24 - DI MALE IN PEGGIO
Fu la ruvida lingua di Muffin a svegliarmi. Allungai la mano alla cieca cercando di acciuffare quella molesta palla di pelo ma il gatto sgusciò via e tastai altro.
Qualcosa di meno morbido, più solido e definito e, sicuramente, meno peloso.
Sgranai gli occhi come se mi avessero appena piazzato due molle sotto le palpebre, ricordandomi del film, del fatto che fossi soltanto un cuscino e di come Lattner si fosse appisolato a metà riproduzione.
Gli avevo tolto anche gli occhiali per evitare che li rompesse nel sonno.
«Cazzo!» biascicai, piano; accorgendomi che ci eravamo addormentati come due polli.
Eravamo coperti dal plaid, quello che solitamente tenevamo steso sullo schienale del divano. Doveva essere stato sicuramente Lattner a tirarlo giù, aprirlo e gettarlo su entrambi.
Con la mano libera, quella non incastrata sotto il mio corpo, mi tappai la bocca attutendo l'ennesima parolaccia. Ero intrappolata tra il divano e Lattner, il braccio sotto addormentato, le gambe intrecciate alle sue e il naso a un palmo dal suo petto.
Ad ogni respiro inalavo il suo profumo. Era come immergersi completamente in lui, fare un tuffo nella sua essenza. Sapeva di bagnoschiuma, di ammorbidente e una nota maschile, forse il profumo che avevo visto in bagno vicino alla specchiera.
I capelli gli ricadevano sul viso, sembrava rilassato, più giovane dei suoi ventisei anni.
Ma come ci eravamo finiti in quella posizione? La sera prima si era addormentato con i piedi sul tavolino.
Cercai di sollevarmi senza fare rumore. Eravamo così incasellati bene che sembravamo due perfette tessere di puzzle. I suoi spazi vuoti venivano colmati dai miei spazi pieni, come due elementi opposti che sanno compensare le proprie carenze solo insieme.
Quasi senza rendermene conto la mia mano libera deviò l'ordinaria traiettoria fino al suo viso. Sentii le dita fremere a pochi centimetri da lui e un istante dopo i polpastrelli si posarono impercettibili su una sua guancia. Aveva la pelle morbida come seta e leggermente fredda. Con la coda dell'occhio notai che si era premurato di coprire meglio me che se stesso. Questo mi fece arrossire. Sapeva avere delle piccole e dolci accortezze che ogni volta picconavano il mio cuore di ghiaccio.
Aveva ciglia lunghe e nere, zigomi non troppo pronunciati e i tratti della mandibola leggermente marcati che però non davano spigolosità al viso, armonioso sotto ogni punto di vista.
Era bello. Bello da morire. Bello da trafiggerti il cuore con un punteruolo. Più e più volte.
Ed era così stupido da non rendersene conto. O forse lo sapeva ma non gli dava il giusto peso.
Se fosse stato un donnaiolo avrebbe potuto avere una ragazza al giorno. E invece, quell'idiota, stava steso in una posizione scomoda su un divano, con un coinquilino che teoricamente era un ragazzo.
Proprio non lo capivo.
Senza staccare quel tocco gli passai le dita sulla guancia, tracciando una scia leggera fino al mento. Sentivo il mio respiro farsi irregolare e pensante. Sapevo dove stava viaggiando la mia mente e quasi avevo paura a dare voce a quei pensieri così proibiti.
Il suo corpo così esposto era una merce rara, un'occasione irripetibile e a cui non riuscivo a resistere. «Sei così politicamente corretto e scorretto allo stesso tempo, Mr.Lattner...» bisbigliai, lasciando che l'indice e il medio gli sfiorassero le labbra.
Erano morbide proprio come mi ero immaginata, carnose abbastanza da farti desiderare un bacio o magari di stringerle tra i denti con passione in un morso fatto di desiderio e sorda lussuria. Abbastanza schiuse da sperare ti prendesse un dito in bocca per leccarlo e succhiarlo fino a farti perdere completamente la connessione con la realtà.
