2 - UN PENNY PER I TUOI PENSIERI

Mr. Groner si allungò sulla sedia dietro la cattedra. Tra le mani stringeva una rivista accademica che con ogni probabilità gli avrebbe insegnato un nuovo metodo di tortura matematico. Non sembrava per nulla interessato a noi, anzi, con ogni probabilità quella punizione seccava anche lui. Continuava a sfogliare le pagine con stizza, gli occhi contratti in fessure e le labbra assottigliate in una linea dura e rigida.

Riusciva a mettermi i brividi pur non facendo nulla.

Allungai le braccia davanti a me cercando di stiracchiarmi senza dare troppo nell'occhio. Il suo sguardo mi fulminò peggio di un cecchino e così, seppur con frustrazione, tornai ai compiti extra che ci aveva assegnato. In realtà dovevo sbrigarmi. Prima li avrei finiti, prima sarei uscita da lì.

Oltre a non avere alcuna intenzione di passare altro tempo con Claiton e Mr.Groner, dovevo anche andare al lavoro.

Come ho già detto, i miei genitori non sono gente ricca. Mandarmi al Missan College fu solo un astuto espediente per liberarsi di me. E visto che i loro soldi non erano abbastanza per coprire tutte le spese, mi invitarono – anche poco gentilmente tra l'altro – a trovare un adeguato lavoro che potesse sostenerli economicamente in questa scelta troppo fuori portata dalle nostre tasche. E così, a causa di un loro errore di calcolo o di ego se vogliamo, avevo iniziato a fare i turni serali al Joily: un ristorante carino, poco distante dal mio appartamento, come cameriera.

Era un lavoro impegnativo ma piacevole. Bisognava mandare giù qualche boccone amaro ma presumo che ogni impiego abbia i suoi lati negativi. La paga era buona e questo era l'importante.

Mi tamburellai la penna sulle labbra e segnai un altro passaggio di un'operazione. Quel bastardo di Groner ci aveva rifilato degli esercizi davvero difficili. Ero certa che dietro quella rivista da cervellone stesse sghignazzando silenziosamente alle nostre spalle. Metterci in difficoltà lo divertiva.

«O'Neil hai finito? Sono dieci minuti che guardi il foglio... ti sei incantata?» I suoi occhietti sbucarono trapassandomi con insistenza e un pizzico di disgusto.

Non gli piacevo. Era così chiaro.

La cosa era reciproca. E non avevo il benché minimo interesse a fargli cambiare opinione su di me.

«Non ancora» Abbassai lo sguardo. Mi mancava un esercizio. Solo uno. Il più difficile.

Zack Claiton, il viscido bastardo che mi aveva ficcato in questa situazione, si passò una mano nei capelli e mi lanciò un'occhiata d'intesa. Non lo avevo ancora visto scrivere niente. Probabilmente aveva ancora il foglio vuoto. D'altronde se uno è stupido davanti a sé ha tutte le occasioni che vuole per dimostrarlo al mondo, no?

Iniziai ad appuntarmi qua e là alcune formule, maledicendo la mia poca competenza in materia. «Quest'ultimo esercizio è molto difficile, Mr. Groner.»

Il vecchio sorrise. «Lo so.»

Ma certo che lo sai, bastardo! Lo avrai certamente messo apposta!

Avrei volentieri lanciato fuori dalla finestra il quaderno, insieme agli appunti e tutto il resto del materiale. Peccato che non potessi permettermi un simile atteggiamento. La mia condotta doveva risultare immacolata fino a fine percorso studi. Per una come me, era un'impresa davvero ardua.

Entrare nel Missan College non era per nulla facile. O eri ricco sfondato o avevi attitudini degne di nota. Non eccellendo né da una parte né dall'altra, e avendo un curriculum pessimo come biglietto da visita, il dirigente scolastico mi aveva accettato con riserva. Un passo falso e mi avrebbe rimandato al mittente con tanto di francobollo sul culo. I miei genitori sarebbero impazziti, riavermi a casa era da considerarsi fuori discussione. Senza contare che probabilmente mi avrebbero spedito in qualche altro posto ancora più lontano, come l'Alaska ad esempio.

Non mi andava di restare lì ma sembrava non potessi fare altrimenti.

Diciamo che stavo cercando di adeguarmi. Non era facile. Anche se cercavo di non farlo vedere, prendere e lasciare tutto mi aveva fatto male. Molto male.

