14 - COS'E' L'AMORE?

Era stato un pomeriggio devastante su tantissimi fronti.

Takeru era venuto come promesso ad aiutarmi a imballare le cose. Non ci avevamo messo molto in realtà. La mia vita era entrata comodamente in otto scatoloni. Sembrava tutta stretta lì, niente di più niente di meno.

Quell'appartamento sembrava un po' come me: spoglio, con i sentimenti imballati e pronti per essere spostati altrove.

Però un oggetto ci aveva portato via molto tempo. Eravamo rimasti a guardarlo per ore e alla fine, avevo raccontato a Takeru ogni cosa del mio passato. Da quando ero piccola a quando ero entrata nella banda degli Scorpion e ne ero diventata capo e infine, a come la mia vita da teppista era andata a rotoli.

E soprattutto, il motivo per cui ero lì al Missan College.

Takeru era rimasto in silenzio tutto il tempo. Aveva ascoltato senza fermarmi e poi mi aveva abbracciato. Aveva fatto qualcosa che prima d'ora nessuno aveva mai fatto: dirmi che era tutto okay, che potevo abbassare la guardia, che non era colpa mia... non tutta per lo meno.

E così, per la prima volta dopo anni, mi ero concessa il lusso di piangere su qualcuno.

Non mi ero lavata via quella macchia, no di certo... però una piccola parte di me aveva trovato pace. Una pace che aspettavo da tanti anni e che mi era sempre sembrata un lontanissimo miraggio.

Quando ci eravamo separati, a sera inoltrata, mi ero sentita inspiegabilmente bene. Leggera.

Avevo dormito per la prima volta senza fare incubi e seppur piccola, per me era stata una grande vittoria.

Era il primo a cui ne parlavo oltre la mia famiglia. Il primo a cui avevo raccontato la mia versione dei fatti. Una versione a cui non aveva creduto nemmeno la polizia.

E invece Takeru lo aveva fatto. Lui mi aveva creduto e mi aveva perfino dato parole di conforto.

Ero fortunata ad averlo incontrato sul mio cammino. Per una volta tanto, le risse mi avevano dato indietro qualcosa che non fosse solo uno squarcio nell'anima e lividi sul corpo.

Fu la suoneria del cellulare a riportarmi con i piedi per terra. Lanciai un urlo epico che fece sobbalzare una vecchia signora che mi camminava a fianco e d'impulso mi spostai lateralmente come se cercassi di schivare un colpo invisibile. E questo già dovrebbe farvi capire il mio livello di tranquillità.

Quando il mio cervello tornò a galleggiare al suo posto, afferrai con mani tremanti il diabolico aggeggio e risposi: «Pro - pronto?» Avevo ancora le palpitazioni.

«Rob? Tutto okay?» la voce di Takeru mi raggiunse dall'altra parte della cornetta preoccupata come al solito.

«Sì, sì... ero sovrappensiero e la suoneria mi ha fatto prendere un colpo.»

Rise. «È tutt'oggi che sei tesa come una corda di violino. A scuola non facevi altro che controllare istericamente l'ora.»

E ci credo... oggi, anzi, ora... ho appuntamento con Lattner.

Abbassai lo sguardo e fissai il gigantesco borsone che ancora non avevo mollato. Stringevo le maniglie così forte che mi avevano lasciato un solco nel palmo. Dire che ero agitata era un eufemismo, dire che mi stavo cagando addosso invece era poco principesco... eppure, descriveva perfettamente la mia condizione attuale.

«Sono nervosa. Così nervosa che potrei fumarmi un'intera stecca di sigarette.»

«Stai fumando?»

«No... ma ti pare?» La sigaretta mi penzolò dalle labbra, aspirai una boccata e fissai il cielo limpido. «Non sono affatto alla mia decima sigaretta di fila, proprio no.»

«Lattner sarà felicissimo di sapere che ha affittato la camera a una ciminiera.»

D'impulso gettai il mozzicone in terra e lo schiacciai con le scarpe da tennis.

Dannato, giappo-coso! Perché devi sempre aver ragione? Non puoi tacere? Non puoi lasciarmi crogiolare ancora un attimo nel potere della nicotina?