Proprio come stava capitando a me ora, con la testa che vagava troppo verso fantasie immorali.
Deglutii nervosamente e senza soffermarmi oltre su quel dettaglio così erotico di lui lasciai scivolare i polpastrelli fino a un ciuffo, così lungo da coprirgli l'occhio fino alla guancia; lo strinsi tra le dita e restai colpita dalla sua sofficità. Aveva capelli così lisci e morbidi che mi scivolavano via dalla presa, delicati al punto giusto, profumati come un campo fiorito.
Trattenni l'impulso di affondargli la mano nella massa arruffata che restava allargata come una pozza attorno al bracciolo del divano. Sembrava un dipinto da tant'era bello. Imperfezioni e perfezioni a rincorrersi su ogni centimetro del suo corpo, creando in lui un equilibrio assoluto.
Con delicatezza gli misi la ciocca dietro l'orecchio, mettendo a nudo quel segreto che forse solo io e pochi altri del Missan conoscevamo di lui: la costellazione di piercing gli adornava l'intero orecchio, a partire dalla punta a finire dal lobo. Alcuni si trovavano in punti bizzarri, un paio nella fossa triangolare e scafoidea, uno nel trago. Non erano tutti semplici buchi con il proprio orecchino, alcuni erano composti da barre che collegavano l'orecchio da una parte all'altra, come piccole sbarre di una gabbia. Con un dito sfiorai quello più lungo, l'industrial. Ne conoscevo il nome perché prima o poi avrei trovato coraggio di farlo anch'io. Era forse quello che tra tutti mi piaceva di più. Gli dava un'aria da ragazzaccio.
Esalai un respiro tremulo, mordendomi con forza il labbro e cercando di mettere a freno quella massa di pensieri indecenti che continuava a tamburellarmi e fischiare nelle orecchie.
Volevo toccarlo. Ancora. Di più.
Era una smania che cresceva dentro, un desiderio e una brama implacabili, un'urgenza che non volevo più procrastinare.
Volevo perdermi nel suo corpo, consumarlo di carezze, scoprire ogni punto nascosto di lui.
Aveva altri piercing disseminati in giro? Magari nascosti in altri posti meno comuni?
Aveva segni sulla pelle? Tatuaggi con dei significati profondi o magari cicatrici del passato? Volevo scoprire la mappa del suo corpo, memorizzarla con lo sguardo e con le dita.
Gli pizzicai i piercing, uno a uno, lasciando scorrere le dita su tutto il profilo dell'orecchio. D'impulso mi leccai le labbra immaginando come sarebbe stato passarci la bocca sopra, baciare ogni gioiello, leccarlo.
L'imbarazzo cocente bloccò il flusso dei miei pensieri, la mano restò sospesa in aria ancora troppo vicina al suo orecchio. La ritirai velocemente sentendo il viso andare a fuoco, maledicendo la mia avventatezza ma Lattner me l'afferrò per il polso prima che riuscissi a tirarla contro il petto.
Poco mancò che gridassi, presa alla sprovvista.
Restai invece immobile, travolta dal turbamento di quelle emozioni che vicino a lui non si placavano, peggio di una tormenta, peggio di un temporale.
Lattner schiuse gli occhi lentamente e fu come aprire la finestra e lasciare entrare il sole. Quelle enormi pozze azzurre m'inchiodarono allo schienale del divano e fui felice di essere stesa perché non so quanto le gambe avrebbero retto il mio peso. Probabilmente con quello sguardo sarebbe riuscito a sciogliere ogni traccia di Robert.
Sulle labbra gli si disegnò un sorriso assonnato. «Potevi continuare... era rilassante» bisbigliò e la voce bassa e roca di prima mattina mi colpì forte quanto una freccia scoccata in pieno petto. Per un istante faticai perfino a respirare.
