27 - SAMUEL
Quando Lattner mi aveva parlato di andare a trovare il fratello, non avevo immaginato questo.
Mentalmente mi ero figurata una visita di cortesia, magari tra due persone poco disposte a parlare oppure anche troppo disposte a litigare.
Non avrei mai pensato che i fiori presi da Lattner non servissero a rabbonire gli animi ma fossero solo un triste ornamento.
Non avrei mai pensato di trovarmi immobile di fronte a una tomba.
Mi strinsi nel giacchetto e lasciai che il respiro soffocasse nella sciarpa che stringevo con smania con entrambe le mani.
Eravamo fermi da dieci minuti, lo sguardo fisso in una foto di qualcuno morto troppo presto, che non conoscevo ma che mi sembrava di conoscere.
La somiglianza era schiacciante. Si sarebbe capito lontano un miglio che erano fratelli.
Lattner teneva in mano un mazzo di fiori, nell'altra stringeva una sigaretta, l'ennesima delle tante.
Le continuava a fumare una dietro l'altra. Appena ne finiva una, si accendeva con il mozzicone quella successiva.
La tomba era pulita e ricca di fiori. Sembrava accudita con molto impegno e devozione, come se facendolo in qualche modo ci si prendesse cura di chi ormai fisicamente non c'era più.
«Sai, adesso abbiamo quasi la stessa età. Buffo, non trovi?» bisbigliò, stringendo il mazzo fino a sbiancarsi le nocche.
Guardai la foto e le date accanto. Samuel era morto intono ai ventisei anni, a un passo dai suoi ventisette, pochi giorni prima del suo compleanno. Lui e Lattner avevano nove anni di differenza, quindi a quel tempo, quando era successo tutto, Lattner aveva la mia età. Aveva diciotto anni.
Tutto era successo otto anni prima, eppure dallo sguardo di Lattner, non sembrava passato un giorno.
Mandai giù un boccone amaro, sentendomi in petto un groviglio di serpi. «Da quanto non venivi a fargli visita?» Per aver chiesto la mia presenza, doveva faticare davvero molto a star lì, di fronte a quella lapide.
Scrollò le spalle. «Diversi anni... cinque o sei... temo di aver perso il conto.» Aspirò una boccata di fumo e notai che le dita in cui teneva la sigaretta tremavano.
Non riuscivo a leggere le emozioni di quello sguardo. Era focalizzato su quella foto e sembrava svuotato di tutto. Faceva paura questo suo annullarsi.
«È – è molto curata... i fiori sono freschi, ed è pulita. Qualcuno deve fargli visita molto spesso.» Mi sentivo una stupida a far quel genere di conversazione spicciola, a voler per forza trovare qualcosa da dire per occupare quel silenzio.
Ma avevo bisogno di occuparlo. Dovevo.
Lattner sembrava così estraniato dal mondo, da se stesso, che temevo sarebbe bastato un solo attimo per perdere pezzi di lui.
«Già... alla fine, per loro, il figlio veramente morto sono io.»
Sgranai gli occhi sorpresa. Un brivido gelido mi colò a picco lungo tutta la spina dorsale. «Perché dici così?»
«Perché è ciò che avrebbero voluto loro. Da sempre. Forse da tutta una vita.»
Loro.
Fu ripugnante l'idea che dei genitori preferissero la morte di un figlio all'altro. Probabilmente nemmeno i miei, con tutti i loro difetti, sarebbero mai arrivati a un simile e spregevole sentimento.
Posò i fiori alla base della tomba e con due dita accarezzò il volto del fratello. Lo vidi deglutire, cercare di mandare giù il male. Si ritirò un attimo dopo ed espirò rumorosamente.
Sembrava così piccolo in quel lungo giacchetto che lo cingeva fino alle ginocchia, con quella sciarpa a coprirgli gran parte del viso quasi cercasse di nascondersi al mondo.
Perché il mondo fa paura, fa male, ferisce peggio di un coltello o un proiettile.
Allungai la mano, afferrandogli quella ormai libera. Lo vidi sussultare e rabbrividire ma non tagliò il contatto, anzi, intrecciò le dita alle mie e strinse forte la presa.
Non mi stupì quel gesto, nonostante fossi Robert e non Robin.
A volte quando si soffre ci si aggrappa solo all'appiglio più vicino.
Avrei voluto fare di più, abbracciarlo e dirgli che il dolore un giorno si sarebbe placato, che gli avrebbe lasciato una cicatrice e se ne sarebbe andato via. Ma sarebbe stata una bugia.