Perché devi costringermi a sfogare la mia frustrazione in altri modi? Insomma... non è facile trovare qualcuno da seviziare... così, in soli dieci minuti.

Forse se avessi chiamato Claiton si sarebbe addirittura offerto volontario. Sì, in fondo a qualcosa poteva essere utile quel piccolo viscido ammasso di testosterone ambulante.

No, Rob... non lasciare a briglia sciolta la tua vena sadica. Placa il demone che è in te e fa un respiro profondo.

Un respiro profondo. Profondo.

Sbuffai. «Non fumerò in casa, se è questo che ti turba.»

«Credo sia la mia preoccupazione minore.» Se quella mattina io sembravo una povera pazza isterica, lui invece aveva tutta l'aria di uno a cui hanno appena chiesto di fare bungee jumping... sì, certo... senza corda.

Spostai il cellulare sull'altro orecchio e ricontrollai il mio abbigliamento con una fugace occhiata: mi ero comprata una tuta nuova e un cappellino nuovo. Sembravo un acerbo, giovane sfigato nerd. Era perfetto.

«Hai pensato a come esordire?»

«Tipo bussando alla porta?»

«Cavolo... pensavo ti saresti calata nella tua camera dalla finestra... come ho potuto non pensarci prima.»

Risi. «Penso che busserò e resterò in silenzio a morire sulla soglia.»

«Questo sì che è un piano decente.»

«Vero?»

«Già, soprattutto visto che sei in ritardo.»

«Cosa?» gridai, facendo latrare terrorizzato un piccolo cagnolino al guinzaglio col padrone. Il proprietario mi fissò con ferocia e carezzò la testa del proprio peloso. Come biasimarlo, in fondo ero io la psicopatica che gridava in mezzo a un marciapiede. «E non mi dici niente?»

«Pensavo te ne fossi accorta.»

«E secondo te, stavo ancora qui a parlarti?» Serrando la presa sul borsone iniziai a correre.

Non ero molto lontana da casa di Lattner ma, diamine, ero già in ritardo di dieci minuti.

Insomma, al primo incontro mi presentavo con un quarto d'ora di anticipo e al secondo ritardavo altrettanto? Sembravano non esistere mezze misure con me.

E poi non volevo presentarmi sudata come un suino.

«Take, devo proprio andare» ansimai, mentre inchiodavo proprio ai piedi del condominio. «Dimmi che andrà tutto bene, che Lattner non si accorgerà che non ho un pene e che sarò perfetta nelle mie vesti di Robert.»

Lui esitò un attimo. «Oh, certo... e - ecco, sarai un finto Robert perfetto.»

«Takeru» lo rimproverai. Sentivo chiaramente dal suo tono di voce che stava partendo per laidi mondi pieni di scie chimiche, cerchi nel grano, alieni e ovviamente scenari apocalittici.

Si diede un contegno schiarendosi la voce con un colpo di tosse. «Sono certo che te la caverai come sempre alla grande... insomma, tu sei Robin O'Neil, no?»

Sistemai imbarazzata il cappellino, dando un goffo colpo alla visiera. «Grazie, Take. Sei come sempre un tesoro» borbottai.

«Stu - stupida!» Riagganciò prima che potessi rispondergli a tono.

Inspirai, espirai, maledii il mondo. Bene, ero pronta. Più o meno.

Strinsi la presa sul borsone e macinai gli ultimi metri che mi separavano dalla nuova casa. Il gigantesco condominio era sempre lì, enorme e spaventoso come l'ultima volta in cui ci ero entrata. O forse era solo una mia impressione.

I rumori del traffico e della città sembravano essersi dispersi, l'unico suono che sovrastava ogni cosa era il battito del mio cuore che scandiva i miei passi come una marcia funebre.

Salii il cordolo di scale esterne e percorsi tutto il corridoio aperto fino a raggiungere la porta. Nessun cognome, solo un pulsante da suonare. Era singolare questa scelta di Lattner, come la smodata ricerca di un po' di quiete... o il segreto desiderio di non essere trovato.

Bene, siamo qui... io e te, Robert. Non sono riuscita a farti avere un vero pene ma... giuro che questa casa tenterò di tenermela stretta con tutte le mie forze.

Appoggiai la borsa a terra, strofinai i palmi sui pantaloni della tuta e suonai.