Stropicciò il viso contro il proprio braccio, sbadigliando e liberandomi dalla sua presa. Le sue dita scivolarono lungo il mio corpo, risalendo verso il viso fino a posarmi la mano sulla guancia. Il contatto della sua pelle contro la mia era bollente. «Ora è il mio turno, vero?» domandò piano, stringendomi con delicatezza il mento.
«Per - per cosa?»
«Bé, non ci stavamo esplorando?»
«Eh?» gridai. «Guarda che ti stavo solo guardando i piercing, eh! Era solo curiosità la mia!»
Sorrise. «Solo i piercing dici? Sicuro, Robert?»
Merda! Merda! Merda!
Ma da quanto tempo è sveglio questo stronzo, eh?
«Forza, Robert... lascia che tocchi anch'io la tua bocca.» Mi strofinò il pollice sul labbro inferiore e questo bastò a farmi esplodere una scossa in tutto il corpo, così forte che il respiro mi si bloccò a metà in gola. Sembrò quasi che avessi infilato le dita nella presa della corrente.
«Che? No! Lascia! È tardi!» berciai, cercando di sgusciare via dalla sua presa.
Solo che lui mi serrò il braccio attorno alla vita, bloccandomi con il peso del proprio corpo contro il divano. «Eh, no! Adesso ti lasci toccare tutto. Tutto quanto. Voglio proprio sentire ogni parte di te.»
La scossa questa volta mi scivolò dalla nuca dritta al ventre. Una contrazione così dolorosa da farmi tremare tra le sue braccia. «Thomas, no! Dobbiamo andare!» gridai con il viso in fiamme, sferrandogli una portentosa spinta. Lo vidi sgranare gli occhi giusto un secondo, prima di crollare giù dal divano, agguantandomi per la felpa e tirandomi con sé.
Ci rotolammo in terra e lo sentì lanciare un'imprecazione colorita prima di abbandonare la testa contro il pavimento e allargare le braccia. «Per un attimo... ho creduto di morire» ansimò, il petto gli si muoveva con forza e io... bé, io gli tenevo proprio le mani sopra.
O. Mio. Dio.
O. Mio. Dio. Sono a cavalcioni su Lattner.
Per spostarmi ruzzolai di lato sbattendo il piede contro il tavolino e con l'altra gamba gli assestai una ginocchiata nel fianco.
Lo sentii gemere piegandosi in avanti e biascicare qualcosa del tipo che prima o poi lo avrei ammazzato. Ma non ne son sicura. Di sicuro mi presi una parolaccia.
Quando scattai in piedi afferrai gli occhiali da nerd e il cappello indossandoli con le mani che ancora mi pulsavano, come se quel contatto proibito le avesse ustionate.
«È tardi! È tardi!» iniziai a farfugliare mentre restava abbandonato in terra a quattro di bastoni. Aveva ancora il fiatone e mi fissava con uno sguardo indecifrabile che riuscì a mettermi ancora più agitazione.
Lo scavalcai con un salto correndo verso il bagno per lavarmi i denti.
Alla fine era davvero tardi, tanto che ci preparammo in tutta fretta, condividendo gli spazi comuni.
Quando finalmente fummo fuori dall'appartamento ci salutammo in maniera sbrigativa, andando ognuno per una strada diversa, sebbene andassimo entrambi nello stesso posto.
Mi sentii libera di tirare un sospiro di sollievo solo quando uscii come di consueto dal bagno femminile del Missan, vestita da Robin, tornata alle origini.
Bé, più o meno le origini.
«Tu sei pazza! Pazza come la merda!» mi apostrofò Takeru, non appena mi chiusi la porta del bagno alle spalle.
«Oh, grazie tante!»
«È da quando sei lì dentro che ci penso... e continuo a credere che sei pazza come la merda! Forse addirittura più pazza della merda stessa!»
