23 - SITUAZIONI IMBARAZZANTI E... UN CUSCINO

Avevo passato tutto il pomeriggio chiusa in biblioteca, imbottendomi la testa di parole che teoricamente avrei dovuto imparare senza però ottenere alcun risultato.

Mi ero praticamente trincerata al Missan solo per sfuggire a Lattner. Molto maturo da parte mia, devo ammetterlo.

Comunque, avevo continuato a fingere di studiare per tre ore, imprecando a ogni riga che mi toccava rileggere più e più volte.

Inutile. Non ero lì con la testa. Ero rimasta ancora fissa sulla scena tra lui e Miss Wood nel corridoio.

Il mio cervello me l'aveva riproposta tutto il giorno e me la riproponeva anche ora che ero in turno al Joily. Come se fossi rimasta intrappolata in quei cinque minuti, in un loop continuo.

«Ecco il vostro salmone.» Posai la portata davanti al cliente che mi fissò con un pizzico d'irritazione.

«Signorina, senta... a noi deve ancora servire gli antipasti, quante volte glielo devo ripetere? Ci sta per caso prendendo in giro?»

Digrignai i denti. «Prendervi in giro? Sapete che cosa cazz-» Nate mi tappò la bocca e sorrise con naturalezza all'uomo che stavo per seppellire d'insulti.

Quella sera avevo i nervi a fior di pelle. Bastava un niente per farmi scattare. E la situazione andava complicandosi a ogni comanda che sbagliavo.

Più sbagliavo, più mi innervosivo. Più mi innervosivo, più mi si chiudeva la vena e diventavo un demone.

Nate sfilò il piatto da sotto il naso del cliente e tenendomi una mano premuta sulla schiena mi spinse verso la cucina, non senza aver prima consegnato la portata al tavolo giusto.

«Che sta succedendo, Rob?» chiese non appena superammo il tendaggio che ci separava dal resto del locale. Era a metà tra il preoccupato e l'indispettito.

Era il primo turno che tornavamo a fare insieme e sembrava gliela stessi facendo pagare per qualcosa, come se lo volessi mettere in difficoltà o mi divertisse collezionare un errore dietro l'altro.

«Ecco, io...» Girai la testa guardandomi attorno e sospirai esasperata. Gli altri colleghi correvano frenetici da una postazione all'altra della cucina cercando di dare il meglio di sé e io, invece, non facevo altro che intralciare i loro sforzi. «Dannazione! È che... ecco, mi dispiace, Nate! Sono un po' sovrappensiero oggi» borbottai.

Scusarmi non è mai stato il mio forte.

«Per... per me? Perché siamo di nuovo in turno insieme?» Per un attimo mi parve che nei suoi occhi scintillasse un barlume di speranza, come se in realtà, desiderasse che quel mio stato d'animo fosse dovuto veramente alla sua presenza.

Se gli avessi detto di no, probabilmente avrei segnato la mia condanna a morte.

«Ehm... circa.» Una mezza verità. In fondo tra i miei pensieri c'era anche quello di scusarmi con lui per il comportamento di Lattner.

«È per via di quel tuo coinquilino invadente?» domandò stizzito.

Era seccante che facesse queste allusioni, dandomi perfino l'impressione di essere geloso. Tra me e lui non c'era nulla di più che un rapporto di lavoro. Ancora non ci ero uscita e nonostante provassi dell'interesse, non ero tenuta a raccontargli gli affari miei. «Anche» risposi, seccata.

Se c'erano dei problemi tra me e Lattner, non stava a lui intervenire, né aver quella reazione da fidanzato possessivo.

Gli occhi di Nate si incupirono, irrigidì le spalle e incrociò le braccia al petto per poi squadrarmi severamente. Quando assumeva quell'aria dispotica non lo sopportavo. Era sempre preludio di un litigio. «Devi cercare di tenere i tuoi problemi fuori da qui, O'Neil. Siamo qui per lavorare... non per pensare ai cazzi nostri.» Fu scortese.

E sia il tono che l'uso del cognome sembrarono rimarcare quella scortesia.

Fu come accendere un fuoco sotto una pira. Avete presente quando gettate del combustibile su una catasta di legna secca? Avete presente quanto bene prenda fuoco?

Lo disintegrai con lo sguardo, sentendo montare la voglia di togliermi di dosso la divisa solo per lanciargliela in faccia con annessa una parolaccia, però mi trattenni; serrai i pugni e lo fissai con sgarbo.