Mr. Lattner venne ad aprire un attimo dopo: i capelli sciolti, gli occhiali ovali, l'abbigliamento comodo e da casa. Era in tutto e per tutto il sogno erotico di ogni scalpitante studentessa della Missan. E io ero lì, ad ammirarlo in silenziosa soggezione, a prendermi quello spettacolo gratis senza nemmeno potermi permettere il lusso di un'ovazione come si deve.

«Ehi, Robert. Finalmente sei arrivato.»

Robert. Già. Proprio io.

Sembro un fottuto psicopatico che nasconde la sua doppia vita. Clark Kent e Superman. Bruce Wayne e Batman. Peter Parker e Spiderman. Antonio Banderas e Zorro... chiaro, no?

Passare da Tornado a Rosita deve essere stato un trauma... povero Banderas.

Mi pizzicai la visiera del cappellino, tenendo la testa china. Non potevo permettermi di guardarlo troppo a lungo negli occhi. Ed era uno spreco non poterlo fare, non poter ammirare quella bellezza per più di qualche attimo.

«Hanno già portato tutta la tua roba» aggiunse, aprendo del tutto la porta per lasciarmi passare.

Abbassai la mano per prendere il borsone ma lui fu più veloce di me. Le nostre dita si sfiorarono per un solo istante ma bastò per sentire una scossa elettrica diramarsi da quel tocco a tutto il corpo. Mi ritrovai ancora immobile sull'uscio, paralizzata e senza salivazione. Il respiro incastrato in gola che sgomitava con un cuore che andava troppo forte.

Era assurdo come un gesto tanto banale riuscisse a farlo accedere ad angoli tanto imbarazzanti della mia mente, conficcandosi in quella mole di sentimenti impolverati e smuovendo pericolose reazioni.

«Gra - grazie» farfugliai osservando la sua schiena che si allontanava con la mia roba.

Con un movimento deciso mi pizzicai con forza un fianco, cercando di riattivare il mio corpo ancora imbambolato sulla soglia.

Muoviti, dannazione! Sei Robert ora. Hai un pene ora, ricordi? Comportati da uomo.

Entrai nell'appartamento con le gambe tremolanti come un budino e l'impressione di essere in procinto di vomitare il pranzo e tutto il cibo mangiato negli ultimi diciotto anni di vita. Lattner aveva questo strano effetto su di me: il vomito. Come me lo stimolava lui, nessuno mai.

Il mio stomaco si torceva come un nido di serpi, contraendosi dolorosamente fin quasi spezzarmi il respiro.

«Ti ho già messo gli scatoloni in camera, spero non ti dispiaccia.»

«No, grazie. Sei stato molto gentile.» Parlare con la voce da maschio era un grosso problema. La gola bruciava e a volte mi uscivano tonalità bizzarre. Lattner non sembrava prestarci troppa attenzione e questo mi faceva sperare che ancora non sospettasse nulla.

Lo seguii in camera come un cagnolino. Sembravo una maniaca. Con lo sguardo bevevo ogni suo movimento. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso.

Era molto diverso da com'era a scuola, molto più semplice e meno costruito. Eppure al Missan preferiva indossare quella maschera ed era un mistero il perché privasse tutti di quella splendida spensieratezza che trasudava solo tra queste mura.

«Sei ancora uno studente, vero?» appoggiò il mio borsone sul letto e si voltò a guardarmi.

Per un attimo avevo sperato mi abbandonasse lì, a riordinare pensieri e cose; invece voleva fare conversazione spicciola e io ero la persona meno indicata per qualcosa di simile. Soprattutto con lui. «Ehm, sì. Studio e lavoro.»

«Fai il primo anno del college, vero?»

«Già.»

Ti prego divinità protettrice degli otaku, fa che non mi chieda in che college vado... fa che non si impicci troppo.

«Anche io vado ancora a scuola... più o meno.» Rise e per un attimo sentii le orecchie fischiare come un controllore che annuncia la partenza del treno. Con ogni probabilità tutti i litri di sangue presenti nel mio corpo si erano raggruppati stretti stretti nella mia faccia. «Sono un professore di matematica» aggiunse.