Il trasferimento era stata una scelta che avevo sin da subito ripudiato con tutta me stessa.

Non mi volevo trasferire a Detroit. In fondo, New York era il centro del mio mondo, del mio tutto, delle mie amicizie e della mia famiglia... o meglio: di Adam. Lui mi mancava davvero tanto. Nonostante fosse la presenza più ingombrante della mia vita, sentivo fortemente la mancanza della sua aura da fratello maggiore, dei suoi rimproveri, delle nostre litigate... ma soprattutto dei suoi abbracci.

Gli abbracci di Adam mi avevano salvato un sacco di volte.

Non l'avrei mai detto, ma non averlo con me lì era estremamente doloroso. Riuscivamo comunque a sentirci al telefono ma non era abbastanza, non era lo stesso.

Claiton sorrise, mandandomi un bacio silenzioso. Gli risposi con una delle mie occhiate severe e chinandomi sui libri cercai di focalizzarmi sull'esercizio. La mente continuava a correre via, a impigliarsi in altri pensieri e preoccupazioni.

Mi appoggiai al palmo della mano, vagando con lo sguardo fuori dalla finestra. Il gelo di Detroit aveva coperto gli alberi con un leggero strato di neve e ghiaccio. Non era un clima tanto diverso da New York, eppure si respirava un'aria differente. Era come se il forte vociare della Grande Mela si fosse spento in un brusio leggero e sussurrato. Mi sentivo molto più esposta a me stessa, come se fossi costantemente davanti a uno specchio a osservare i miei difetti e le mie imperfezioni, ad accettarmi e perdonare le mie mancanze.

Questo posto dava l'idea di un luogo in grado di purificare anche le anime più sporche, quelle più nere. Al solo pensiero le dita mi corsero lungo la manica della camicia, pizzicando il tessuto del braccio sinistro. Nascosto lì sotto c'era un pezzetto del mio passato. Un passato nero fatto d'inchiostro, sangue, botte e imprudenza.

Non potevo biasimare i miei per avermi abbandonato qua, in fondo gli avevo dato da fare. Ero stata una figlia molto impegnativa.

Durante la mia adolescenza mi ero persa per strada. Avevo fatto scelte sbagliate e pericolose, frequentato gente per nulla raccomandabile e agito in maniera indecorosa.

Ero stata trascinata giù, sul fondo. Lo avevo grattato con le mani e mi ero fatta male.

Ero entrata in un brutto giro, in una banda di teppisti. Ero diventata cattiva, violenta. Ero diventata diversa, un'altra persona. Avevo scavalcato la soglia dei miei limiti e mi ero spinta sin dove mai avrei pensato di arrivare.

E poi... poi ero caduta giù, giù... ancora più giù. E la mano tesa che mi aveva salvato era stata quella di Adam che a dispetto di tutto si era fatto in quattro per tirarmi su, per riportarmi a galla.

Gli dovevo molto. Così tanto che a pensarci mi sentivo una stretta al cuore.

Mio fratello aveva perso anni preziosi di gioventù per prendersi cura di me. Era un debito che sentivo marchiato sulla pelle, come una bruciatura.

Con la coda dell'occhio guardai l'orologio appeso al muro e poi tornai a fissare curiosamente Claiton. I capelli ramati erano corti e ribelli, aveva due begli occhi verdi e a dire il vero non era nemmeno un brutto ragazzo.

Peccato che il suo carattere rovinasse tutto quanto. Gli bastava parlare anche solo un secondo per smontare subito lo stupendo castello che il suo bell'aspetto aveva con fatica costruito.

«O'Neil! O'Neil!» la voce di Mr. Groner s'infilò nel mio cervello come un fischio. Quando voltai la testa i miei occhi intercettarono i suoi, troppo vicini perché fosse ancora seduto al suo posto. Serrai le labbra trattenendo un grido di puro terrore, e forse anche di disgusto. Senza accorgermene, si era alzato e mi aveva raggiunto silenziosamente, peggio di un ninja. Vecchio ma pericoloso. L'alito fetido mi diede i brividi quando parlò: «Hai finito questi esercizi? Vedo che stai tergiversando.»

Mi stavo distraendo, sì. Aveva ragione. Continuavo a guardare fuori, a pensare ad altro, a imbottirmi la testa di vecchi pensieri. «Mi scusi, Mr.Groner. Mi ero bloccata a metà su questo esercizio.»

