29 - SORPRESE

Qualcuno doveva odiarmi.

Sì, doveva per forza essere così perché altrimenti non era possibile che alle otto di mattina, di domenica, continuasse a squillarmi il cellulare con insistenza.

Lo afferrai dopo l'ennesima volta che ripartiva la suoneria da capo e risposi con il grugnito più cavernicolo che la mia gola fu in grado di produrre: «Sì?» Neanche un "pronto" o un "chi è". Un sì che preannunciava già una lunga sequela di parolacce, anatemi e minacce in caso si fosse trattata della consueta offerta promozionale.

Se si fosse trattato di qualche operatore che voleva propinarmi qualcosa... bé, non volevo essere nei suoi panni.

«Robin?» La voce di Nate mi schiaffeggiò riportandomi alla realtà.

Mi misi a sedere sul letto così in fretta che tutta la stanza sembrò girare. «Nate? Perché mi hai chiamato di domenica? C'è un turno da coprire?» La prima cosa che il mio cervello assonnato e ancora in stand-by riuscì a pensare fu che qualcuno dei camerieri del Joily si fosse ammalato e che avessero bisogno di un tempestivo rimpiazzo. La mia mente non partoriva ulteriori motivazioni per quella seccante chiamata.

«Eh? Cosa? Il Joily? Oh, no... no... non saprei. Anche io sono di riposo oggi.»

Strabuzzai gli occhi e me li stropicciai sperando che quella parte poco usata e ossigenata di me si attivasse. «E quindi... che succede?»

«Sono di sotto. Qui fuori.» Lo disse come se così facendo tutto mi fosse più chiaro.

«Che?»

«Così non puoi rifiutare l'uscita.»

«Che?» berciai, di nuovo.

«Così non puoi rifiutare l'uscita» ripeté, di nuovo.

Ma che diavolo succede? Sono finita in un loop temporale dove ripetiamo entrambi le stesse cose all'infinito?

«Stai scherzando, spero.»

«Affatto. Anzi, se non ti sbrighi sarò costretto a salire a prenderti. Immagino tu non voglia dar troppe spiegazioni al tuo coinquilino... Robert

Cosa, cosa, cosa?

Digrignai i denti pronta per mandarlo a fanculo. Odiavo le imposizioni. Ero uno spirito libero, indisponente verso chiunque cercasse di imbrigliarmi o mettermi in catene. Potevo passarci sopra solo nel caso in cui a farlo fosse qualcuno a me vicino o caro e Nate al momento non era nessuno dei due, nonostante tra noi ci fosse questo tira e molla di interesse.

«Il tempo scorre... ti restano cinque minuti.»

«Vaffanc-» Aveva chiuso la chiamata.

Strinsi il cellulare tra le mani, resistendo all'impulso di lanciarlo contro il muro e poi decisi di fare qualcosa che mai avrei pensato di fare la domenica mattina: strappai il mio corpo dal tepore del letto scostandomi bruscamente le coperte di dosso.

Oh, Nate, Nate, Nate. Povero Nate. Non sai cosa hai appena fatto.

Non sai quale demone hai appena svegliato.

Adesso ti ammazzerò, sì. Ti frantumerò quel faccino di merda contro il muretto sotto casa e resterò tutto il giorno a ballare sul tuo cadavere.

Scesi dal letto con un diavolo per capello. Cercai subito di richiamarlo, tenendo il cellulare incastrato tra orecchio e spalla mentre nel frattempo avevo iniziato a indossare i vestiti di Robert.

Mi vestivo velocemente spinta dal solo desiderio di colpirlo a ripetizione con qualcosa di contundente.

Che poi, che vuol dire che è qui sotto, eh? A fare cosa? Non vorrà mica salire, spero.

Mi precipitai fuori dalla camera quasi sgommando e arrivai in salotto macinando il corridoio in poche falcate. Con la coda dell'occhio sbirciai in cucina chiedendomi se fosse il caso di ingoiarmi un'intera cuccuma di caffè e la vista di Lattner già sveglio mi fece perdere un battito. Anzi, forse anche più di uno. Anzi, forse mi era partito un infarto e nemmeno me n'ero accorta.

Fremetti.