Il dolore non si placa mai. Magari può rimanere dormiente per un po', lasciarti un attimo di respiro, lasciarti credere che sia svanito; però resta sempre lì, in agguato, pronto a ricordarti chi e cosa hai perso.
«Che tipo era?» azzardai. Non avrei mai avuto coraggio di chiedergli per cosa fosse morto e, a meno che non me l'avesse detto lui, non glielo avrei mai chiesto.
«Oh, vi sareste piaciuti a vicenda. Era un tipo molto simpatico.»
«Ci saremmo sicuramente coalizzati contro di te.»
Lattner annuì, sul viso gli passò un guizzo di allegria, breve e sfuggente come un soffio di vento. «Come avevi definito tuo fratello? Un rompipalle, vero? Ecco... Samuel era un po' così. Un gran secchione rompipalle. Ma tra i due... era il migliore, su tutti i fronti.» Fumò ancora. Ormai avevo capito che questo suo vizio si intrecciava bene con i dolori del suo cuore. Quando era teso, ansioso, triste... fumava. «Era gentile, forse troppo... educato, corretto, bravo a scuola... anzi, direi un genio. Voleva fare l'insegnante di matematica.» Emise una risata secca, stringendo la sigaretta tra i denti.
Oh, no... ora capisco!
Stavo iniziando a capire molte cose. Tutte troppo dolorose. Tutte troppo difficili da sopportare da soli, senza nessuno su cui potersi appoggiare quando il peso sembrava troppo.
Sapevo cosa voleva dire essere la figlia sbagliata, quella meno dotata, quella più problematica. La figlia imbarazzante, quella che non era mai adeguata, mai abbastanza.
Il fardello che schiacciava la sua coscienza doveva soffocarlo di giorno in giorno, simile alla sensazione asfissiante di due mani strette attorno al collo.
Ora capivo quei suoi sguardi persi nel vuoto, capivo quelle espressioni tristi e dolorose, capivo quell'abbacinante tentativo di prendere tutto sul ridere, di vivere.
Tranne al Missan. Lì, era Samuel. Lì, vestiva i panni di suo fratello e si comportava a modo per essere degno di lui, del suo ricordo.
Aveva ripercorso i suoi sogni, le sue ambizioni. Aveva preso la strada che lui avrebbe voluto prendere.
Ma dentro quelle scelte, Lattner dov'era? Chi era?
Dove si era perso Thomas?
«Ma tu, che avresti voluto fare da grande?»
Lattner mi guardò con la coda dell'occhio e sorrise appena. «L'astronauta.»
Cercai di trattenere una risata che mi uscì con uno sbuffo nasale. «Ma smettila!»
Scrollò le spalle e tornò a guardare Samuel. «Credo di non aver mai pensato alla mia vita in termini di futuro prima di scegliere di fare il professore. E credimi, nessuno mi ha obbligato a farlo. Non ho scelto il percorso di mio fratello per... non so, portare a compimento i suoi desideri. È successo e basta. È stato solo un susseguirsi di bizzarri eventi che mi hanno portato lì, proprio sulla sua stessa strada.»
«Quindi ti piace fare il professore.» Non era più una domanda.
Ci pensò su. «Sì, direi di sì. E poi, essere un professore, essere Mr.Lattner e non solo Thomas... mi vincola a ciò che è giusto... e non solo a ciò che vorrei.» Prese una boccata di fumo, buttandola fuori dalle narici. «Sai, Rob... son sempre stato un tipo che non si è mai fatto problemi di nulla. Ciò che volevo, lo prendevo... con ogni mezzo. Senza valutare mai i pro e i contro, semplicemente soddisfacendo ogni mio capriccio, però...» Sollevò gli occhi al cielo e sorrise, forse proprio a Samuel, che chissà, magari da lassù ci stava davvero guardando. «Però ho capito. Ho capito che ogni azione ha un peso... e non vale la pena portarsi sulle spalle tutta quella merda.»
«E quindi, com'eri prima?»
Si girò e usando l'indice e il pollice lanciò il mozzicone di sigaretta lontano da sé. «Non ero minimamente come ora. Non avevo stabilità, né valori. Ero un fiume in piena, un vulcano attivo, un maremoto, un uragano. Ero l'essenza della ribellione, dell'irruenza e dell'indifferenza più totale.»
Risi. «Giura.»