Roteai gli occhi sollevandoli al cielo. «Come te lo devo dire che non l'ho fatto apposta?» Nel breve tratto di strada che avevamo fatto insieme per raggiungere il Missan gli avevo sommariamente raccontato della visita di Miss Wood e di come io e Lattner ci eravamo addormentati sul divano. Non ero scesa nei dettagli scabrosi raccontandogli i miei deplorevoli istinti da maniaca sessuale ma già il semplice dormire su un divano, secondo gli standard di Takeru, era una cosa oltraggiosa per due coinquilini maschi.
Sapevo che in parte aveva ragione. Non era qualcosa di comune. Eppure Lattner era molto espansivo tra le mura di casa e mi risultava davvero difficile limitarmi nei suoi confronti.
Sembrava non dare peso al fatto che fossi un maschio. Forse era proprio la nostra differenza d'età a spingerlo a dipingermi ai suoi occhi quasi come un fratellino minore.
Che culo, insomma! Proprio l'idea che volevo dargli!
Takeru gonfiò le guance e sbuffò sonoramente. «Sono preoccupato, Rob. Insomma, per lui sei un coinquilino maschio... lasciamo stare il fatto che non lo sei, ma... non vorrei che si prendesse gioco di te pensando che sei un ragazzino omosessuale.»
Strabuzzai gli occhi. «Eh? Dici che farebbe una cosa tanto deplorevole?»
Bé, ad avertelo chiesto, te lo hai chiesto se sei omosessuale, no?
Mi morsi la lingua mettendo a tacere la terribile e, anche troppo, onesta voce della mia coscienza.
Takeru scrollò le spalle. «È l'unica cosa che mi viene da pensare. Anche perché da quello che mi hai raccontato di Miss Wood... si capisce bene che tra i due c'è stata una storia tempo fa. Quindi gli piacciono le donne.» Si massaggiò pensosamente il mento e poi sembrò illuminarsi, come se qualcuno gli avesse appena acceso una luce nel cervello. «A meno che non sia bisex!»
Sospirai. «Magari è solo espansivo.»
«Magari solo stronzo!»
Ormai lo avevo capito: Takeru non aveva una buona opinione di Lattner. Credeva che fosse un borioso fighetto che sapeva di essere belloccio e quindi usava il proprio fascino a proprio vantaggio.
Dal mio canto avevo una visione di lui totalmente differente. Tanto che a mio avviso nemmeno si rendeva conto della propria bellezza.
Forse avevo sviluppato per lui quest'idea anche perché standoci a stretto contatto avevo imparato a conoscerne che difficilmente vedevo esternargli al Missan.
O forse semplicemente mi sbagliavo, come sempre d'altronde.
«Buongiorno, ragazzi!» cinguettò alle nostre spalle una voce che di prima mattina avrei preferito non sentire. Non alle otto per lo meno.
Mi voltai con la stessa espressione di Hannibal Lecter quando ti invita a cena consapevole che sei tu, la cena. «Buongiorno, Miss Wood.»
Sembrava ancora più bella di ieri.
Era come se la bellezza le esplodesse da dentro irradiandosi a raggiera attorno a lei e abbagliando i presenti. Non mi stupivo se Lattner ne restava incantato. Io stessa faticavo a toglierle lo sguardo di dosso.
«Ogawa e... uhm, O'Neil, vero?» Sorrise raggiante quando annuimmo, felice di essersi ricordata i nostri cognomi. «Oggi abbiamo lezione insieme alla terza ora.»
Takeru biascicò qualcosa a denti stretti, nella sua lingua. Di solito lo faceva quando diceva una parolaccia, per non farsi capire, anche se era palese che stesse imprecando.
«Già.» Strinsi la cartella e Takeru mi prese per mano, deciso a trascinarmi lontano da Miss Tette-Enormi; solo che un flebile tocco bloccò sul nascere la mia ritirata, impedendomi di fuggire a gambe levate dalla sua asfissiante presenza.