«Sei di fretta?» Il tono era tranquillo ma nel suo sguardo leggevo tempesta. Restava appoggiato al lavello della cucina, la sigaretta penzoloni dalle labbra e la maglietta stropicciata che gli lasciava scoperto un pezzo di ventre da cui scorgevo l'invitante strisciolina di peli neri che si tuffava nei pantaloni. Continuava pigramente a passarsi la mano sulla pancia, facendola sparire sotto il tessuto della maglia. Silenzioso e persistente, il suo sguardo restava fisso nel mio come incagliato. Lo sentivo pesarmi addosso, analizzarmi, sfogliarmi come un libro. Era la sua intensità a farmi sentire fuori luogo, fragile. Era come se all'improvviso qualcuno mi avesse messo lì per caso.

D'un tratto l'idea di raggiungere Nate fuori casa mi parve un pensiero tanto lontano.

Potremmo fare sesso, sì. Qui e subito. Non sarebbe una brutta idea, Lattner, no?

Deglutii e scossi leggermente il capo scrollando via quei pensieri impuri. «Io... ecco... sì. Ho – ho un appuntamento.»

«Galante?» domandò ironicamente, guardandomi da sopra le lenti degli occhiali con quel suo tipico cipiglio arrogante che ogni tanto gli spuntava fuori.

Arrossii. «E anche se fosse?» lo rimbeccai, bisbetica.

«Con quel Nate?» Questa volta non nascose l'irritazione.

«E anche se fosse?» ripetei, indietreggiando non appena lo vidi staccarsi dal lavello.

Camminò verso di me lentamente, così piano che per un attimo provai l'impulso di colmare quella distanza raggiungendolo. Sembrava assonnato o particolarmente avvolto in pensieri cupi o tediosi. Forse ripensava alla sera prima.

Bé, come dargli torto. Io ci avevo pensato tutta la notte. così tanto che nemmeno avevo chiuso occhio. Testimoni le mie occhiaie da urlo.

«Se – senti... devo andare.»

«Va' pure! Non ti sto mica trattenendo.»

Indietreggiando ancora qualche passo andai a sbattere con il sedere contro il tavolo della sala e con la coda dell'occhio fissai la tavola imbandita dalla colazione. Lattner scattò avanti con il braccio teso e d'impulso chiusi gli occhi.

Non mi toccò. Non fece niente.

Quando li riaprii notai che aveva spento la sigaretta proprio nel posacenere dietro di me. Peccato che per farlo si fosse avvicinato e abbassato pericolosamente. «Si tratta di Nate, vero?» chiese di nuovo, in un soffio.

«Pe – perché me lo chiedi? Mica esiste solo lui... mica conosco solo lui. E – e poi io sono un-»

«Un ragazzo... ma certo, certo» terminò lui per me, ghignando. «Tieni allora.» Armeggiò con la tasca sul retro della tuta ed estraendo il portafoglio mi porse un piccolo involucro. «Non importa che tu sia passivo o attivo, Robert... le precauzioni vanno sempre usate.» Appoggiò il portafoglio sulla tavola, infilò una mano nella tasca della tuta e mi fissò con un sorriso sghembo.

E adesso perché ridi? Che problemi hai?

Sei per caso caduto dal seggiolone da piccolo?

Hai un fratello gemello malvagio?

Sei affetto da bipolarismo?

Quando abbassai lo sguardo su ciò che mi aveva dato per poco non gli collassai di fronte.

Un preservativo. Un fottuto preservativo.

Lo strinsi tra le dita di entrambe le mani, incassando alle spalle e sentendo un fremito scuotermi da cima a fondo. Avevo un urgente bisogno di gridargli qualcosa, qualsiasi cosa. E di picchiarlo, picchiarlo fino a renderlo una poltiglia informe. Il leggero tic all'occhio presto sarebbe tornato alla carica e sarei passata per una psicopatica che fa occhiolini a destra e a manca. «Cosa. Cazzo. Stai. Dicendo?» gridai con tutta la voce che avevo in corpo, scandendo ogni parola con un grugnito e un colpo in sua direzione.

Lattner scoppiò a ridere e facendo un saltello indietro mi colpì la fronte con il palmo della mano libera. «Attento a non rimanere incinto, Robert... basta un attimo di distrazione e... zaaack... gravido.»

