio, mi schioccò le dita davanti la faccia. «Dannazione! Ma non ti hanno insegnato a guardare prima di attraversare?» La voce ovattata dalla bandana mi arrivò bassa e roca. Indecifrabile. Si sollevò aiutandosi con le mani e grugnì seccato.
Alzai la testa di scatto e lo disintegrai con lo sguardo. La paura scivolò via sostituita dalla rabbia. Digrignai i denti troppo arrabbiata per trattenermi e iniziai a gridargli contro senza ritegno: «Cosa? Ma che diavolo stai dicendo, eh? Hai proprio un bel coraggio, sai? Potevi ammazzarmi, stronzo!»
Ma guarda questo bastardo... prima mi sta per tirare sotto e dopo ha perfino il coraggio di incazzarsi!
«Ammazzarti, io? Ma li sai leggere i semafori, ragazzina?»
«Certo che li so leggere. E tu?»
Allungò il braccio di scatto e mi afferrò per il mento con la mano guantata obbligandomi a girare la testa di lato. Pur facendo resistenza, di sfuggita notai che il semaforo per pedoni in realtà era ancora rosso. Quello che era diventato verde era quello per i mezzi. Ero stata disattenta. Ero passata senza prestare attenzione.
Dannazione! Idiota! Idiota! Idiota! Sei una idiota, Robin!
Mi sarei voluta prendere a sberle. Come avevo potuto essere tanto distratta?
Mi sentii salire il sangue in volto come un ascensore che schizza verso l'ultimo piano. Sentii le gote bruciarmi fino a scaldarmi da quel gelo notturno. Indietreggiai violentemente scacciando quella stretta sul mio viso con la mano. Nel farlo caddi in terra battendo il sedere.
«Non – non mi toccare! Stronzo!»
Sollevò le mani. «Ehi! Ehi! Calmati, ragazzina!» Sembrava divertito.
Mi coprii il volto con le mani cercando di riprendere il controllo su me stessa, di scacciare quelle sensazioni spiacevoli e fuori controllo; espirai e attesi che i tremiti si placassero. Quando riaprii gli occhi il motociclista era ancora fermo in sella al suo mostro e sembrava fissarmi incuriosito. Non appena notò che avevo smesso di tremare rilassò la schiena e allora mi soffermai a guardarlo meglio: spalle larghe strette da un giacchetto di pelle, una maglia aderente nera che delineava il fisico asciutto e probabilmente atletico, jeans neri cosparsi di strappi che terminavano dentro stivali da biker. Se non fossi stata tanto mortificata avrei detto che quel tipo fosse il genere di uomo in grado di farmi ballare il cuore tutta la notte. «Non ti sei fatta male, vero?»
Quella domanda così gentile mi fece uno strano effetto. Mi sprofondò nel cuore come una lama infuocata e mi scaldò da cima a fondo costringendomi a chinare il capo in cerca di qualcosa con cui tener occupate le mani. Raggiunsi il cellulare e guardai lo schermo intatto. Era passata la mezzanotte e nessuno mi aveva cercato. Nessuno si era preoccupato per me. Nessuno si era chiesto se stavo bene, se ero rientrata a casa dal lavoro sana e salva, se ero viva.
«Allora, ragazzina? Ti sei fatta male?»
Sollevai lo sguardo dai suoi stivali e cercai il suo dietro le spesse lenti degli occhiali senza però uscirne vincente. Era curioso quel nostro incontro. Ed era altrettanto curioso come un completo sconosciuto riuscisse a farmi contorcere lo stomaco a quel modo. Magari era solo la paura. O forse la cattiva ragazza chiusa a chiave in me scalpitava ancora per i cattivi ragazzi.
Oppure, sentire semplicemente che qualcuno si preoccupa per te... ti fa sentire viva. Che esisti. Eh, Robin? Esisti? Esisti davvero?
Mi strinsi nelle spalle e mi sollevai barcollando un po'. Le gambe ancora mi tremavano. «No – no. Sto bene. Non mi hai nemmeno sfiorato.» Ora mi sentivo a disagio. Nonostante lo avessi preso a parole, si era assicurato che non mi fossi fatta nulla. Al posto suo probabilmente me ne sarei andata mandando tutti al diavolo.