Dentro sentii ribollire la vecchia me, borbottare come una pentola a pressione o una caffettiera stracolma di caffè. «Dopo questa ridicola scenata di gelosia, hai altro da rimproverarmi o possiamo chiudere qui questo teatrino e riprendere a lavorare?» sibilai. Per fortuna la parolaccia mi restò sulla lingua. Un punto per la nuova e pacata Robin.

Si tirò indietro come se lo avessi schiaffeggiato, cosa che non avevo fatto ma che, non vi nego, avrei tanto voluto fare. Borbottò qualcosa a denti stretti e poi scosse la mano scacciandomi da lì.

Bene. Perfetto.

Che si fotta anche questo idiota.

M'impuntai sui piedi girandomi di scatto e prendendo tre piatti uscii dalla cucina impettita.

Tornammo a lavorare con lena, silenziosamente. E per tutta la serata nessuno dei due si rivolse più all'altro se non per qualcosa inerente al lavoro.

Nate sembrava essersi chiuso a bozzo in un mutismo pesante che mi aveva fatto lavorare quasi peggio di prima. Ogni tanto lo vedevo sbirciare in mia direzione ma avevo così poca voglia di chiarirmi che mi ero tenuta ben alla larga dai suoi tavoli.

Se fossi stata meno signora, gli avrei mostrato un bel dito medio. Solo che ci tenevo al mio lavoro, o meglio, mi serviva. Non potevo rischiare di farmi licenziare per delle scaramucce tra colleghi.

Dopo quel litigio le ore erano scivolate via veloci, senza più intoppi. La rabbia mi aveva in qualche modo reso più lucida e per il resto del servizio non avevo più fatto errori. Eravamo tutti arrivati a fine turno con un'enorme voglia di fuggire da quel posto.

Nate era stato bravo a ripiegare la sua frustrazione sugli altri colleghi e così, a causa mia, era stata una delle serate lavorative più faticose in assoluto.

«Senti... mi dispiace» sbottò tutt'un tratto, cogliendomi di sorpresa mentre uscivo dallo spogliatoio appena cambiata in Robert.

Me la sarei voluta svignare senza incrociarlo e invece, con la mia solita fortuna, aveva deciso di aspettarmi. «Nate, ti prego, non mi va di litigare.»

Né di assestarti una craniata sul muso, quindi evitiamo.

Sembrò sorpreso da quella mia arrendevolezza. Si avvicinò porgendomi una busta bianca e accennò un breve sorriso. «È la paga.»

La presi facendo attenzione a non toccarlo e con un sorriso la strinsi al petto soddisfatta. Distrattamente mi chiesi cosa avrei potuto farci con i soldi in eccesso, magari dei regali per Natale alle ragazze, uno certamente a Takeru, qualcosa sulla musica e poi, volendo, perfino uno a Lattner.

Quel pensiero fu come la puntura di un ago. Sussultai sul posto sentendo la mia espressione sgretolarsi. In un gesto automatico strinsi il cappellino in testa, tirando giù la visiera.

Non potevo credere che i miei pensieri girassero così strettamente attorno a lui.

«È tutto okay? Giuro che... che non mi sono permesso di sbirciare, eh! Il capo mi ha solo incaricato di consegnare le buste a tutti.»

Sorrisi. Nate a volte aveva una deliziosa purezza nelle azioni e nei pensieri che in qualche modo riusciva sempre a strapparmi un sorriso. «No, tranquillo. Stavo solo pensando a cosa ci avrei potuto fare.» Sembrò sollevato.

Dannazione, Rob! Devi scusarti! Almeno per quello che ha fatto Lattner!

Strinsi il borsone con nervosismo e feci un respiro. Una cosa veloce, niente giri di parole. «Senti, Nate... io volevo... sì, bé, insomma... volevo scusarmi per come si è comportato il mio coinquilino al minimarket.» Fine.

Diamine! Sei proprio un vero schifo con le scuse, Rob!

Nate però sembrò gradirle, tanto che mi rivolse un sorriso smagliante. «È tutto a posto... ho notato che anche tu eri spaesata quanto me dalla sua reazione.»

Uscimmo dal Joily, richiudendoci la porta alle spalle. «Bé, effettivamente...»

Nate girò più volte la chiave nella toppa, assicurandosi che tutto fosse spento e chiuso. «Credo sia molto protettivo... forse un po' morboso, oserei.»