«Zitto! Zitto! Zitto!» Gli sferrai un pugno che lui schivò sghignazzando. Era veloce per essere un bastardo quattrocchi. «Sei un maiale. Un porco. Un depravato. Un pervertito.» Non sapevo perché, ma il fatto che mi avesse immaginato fare sesso mi stava dando alla testa. Al posto degli occhi sentivo due girandole fumanti.

«Sì, sì... tutto quanto. Tutto quanto» disse con fare annoiato, liquidandomi con un gesto sbrigativo. Deviava i miei colpi con la mano libera, mentre l'altra la teneva ancora affondata nelle tasche della tuta; come se fosse una cosa semplice e naturale che faceva senza alcuno sforzo. «Sono un maniaco. Deviato. Depravato. Pervertito. Ladro di mutandine... tutto quello che vuoi tu.»

«Non mi prendere in giro, stronzo!» berciai rossa in viso e ruotando leggermente il busto gli sferrai un calcio rotante.

La sua espressione cambiò giusto un attimo prima che mi afferrasse la gamba con la mano, bloccando il colpo. Sfilò l'altra dalla tasca e affondandola nel tessuto della maglia sul mio fianco mi tirò a sé.

I nostri corpi impattarono con forza e lo sentii aderire così bene tra le mie cosce che per poco non andai in iperventilazione. Ci volle ogni briciola di autocontrollo per non crollare in terra con le gambe molli, il respiro affannato e il viso ridotto a un'esplosione di rossi.

«Volevo solo assicurarmi che facessi attenzione... sai... non mi piace quel tipo» bisbigliò, piano, ancora incastrato contro di me.

Se fossi stata una persona sana di mente avrei sbottato con qualche altro insulto e magari avrei preteso delle scuse visto la facilità con cui mi aveva immaginato scopare con qualcuno; invece, in quella posizione il mio cervello fu solo in grado di partorire pensieri così lascivi da far impallidire dei pornoattori.

Dannato, Lattner. Sei così vicino, così stretto tra le mie cosce, così caldo e profumato.

Come saresti senza vestiti, eh? Quali altri piercing mi nasconde il tuo corpo?

Possibile che non ti accorgi di quale effetto mi fai?

Inspirai una grossa boccata d'aria, sentendo il viso cedere sotto il rossore della colpa e del peccato. Colpita e affondata. Cinquanta Ave Maria e cento Padre Nostro, prego.

Ci scambiammo uno sguardo lungo e silenzioso poi senza resistere oltre abbassai gli occhi proprio nel punto dove i nostri bacini si scontravano. Era così premuto contro di me che riuscivo perfino a sentire qualcosa che una alunna non dovrebbe mai sentire del proprio professore.

Deglutii e notai che anche lui aveva seguito la scia del mio sguardo. Non appena si accorse della posizione equivoca mi mollò di scatto la gamba e per un attimo mi parve arrossito.

«Bé, insomma... è naturale che mi preoccupi, no?» Si grattò la nuca guardando tutto men che me. Le guance erano accese d'imbarazzo e questo fu peggio di un pugno nello stomaco. Sentii il ventre conoscersi come in preda a un crampo. «Sono il tuo coinquilino... più grande, fra l'altro... insomma... è – è normale questa mia preoccupazione, credo.»

«Ehm... sì, sì, certo. Ovvio.»

Cos'è questa tensione? Cos'è questa carica sessuale che aleggia tra noi?

Devo scappare. Devo darmela subito a gambe levate.

Mi passai una mano sul collo, guardando la porta e lui a intermittenza. «Senti... forse è meglio se...»

«Sì, sì... decisamente.»

Slittai verso l'uscita e corsi fuori senza nemmeno voltarmi a guardarlo.

Fui costretta ad aggrapparmi alla ringhiera in muratura per riprendere un briciolo di controllo sul mio corpo che non smetteva di fremere.

Che diavolo era successo lì in quella sala? Per un attimo mi era sembrato fossimo entrambi sull'orlo di qualcosa. Qualcosa che anche solo pensarlo mi tramortiva più di una percossa.

Scesi il cordolo delle scale con la testa impiantata in quello che era appena successo. Lattner sconvolgeva sempre tutti i miei piani. Li prendeva e ci giocava a tiro al piattello, mandandoli in frantumi uno dopo l'altro.