«Questo perché son bravo.» Passò la mano guantata sul petto e poi dietro il collo. Una catenella con una piastrina gli pendeva sulla t-shirt, oscillando a ogni suo movimento.
«Immagino di sì. Non tutti sarebbero riusciti a frenare così... all'ultimo momento.»
«Bene. Visto che sei viva... direi che posso andare.» Il rombo della Honda riempì tutto il silenzio di quella notte. Mi riverberò dentro come la scoccata di una frusta. Deglutii nervosamente spostandomi di lato per lasciarlo passare.
Dovevo scusarmi. Provarci quantomeno. Aprii la bocca per farlo ma uscì un rantolo che soffocai con un grugnito. «Come – come posso ringraziarti?» fu l'unica cosa che riuscii a chiedere, senza nemmeno troppa gentilezza.
«Magari evitando di farti mettere sotto di nuovo, eh?» disse, sfrecciando via senza voltarsi. Sul retro della giacca di pelle notai il disegno di un teschio con indosso una corona e la scritta The Skulls. Vedere quel genere di abbigliamento mi trascinò indietro di anni, a quando anche io facevo parte di una banda e a mia volta avevo il mio giacchetto di pelle personalizzato.
Cazzo, ma quello era un delinquente! Sono stata rimproverata da un delinquente! Non ci posso credere! Assurdo!
Mi affrettai ad attraversare la strada e il peso sullo stomaco sembrò lasciare posto allo sconforto e al turbamento. La sciarpa mi scivolò lungo il giacchetto scoprendo un lembo di collo. Una folata gelida di vento mi trafisse la pelle facendomi rabbrividire. Strinsi d'istinto il mazzo di chiavi tra le mani e aumentai il passo per raggiungere il mio condominio più in fretta possibile.
Ad ogni passo mi guardavo alle spalle confusa e trafelata. Quell'incontro-scontro aveva riportato a galla delle insicurezze che la mia famiglia mi aveva lasciato addosso come cicatrici. La consapevolezza di essere un'esistenza indesiderata e superflua nelle loro vite. Qualcosa di facilmente dimenticabile.
Quando finalmente raggiunsi il condominio, riuscendomi a chiudere la porta alle spalle, non potei fare a meno di tirare un sospiro di sollievo.
Ero a casa. Ero salva. Stavo bene. Non c'era nessuno a cui dirlo e a cui interessava... ma stavo bene. Ero forte. Anche da sola.
«O'Neil! Cercavo proprio te! Devo parlarti!»
Se non cacciai un grido di terrore fu solo fortuna. Con i nervi a fior di pelle e la tensione schizzata alle stelle, non riuscivo a fronteggiare gli imprevisti con lucidità.
Carl Brenn, il proprietario del mio appartamento, si sbracciò dal vano della portineria salutandomi con troppa enfasi. Come suo solito aveva una eccessiva vivacità che riusciva a innervosirmi ancora prima di attaccare bottone.
Aveva un sorriso plastico che sapeva di finto già lontano chilometri e una parlantina soffocante che strideva fortemente con il mio carattere schivo. Se la serata al Joily era filata liscia come l'olio, non si poteva dir lo stesso del dopo lavoro.
Ci mancavi solo tu, viscido bastardo!
«Me? Cavolo... mi spiace averla fatta attendere tutto questo tempo.» Perfino io riuscii a captare falsità nel mio stesso tono di voce. Mascherare i miei malumori o le mie antipatie era davvero difficile con il carattere che mi ritrovavo.
Scrollò le spalle e mi seguì come un cagnolino su per le scale. Sentivo i suoi occhi inchiodati sulla schiena, sempre. Ogni volta che lo incontravo si dilungava negli sguardi e questo m'irritava parecchio perché nelle sue espressioni lasciava trapelare un disgustoso interesse. Sarei potuta essere sua figlia per l'enorme divario d'età, eppure quel viscido mi sapeva ricordar bene ad ogni occhiata che non lo ero.
Quando raggiunsi la porta mi fermai con le chiavi ancora strette in mano. Volevo davvero fare entrare quell'uomo nella mia abitazione? In fondo ero sola, era notte, era fraintendibile.