Il professore si sporse e sorrise, i denti gialli scintillarono un attimo, nascosti subito dopo dalle labbra sottili. Mi strappò il foglio dal banco e tornò verso la cattedra borbottando qualcosa. «Puoi andare, O'Neil.»

«Come? Davvero? Ma l'ultimo esercizio è incompleto.»

Mr.Groner sollevò lo sguardo dal foglio e mi fece un sorriso privo di emozione. «Va bene così... in fondo, questo argomento ancora non l'ho nemmeno trattato.»

Brutto figlio di...

Per un attimo fui tentata di mandarlo al diavolo poi realizzai che finalmente me ne sarei potuta andare da lì. La mia tortura era finita e... come si dice? Potevo andare in pace.

Fu una liberazione. Soprattutto perché quell'uomo sapeva essere una presenza veramente pesante.

Raccolsi quindi le mie cose, sistemai il banco a com'era prima e uscii senza guardarmi indietro. Mentre attraversavo la classe a passo spedito, Claiton mi lanciò una supplichevole occhiata da cerbiatto abbandonato. Mi trattenni veramente molto dal mostrargli il mio splendido dito medio: sempre un'ottima risposta a moltissime interazioni sociali.

«Mr.Groner potrei consegnare anche io?» lo sentii chiedere.

«Hai per caso finito, Claiton?»

Il viso dell'idiota assunse una bizzarra colorazione violacea. «Mi mancano ancora tre esercizi.»

L'inflessibile Mr.Groner non si scomodò nemmeno ad alzare gli occhi dalla rivista che aveva ripreso a leggere con quasi più zelo di prima. Anzi, il suo tono di voce uscì più annoiato del solito: «E allora te ne potrai andare solo una volta terminati.»

Fu con quell'ultima stoccata crudele che oltrepassai la soglia imboccando il corridoio. Ero libera. Con Claiton intrappolato ancora nelle fauci del mostro della matematica potevo perfino tirare un sospiro di sollievo. Il piccolo stronzo sarebbe stato trattenuto abbastanza da permettermi di svanire dal suo raggio d'azione.

Infilai rapidamente la roba nell'armadietto e sospirando lasciai roteare gli occhi al soffitto. Ero stanca. Stanca e assonnata. Matematica riusciva sempre a scatenarmi un effetto soporifero.

Il corridoio era vuoto. Mi metteva una certa tristezza. Il vociare della gente era svanito per lasciare posto a un gran silenzio che rendeva quel luogo ancora più ampio e dall'aria tutt'a un tratto spettrale. Mi passai le mani sulle braccia scacciando quella sensazione di disagio e poi lasciai scivolare le dita in mezzo ai capelli. Toccarmi i capelli era un vizio che avevo sin da bambina. Un gesto che riusciva a rilassarmi molto.

Il loro castano sembrava scurirsi nei mesi d'inverno, era un po' come se la mancanza del sole li incupisse.

Distrattamente cercai di sistemare la treccia. Me li legavo sempre in una treccia molto morbida, un po' perché erano estremamente lunghi e un po' perché amavo l'acconciatura che ne usciva. Era una delle poche cose femminili che sapevo fare.

Stavo per rimettermi in marcia verso l'uscita quando un rumore mi congelò sul posto: un ticchettare insistente, delicato ma costante. Proveniva da un'aula poco più avanti e si fermava di tanto in tanto per riprendere con più insistenza qualche istante dopo.

Mi guardai attorno furtivamente. Sembravo la copia mal riuscita di un ninja o dell'agente oo7.

Trattenendo il respiro mi avvicinai alla porta dell'aula e pregai con tutta me stessa che al suo interno non ci fosse niente di paranormale. A un fantasma non puoi certo dare un pugno.

Nell'attimo stesso però in cui mi affacciai e vidi chi vi era dentro mi sentii colpevole di quella scelta così avventata e sfacciata. Subito mi tirai indietro con il timore di essere stata vista.

Merda! E se mi ha visto? Forse farei meglio ad andarmene. Però, prima... potrei dare un'altra piccola sbirciatina. Piccola, piccola. Solo un secondo.

Restai ancora un attimo immobile, appiattita contro la porta, valutando se guardare di nuovo. Quando mi affacciai trattenni il respiro.