Già era difficile la sua sola presenza, figuriamoci con questi pensieri a balenarmi in testa.

«Finalmente! Stavo quasi per venirti a prendere.» Nate alzò la mano in saluto e l'istinto di prenderlo a calci nel culo si fece quasi sordo.

«Nate! Dannato te! Che diavolo ci fai qui?» gli ringhiai addosso, dandogli una pacca nello stomaco.

«Forza, su... entra.» Mi indicò la macchina con un braccio e rimasi a fissarla dubbiosa.

Non mi piace quel tipo.

Le parole di Lattner mi fischiarono nelle orecchie.

Ma va! Stiamo parlando di Nate. Impossibile!

«Dove vuoi portarmi?»

I suoi occhi si illuminarono di felicità e per un istante venni sopraffatta da quel docile sorriso in grado di scaldarti il cuore. «È una sorpresa. Ti avevo detto che mi sarei fatto perdonare, no?»

Borbottai qualcosa di incomprensibile e fui certa di essere arrossita, di nuovo.

Senza domandare altro lo seguii in auto. Non avevo abbastanza forze per combattere quella mattina.

Non appena ci sedemmo notai un particolare che mi fece sorridere. Nate aveva una meticolosa cura per quel trabiccolo.

Nell'aria si poteva sentire l'invadente profumo di menta che soffocava tutto l'abitacolo.

Nulla a che vedere con la macchina sgangherata di Lattner.

«Cavolo, la tratti bene» dissi, carezzandola come se si trattasse di un cucciolo.

Nate rise. «Sì, è una mia piccola passione. Amo le macchine.»

Fui folgorata. «E – e i motori? Insomma... ti piacciono anche le moto?»

Storse il naso infilando la chiave nel cruscotto e dopo alcuni tentativi riuscì a metterla in moto. Partimmo subito. «Non troppo in realtà. Si perde tutta la comodità dell'auto. E poi spesso chi le guida lo fa al puro scopo di apparire.»

Gonfiando le guance feci ricorso a tutto l'autocontrollo di cui disponevo per non dare il via a una sequenza inestimabile di parolacce e insulti.

Magari mente. Magari mente apposta per sviare i tuoi sospetti.

Disse la vocina della mia coscienza, così più intelligente di me.

«Perché me lo hai chiesto? Sei una fanatica di moto?» Ridacchiò.

«Circa. A New York ne avevo una.» Mi abbandonai contro il sedile, ripensando ai miei tempi da Scorpion Queen; le moto erano un must, ognuno aveva la propria. E si può dire che le trattavamo meglio di come potessimo trattarci tra noi membri. «Era una Kawasaki ninja, completamente nera. Senza contare il fatto che Adam, mio fratello, ha sempre avuto una passione per le moto.»

Rise. «Non ti ci vedo per nulla in sella ad una moto.»

Ah, Nate... non sai quanto ti stai sbagliando.

Tu mi credi una brava e dolce ragazza... ma nemmeno sai cosa si nasconde dietro questo faccino per bene.

Non dico che tenni il broncio ma non vi nego che fu un tragitto davvero silenzioso.

Non avevo voglia di parlare con chi mi teneva ostaggio dei propri capricci. Nate a volte sapeva essere arrogante ed egoista.

E io non ero la cavia giusta per sperimentare questi sentimenti di possesso.

Senza contare che ancora il mio cervello non voleva mollare quel fugace episodio capitato tra me e Lattner.

«Quindi? Dove mi porti?» borbottai, guardandolo di taglio, con gli occhi assottigliati in due piccole fessure.

Nate svoltò e tamburellò le dita sul volante. «È una sorpresa. Ma sono sicuro che ti piacerà.»

«Spero che ne valga la pena visto che mi hai svegliato alle otto di mattina. Ho ucciso per molto meno.»

Mi lanciò un'occhiata veloce e subito scoppiò a ridere. «Devo averla combinata grossa per averti tirato fuori quello sguardo infernale.»

Cercai la mia immagine nello specchietto e mi accorsi che la mia faccia era corrucciata in una delle mie peggiori espressioni demoniache. Con un sospiro mi passai le dita sulla fronte, cercando di distendere quell'aggrottamento dall'aria tanto malvagia.