Mi voltai con un sorriso forzato e lo fissai. «Non potremmo parlarne qui?»
«Preferirei entrare a bere qualcosa.»
Sebbene la cosa non mi piacesse affatto, non potevo rifiutarmi di far entrare il padrone di casa nel proprio appartamento. Inoltre sembrava particolarmente impaziente di chiudere la questione. Doveva trattarsi di qualcosa di estremamente importante se si era trattenuto oltre la mezzanotte. Infilai rapidamente le chiavi nella toppa e mi limitai ad aprire la porta, lasciando il vano aperto per il passaggio. «Prego, entri pure» dissi, cercando di essere adeguatamente ospitale.
Quando fummo soli mi sentii improvvisamente nervosa. Non tanto per la sua presenza, che era comunque insolita, quanto per l'atmosfera che si era creata.
Un silenzio pesante si era fatto largo nell'appartamento, accompagnato da uno strano disagio.
Brenn continuava a guardarsi attentamente attorno totalmente immerso nei propri pensieri.
«Vuole del caffè?» domandai, ricordando che aveva detto di voler bere qualcosa.
«No, grazie. Solo un bicchiere d'acqua.» Si spostò per tutta la sala, passando le mani sui mobili e picchiettando con le nocche sulle mensole. Nonostante l'arredamento fosse già lì al mio arrivo, m'infastidiva che si prendesse tutte queste libertà quando al momento l'affittuaria ero io.
Lo lasciai solo in sala e raggiunsi la cucina. La sua presenza era insolita e tutta quella situazione mi puzzava: c'era sotto qualcosa. Per quanto fosse un tipo viscido non era mai stato un uomo tanto sfacciato. Non si era certo infilato in casa mia per ottenere chissà cosa. Dovevo solo capire dove voleva arrivare.
Tornai con la bottiglia e un bicchiere. Brenn si era già seduto al tavolo.
Gli versai l'acqua e lui subito ne bevve una grossa sorsata. Improvvisamente sembrò nervoso. Continuava a pizzicarsi l'orlo del maglione e a zigzagare con lo sguardo senza mai incontrare il mio. «Mia figlia si è sposata domenica.»
E quindi? È quasi l'una di notte... sai che cazzo me ne frega!
«Oh, congratulazioni!» In realtà non sapevo che dire.
«A dire il vero sono qui proprio per questo.»
«Per sua figlia appena sposata?»
Sembrava uno di quei discorsi assurdi dove i due interlocutori si sparavano frasi a caso che non avevano alcun nesso tra loro. Mi stava confondendo.
Non sapevo dove questa insolita conversazione volesse andare a parare ma la sua espressione tradiva un certo nervosismo. Qualsiasi cosa stesse per dirmi, non gli piaceva o comunque, non mi sarebbe piaciuta.
«Sì.» Roteò l'acqua nel bicchiere e bevve ancora. «Ora che si è sposata è bene che prosegua la sua vita insieme al coniuge e, ovviamente, è fuori discussione che rimangano nell'abitazione di famiglia.»
Oh, ora è tutto chiaro piccolo verme che non sei altro. Tutto molto chiaro.
Mi dovetti sedere. «E quindi?» Non volevo dargli l'idea della disperata ma la mia voce tradì le mie emozioni. Ero spaventata da quello che sapevo avrei sentito? Dannazione, sì!
«E quindi sono qui per l'appartamento, O'Neil.»
«Sta cercando di dirmi che verrò sfrattata?»
Il sorriso plastico di Brenn spuntò di nuovo sul suo volto. Mi fissò e annuì come se fosse l'annuncio più tranquillo e gioioso da dare. «Esatto. Come ben capirai... ci serve l'appartamento.»
No, non capisco piccolo mucchio di letame. Non capisco proprio! Cazzo!
«Ma io le ho già pagato tre mesi d'anticipo.»
«Te li restituirò... compresa la caparra, ovviamente.»
Ero sconcertata. Non sapevo nemmeno cosa rispondere. Nel petto sentivo una pressione dolorosa e un timore crescente. Ero quasi certa che per aspettarmi fino a quell'ora di notte con ogni probabilità la fregatura non si fermava al semplice sfratto. «Quando?» fu l'unica cosa che riuscii a chiedere e che al momento m'interessava davvero, visto che mi sarei dovuta di nuovo mettere alla ricerca di un posto dove andare.