Mr.Lattner era seduto alla cattedra, chino su dei libri, probabilmente stava correggendo dei compiti. Le lunghe dita della mano erano distese accanto ad una pila di fogli. Aveva mani belle e curate, dall'aria delicata e morbida. Teneva una penna rossa a mezz'aria e ogni tanto scribacchiava qualcosa per poi picchiettarsela pensoso sulle labbra.

Era quello il rumore. Il rumore della penna che scontrandosi con le labbra finiva per toccare inevitabilmente anche i denti. Era un gesto involontario che ripeteva distrattamente.

Per un istante mi persi a guardare la sua bocca, seguendo la penna. Era carnosa e rosea, schiusa quand'era assorto e serrata quando annotava un errore.

Una vampata di caldo mi salì dal collo fino alle orecchie, fui costretta ad allentare il nodo della cravatta per respirare meglio. Osservarlo così mi sembrava troppo intimo, quasi peccaminoso. Rubargli quegli attimi di relax e solitudine mi dava l'idea di un'ingiustizia che non avrei dovuto commettere.

Schiudendo leggermente le labbra lasciai uscire un respiro tremulo. Mi sentivo strana. Mi sentivo il viso bollente e la gola secca.

Mr. Lattner si allungò sulla sedia, portando le braccia sopra la testa, stiracchiandosi con un leggero mugolio. Con due dita si strofinò gli occhi sollevando gli occhiali e un ciuffo di capelli sfuggì all'acconciatura ricadendogli sul viso fino a coprirgli un occhio. Lunghi, lisci e neri come il petrolio. Sembravano così morbidi che veniva voglia di infilarci dentro le mani.

Caspita! Ha capelli davvero lunghi. Ecco perché se li trattiene indietro sia con il gel che con la mezza coda. Chissà come dev'essere quando li lascia liberi. Chissà se perde quell'aria composta.

Una morsa allo stomaco mi obbligò a tirarmi indietro. Cercai di umettarmi le labbra secche e respirare.

Ma che diavolo sto facendo? Se scopre che lo sto spiando penserà che sono una di quelle miserabili che vuole dichiararsi. O una maniaca sessuale.

Eppure non ci potevo fare niente: ero curiosa. Quell'uomo emanava una strana e pulsante aura. In certi momenti dava l'impressione di essere un'incorreggibile e irrecuperabile tonto, impacciato nei movimenti e perfino buffo; in altri invece il suo sguardo sapeva congelarti, riusciva a innalzare in un attimo una cappa di tensione in grado di scoraggiare ogni tentativo goliardico. Composto, impostato, equilibrato.

Con la scusa di Beth lo avevo sempre osservato da lontano e non potevo negare che questa doppia personalità che ogni tanto lasciava trapelare lo rendeva davvero interessante. In ogni caso, da qualunque prospettiva lo si guardasse, Lattner era inaccessibile, inarrivabile.

Tornai a sbirciare.

Si era appoggiato con la guancia contro il palmo della mano, il gomito sulla cattedra. Lo sguardo rivolto fuori, un'espressione cupa dipinta in viso. Quelle pozze azzurre intrappolate dietro la tondeggiante montatura degli occhiali sembravano essersi svuotate.

Era così triste, così lontano.

Le mie dita si strinsero attorno all'anta della porta, trattenendomi dall'impulso di raggiungerlo e scuoterlo o abbracciarlo fino a stordirlo abbastanza da riportarlo lì, presente. Fu doloroso vederlo così. Sebbene non sapessi nulla di lui, conoscevo perfettamente quel genere di sguardo. Era l'espressione di chi ha perso qualcosa per strada, una parte di sé; di chi si sforza per mettere una maschera e andare avanti fingendo che tutto vada bene.

Cosa ti rende così triste Mr. Lattner? Cosa ti strappa via quel sorriso?

Strinsi più forte la presa, espirai. Sentivo il cuore pesante.

Era come se qualcuno con un colpo di spugna lo avesse pulito da ogni sentimento. Fissava fuori, nel cortile, le spalle strette e contratte, le dita serrate sulla penna rossa. Si morse le labbra e con la mano libera si riaggiustò gli occhiali sul setto nasale. Lo faceva spesso, anche lungo i corridoi.

Ehi, Mr.Lattner... dove sei? Dove sei finito?