Avevo bisogno di una sigaretta e un caffè. Non necessariamente in questo ordine.

Nate era troppo euforico e solare per la me mattutina. Se questa amicizia o simil frequenza voleva continuare a esistere, avrei fatto bene a insegnargli alcune cose sul mio conto.

Tipo non ridere troppo di mattina, soprattutto la domenica; non svegliarmi prima delle nove, non rivolgermi la parola prima di un caffè, non fare domande prima delle dieci a meno che non siano legate alla mia sfera otaku, non aprirmi la portiera dell'auto come aveva fatto prima, insomma... i miei genitori due braccia me le hanno fatte, non vedo perché non usarle; non obbligarmi a fare le cose... bé, di questo avremmo avuto di che discutere io e un tipo come Nate.

Ce ne sarebbero almeno un'altra cinquantina ma sul momento ammetto che ho un vuoto.

Forse perché una delle mie regole principali era anche: non pensare prima delle dieci.

Ah, già... eccone un'altra.

Insomma, ero una creatura semplice, io. Giusto un centinaio di divieti e potevi essermi tranquillamente amico.

La vita di Takeru non era così rosea a pensarci bene, non credete?

«A che pensi?»

«Alla fame nel mondo e agli effetti del surriscaldamento globale.»

Strabuzzò gli occhi. «Davvero?»

«Cazzo, no! Ti pare? Sono le fottute otto di una fottuta domenica mattina... ho dovuto guardare i documenti per ricordare chi ero» berciai, allargando le braccia con esagerata enfasi.

Nate soffocò una risata e scosse il capo. Quando era in mia compagnia rideva spesso. Era bizzarro il nostro rapporto, o ci scannavamo o andavamo d'amore e d'accordo.

Per lui dovevo essere qualcosa a metà tra la dolce vicina di casa, un clown e una portinaia bisbetica.

Qualcosa di simile a Luna Lovegood... ma molto meno cool.

«Se ti chiedo di chiudere gli occhi per qualche minuto, mi accontenterai?»

Assottigliai lo sguardo. «Se mi prometti che quando li apro sarò davanti a una cuccuma di caffè e una stecca di sigarette potrei fare questo sforzo.»

Rise e allungando la mano mi coprì gli occhi. «Eddai, O'Neil... sto cercando di fare il carino.»

«E va bene... va bene.» Li chiusi e rimasi in attesa. «Ma se pensi di portarmi in qualche posto isolato per uccidermi e disfarti del mio cadavere, sappi che so difendermi.»

Lo sentii ridere.

Non so per quanto tempo restai a occhi chiusi. Mi sembrò un'eternità. Sentivo Nate guidare canticchiando e questo mi ricordò Lattner che quando era di buon umore aveva il malsano vizio di fischiettare o canticchiare sommessamente, senza nemmeno usare le parole.

In realtà, era piacevole quando era lui a farlo. Inspiegabilmente mi rilassava.

Lattner, Lattner, Lattner... e ancora Lattner!

Pensi sempre e solo a lui! Cretina!

«Siamo quasi arrivati... resisti.» Le calde dita di Nate mi disegnarono una carezza morbida sulla guancia e questo mi strinse lo stomaco facendomi venire i brividi.

Nonostante tutto, tra noi c'era una particolare chimica. Non sapevo se era data dai miei sospetti che fosse il motociclista ma era innegabile che ci fosse.

Quando l'auto fermò la sua corsa non aprii di botto gli occhi ma attesi che fosse Nate a ordinarmelo.

«A guardarti così, O'Neil... non puoi nemmeno immaginare i pensieri che mi susciti» bisbigliò così vicino che il suo alito mi fece rabbrividire.

Arrossii.

Improvvisamente l'abitacolo mi parve una fornace. Mi pizzicai il colletto del giacchetto e cercai di fare un lungo e moderato respiro. Sicuramente Nate ci sapeva fare con le ragazze.

«Solo quando ti dirò che puoi aprirli, potrai.» La sua bocca mi parlò contro l'orecchio e d'impulso gli artigliai il braccio. Un brivido caldo mi corse dalla nuca alla punta dei piedi facendo su e giù come se corresse i giri di una pista... e quella pista fossi io.