Sentii le gote pizzicare e subito sfregai il viso con le mani. L'idea che Lattner fosse protettivo nei miei confronti per certi versi mi lusingava. «Mi vede come un fratello minore, presumo.»

«Sarà...» rispose, infilandosi le chiavi in tasca e girandosi verso di me. Sulle labbra tratteneva un sorrisetto di scherno che ringiovaniva di parecchio i suoi lineamenti. «Resta il fatto che è stato particolarmente territoriale.»

Parlare di Lattner con Nate o viceversa, mi metteva a disagio. Era difficile esprimere chiaramente ciò che pensavo perché sembravano di partenza ostili l'uno all'altro.

«Credo sia solo un tipo molto apprensivo» mugugnai, cercando di dare un alibi alla sua stupidità.

A dir il vero nemmeno io avevo ancora capito il motivo di quella reazione. Lui aveva detto di avermi salvato ma a me era parso di leggere anche altro in quelle parole.

Nate l'aveva definita morbosità, io ci avevo visto un pizzico di gelosia. Ma era assurdo che Lattner fosse geloso di me, o meglio, di Robert.

Mi strinsi nel cappotto di Takeru e sospirai. Dopo la giornata di oggi Lattner era l'ultimo che meritava i miei pensieri.

«Senta, mi permetterebbe di accompagnarla a casa, Signor Robert?» domandò Nate, abbassandosi verso di me con un sorriso sghembo e un tono decisamente canzonatorio.

Quella vicinanza riportò a galla tutti i miei sospetti facendomi avvampare. In tutta risposta misi una sostanziale distanza tra noi avviandomi frettolosamente verso la via centrale. «Muovi il culo allora!» gli berciai dietro, facendolo scoppiare a ridere. Mi raggiunse in una corsetta e ci avviammo verso casa.

Mi sarei immaginata un tragitto silenzioso e carico d'imbarazzo e invece Nate riuscì a farmi chiacchierare per tutto il tempo.

Cose futili, argomenti easy. Niente di troppo impegnativo o complicato.

Eppure fu piacevole. Nate sapeva sorprendermi.

Quando iniziavo a pensare che fosse un borioso bastardo, si trasformava in un affabile accompagnatore.

Ci fermammo davanti al muretto del mio condominio, alle spalle la scala in muratura che saliva a spirale verso tutti gli appartamenti. Il fatto che fossero tutti indipendenti regalava ai condomini una praticità e una privacy maggiore. Una cosa che apprezzavo davvero molto della mia nuova casa.

«Siamo arrivati» disse, alzando il viso verso l'alto alla ricerca del mio appartamento.

«Già. Come sempre devo ringraziarti per avermi fatto da scorta.» Era comico come da ex teppista qual ero, fossi passata a ricoprire il ruolo di fanciulla indifesa.

La vecchia me non gradiva. La sentivo brontolare su cose tipo orgoglio, incapacità e debolezza.

Hai detto di ricominciare da zero, Rob. Quindi basta pensarci!

Hai detto che avresti costruito una nuova te, no? E allora questa fragile Robin va bene.

Ma io non ero fragile. E fingere di esserlo mi stava rammollendo.

«Per me è sempre un piacere stare in tua compagnia.» La sua voce mi arrivò da troppo vicino, sollevai lo sguardo e lo incrociai al suo. Si era abbassato su di me fino a chiuderci in una sorta di cornice romantica.

Sentivo il profumo del suo dopobarba e potevo distinguere le sfumature verdi nelle sue iridi.

Sfilò la mano dalla tasca dei jeans accarezzandomi una guancia. Il suo palmo era bollente, il suo tocco delicato. Si umettò le labbra senza staccare gli occhi dai miei. Era come se li avessero legati l'uno all'altro, senza via d'uscita.

Sapevo quello che stava per succedere, la mia mente lo stava registrando e stava decidendo se farlo accadere oppure no.

Scese di poco, quanto basta però per sfiorare il suo naso contro il mio. Aveva il respiro pesante di chi freme dalla voglia di andare oltre.

«A – Aspetta» farfugliai posandogli due dita sulle labbra per arrestare quella corsa verso la mia bocca. Sentivo il cuore battermi nelle orecchie come un tamburo e il viso bruciare d'imbarazzo. Espirai rumorosamente, chiudendo gli occhi e deglutendo. «Non possiamo.»