«Poco più di una settimana. Devi sgombrare entro domenica prossima.»
Eravamo giovedì notte, anzi, venerdì visto che avevamo già passato la mezzanotte. Avevo dieci giorni di tempo.
Proruppi in una risata secca, forse isterica. «Cosa?»
Questo figlio di puttana non mi dà tempo nemmeno fino a fine mese?
La mente mi passava da uno stato di loop a un rimbalzare continuo alle parole del suo annuncio, come se il mio cervello non volesse ben registrare l'imminente sfratto. Mi girava la testa.
«I ragazzi sono in luna di miele. Staranno via solo tre settimane e qua servono alcuni cambiamenti sia all'arredamento che per certe migliorie di vario genere.»
Ecco perché prima toccavi tutto con quelle sudice mani, eh? Stavi già facendo i tuoi calcoli, bastardo!
Sentivo il petto ribollirmi di rabbia e angoscia. Sentivo un peso impiantato nel torace, così opprimente da crearmi fatica nella respirazione. Afferrai la bottiglia d'acqua e tracannai un sorso, senza preoccuparmi dell'etiquette che avrei dovuto mantenere di fronte al mio padrone di casa. Sinceramente in quel momento non me ne fregava assolutamente un cazzo di Brenn. Anzi, doveva ringraziare che non l'avevo già lanciato fuori casa con un pugno a dividergli la fronte. «E quindi io come dovrei fare?»
«Bé, visto che non avevamo ancora stipulato alcun contratto... non saprei, O'Neil.»
Non saprei... lui dice "non saprei"... e intanto quella che fra poco più di una settimana dormirà sotto un ponte sono io!
«Non abbiamo stipulato alcun contratto perché lei mi aveva detto che l'avrei firmato a fine mese... perché prima voleva farmi fare un periodo di prova per vedere se ero adeguata e seria abbastanza da potermi permettere questo posto. Io ero – ero convinta che - che» la gola mi si seccò. Convinta di cosa? Che sarei rimasta lì a vita? Che quella fosse veramente la mia casa? Il mio luogo felice? Il mio angolo di paradiso?
Stronzate! Sempre e solo stronzate!
Ero rovinata. Fottuta.
Dovevo trovare una soluzione. E in fretta. O mi trovavo subito un altro posto o altrimenti sarei dovuta tornare a casa. E quest'ultima opzione era fuori discussione.
Trasalii quando un brivido freddo mi corse giù per la schiena. I miei genitori non mi avrebbero mai ripreso in casa. A malapena mi mandavano il messaggio di auguri per le feste comandate. Si erano perfino dimenticati del mio compleanno. O forse, lo avevano voluto dimenticare apposta.
Lo fissai senza celargli la mia preoccupazione. Sarebbe stata tutta fatica sprecata, non ho mai avuto una faccia da poker.
Brenn si alzò da tavola con compostezza. Non sembrava minimamente turbato. A lui non interessava nulla se per buttarmi fuori mi aveva appena messo nella merda. «Meglio così allora, no? Meglio non averlo firmato quel contratto... sai, sarebbe stato un bel casino mandarti via con un affitto di locazione in corso.»
Non può finire così. No, merda. No!
Distesi la mano sul tavolo e fissai lo sguardo sulle dita. Tremavano così tanto da sobbalzare.
«Una settimana» ripetei, piano.
«Dieci giorni per l'esattezza.»
«Ah, già... sento già la differenza per quei tre giorni» replicai acidamente, con sarcasmo.
«Ti auguro buona fortuna, O'Neil.» Mi posò una mano sulla spalla defilandosi verso la porta come uno scarafaggio alla vista della luce.
Buona fortuna... mi dice buona fortuna dopo avermi sganciato questa bomba.
Mi sollevai in piedi di scatto, come una molla. «Mr.Brenn lei non può farmi questo. Una settimana... dieci giorni, quello che è... sono comunque veramente troppo pochi per trovare una sistemazione qui a Detroit» gridai, la voce incrinata dall'agitazione. Lo afferrai per una spalla ma lui si liberò con uno scossone dalla presa.