Mia mamma mi faceva spesso questo gioco quando ero piccola, quando mi trovava sovrappensiero con lo sguardo perso chissà dove. Mi si avvicinava e scuotendomi delicatamente mi chiedeva: "Dov'eri finita Rob, eh? Dov'eri finita?". E la me bambina a quel punto iniziava a raccontare di infiniti mondi in cui si era persa a sognare.

Era un ricordo dolceamaro che riusciva a strapparmi un sorriso doloroso. Si era consumato da anni quel rapporto con mia madre, ora sembravamo due estranee. Ora non era più interessata a saper dov'ero.

Resistetti all'impulso di entrare come un tornado, di fargli quella domanda tanto personale e scomoda solo per il gusto di vederlo trasalire, di vedergli un'espressione sorpresa, viva, reale.

Meglio sorpresa che vuota. Meglio dolorosa e tangibile, anziché spoglia e morta.

Lo sapevo bene. Era una sensazione che vivevo sulla mia stessa pelle; ogni giorno, ogni secondo.

Chiusi gli occhi, li strinsi. Mi stavo appropriando di qualcosa di Lattner che non mi apparteneva. Un ritaglio del suo privato che non era concesso al pubblico.

Volevo smettere di guardarlo. Smettere di prendermi quella libertà. Eppure più si faceva strada in me quella decisione, più restavo ancorata lì a spiarlo. Era come se improvvisamente mi fossi avvicinata a lui, come se avessi conosciuto una parte di lui che nessun altro conosceva, come se le nostre anime ferite si fossero toccate per un breve istante.

Lasciando schioccare la lingua sul palato, Mr.Lattner sbadigliò. Fu un po' come vederlo svegliarsi da uno stato di trance. La sua espressione si ricompose, tornò dura, presente e impenetrabile.

Mi tirai un attimo indietro e imprecai mentalmente. Le guance mi scottavano e il cuore sembrava risalito in gola. Continuavo a respirare affannosamente, nemmeno mi fossi fatta due giri dell'istituto di corsa.

Quando tornai a sbirciare si era di nuovo immerso nelle correzioni, con una mano si massaggiò distrattamente il collo lasciandola scivolare sul colletto verso la cravatta.

Si allentò il nodo, passandosi la lingua sulle labbra.

Senza volere imitai il gesto. Non riuscivo a distogliere lo sguardo. Volevo ma non ci riuscivo. Aveva calamitato ogni mia attenzione. Era come se ci fossimo solo noi lì, al Missan College.

Avevo dimenticato Claiton, Mr.Groner, gli altri docenti sparsi nelle altre aule, gli altri studenti fermi a fare le attività extracurriculari. Eravamo solo io e lui. Io e lui.

È questo quello che provano le tue studentesse, Mr.Lattner? È questo il calore soffocante che riesci a provocare con un semplice e disattento gesto?

Tamburellando la penna sulle labbra segnò altri errori su un compito, sospirò, si mosse sulla sedia e portandosi la mano alla nuca si afferrò l'elastico della mezza coda per sciogliersi l'acconciatura.

Il tempo sembrò rallentare. Ancora aggrappata alla porta mi sporsi nell'aula per vedere meglio, con il petto premuto contro l'anta anche a rischio di essere scoperta.

Non capii bene il perché di quella mia reazione. Sapevo solo che volevo vederlo con i capelli sciolti. Volevo assolutamente vederlo spogliato di quella compostezza che ostentava ad ogni passo nell'istituto. Forse la mia era solo una curiosità morbosa, forse quel breve contatto che avevo sentito prima tra le nostre anime mi aveva dato alla testa. L'unica cosa di cui ero certa era che sentivo il battito del cuore martellarmi in gola, il viso in fiamme, le mani sudate e la salivazione assente. Il mio corpo era in completo tumulto e nemmeno riuscivo a spiegarne il motivo.

«Cosa stai facendo? Aspettavi me?» Una mano mi strinse la spalla, tirandomi indietro.

Una sensazione di panico e vuoto mi si concentrò alla base dello stomaco togliendomi il respiro e impedendomi di reagire come avrei voluto. Una volta, forse, sarei stata più scattante, più reattiva.

Attacca prima di essere attaccata. Colpisci prima di essere colpita.

La promessa ad Adam aveva in parte assopito la vecchia me. M'impegnavo così tanto per cambiare che probabilmente mi ero persa per strada. La vecchia Robin era sbagliata, quella nuova difettosa.