«Giuro» disse sorridendo e passandosi una mano sulla nuca con imbarazzo. Aveva le gote arrossate e non sosteneva il mio sguardo.
«Tu? Proprio tu? Ma se ora sei un tonto senza speranze e un dispettoso snervante fino al midollo.»
Tranne quando sei al lavoro. Là sei l'impenetrabile Mr. Lattner, il professore tutto d'un pezzo.
Ma ora l'ho capito, sai.
Son tutte maschere. Maschere che indossi per nascondere le tue debolezze, per non mostrare le cicatrici del tuo cuore.
Allungai le mani a scompigliargli i capelli, restò sorpreso da quella presa d'iniziativa ma subito reagì. Mi agguantò per i polsi, tirandomi avanti.
In quel piccolo spazio tra i nostri corpi, il calore dei nostri respiri scivolava da una bocca all'altra nemmeno ci stessimo baciando. Lo sentivo solleticarmi le labbra come se ci strofinasse le sue. Eravamo così vicini che sarebbe bastato un passo per trovarci fusi in un groviglio di strati d'abiti e solidità di corpi.
Volevo baciarlo.
Era un impulso irrefrenabile e primitivo, privo di logica eppure così ben radicato nella mia mente.
Volevo imprimergli sulla pelle, sulle labbra, tutte quelle sensazioni che riusciva a regalarmi giorno dopo giorno; bere dal suo corpo il suo profumo, annegare nei suoi sapori. Volevo trasmettergli la mia passione, la mia voglia, il mio desiderio. Volevo consumarlo, sfinirlo; ammirare le sue espressioni più intime, quelle concesse solo a chi aveva condiviso il suo letto.
Fremetti, domando a fatica quegli appetiti. Arrossii dei miei stessi pensieri.
«E – e che fine ha fatto quel Thomas?» farfugliai, focalizzandomi con insistenza su quella bocca. Tanto da costringermi a deglutire a vuoto.
Dovevo calmarmi. Ero Robert, non Robin.
Gli sfuggì un ansito. Negli occhi gli bruciò una luce che non riconobbi, un sentimento a cui non trovai nome. «È sempre qui... non lo vedi?» bisbigliò.
Prima che potessi ribattere mi attirò a sé, nel suo abbraccio. Lo sentii fremere come un bambino spaventato, disintegrarsi e tenere i pezzi uniti solo grazie a quella solida stretta. Fu scosso da un fremito e potrei giurare di aver sentito un singhiozzo.
In quel momento, si spogliò di ogni maschera. Si mostrò fragile e spezzato. Vero sotto ogni angolazione, più reale e vivo di quanto mai lo avessi sentito prima.
«Thom-»
«Non dire niente» biascicò, contro il mio collo. Il suo respiro si infranse sulla mia pelle fino a farmi rizzare tutti i peli del corpo. Un istante dopo sentii il pizzicore delle sue labbra, a un passo dalla mia pelle, a sfiorarla così debolmente da farmi tremare le gambe.
Rabbrividii.
Restammo così per diversi minuti che nella mia testa trovarono un tempo tutto loro.
Il suo corpo stretto al mio, il suo calore così avvolgente, la sua statura in grado di sovrastarmi; erano tutte sensazioni talmente intense da riempire ogni angolo di me.
Fui costretta a passarmi più volte la lingua sulle labbra riarse prima di parlare: «Senti, Samuel... a lui ci penso io, okay? Prometto che sarò un bravo coinquilino e farò in modo che mangi sano, che sia sempre pulito e non si cacci nei guai... quindi, non ti preoccupare per il tuo fratellino, okay?» dissi a voce alta, guardando la tomba del fratello ancora avvolta nell'abbraccio.
Lattner si staccò da me di scatto, così velocemente che barcollò; pensai subito di aver commesso un errore, di averlo offeso. Poi notai il viso paonazzo come mai l'avevo visto prima d'ora. Si coprì la bocca con il dorso della mano e quando notò che lo stavo guardando si girò a darmi le spalle. «Fo – forse è meglio se andiamo a mangiare qualcosa, si è fatto tardi.»
«E ci fermeremo a guardare le bancarelle?» pigolai come una bambina.
«Co – come vuoi tu» farfugliò, carezzando velocemente la lapide e avviandosi lungo la stradina.
Prima di seguirlo, rivolsi un'ultima occhiata a Samuel, al suo sorriso e ai suoi tratti così familiari e gli sorrisi di rimando. «Te lo riporto altre volte... promesso.»
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