20 - TUTTI VS ROBIN

Dopo l'incontro con Lattner, non avevo fatto altro che pensare alle sue parole. Erano rimaste a lampeggiare nel centro dei miei pensieri senza darmi un secondo di tregua.

Quando ero tornata, se n'erano accorti tutti che ero improvvisamente finita su un altro universo. Assente, reticente, dalle risposte secche e scorbutiche e, sempre, con le mani sulle gambe a coprirmi le cosce troppo scoperte.

Dannazione! Gli era bastato un banale rimprovero per farmi rendere conto di quanto fosse volgare quell'abito. O comunque troppo succinto e scoprente.

Non era la presenza di Claiton ad avermi stravolto i piani ma quelle stupide parole che ronzavano rumorose sopra tutto il resto. Perfino sopra la musica assordante.

Ti preferivo con i capelli lunghi.

Ma che diavolo voleva dire? Che mi aveva già notato a scuola? Che sapeva bene chi ero? Che aveva dei sospetti? Merda. Che casino.

Ero tornata a casa nei panni di Robert a un orario ragionevole e mi ero chiusa in camera gettandomi sul letto ancora vestita. Mi ero giusto tolta gli enormi occhiali da nerd e il cappellino con la visiera.

Non ero riuscita a prendere sonno per parecchio tempo, continuandomi a rigirare tra le lenzuola come un pesce gettato sulla terra ferma.

Più pensavo al nostro incontro, al nostro litigio e a quell'ultima considerazione che aveva fatto sul mio aspetto; più sentivo il mal di testa montare tra le pareti del mio ristretto e inutilizzato cervellino.

Non riuscivo a ragionare. Non riuscivo a dare un senso a nulla di ciò che era successo.

Quando il giorno seguente mi ero svegliata a tarda mattinata, vestita ancora come la sera prima, non fui sorpresa nel trovare Lattner in cucina indaffarato con la colazione.

«Ho preparato un mucchio di roba» disse, senza nemmeno voltarsi a guardarmi.

Ed era un bene viste le mie pietose condizioni. «Non c'era bisogno Latt... Thomas.» Toccai d'istinto la visiera del cappellino e sospirai.

Non ce l'avrei mai fatta a restare divisa tra Robin e Robert, tra Mr.Lattner e Thomas. Ogni volta che lo dovevo chiamare, puntualmente, mi si attorcigliava la lingua e fatalità usciva fuori sempre il nome sbagliato. Proprio come la sera prima, quando lo avevo chiamato Thomas e non Mr.Lattner.

«Allora? Come ti è andata la serata?» domandò, voltandosi con due tazze ricolme di caffè. Raggiunse il tavolo della sala, posandole una di fronte all'altra. Mi accorsi solo in quel frangente che aveva preparato davvero una moltitudine di cibo. Tra cui le mie amate uova strapazzate con tanto di bacon abbrustolito, una delle mie portate preferite da mangiare a colazione. A New York era solito prepararmele Adam.

«Noiosa. Niente di che. Siamo andati in un locale qua vicino ma siamo tornati poco dopo. Era così vuoto da mettere tristezza.» Non potevo certo dirgli che ero stata al Count dove c'era stato anche lui, altrimenti avrei dovuto dare molte altre spiegazioni. E avevo troppo mal di testa anche solo per pensarlo. «E tu?»

Si mise a sedere e sorseggiò il caffè bollente. «Io, Märten e altri due amici abbiamo fatto un salto al Count... un locale nuovo che hanno aperto ieri sera.»

«Bello?»

Perché diavolo stavo cercando di cavargli informazioni? Avrei dovuto chiudere quel discorso in un attimo e invece no, ero lì a ficcare il naso.

Forse speravo parlasse di me? Del nostro incontro-scontro? Oddio, assurdo. Non potevo essermi rincitrullita fino a questo punto.

Fece una smorfia e scrollò le spalle. «Nulla di speciale. E poi... gestito malissimo. Avevano fatto entrare troppa gente per quanta ne potesse contenere il locale. Senza contare le luci, diamine! Non c'era una cazzo di luce in quel posto. Si camminava alla cieca.»

Oh! Santo Cielo, finalmente! Ma allora esiste qualcuno che la pensa come me!

Avrei voluto esultare.

Credevo di essere l'unica insoddisfatta di quel posto o magari essere diventata una noiosa snob che non si faceva andare bene nulla solo perché abituata ai locali migliori di New York e invece, anche Lattner non ne sembrava così entusiasta.