Quando mi girai Miss Wood teneva ancora la mano sollevata, come se sfiorarmi la spalla le avesse scottato le dita. Peccato non fosse realmente così. «O - O'Neil... scusa la domanda invadente ma... per caso hai un fratello?»
Allarme rosso! Allarme rosso!
Evacuare la zona! Ripeto: evacuare la zona!
M'imposi di restare calma e non distolsi lo sguardo dal suo. «Sì... perché?» In fondo era vero, un fratello lo avevo.
Scosse il capo e inclinando la testa sorrise ancora, le gote appena imporporate di rossore. Strinse i libri della sua materia al petto con imbarazzo. In realtà, mi dava l'idea che fosse tutta una facciata quella; come se indossasse una maschera da santarellina apposta. «Oh, no, niente... scusami... solo - solo una mia curiosità.»
Non ebbi nemmeno tempo per ribattere perché batté in ritirata molto più velocemente di quanto avrei fatto io. Sempre trattenendosi al petto i libri attraversò a passo spedito tutto il corridoio, senza mai girarsi, nemmeno una volta.
«Che cosa è appena successo?» domandò Takeru, strizzandomi la mano che ancora teneva stretta nella sua.
Mi girai verso di lui e scossi il capo. Sentivo il petto pesante e lo stomaco contratto in una morsa. «Non ne ho la più pallida idea ma... temo si sia accorta di qualcosa. Insomma, ieri sera a un certo punto mi ha fissato con insistenza... come se mi avesse riconosciuto.»
«Se è fisionomista sei fottuta.»
Il rumore sordo che mi riempì le orecchie fu forse il mio cuore che si incrinava o la mia espressione che andava pian piano sgretolandosi. Il dolore allo sterno si allargò a macchia, estendendosi su ogni centimetro del mio corpo, fino a farmi chinare la testa per prendere una boccata d'aria. Le dita mi scivolarono d'istinto sul braccio sinistro, accarezzando la pelle nascosta dagli abiti in un gesto automatico che però rievocava solo pensieri tristi. Là sotto, nascosto, c'era un pezzodel mio passato.
Era bastata una semplice domanda per mettermi all'angolo, per portarmi al limite.
Una semplice e banale domanda per far riemergere tutte le paure, cancellare le finte maschere da ragazza per bene e suonare nella mia testa come una sirena antisismica.
Non appena Takeru notò tutte le mie preoccupazioni così ben evidenti nel mio sguardo e nella mia postura rigida divenne pallido come un cadavere e subito serrò la presa sulla mano, attirandomi a sé in un abbraccio che trovai come sempre rassicurante.
Lui era la mia mano tesa, la mia scialuppa di salvataggio, il mio porto sicuro.
«Scusami, scusami... sono uno stupido. Ho parlato senza pensare. Non ti volevo spaventare.» Sembrava sinceramente turbato, tanto quanto me. Forse quasi di più.
Era raro che qualcuno si preoccupasse a tal punto di una come me. Una abituata a far tutto da sola, senza l'aiuto di nessuno.
Strofinai il naso contro la sua spalla, annusando il profumo della divisa pulita e lasciandomi anche solo per un attimo cullare da quell'abbraccio. «Tranquillo, Take... lo so che sei solo preoccupato e... lo sono anch'io.» Ammetterlo non mi fece sentire meglio. Non alleggerì quel carico da novanta che mi aveva tolto il sorriso.
«Sì, ma... ah, chikushou! Lascia stare!»
Sentirlo imprecare mi fece sorridere e allentò quella morsa d'angoscia. Raccolsi le mie paure e le ricacciai in fondo al buco nero dove ogni tanto andavo a ripescarle.
Non fasciarti la testa prima di essertela rotta, Rob!
Affronta una cosa alla volta!
Sì, dovevo procedere così. Passo dopo passo.
Allontanai la faccia dal suo petto abbastanza da potergli rivolgere un'occhiata maliziosa. «Sbaglio o da quando ti ho detto che ti trovo sexy quando imprechi in giapponese lo fai più spesso?»