«E perché? Non vuoi?» Sembrava sul punto di esplodere, al punto di non ritorno. Se lo avessi fatto attendere altro tempo, si sarebbe preso quel bacio da solo.

Era un gioco brutale il nostro. Mi sentivo elettrizzata e spaventata dai sentimenti che mi suscitava Nate. Era un desiderio che si alzava e si abbassava come la marea. Un lento scoprirsi e volersi.

Eppure, in un angolino della mia testa, la mia coscienza continuava a farmi una domanda pungente e velenosa: se non fosse il motociclista, ti piacerebbe ugualmente?

Diamine! Non lo sapevo.

Gli posai le mani sul petto, allontanandolo un poco per mettere una buona distanza di sicurezza. «Non è questo, Nate... è che...»

«Cosa?» domandò lui e la libido che un attimo prima gli fiammeggiava nello sguardo si spense lasciando posto al timore d'essere rifiutato. «È per la differenza d'età?»

A quello nemmeno ci avevo pensato. Anche se tra me e lui c'erano parecchi anni di differenza. Lui trentatré, io diciotto. Non pochi.

«No, no... è che... insomma, siam troppo vicini a casa mia» dissi, buttando fuori le parole di fretta, con il viso paonazzo. «Non voglio che ci veda il mio coinquilino e si faccia domande sul fatto che io sia omosessuale o meno... o magari gli venga il sospetto che sono una ragazza.»

Nate sembrò rilassarsi e poi scoppiò a ridere. Passandosi una mano sulla faccia e nei capelli si umettò le labbra prima di parlare: «Hai ragione. Non ci avevo pensato.» Rise ancora. «Cavolo, scusa, Rob... purtroppo quando ti sono vicino mi sembra di tornare un ragazzino di vent'anni.»

Ci staccammo l'uno dall'altra e sorrise. Per lui era ora di andare. «Ci vediamo domani al lavoro» Fece alcuni passi indietro senza staccare lo sguardo dal mio, quando sollevai il braccio in segno di saluto si voltò e sparì dalla mia vista svoltando l'angolo.

Per un attimo mi sentii prosciugata.

La miriade di pensieri riguardanti Nate si spintonava nella mia testa intasandola con un'ostinazione tale che ben presto mi sarebbe esplosa.

Lo hai rifiutato per paura che sia il motociclista o per paura che non lo sia?

Risposi alla mia coscienza con un grugnito bestiale e salii le scale svogliatamente, sfilando le chiavi dalla tasca e infilandole nella toppa ancora sovrappensiero.

Quando aprii fu strano per me uscirmene con una frase che mai avrei più pensato di dire: «Sono a casa!» gridai, sfilando le scarpe e appendendo il giacchetto. Nessuno rispose. Strano.

Avevo imparato che Lattner amava accogliermi con un semplice ma significativo "bentornato". Anche per me valeva molto.

Muffin si venne a strofinare tra le mie gambe e non potei fare a meno di abbassarmi per riempirlo di baci. Almeno qualcuno era felice del mio ritorno. «Sei stato una brava palla di pelo?» gli bisbigliai all'orecchio. In tutta risposta si abbandonò tra le mie braccia, mettendosi a pancia in su alla ricerca di altre coccole. «Forza, andiamo a cercare qualcosina da sgranocchiare.»

Stavo per gettare momentaneamente la maschera del buon vecchio Robert, convinta di essere sola in casa, quando l'occhio mi cadde sulla scarpiera e notai un paio di décolleté decisamente troppo femminili per appartenere a Lattner. E non di certo mie visto che indossavo anonime scarpe sportive nere unisex.

Strabuzzai gli occhi e d'impulso guardai Muffin come se potesse rispondere a quella mia muta domanda.

«Mi dispiace, Thomas. Lo so che avevi detto di non volermi più qui... ma dovevo vederti! Dobbiamo parlare!» Conoscevo bene quella voce, proveniva dalla sala e l'idea di averla in casa mia, non so perché, ma mi diede i brividi.

«Non abbiamo più niente da dirci. È passato tanto tempo, Theresa. Tu hai fatto la tua vita, io la mia.»

«Lo sai che me ne sono dovuta andare sia per lavoro che per... bé, per dimenticare te... e dimenticare tutto il resto.»

«E 'sti cazzi?» ribatté lui, piccato. La voce di Lattner era carica di rabbia, non lo avevo mai sentito parlare a qualcuno tanto duramente.