«Il mio peggior incubo» dissi d'istinto e subito me ne pentii. Mi morsi la lingua e sbirciai la sua espressione da sotto la visiera del cappellino.

Immaginavo una faccia delusa o qualcosa di simile, invece Lattner sorrideva. «Vorrà dire che ti darò lezioni private.»

Per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva.

Iniziai a tossire così forte che risucchiai l'aria con un fischio, costretta a sorreggermi al bordo del letto.

Nella mente passarono i più deplorevoli, impensabili e osceni scenari possibili. Scossi il capo con violenza sperando che il cervello si ossigenasse e presi una boccata di respiro.

Maledetta Robin. Maledetta te e i tuoi ormoni adolescenziali. Hai forse dimenticato che entrata da quella porta non sei più Zorro ma solo Antonio Banderas?

«Tieni.»

Sollevai lo sguardo fissando il bicchiere che mi stava porgendo come se mi avesse appena posizionato sotto il naso un piatto di cavallette fritte. Era stato veloce e premuroso e questo non fece altro che aumentare il mio imbarazzo. Fui costretta a distogliere lo sguardo per qualche secondo prima di accettare quel bicchiere.

«Gra - grazie.» Quando lo strinsi, la mano mi tremava terribilmente.

Sorseggiai senza alzare gli occhi. Sentivo lo sguardo di Lattner bruciarmi la pelle, affondarmi i vestiti, spogliarmi.

Seduta su quel nuovo letto mi sentii fragile come cristallo. La sua presenza destabilizzava tutto il mio mondo. Ero sempre stata certa di una cosa: Robin O'Neil non sarebbe mai capitolata ai piedi di un uomo. E invece, a Lattner bastava un bicchiere d'acqua per mettermi a tappeto.

«Sai, mi hai salvato.»

Lo fissai. Si era spostato verso la finestra, aveva scostato le tende e guardava fuori. Il sole del tardo pomeriggio gli carezzava la pelle rendendolo se possibile ancor più bello. Guardarlo a quella distanza così ravvicinata era doloroso, un po' come quando alzi gli occhi per guardare il sole ma dopo un po' scotta. Forse nemmeno si rendeva conto dell'effetto che poteva fare.

Strinsi forte il bicchiere e deglutii. Sarebbe stato difficile vivere con lui, impegnarsi per guardarlo senza fantasie annesse o senza arrossire. Takeru aveva ragione, forse questa cosa era troppo più grossa di me.

«In che senso?» domandai, con un briciolo di coraggio. Non era da tutti i giorni salvare un tipo come lui.

«Ero quasi sul punto di accettare un'indecente proposta di un mio amico.» Si voltò e rise. «Ma per fortuna ho trovato te. Meglio così, abitare con quel soggetto mi avrebbe mandato dritto al manicomio.»

Sghignazzai. Era difficile credere che gli amici di Lattner fossero tanto diversi da lui. Non riuscivo a immaginare un tipo casinista o turbolento al suo fianco. Mi aveva sempre dato l'idea di una persona posata con una cerchia di conoscenze altrettanto posate ed equilibrate. «Quello prima di me per lo meno era tranquillo?»

Lattner si passò una mano nei capelli, scoprendo le orecchie.

Sobbalzai coprendomi la bocca con la mano, trattenendo un gemito di pura sorpresa. Il cuore mi risalì in gola con un balzo e mi trovai in un istante con lo stomaco sottosopra. Fu una rivelazione inaspettata.

Ma che diavolo... no, non ci credo. Non un tipo come lui. Non un soggetto così quadrato e contenuto.

Piercing. Pieno zeppo di piercing. Aveva le orecchie disseminate, perfino dei modelli più strani, perfino nei posti più bizzarri. Era come uno scorcio di chaos su una camera ben ordinata. Fu una scoperta che mandò in pappa l'idea di uomo composto ed equilibrato che mi ero fatta di lui.

Allora anche Lattner aveva un lato ribelle, da ragazzino. Improvvisamente mi sembrò tutt'altra persona da quella che vedevo camminare per i corridoi del Missan tutti i giorni. Riusciva a far combaciare quella fredda perfezione con questa calda e accogliente giovinezza che me lo faceva sentire più vicino.

Era un po' come se le distanze tra noi si fossero assottigliate, tutto per merito di una manciata di piercing.