Claiton mi costrinse a girarmi verso di lui, sorridendo raggiante e con un pizzico di malizia. «Aspettavi me, O'Neil?» ripeté ancora, con voce troppo alta.

Se Mr.Lattner ci avesse scoperti, probabilmente avrebbe capito anche che lo stavo spiando. Non potevo permetterlo. Non sarei più riuscita nemmeno a guardarlo a debita distanza.

Con uno scatto tentai di liberarmi dalla presa di Claiton ma i miei movimenti concitati non fecero altro che aggravare la situazione. In un istante mi ritrovai intrappolata. Era riuscito a cingermi rapidamente la vita, bloccandomi le braccia lungo il corpo. Stringeva forte abbastanza da farmi male e a tratti spezzarmi il respiro. «Lasciami, Claiton. Giuro che ti ammazzo» gli sibilai vicino all'orecchio, cercando di non farmi sentire da Lattner. Il mio sguardo di fuoco si inchiodò al suo cercando di trasmettergli la mia rabbia. Ero furiosa. «Se mi lasci... ti prometto che potrai andartene da qui ancora vivo e sulle tue gambe.»

Quello che Claiton fece dopo riuscì a sorprendermi e al contempo turbarmi. Fu veloce e deciso, due prerogative che solitamente non gli appartenevano. Senza mezze misure mi sbatté contro il muro, il suo corpo premuto addosso, il suo viso troppo vicino. Avrei potuto liberarmene velocemente, anche una semplice testata avrebbe posto fine a quel patetico tentativo di adescamento. A frenarmi fu l'idea che poco lontano da noi, in aula, ci fosse ancora Lattner e che a pochi metri da lì, Mr.Groner fosse ancora a zonzo per l'istituto.

Inoltre, un passo falso ed ero fuori. Una macchia nella mia condotta e sarei stata rispedita a New York dai miei con un biglietto di sola andata.

Sta calma, Rob. Fa un respiro e cerca di non incazzarti. Non puoi picchiarlo, le risse non sono ammesse, sono severamente punite. Se lo fai attirerai l'attenzione dei professori e finirai nei guai. In grossi guai questa volta. E tu non puoi permettertelo, ricordi?

Digrignai i denti cercando di placare la mia parte violenta, quella che lui sapeva far emergere alla perfezione anche quando mi impegnavo con tutta me stessa di mantenere la calma. Espirai rumorosamente, fu quasi un ruggito bestiale.

«Bisbigliarmi all'orecchio in quel modo... sei così scorretta, O'Neil.» Il suo alito mi solleticò il collo.

Mi cercai di divincolare ma le braccia bloccate lungo il corpo erano così compresse dal suo peso che un leggero torpore mi si stava diffondendo dalla punta delle dita e, risalendo per tutta la lunghezza, stava iniziando a togliermi la sensibilità.

Sentivo il suo respiro veloce, troppo vicino. Il cuore gli scalpitava così forte in petto che rimbalzava contro il mio, scuotendomi. Con una mano mi accarezzò la guancia, passandomi il pollice sul labbro inferiore. «Stuzzicarmi così... quando fatico così tanto a tenermi a freno.»

Non mi diede tempo per ribattere. Non mi diede tempo per reagire. Fu fulmineo. Si avventò contro il mio viso con uno sguardo allucinato. Mi trovai impreparata a tutto questo. Per me Claiton era il classico babbeo capace di grandi parole ma di pochi fatti, non avrei mai creduto fosse disposto a scendere a un così infimo livello umano pur di ottenere qualcosa da me.

Dannazione, no! Cazzo, no!

L'istinto di indietreggiare mi fece colpire il muro con la nuca, abbastanza forte da provare dolore. Girai il viso di lato e chiusi gli occhi. Fu tutto troppo veloce per trovare una soluzione che non lo facesse finire dritto all'ospedale. E io, se l'avessi colpito, avrei potuto dire addio al Missan College.

Ma ero davvero disposta a ricevere un bacio da quel viscido bastardo pur di non essere espulsa? A quanto pare, sì.

Strinsi gli occhi, imprecai e attesi.

Baciami pure, stronzo! Appena mi liberi ti farò rimpiangere di essere nato con un cazzo tra le gambe!

Non qui al Missan, no. Ti trascinerò fuori da scuola e sfogherò ogni briciolo di rabbia repressa su quel visetto di merda che ti ritrovi.

Ricorderai per sempre gli insegnamenti della vecchia Robin O'Neil!