«Ti prego, Tom... parliamone» Il tono della professoressa Wood era così svenevole che forse anche io ne sarei rimasta sedotta.

Non avrei voluto interrompere quel litigio, mi sentivo il tipico terzo incomodo; però nemmeno potevo rimanere sulla soglia di casa tutta la notte, col rischio che quei due facessero pace e si mettessero a scopare sul divano del salotto.

Dovranno passare sul mio cadavere prima di fare una cosa simile.

Anzi, sarò io a passare sui loro cadaveri... in caso.

Mi schiarii la gola con forza, forse in maniera quasi esagerata, peggio di Takeru quella mattina nei corridoi e, superando il breve atrio, entrai nella sala.

Lattner e Miss Wood mi squadrarono come se li avessi appena salutati con otto braccia. Soprattutto lui che per un attimo mi guardò come se gli fosse appena piombato il demonio nel salotto.

In realtà eravamo solo io e Muffin e avevamo entrambi un'aria molto pacifica.

«Oh, sei tu» borbottò, a disagio. Era bloccato tra un bracciolo del divano e il corpo prorompente di Miss Wood che non appena mi vide si staccò da lui seccata.

«Sarebbe questo il coinquilino di cui ti preoccupavi tanto?» domandò, sghignazzando. «Ma è un ragazzino, nemmeno gli crescerà la barba ancora...»

E mai che crescerà visto che sono una ragazza, stronza!

Lasciando la presa su Lattner mi raggiunse ondeggiando come una gatta. Era sensuale, non lo potevo negare. Non era un'ostentazione delle sue forme, si vedeva che ogni suo gesto le usciva con naturalezza.

I miei compagni di classe, quella mattina, erano andati in visibilio quando avevano scoperto che avrebbe sostituito Mr.Groner fino a completa guarigione.

Già immaginavo i loro minuscoli cervelletti viaggiare su scenari pornografici in cui si facevano la professoressa, magari a scuola, magari sulla cattedra, magari mentre li castigava per un brutto voto.

Insomma, erano un ammasso di ormoni, fame di sesso e neuroni atrofizzati. Dei viscidi arrapati senza ritegno.

Parla quella che abita con Mr.Lattner e si spara viaggi degni di una pornostar ventiquattrore su ventiquattro.

Okay, forse, e dico forse, ero la meno indicata per fingermi indignata.

Bene. Passate oltre. Dimenticate tutto... anche i viaggi che mi faccio su Lattner... soprattutto i viaggi che mi faccio su Lattner.

«Quindi tu saresti il nuovo coinquilino, eh?» Miss Wood inclinò la testa sogghignando e tamburellandosi le lunghe unghie laccate sulle labbra. Il timore che mi guardasse troppo a lungo e troppo da vicino si fece vivo e pulsante nel mio cervello. Temevo potesse riconoscermi. «Hai un visetto così femminile, te l'ha mai detto nessuno?»

Serrai i denti. «Molti, sì» sibilai. Riuscivo a sopportare molte cose nella vita, ma non chi mi prendeva per il culo con il sorrisetto sulle labbra.

Se fossi stata davvero un ragazzo, quella frase sarebbe equivalsa a una vera e propria presa in giro.

«Però devo dirlo... sei proprio tanto, tanto carino» aggiunse, sorridendo con scherno, lo stesso sorriso che rivolgi ai bambini quando gli stai raccontando una frottola.

Non le andavo a genio. Forse sperava di trovare solo Lattner in casa, probabilmente la mia presenza le scombinava i piani.

Comunque, era ufficiale, Miss Wood mi stava riccamente sul cazzo.

Lattner l'afferrò per un braccio allontanandola da me. «Forza, Theresa... è ora che te ne vai.»

«E lasciami. Sto parlando con...» M'indicò, aspettando rispondessi.

«Robert» borbottai, mascherando la voce.

Nei suoi occhi sembrò accendersi una scintilla di qualcosa, un bagliore molto simile a una intuizione. Allungò la mano di slancio ma l'afferrai prima che le dita mi raggiungessero la guancia. «Non c'è bisogno che mi tocchi.» Mi accorsi troppo tardi del mio tono freddo e distaccato. Inoltre la mia espressione probabilmente non fu delle più cordiali perché ritirò la mano strappandola dalla mia presa e serrandola contro il petto. Dovevo avergliela stretta anche con poca delicatezza visto che si massaggiò il polso.