«Che?» squittì con voce stridula, staccandosi da me tanto veloce da sbattere contro gli armadietti alle sue spalle. «Fi - Figurati se lo faccio per quello! Stupida!»
«E allora perché sei così rosso?»
«Perché dici cose stupide» berciò, sistemandosi gli occhiali più volte, anche senza alcun bisogno.
«E poi che vuol dire cucusciu? Lo sai che mi devi insegnare tutte le parolacce! Abbiamo un accordo.»
«È chikushou... e vuol dire "maledizione!" o "cazzo!"» Guardò altrove, con le guance rosse che sembravano l'unica pennellata di colore su quel viso pallido.
Gli passai accanto affibbiandogli un colpetto sulla fronte e risi: «Baka!»
«Zitta, stu - stupida!» gracchiò con il viso in fiamme, coprendosi la faccia con il braccio.
Lasciò che lo prendessi per mano, tirandolo verso l'aula.
«Certo che sei sleale tu!» borbottò, continuandomi a seguire, senza però lasciare la mia mano; il volto ancora coperto.
Risi. «Lo dici sempre.»
«Avrò i miei motivi.»
Stavamo quasi per raggiungere la classe ma fui costretta a inchiodarmi di colpo, impuntandomi sulle punte dei piedi e frenando quasi fino a oscillare sul posto.
Sulla soglia stagliava la quantomeno molesta figura di Claiton. Si guardava in giro e sembrava aspettare qualcuno. Non tardai molto a capire che stava aspettando me, perché non appena mi vide mi corse incontro così svenevolmente e teatralmente che mancava giusto il ritornello della colonna sonora de "Il tempo delle mele".
Peccato per lui che quella fosse una pessima giornata per me. Lo placcai a braccio teso, beandomi per un istante dell'impatto.
Avete presente quando vi scivola la puntina del grammofono sul disco e fa quel rumore stridulo? Ecco, fu proprio così che terminò il tutto, con lui che ruzzolava in terra e io pronta a rovinarlo di botte nel caso l'occasione lo avesse richiesto.
Cercavo solo un pretesto, solo uno. Avevo bisogno di menare le mani, sentivo ruggire la teppista che era in me, pregandomi di fare a pezzi qualcosa.
E Claiton sembrava perfetto per la causa.
«Spendido raggio di sole!» cinguettò, rialzandosi da terra con uno scatto fulmineo e battendosi le mani sui pantaloni della divisa. Quando sollevò lo sguardo mi regalò uno dei suoi sorrisi da pubblicità del dentifricio. «Sai cosa pensavo mio dolce zuccherino al caramel-»
«Claiton... no.» Sollevai la mano per metterlo a tacere prima ancora che sciorinasse qualche sua idilliaca e utopica fantasia. Il mio sguardo incenerì in un istante la sua personalità troppo smagliante per le otto di mattina.
Sto coso viscido deve essersi tirato una striscia di roba per essere così schizzato a quest'ora!
«Ma... O'Neil!» piagnucolò.
«Claiton, lasciami perdere oggi. Fallo per il tuo bene» gli ringhiai a denti stretti. Sentivo già il tic all'occhio farmi traballare la palpebra. Tempo due minuti e il demone che è in me si sarebbe cibato del suo cadavere.
Non volevo perdere le staffe al Missan ma quella mattina il mondo mi stava mettendo davvero a dura prova.
«Avanti, O'Neil... non fare la scontrosa. È inutile tarpare le ali a questo amore.» Cercò di toccarmi ma fui abbastanza veloce da ritrarmi.
Lo sguardo che gli rivolsi non fu dei migliori, così cattivo da fargli fare un passo indiero. «Giuro che ti ammazzo! Se mi tocchi, ti ammazzo. Lo giuro.» Sentivo i nervi a fior di pelle. La tensione che mi aveva lasciato addosso la domanda di Miss Wood iniziava a pesare sulla debole facciata da buona ragazza che tentavo di mantenere al Missan. Ero tesa come una corda di violino, pronta per detonare come una bomba.