«Bé, dai... almeno c'era gente.»

«Troppa» borbottò con le labbra inchiodate alla tazza.

Basta! Taci! Sta' zitta, Rob! Cambia argomento, idiota!

Sollevai gli occhi al cielo e iniziai a strafogarmi di uova e bacon. Se la mia bocca non taceva da sola, avrei trovato io un modo per tenerla occupata: mangiando, ovvio! «E quella?» domandai prima ancora di pensare. Ma soprattutto, con due fette di bacon a riempirmi le guance.

Com'ero riuscita a parlare resterà un mistero anche per me.

Stesa sullo schienale del divano c'era la camicia incriminata, quella della sera prima, con ancora in bella vista la gigantesca macchia del drink con cui lo avevo annaffiato.

Lattner seguì il mio sguardo e la fissò con una smorfia. «Ah, quella? È appena uscita da una lavanderia che resta aperta anche di domenica... ma come vedi, non sono riusciti a togliermi la macchia. È di un tessuto di merda, lo sapevo che sarebbe rimasta così.»

Merda, allora gli devo davvero una camicia. Oddio.

Forza, Rob... dì qualcosa. Qualcosa di estremamente stupido e che lo distragga. Qualcosa privo di senso come solo tu riesci a fare.

«Ti sei venuto addosso?»

Lattner scoppiò in un eccesso di tosse, picchiandosi il petto per non soffocare. «Diamine, no! Ma che cazzo dici, Rob, eh?»

Cercai di fare l'indifferente. «Non so... magari avevi trovato da far bene ieri sera. Se c'era gente, ci saranno state anche un sacco di pollastre immagino.»

Pollastre...

Ma sei una troglodita? Da quando i ragazzi definiscono le ragazze "pollastre"?  Che genere di ragazzi si immagina la tua mente bacata?

Volevo sprofondare.

Scacciò l'idea con la mano, sventolandola nel vuoto come se un insetto invisibile lo stesse infastidendo. «Ma va'... è stata una serata del cazzo. A un certo punto... è successa una cosa e... bé, mi sono innervosito e alla fine non me la son più nemmeno goduta.»

Ah, diamine! Allora dopo quella discussione nemmeno lui si è più divertito.

Tutto a causa mia. Di nuovo.

Mi sentii come rigirare su una graticola. Colpevole fino al midollo.

«Per via della camicia?»

Ponderò la mia domanda, con il viso appoggiato mollemente sul palmo della mano. Gli occhiali si erano storti e gli ricadevano sul naso in maniera sbilenca, i capelli arruffati gli conferivano un'aria sbarazzina. «Nah, era una camicia di merda. Mi faceva sudare come un maiale, è un bene che sarò costretto a buttarla. In realtà, mi son innervosito per... per altro.» Sorseggiò di nuovo il caffè.

Zitta! Zitta! Zitta!

Fatti gli affari tuoi! Non dire più nulla!

Non osai chiedergli delucidazioni. Restai immobile con il piatto ormai vuoto davanti a me, a fissarlo di sottecchi per cercare di carpire qualcosa attraverso le sue espressioni facciali.

Quando si accorse dei miei occhi puntati addosso si sporse sul tavolo, appoggiandoci i gomiti e intrecciando le mani. «Tutta colpa di una squinternata» disse, sghignazzando come se gli fosse appena venuto in mente qualcosa di estremamente divertente. Forse i nostri assurdi battibecchi lo divertivano.

«Squinternata? Quella del naso?» Mi sfuggì. Non dovevo. Avrei fatto meglio a fingere di non ricordare. Era stato sciocco da parte mia fargli l'ennesima domanda. Era come se la bocca si fosse scollegata dal cervello.

«Proprio lei.» Lattner si tirò indietro, abbandonandosi contro lo schienale della sedia e sfilò dalla tasca un pacco di sigarette. Lo allungò verso di me per offrirmene una.

Da quando fuma?

Forse da sempre e io semplicemente non lo sapevo. In fondo, non sapevo tante cose di lui; a partire da chi era prima di diventare il mio coinquilino o ancor prima, quando era un semplice ragazzo come me ancora in cerca della propria strada.

Io non conoscevo Lattner. Non conoscevo nulla di lui. Sapevo solo ciò che era ora e poi, nemmeno così tanto.

In risposta scossi semplicemente il capo. Non avevo voglia di fumare. Sentivo la gola bruciare. Nemmeno riuscivo a deglutire.