Sorrisi, chinando la testa con imbarazzo. Ora capivo anche il motivo dell'acconciatura castigata che teneva a scuola.

«Il mio migliore amico? Oh, sì... lui era un tipo a posto. Abbiamo convissuto fin dai tempi del college.»

«Oh, e poi?» Forse non voleva parlarne e mi stavo solo impicciando dei suoi affari. Era abbastanza scortese fare domande sin da subito, senza nemmeno aver fatto una chiacchierata come si deve ed essere entrati un po' in sintonia. Mi tappai la bocca mettendo a freno la mia curiosità, non volevo sembrare invadente.

Lui non sembrò turbato da quella domanda, sorrise. «E poi si è sposato il mese scorso.»

«Per fortuna nulla di brutto.»

«Ah, perché... non è qualcosa di brutto sposarsi?»

Cosa? Che? Vuoi forse dirmi che non credi nell'amore? Che crudeltà è mai questa?

Aprii la bocca per ribattere con qualche frase banale e forse ovvia sul vero amore ma lui mi precedette, scoppiando a ridere. «Tranquillo, Robert... non fare quella faccia sconvolta, sto scherzando. In verità credo molto nell'amore. È solo che... è molto difficile trovare quello vero, non credi?»

Ero seduta sul letto di una camera spoglia a parlare di amore con Lattner, il più bel professore del mio istituto e anche il più bell'uomo che i miei giovani occhi avessero mai incontrato nella loro breve vita.

L'impressione che avesse vissuto una storia crudele e senza lieto fine sembrò tanto palpabile e concreta che fui costretta a mandar giù un boccone amaro. «A volte lo dipingono come qualcosa di idilliaco, profondamente poetico e sentimentale, romantico e assolutamente piacevole. In realtà, io credo che l'amore sia difficile, una lotta continua, un continuo amarsi e odiarsi ma anche combattere per degli ideali comuni.» Presi fiato. Le parole rotolarono fuori come in caduta libera. «Amare non è qualcosa di semplice. Non è qualcosa fatto solo di momenti felici e risate. Amare è anche sofferenza.» Tacqui, imbarazzata.

Ma sei idiota, Rob? Ma che diavolo ti salta in mente di uscirtene con queste idee mielose da ragazzina?

Che diavolo ti dice il cervello, eh? Perché tacere ti è così difficile piccola idiota che non sei altro?

Lattner annuì pensoso. Sembrò colpito dalla mia personale idea dell'amore. «Non è un po' presto aver queste idee così razionali dell'amore alla tua età?» Camminò per la stanza fino a raggiungermi, si fletté sulle gambe abbassandosi abbastanza da potermi guardare dritto negli occhi. «Sono certo che troverai anche tu l'amore che cerchi, Robert. Non essere impaziente nella ricerca... a volte la persona che ci ama è inaspettatamente vicina.» Con due dita pizzicò la visiera del mio cappellino, la trattenne un attimo e sembrò che da quel tocco indiretto il mio corpo prendesse fuoco.

Così vicino. Così tremendamente vicino.

Profumava di pulito, di bucato appena fatto. L'odore si estendeva come un elastico fino ad accarezzarmi il viso. Esalai un respiro tremulo e un dolore tenue s'irradiò dallo sterno, costringendomi a deglutire.

La massa di capelli lisci e voluminosi sembrava morbida e carezzevole. Doveva essere un'esperienza unica poterci infilare una mano dentro e distenderne le ciocche tra le dita.

Thomas socchiuse brevemente gli occhi, le ciglia lunghe sfarfallarono contro il vetro degli occhiali. Dischiuse le labbra e non potei far altro che inchiodare le mie attenzioni su quella carnosa bocca rosea, invitante e dall'aspetto tenero come una pesca. «Però su una cosa hai ragione: amare è difficile. A volte è un atto di coraggio stare al fianco di una persona per tutta una vita... accettando i lati migliori ma soprattutto quelli peggiori. Capisci cosa voglio dire, no?» Si passò la lingua sulle labbra, aspettando una mia risposta.