Inutile tentare di alleggerirmi la mente scherzando come se nulla fosse. Non ce la facevo. Non per molto a lungo per lo meno.
I pensieri tornavano lì. Le preoccupazioni riaffioravano tutte. Ero un caso disperato.
«Senti, perché non ci lasci passare e basta?» domandò Takeru, sporgendosi un po' in nostra direzione. La solidità della sua stretta fu un inestimabile freno a quel gorgogliante istinto che mi ribolliva sotto pelle.
«Ancora tu, Ogawa? Ma cosa sei, la sua ombra?»
«E anche se fosse?» Il tono piatto di Takeru riuscì a sorprendermi ancora una volta.
Quando si trattava di me era un tipo che andava facilmente nel panico ma in altre occasioni aveva dimostrato di aver sangue freddo, anche quando le cose non si mettevano bene.
«Senti, amico... mi stai simpatico ma... levati dalle palle, okay?» Quella mattina Claiton aveva deciso di prendersi un mio pugno in faccia. Più gli dicevo di farsi da parte, più si ostinava a impormi la sua presenza. Era invadente e petulante ma solitamente lo riuscivo a reggere bene.
Quella mattina no. Quella mattina dopo la chiacchierata con Miss Wood sentivo la necessità di scaricare rabbia, frustrazione e paura in qualsiasi modo.
Ed era proprio nelle situazioni di stress che la maschera della nuova Robin crollava come un castello di carte e metteva a nudo ciò che ero realmente.
Nessuna brava ragazza. Nessuna buona Robin.
«Claiton, levati.» Sperai che almeno una volta mi assecondasse e invece, tutto andò a rotoli in un istante.
Spostandomi di lato fui quasi sul punto di superarlo per entrare in classe quando lui tentò qualcosa che in quel momento la vecchia me non era in grado di sopportare: essere toccata.
«Avanti, O'Neil... non fare la difficile.» Sentii le sue dita serrarsi attorno alla spalla, tentando di trattenermi.
Fu come rompere i sigilli delle porte dell'inferno, come spezzare il limite che mi teneva imbrigliata, come far brillare un ordigno a distanza ravvicinata.
Il cervello sembrò non connettersi abbastanza velocemente con i comandi del mio corpo che subito reagì in risposta, facendo l'unica cosa che sapeva fare. Azionandosi come una macchina o un automa capace di adempiere solo a poche funzioni.
Non mi importava più che fossimo al Missan, che i corridoi ancora pullulassero di studenti. Sentivo solo la necessità di far esplodere tutta quella rabbia.
«Rob, no!» gridò Takeru, stringendomi per la maglietta mentre la vecchia me riemergeva con forza, inarrestabile. Serrai il pugno muovendomi con precisione, pronta per schiantarlo sul naso di Claiton.
Successe tutto in fretta, così in fretta che inizialmente faticai a registrarne gli eventi.
Claiton venne afferrato per il colletto della divisa, tirato indietro con uno scatto che gli fece sgranare gli occhi di terrore. E mentre lui veniva tratto in salvo dall'esplosione della mia furia, il mio pugno si schiantò contro una mano; una mano che resse bene il colpo e strinse la presa come se fosse la cosa più naturale di tutte parare cazzotti di quella intensità.
«Buongiorno, ragazzi» ci salutò Lattner con voce graffiante e un sorriso sagace e diabolico stampato in faccia che riuscì a gelarmi il sangue nelle vene, a metà tra il seccato e l'arrabbiato. Lo sguardo gelido si fissò nel mio, un'ombra scura gli passò sul volto dandogli un'espressione tutt'altro che mansueta.
Mi ritrovai a fare un passo indietro intimorita ma lui strinse la presa sul mio pugno.