L'opprimente pressione al petto tormentava il mio respiro, distruggeva ogni parvenza di controllo che tentavo di mantenere sul mio corpo scosso e confuso.

Perché Lattner si dava tanta pena per una come me? Non era un mio professore di corso. Nemmeno mi conosceva.

«Sicuro che non voglia accopparti con tutti questi accidentali agguati?»

Rise. «Nah, non credo voglia veramente uccidermi... credo sia solo un'imbranata senza speranze.» S'infilò velocemente una sigaretta tra le labbra, indicandosi col pollice. «Ti dà fastidio se fumo in casa?»

Scossi il capo. «No, fai pure. Tanto sono un fumatore anche io.»

L'accese con un'aspirata allungandosi a prendere un posacenere di cui non avevo notato la presenza. Tornò seduto composto, appoggiando di nuovo i gomiti al tavolo e prendendo un'altra boccata di fumo. La casa era profumata e linda, non doveva essere un'abitudine.

«Mai dire mai. A volte hanno facce da gattina e poi si rivelano delle psicopatiche. Magari ha un passato da serial killer. Che ne sai...»

Ma che diavolo mi prendeva? Stavo forse cercando di autosabotarmi?

Possibile che fossi tanto stupida?

Da una parte volevo smettesse di parlare di me, dall'altra volevo sapere cosa pensasse.

Sì, sei stupida. Te lo dice anche Takeru, no? Un motivo ci sarà.

Mi tormentai il labbro con i denti, cercando di non pensare a quanta ragione avesse la mia coscienza. Gli avevo fatto un'altra domanda scomoda e ora dovevo sopportare tutto il peso della risposta.

«Bé, da serial killer, no... però non ha un passato felice.»

Il modo in cui lo disse e lo sguardo triste che quelle parole gli suscitarono mi strinsero una morsa attorno alla gola, troncandomi di netto la respirazione. Fui pervasa da brividi, costretta a passarmi più volte le mani sulle braccia per scacciare quella sensazione di disagio che si era improvvisamente fatta strada in me.

Mi compativa? Provava pena per me? Era così gentile solo perché sapeva i miei trascorsi?

Serrai le labbra. La colazione che avevo appena ingurgitato continuava ad agitarsi nel mio stomaco, pronta per tornare su. Mi veniva da vomitare. Ero patetica.

«E tu come lo sai?» Dovevo sapere. Volevo sapere.

Non mi importava più un accidente del mio ruolo di Robert. In quel momento il bisogno di conoscere la verità sovrastava anche il buonsenso.

Strizzai le mani con nervosismo, aspettando una risposta che non ero sicura di voler ascoltare.

«Il suo curriculum è conosciuto da tutto il corpo docente. Ne fummo messi al corrente prima ancora che mettesse piede nel Missan. Credo precauzione, nel caso ci fossimo dovuti approcciare a lei. Posso dirti solo che ha avuto un passato... uhm, come dire... colorito?»

Avrei preferito uno schiaffo. Vi giuro.

Avrei preferito uno schiaffo piuttosto che quelle parole cariche di qualcosa d'indefinibile, a metà tra il dispiacere e la compassione. Una serietà che improvvisamente gli aveva mangiato il sorriso. E anche se Lattner non sembrava il tipo da dare peso a ciò che c'era scritto su un curriculum, non potevo far altro che credere che le sue gentilezze verso di me fossero semplici atti caritatevoli. Qualcosa che uno fa per non essere scortese.

Dovetti deglutire più volte per non sentire più il sapore amaro della bile, della vergogna e dell'umiliazione. Mi portai una mano al petto, carezzandolo circolarmente e cercando di alleviare quel soffocante malessere che mi impediva perfino di respirare a dovere.

Perché? Perché avevano spiattellato la mia vita così, ai quattro venti?

Perché avevano passato le informazioni anche a chi non avrebbe avuto nulla a che fare con la mia permanenza lì? Perché metterli tutti in guardia a quel modo, come se fossi un mostro?

Faceva male. Era l'ennesima sconfitta. Una sconfitta a tavolino, senza nemmeno aver preso parte alla battaglia. Senza nemmeno aver avuto modo di dimostrare quanto fossi cambiata e migliorata, nel mio piccolo.

«A – assurdo. Allora era davvero una poco di buono» farfugliai, cercando di dissimulare interesse.

Era difficile.