«Non è problema mio.» Non si voltò nemmeno. Strinse il pomello della porta e aprendola si fermò giusto un attimo per ricordarmi la scadenza: «Dieci giorni. Fino a domenica prossima, O'Neil. Non un giorno di più. Non dimenticarlo.» E uscì. Abbandonandomi nel più totale e completo stato confusionale.
Rimasi in piedi minuti infiniti a lasciare che gli ingranaggi del mio cervello elaborassero qualcosa. Tutto quello che riuscivo a pensare era che a breve mi sarei trovata in mezzo a una strada.
Cercai di afferrare il bicchiere sporco per portarlo in cucina ma la mano tremava così tanto che mi sfuggì dalla presa e cadde rovinosamente in terra esplodendo in mille frantumi.
Fu un po' come se quel bicchiere rispecchiasse le mie emozioni. Improvvisamente mi sentii smarrita, con il cuore carico di preoccupazione, senza un vero luogo che potessi chiamare casa, sola e abbandonata perfino dalla mia stessa famiglia.
Va tutto bene. Tutto bene. Andrà tutto bene. Tranquilla, Rob... andrà tutto bene!
Mi ero abituata a dirmi che andava tutto bene anche quando mi sentivo soffocare, anche quando le preoccupazioni mi legavano un cappio alla gola e non mi lasciavano respirare.
Avevo imparato a mentire perfino a me stessa pur di trovare un attimo di pace, di respiro.
Ero diventata brava a fingere, a ignorare, a chiudere gli occhi e andare avanti, a tapparmi le orecchie e fischiettare per non sentire le grida delle mie paura. E ora, tutto attorno a me stava esplodendo, crollando.
Le gambe diventarono deboli e molli e in un baleno mi ritrovai in terra, cozzando il pavimento con le ginocchia.
Stavo tremando. Era tanto che non tremavo così.
Te ne devi andare da qui. Non ti vogliamo più vedere.
Ci hai deluso.
Sei solo un problema. Sei solo una vergogna.
La voce dei miei genitori risuonava forte e chiara nella mia mente. Era tornata a galla approfittando della mia debolezza, ricordandomi ancora una volta il loro disprezzo e il motivo per cui mi avevano allontanato così tanto da casa, senza rimorso.
Digrignai i denti e mi strinsi le tempie con i pugni. «Basta! Basta!» Non volevo più sentirla. Non volevo più soffrire. Ero stanca di sentirmi costantemente sbagliata, fuori posto.
Sei la vergogna di tutta la famiglia.
È meglio se sparisci. È meglio se scompari da qui.
Ci fai schifo.
Era meglio che non fossi nata.
No. Non potevo tornare a casa. Non avevo una casa. Non avevo un luogo che potesse definirsi tale. Non più.
E ora, non avevo più nemmeno la possibilità di ricominciare, di tentare di darmi una nuova occasione.
Come potevo in così poco tempo trovare una nuova sistemazione? Ci avevo messo mesi per trovare quell'appartamento. Detroit non era New York, eppure era altrettanto affollata.
Sei una vergogna. Una disgrazia.
Non riusciamo nemmeno a guardarti.
Cosa abbiamo fatto di male per meritare una figlia come te?
Scivolai lungo il pavimento, battendo i pugni in terra. Un singhiozzo mi sfuggì dalle labbra, seguito da un altro e poi un altro ancora.
Scoppiai a piangere senza riuscir più a trattenermi. Era tanto che non lo facevo, che non mi spezzavo. Avevo tenuto per così tanto tempo stretti tutti i cocci di me stessa che quelle lacrime avevano il peso di mille pianti trattenuti.
Ero come quel bicchiere: sbriciolata, persa, da buttare.
Ci fai schifo. Fai pena.
Sei solo una puttana.
Delinquente. Violenta.
Mi portai una mano alla bocca, cercando di attutire i singhiozzi. «Basta... vi prego... basta!»
Volevo solo un posto da chiamare casa, un posto dove tornare, dove essere importante e ben voluta.
Volevo solo ricominciare a vivere, a sorridere.
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