Fu solo per un attimo, per un istante; eppure Lattner mi fece paura. Sembrò distante anni luce da quel giocoso coinquilino che dovevo sopportare o da quel ligio professore imperturbabile.
Un brivido freddo mi colò a picco lungo la schiena, trattenni il respiro.
«Ma - ma come ha...» Takeru lo fissò sgomento.
Ero ancora immobile nella stessa posizione di prima: il braccio teso, il pugno serrato e stretto nella sua grande mano.
Me la lasciò un istante dopo, mollando anche Claiton e dandogli qualche colpetto per sistemargli meglio la divisa. Quando si voltò a parlarci di nuovo, il cambio repentino della sua espressione mi fece quasi barcollare. «Caspita... certo che siete proprio energici di prima mattina, eh?» cinguettò, sorridendo affabilmente.
Ma che cazzo sta succedendo, eh?
Dottor Jekyll e Mister Hyde.
«Forza, su! È ora di entrare in classe, le lezioni inizieranno a breve» disse, incrociando le braccia al petto e rivolgendo a tutti uno dei suoi sorrisi finti e professionali. Era tornato il solito e distaccato Mr.Lattner e la cosa più sconvolgente era che quasi lo preferivo con lo sguardo spietato di prima. Claiton non se lo fece ripetere, sparì in aula senza obiettare.
Io e Takeru ci accingemmo a seguire il suo esempio ma non appena fu il mio turno per entrare, Lattner abbassò il braccio come una sbarra, appoggiandosi allo stipite della porta e bloccandomi il passaggio. «Questa è la seconda volta che ti evito una rissa con quel Claiton. Dimmi, O'Neil... hai intenzione di farti espellere per caso?» domandò, con quell'arroganza che mi rivolgeva solo a tu per tu.
«E anche se fosse? A lei cosa interessa?»
«Bé, nulla... ma non pensavo fossi una ragazzina tanto stupida!»
«Ma come ti permetti stron-» Mi morsi la lingua e lo fissai con occhi fiammeggianti.
Era come se quella mattina tutti girassero l'immaginaria manovella del mio lato da teppista, caricando la vecchia me come una molla.
Si abbassò un po' e il suo respiro mi solleticò la nuca, tanto che rabbrividii. «Cos'è... non sei capace di tenere a freno lingua e mani?»
Sollevai di scatto gli occhi per vederlo in faccia, per sostenere quello sguardo freddo e crudele. Anche se era un professore del Missan, non so come, riusciva a farmi andare il sangue al cervello. «Effettivamente faccio fatica» sibilai a denti stretti.
Com'era possibile che finivamo sempre per litigare? Era come se Lattner e Robin non riuscissero proprio ad andare d'accordo. E allora come poteva esser così affabile con Robert? Alla fine ero sempre io, dannazione!
«Sai, non sarò sempre nei paraggi a pararti il culo» sussurrò, con un pizzico di prepotenza.
Serrai i denti trattenendo una parolaccia. «Come se volessi il tuo aiuto.»
Lasciò schioccare la lingua sul palato e rise, tirandosi indietro e frapponendo di nuovo la solita distanza tra noi. «Se è così... direi che allora posso andare!» Mi picchiettò la mano sulla testa, come le carezze che si fanno ai cani. E si avviò verso la propria aula.
«Massì, vai! Vattene pure! Non ho mica bisogno di te per cavarmela, sai?» gli gridai dietro, con affanno. Dimenticandomi perfino di dargli del lei.
Non si girò, continuò a camminare. Sollevò le braccia sulla testa, allungandole per sgranchirsi e non potei fare a meno di fissargli la schiena inarcarsi con un pizzico d'imbarazzo. «E cerca di andare a dormire presto, O'Neil... hai delle occhiaie da far paura.» Cacciò le mani in tasca e andò via fischiettando.
Il cuore mi schizzò in gola per poi colarmi a picco nello stomaco. Serrai i pugni esplodendo in un grugnito bestiale.
Dannato! Dannato Lattner!
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