Era difficile fingermi qualcun altro e macchiare ancor di più la mia immagine già sporca di suo. Era impossibile tagliare i ponti con me stessa, con quella vecchia me che ancora mi precedeva, che ancora portava alto il mio nome e tutte le malefatte annesse. Era difficile essere Robert, fingermi distaccata, disinteressata, magari anche contrariata. «Certo che... passare da poco di buono a imbranata non è un gran salto di qualità. Deve proprio essere una fallita.» Mi morsi nervosamente il labbro, trattenendo le lacrime.

Lo sentii colpirmi un paio di volte con le nocche sulla fronte, come se avesse appena bussato al mio cervello. Non mi ero nemmeno accorta che si era alzato, aveva girato il tavolo, ed era venuto a portarmi via il piatto da sotto il naso.

«Non ti permetto di parlare di lei a questo modo.» Era serio. Incredibilmente serio.

Sussultai. Non trovai nemmeno il coraggio di guardarlo negli occhi. Facendolo mi sarei certamente tradita. Mi aveva appena difeso? Mi aveva appena difeso da me stessa? Aveva difeso Robin da Robert? Era assurdo.

«E come mai?»

Si spostò verso la cucina e dovetti voltarmi per seguire i suoi movimenti. Lasciò le cose nel lavandino e aspirò la sigaretta spostando le tendine della finestra e osservando fuori. In un attimo sembrò perdersi, fuggire in un altro mondo. «Credo ce la stia mettendo tutta per tagliare i ponti con la sua vecchia sé. A costo di ricostruirsi da zero.» Tacque un attimo, sputò il fumo. La zazzera di capelli gli coprì parte del viso. Quando tornò a parlare, la voce gli uscì greve e non fui più totalmente certa che stesse parlando di me, di Robin O'Neil. «Sai, Robert... a volte per tagliare i ponti con il passato uno è costretto a reinventarsi.»

«E funziona?»

«Certi giorni, sì... certi giorni, no.» Restò incantato nella finestra, lo sguardo lontano, la mente pure. Le dita serrate sul filtro della sigaretta che si stava consumando senza essere più aspirata.

Mi sarei voluta alzare e sarei voluta correre ad abbracciarlo, dirgli che qualsiasi demone che lo stava tormentando lo avremmo sconfitto insieme.

Ma chi ero io per potermi permettere un simile gesto? Non sapevo nulla di lui. Non sapevo nemmeno che fumasse fino ad oggi.

Eppure, non riuscivo a contrastare questi sentimenti. Mi crollavano addosso in picchiata come una grandinata. Li sentivo conficcarsi nella carne, nelle ossa, nella testa ma soprattutto nel cuore.

Era come se Lattner, Thomas, si facesse largo dentro di me a forza. Senza fare nulla di più che essere se stesso. E più tentavo di restare impassibile a lui e all'effetto che mi faceva, più mi trovavo catapultata in un turbine di sensazioni in grado di staccarmi la spina della razionalità.

Non era solo la sua bellezza ad annichilire il mio cervello. Era anche quella strana percezione che avevo di lui, come se nei suoi occhi bevessi delle sensazioni che sentivo vicine, di casa. Un dolore che non mi era sconosciuto. A volte, come in quel momento, si perdeva nel vuoto, nel marasma dei suoi pensieri e mi accorgevo che soprattutto in quegli attimi, quando era più lontano, lo sentivo più vicino.

Non so da cosa lo avevo capito, o cosa me lo facesse credere, ma ero certa che nella sua anima ci fosse uno squarcio. Una ferita in grado di rubargli spesso il sorriso e la presenza sul presente. Un fantasma del passato che non riusciva a scacciare.

E più questi suoi silenzi me ne davano conferma, più mi accorgevo che Robin, non Robert, voleva fare un passo verso di lui; allungargli la mano, dirgli che non era solo, dirgli che in quella battaglia eravamo in due.

Takeru lo aveva fatto con me e iniziavo a pensare che una mano tesa servisse anche a Lattner a volte.

«Che ne dici allora?» domandò, riportandomi con i piedi per terra. Si era spostato dalla finestra e aveva finito di sparecchiare.

«Cosa?» farfugliai. Avevo perso gran parte delle sue parole, troppo persa neimiei pensieri.

«Andiamo a fare spesa al minimarket qua vicino? È aperto anche oggi che è domenica.»

«Oh. S – sì... certo.»

Sorrise. Un sorriso gentile ma non del tutto sincero. C'era nascosto qualcosa dietro, qualcosa che ancora non voleva che vedessi. «Allora prendo il giacchetto e andiamo.»

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