Lo schiocco del bacio risuonò in tutto il corridoio eppure le sue labbra non raggiunsero mai la mia bocca, né altre parti del mio corpo.

Aprendo prima un occhio e poi l'altro mi guardai attorno per capire cosa stesse accadendo e sincerarmi che in realtà non fosse tutto frutto della mia fantasia o magari qualche suo scherzo crudele.

Un libro di matematica si era interposto tra le nostre teste e Claiton a quanto pareva, sembrava aver baciato proprio quello.

La mano di Lattner lo teneva ancora a mezz'aria. Sorrideva gentilmente, con quell'aria bonaria e affabile, eppure quel sorriso era così vuoto da sembrare agghiacciante. Da dietro le spesse lenti degli occhiali, quegli occhi di un azzurro ghiaccio erano fissi inchiodati su di noi.

Claiton mi lasciò di scatto, impallidendo come trafitto da mille frecce.

«È tutto a posto, vero?» Era la prima volta che sentivo Lattner parlare. Nella mia testa mi ero fatta strane idee sulla sua voce, avevo immaginato qualcosa di basso, erotico, delicato.

Invece era dura, fredda, decisa. Gli era uscita dalle labbra come una lama, così potente da scuotermi l'animo e farmi sentire le gambe molli come un budino. Nonostante non fosse minimamente come me la fossi immaginata, il cuore iniziò a battermi con forza in petto.

Non era bassa, non era roca, non era delicata eppure... era così erotica da seccarmi la gola.

Deglutii cercando di scusarmi ma dalla bocca non mi uscì nemmeno un suono e tutto ciò che potei fare fu fissarlo come un ebete.

«È tutto a posto, vero?» ripeté, il tono più basso, lo sguardo puntato su entrambi, il sorriso vuoto e dannatamente spaventoso a illuminargli il viso perfetto.

Sembrava uno di quei sorrisi astuti, sleali. L'aura che emetteva mi faceva venire i brividi, come se trasudasse pericolo.

Cosa sei, Mr.Lattner? Sei un semplice e gentile docente o qualcosa di più pericoloso?

Quale tormento si nasconde dietro quel gelo incastrato nei tuoi occhi?

Distesi le mani contro la parete, allargando le dita contro il muro. Cercai di respirare, di riprendere la sensibilità del corpo intorpidito. Mi limitai ad annuire.

Lattner ritirò il libro e posò la mano libera sulla spalla di Claiton che sgranò gli occhi e fissò il professore nervosamente. La sua espressione spaventata fu appagante. «Sai... cercavo proprio un aiuto come te» il tono di Mr.Lattner era gentile, il sorriso anche, eppure sembrava una proposta che non si può rifiutare. «Aspettami qui... prendo alcune cose e poi andiamo in libreria. Ho bisogno della tua intraprendenza e della tua forza.» Mollò la presa di slancio tanto che Claiton barcollò sul posto poi si voltò in mia direzione e sorrise. Un altro sorriso vuoto. «Per te invece sarebbe il caso di andare... non credi?»

«S – sì... la ringrazio» fu tutto ciò che riuscii a dire.

Lattner sparì dietro la porta infilandosi nell'aula e solo in quel momento la tensione mi scivolò via e tornai a respirare di nuovo normalmente.

«Mette i brividi quel tizio.»

La vecchia me riaffiorò in un attimo. Sentire Claiton parlarmi con così tanta disinvoltura dopo ciò che era successo mi mandò su tutte le furie. Mi guardai un secondo attorno e poi lo afferrai per la giacca e tirandolo verso di me gli impiantai un pugno nella bocca dello stomaco. Rimase pietrificato dalla mia reazione e accusando il colpo con un gemito si piegò in avanti, rantolando e cercando di respirare.

«Fallo ancora un volta, Claiton... fallo ancora un'altra volta... e ti assicuro che mirerò molto più in basso e con molta... molta più forza. Capito?» Lo mollai di scatto, osservandolo crollare in terra ancora con il respiro spezzato e le mani chiuse sullo stomaco. Aveva il viso rosso e gli occhi spalancati come due palline da ping pong.

Non mi fermai ad assisterlo, né lo salutai. Percorsi il corridoio senza nemmeno voltarmi, sperando che Lattner finisse ciò che io avevo lasciato incompleto.

Questa volta era andata così, alla prossima non sarei stata tanto clemente. 

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