«Cre - credo di sì. Amare è condividere tutto, sia in bene che in male: affrontare gli ostacoli della vita insieme, superare le difficoltà e i dissapori. Forse, amare veramente... è qualcosa per pochi... molti si accontentano di un amore superficiale, approssimativo.»

Le dita di Lattner scivolarono dalla visiera a un mio ciuffo, i polpastrelli indugiarono un attimo contro la pelle delle mie guance. Non staccò lo sguardo dai miei occhi, come se cercasse di trasmettermi un silenzioso messaggio. Restai focalizzata sulle sue labbra, un brivido freddo mi scivolò lungo la schiena facendomi fremere.

Deglutii.

C'era qualcosa di malsano in quelle fugaci occhiate che rubavo, in quelle brevi immagini ravvicinate di lui che mi imprimevo nella testa.

L'impulso di toccarlo, di carezzargli il viso mi fece trasalire.

Serrai i pugni e mi costrinsi a distogliere lo sguardo. Ero un libro aperto e in quel momento non potevo permettere che mi si leggesse in faccia quella smaniosa curiosità di toccarlo.

Malsana e insensata fra l'altro.

Non era da me, non ero quel genere di ragazza. Non mi lasciavo governare dalle emozioni, non permettevo che prendessero il sopravvento.

Lo avevo imparato a mie spese quando ero stata a capo degli Scorpion: agire preda dei propri sentimenti ti trasformava in una preda debole e facilmente soverchiabile.

Mi sollevai di scatto costringendolo a imitare il mio movimento e gli spinsi contro il petto il bicchiere vuoto prendendo una boccata d'aria. Sentivo il petto bruciare, le gambe tremare ed ero sicura che il mio viso fosse molto prossimo a un'esplosione nucleare. Dovevo andarmene. Dovevo scappare da lì. «I - io devo andare al lavoro.»

Ero lì fingendomi qualcun altro, raccontandogli bugie una dietro l'altra e mettendo in pericolo non solo me stessa ma anche la sua carriera. In realtà, ero deplorevole. Non meritavo la sua cortesia, né la sua gentilezza o la sua disponibilità. Non meritavo quello sguardo.

«Cosa? Ora?»

«Ora. Sì, subito. Ora.» Afferrai il borsone e poi mi ricordai che non c'era altro posto dove scappare. Non avevo una casa dove correre a rintanarmi. Quella era la mia casa. «Già, già. Sono proprio in ritardo.» Mollai la presa. Inutile portarlo al lavoro.

Lattner mi tallonò per tutto il corridoio mentre schizzavo verso l'uscita come un bolide. «Tornerai per cena, vero?» mi chiese, afferrando la porta mentre l'aprivo di scatto dopo aver indossato le scarpe. Non le avevo nemmeno allacciate.

«Oh, no... mangio al lavoro. Faccio servizio in un ristorante che si chiama Joily.»

Il suo viso si illuminò, annuì. «Ma certo, lo conosco. È proprio qui vicino.»

«Già, già. Bé... grazie mille della chiacchierata Mr.Lattner ma... ora devo, ecco... devo proprio... sì, ecco... insomma...»

«Andare a lavorare?»

Gli puntai un indice contro, annuendo frenetica. «Esatto. Esattamente. Proprio così, bravo.»

Rise. «Allora buon lavoro, Robert.»

Feci un cenno col capo poi mi dileguai oltre la soglia. Lo sentii richiudere la porta e solo allora lo stomaco sembrò allentare la morsa di disperazione in cui si stava contraendo.

Mi aggrappai al cornicione in muratura del balcone e un fremito mi scosse fino a farmi espirare rumorosamente. Ero stata stupida ad aver anche solo pensato che funzionasse. Non avrebbe funzionato proprio per niente. Sarebbe stato un disastro, un completo disastro.

«Per fortuna che ho tirato fuori la scusa del lavoro» biascicai a denti stretti, infilandomi una sigaretta tra le labbra.

Qualcosa nel mio cervello si incrinò e si ruppe. Lo sentii chiaramente quel crack che spezzò a metà il mio cranio per guardarci dentro e verificare che merda avevo al posto del cervello. Perché non poteva essere altrimenti... la mia testa era imbottita di merda.

La sigaretta mi cadde di bocca, sussultai.

Il lavoro. Cazzo.

Gli ho detto dove lavoro.

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