«Na – Nate... non scherzare.» Mentre restavo immobile con gli occhi chiusi e i pensieri estesi chissà dove, Nate mi mise tra le mani un sacchetto che strinsi automaticamente. Lo sentii prenderci qualcosa dentro e restai ancora immobile, in attesa.

Mi formicolava tutta la pelle. Avevo le spalle strette dalla tensione e il petto bruciante di agitazione. Il cuore batteva un ritmo tutto suo.

«Apri la bocca» ordinò, regalandomi un altro brivido.

«Diamine, Nate... se fai qualcosa di stupido te ne pentirai. Te lo prometto.» Nonostante i miei lamenti, aprii la bocca e attesi.

Due dita mi sfiorarono le labbra, prima il labbro inferiore poi quello superiore. Dalla bocca mi uscì uno sbuffo, un ansito.

Cosa volevo che facesse? Che mi baciasse? Forse sì, diamine! Forse per capirci qualcosa dovevamo baciarci e basta.

«Stavo pensando se restare al piano originale o baciarti... non avevo tenuto conto della splendida visione che mi avresti dato...»

«Basta che fai qualcosa o qui vado in ebollizione.» Sentivo le guance scottare, il collo e il petto scottare. Tutto il corpo scottava. Ogni lembo di pelle scottava.

«Prometti che continuerai a tenere gli occhi chiusi finché non te lo dico io.»

«Promesso» ansimai.

La mano di Nate mi carrezzò la guancia tirandomi leggermente in avanti.

Un istante dopo sentii le sue labbra calde sulla mia bocca e risposi al bacio senza nemmeno un attimo di esitazione.

Le nostre labbra si scontrarono con una certa impazienza. Nate me le divorò prendendole tra le proprie, stringendole tra i denti, succhiandole. Dalla bocca mi sfuggì un gemito. Continuavo a tenere gli occhi chiusi nonostante avrei voluto vedere la sua espressione.

Con un gesto brusco mi costrinse ad aprire la bocca e le nostre lingue finirono per toccarsi, leccarsi. Inarcai la schiena resistendo all'impulso di guardarlo e per controbilanciare la mia mancata vista allungai le mani toccandogli il viso, accarezzandolo.

Nate reagì a quel tocco baciandomi più ardentemente, con più foga, con più lingua. Lo sentii lambire ogni parte della mia bocca, muovendo la lingua con una passione delicata ma in grado di sciogliermi. Sapeva baciare dannatamente bene.

I nostri sapori si fusero in qualcosa di unico, in un piacevole gusto totalmente nostro. Mi leccò le labbra, affondò in me come se si trattasse di più di un semplice bacio e poi riemerse dalla mia bocca prendendo fiato.

Nel frattempo, sentivo le sue mani serrate attorno al sedile, quasi tentasse convulsamente di non andare oltre quel contatto.

Lasciai scorrere le mie dita sulla sua gola, raggiungendo la camicia e strinsi i bordi del colletto mentre mi mordeva con forza il labbro strappandomi un gemito.

«Qui è... è meglio se... se ci fermiamo o potrebbe diventare una situazione pericolosa.» Animava e anche se ancora non lo vedevo in viso, ero certa fosse rosso.

Si staccò da me e improvvisamente quel calore svanì lasciandomi in balia del freddo invernale. Fu come strapparmi una coperta di dosso e non nego che rabbrividii.

«Non è finita qui... dopo questo, ti do il permesso di guardare» bisbigliò, ridendo. Lo sentii armeggiare ancora con il sacchetto che avevo lasciato ricadere in grembo e poi mi spinse tra le labbra qualcosa di gommoso che conoscevo fin troppo bene. D'impulso lo strinsi tra i denti aprendo gli occhi: un verme gommoso. Risi.

Ma la cosa più spettacolare di quella giornata era il parco divertimenti a un passo da noi, pronto per farci tornare bambini e strapparci dalla solita routine fatta di lavoro e pensieri.

E Lattner... non dimenticare Lattner.

Masticai il mio verme con soddisfazione e guardando Nate non potei far a meno di sorridere. «Hai mantenuto la promessa... direi proprio che ti sei fatto perdonare.»

«Dici, eh?»

«Dico, dico.» E ci tornammo a baciare.

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