Rimase a guardarmi per un altro lungo attimo prima che Lattner la spingesse verso l'uscita. «Adesso basta. Forza. È ora che te ne vai... domani abbiamo lezione.»

Miss Wood non mi staccò gli occhi di dosso fino all'ultimo, con la testa girata verso di me e la fronte corrucciata come se fosse concentrata. Ero sicura che avesse notato in me qualcosa di familiare. Lo avevo capito dalla faccia che aveva fatto quando si era avvicinata.

Lattner rimase sulla soglia a parlarle ancora qualche minuto, poi si sentì la porta sbattere, un'imprecazione e lui tornò sbuffando mentre si passava entrambe le mani nei capelli. «Mi dispiace, Rob. Non volevo che ci finissi di mezzo anche tu.»

«Figurati! Tranquillo! Anzi, mi spiace avervi interrotti.»

Menti bene, Rob! Complimenti!

Si sfilò gli occhiali stropicciandosi gli occhi con la stessa mano in cui teneva la montatura. Senza quelli era decisamente più bello, più giovanile. «In realtà dovrei proprio ringraziarti. Non sapevo più in che modo dirle di andarsene. Lei è... cioè, era... era-»

«La tua ex!» terminai io per lui.

Storse in naso e mi guardò dispiaciuto. «Bé, circa... potremmo dire di sì.»

Okay, Rob! Questo è il momento giusto per darsela a gambe levate.

Presi un profondo respiro e girai i tacchi per filamela ma Lattner riuscì comunque ad agguantarmi per il cappuccio della felpa. «Dove credi di andare, eh?»

«In camera... cioè, a letto. Sono molto stanco.» Feci un finto sbadiglio a cui lui non abboccò minimamente.

«Col cavolo. Adesso ci guardiamo un film.» Trascinandomi sul divano si accomodò trattenendomi il braccio attorno alle spalle.

«Thomas, senti... si puoi sapere che diavolo stai facendo?»

«Faccio partire un film horror» disse, armeggiando con il telecomando che impugnava nella mano libera. Quando riuscì a mettere play sospirò accoccolandosi contro di me e posando la testa contro la mia.

Ero rigida come un legno, allungata a metà sul divano e per metà contro il suo corpo. Avrei anche potuto godermi il film se tutta quella situazione non mi fosse sembrata tanto strana quanto ambigua.

Tentai di sollevarmi ma lui mi cinse ancor più le spalle, tirandomi verso di sé.

«Thomas tu sai bene che... bé, sì... io sono un-»

«Un ragazzo, un ragazzo... sì, sì... lo so» terminò lui per me, esasperato e quasi annoiato. «Però ti prego, Robert... per stasera, solo per stasera... sii solo il mio cuscino. Niente di più.»

Sembrava una supplica, tanto che mi chiesi se non c'entrasse qualcosa con la visita di Miss Wood. Magari un'inconscia ricerca di affetto e calore umano. «E va bene... ma se fa troppa paura spegniamo, eh!» Raccolsi le gambe sul divano e mi accoccolai alla bell'e meglio contro di lui.

Lattner allungò i piedi sul tavolino, mi sfilò il cappello gettandolo poco lontano dal vassoio di caramelle e si mise più comodo. «Sai, parla di un professore che uccide i suoi studenti e ne conserva i cadaveri in cantina.»

«Che?» Mi voltai di scatto, stralunata e lui scoppiò a ridere.

«Zitto, non mi guardare così che mi deconcentri... devo prendere appunti.» Appoggiandomi la mano sulla testa mi girò il viso verso lo schermo e poi la lasciò lì, affondando le dita nei capelli come se fosse una cosa del tutto normale tra coinquilini maschi.

Peccato che il mio corpo e il mio cuore non la pensassero allo stesso modo.

«Thomas, non è un po'... ehm, ecco, strano ch-» Mi tappò la bocca con la mano.

«Cosa ti ho detto che sei stasera?» La spostò solo per farmi parlare.

«Il tuo cuscino» mugugnai.

«E i cuscini parlano?» Attese davvero una mia risposta.

Roteai gli occhi esasperata. «No.»

«Perfetto, allora cerca di assolvere al meglio la tua funzione.»

Biascicai un paio di parolacce a denti stretti che lo fecero sghignazzare e, voltandomi, riprendemmo a guardare il film: lui intento a trarre spunto dalla trama per chissà quale machiavellico piano di cui sicuramente sarei stata cavia, io... bé, come cuscino.

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