12 - IL COLLOQUIO
«Ti avrei voluto vedere per primo» si lamentò Takeru al di là della cornetta.
Mi bloccai davanti a una vetrina e fissai la mia immagine riflessa. Mi ero tagliata i capelli da un paio di ore e ancora non riuscivo a crederci. Continuavo a sbuffare insoddisfatta spostando il ciuffo da una parte all'altra della fronte, a malapena mi arrivava alla guancia. Da lunghi che li avevo, ero passata a un taglio drastico molto maschile. Inoltre sentivo freddo al collo, erano talmente corti che rimaneva scoperto, vittima di ogni spiffero d'aria. Sotto dicembre forse non era stata tra le mie idee più brillanti.
«Ti stanno male?» la voce di Takeru mi strappò dalla mia attenta analisi critica. Ormai lo avevo capito: aveva una leggera ossessione per i capelli.
«No, non direi.»
«E allora che cosa non ti convince?»
Quel taglio mi faceva fare un tuffo nel passato, riportandomi ai tempi degli Scorpion quando i capelli corti erano una regola della banda: fare a botte con i capelli lunghi poteva trasformarsi in una mossa davvero stupida.
Ve li hanno mai tirati durante una rissa?
Ci passai una mano in mezzo e rimisi il cappello con la visiera. Indossavo la tuta di Takeru e avevo preso anche degli occhiali dalle lenti senza gradazione. Complessivamente sembravo un ragazzo dai tratti femminei, forse avrei potuto anche farcela a farmi scambiare per un maschio.
Un leggero moto d'ilarità mi fece curvare le labbra in un sorriso sghembo che trattenni serrandole. Se già mi veniva da ridere ora, non volevo immaginare a breve, al colloquio con il coinquilino.
«È solo che... non ci ho fatto ancora l'occhio. Inoltre, questo taglio mi ricorda tempi poco piacevoli.»
«Bé, dopo oggi gli darai sicuramente un nuovo significato, no? Potresti intitolarlo "Il taglio di quando ero un uomo"»
Risi. «Non è male come idea.»
Takeru tacque per un lungo momento prima di riemergere da quel silenzio. Per un attimo pensai fosse caduta la linea. «Comunque... ricordati di mandarmi una foto quando chiudiamo.»
«Dannazione, Take... è la quinta volta che me lo dici. Ho capito! Ti manderò una dannatissima foto, giuro.»
La sua risata, così leggera e spontanea, riuscì ad alleggerire la tensione che sentivo crescermi dentro. Cercavo di non pensarci ma più si avvicinava il momento del colloquio, più oscillavo tra la disperazione, l'ansia e l'isteria. In realtà, la mia paura maggiore era quella di fare un gran casino. L'idea di sbagliare o essere scoperta mi terrorizzava.
Era un po' come avere un unico colpo in canna. Una volta sparato quello, eri nella merda.
«Come ti senti?»
Eh, bella domanda!
«Vuoi la verità? Mi sento come se stessi andando a un colloquio di lavoro: tesa, inadeguata ed eccessivamente inesperta.» Pizzicai con due dita la visiera del cappello. «Mi viene anche da vomitare. E credimi, non sarà bello se appena mi apre la porta gli vomito in faccia.»
Lui rise. «Vedrai che andrai bene. Sei qualificata al punto giusto per essere un'ottima coinquilina e se gli vomiterai addosso... ti prego, fai un video per me. Non posso perdermi una cosa del genere.»
Cercai di trattenere la risata ma anche con una mano sulla bocca il rumore echeggiò per tutto il viale. Alcuni passanti si girarono per guardami. «Sei proprio un cretino.»
«Un giappo-cretino o un cretino e basta?»
Risi. Sapeva sempre prendermi nel modo giusto. Era come se mi conoscesse meglio di quanto mi conoscessi io. Gli bastavano poche parole per risollevarmi l'umore o rassicurarmi. Anche se era più teso di me, anche se veniva corroso dall'angoscia e dalle paranoie, riusciva sempre a trasmettermi un senso di tranquillità. Era strano, però Takeru aveva un bizzarro effetto calmante su di me.
«Ehi, è tutto okay?»
Ancora. Era così intuitivo che a volte mi inquietava. Anche se non mi aveva di fronte era riuscito a captare quella nota stonata che non era uscita dalle mie labbra, incastrata in gola insieme al vomito che tenevo da parte per il colloquio e alla tensione che mi correva nella pancia come un criceto sulla ruota.
«Sì... ma certo... sì. Circa...»
«Robin.»
Sghignazzai. Quando usava quel tono e il mio nome per intero voleva dire che stava cercando di fare il serio. «In realtà, ho paura che... che il travestimento non regga e... insomma, non ho altre alternative a questa. Purtroppo non ho trovato altre offerte per le mie tasche e-» non riuscii a finire la frase. Mi tremò un po' la voce. Forse era la prima volta che mi mostravo fragile con qualcuno. E sapevo di poterlo fare con Takeru. Sapevo che lui era la mia mano tesa ma non volevo preoccuparlo inutilmente.
«Non ti lascerò tornare a New York, Rob» disse lui, di getto. «Farò tutto ciò che è in mio potere per tenerti qui. Farò di tutto, ecco. Non – non ti libererai di questo giapponese tanto in fretta.» Non potevo vederlo ma ero certa fosse completamente rosso e questo mi fece sorridere.
Espirando rumorosamente deglutii e il groppo in gola sembrò darmi tregua. Guardai ancora una volta la mia immagine riflessa nella vetrina cercando di convincermi che stavo facendo la cosa giusta, l'unica che per ora potevo tentare.
Sono un ragazzo. Sono un ragazzo.
Sono un ragazzo e ho il pene.
Ah, dannazione... ma a chi voglio darla a bere? Si vede lontano un miglio che sono una femmina e non ho affatto un pene.
«Non stai piangendo, vero?»
«Cosa? No, diamine. Stupido Giappo-minchia!» farfugliai velocemente, mangiandomi metà delle parole. Gli occhi ancora mi pizzicavano pericolosamente ed ero sicura che anche se non stavo piangendo, ero molto vicina dal farlo. Espirai ancora. Una volta, due volte, tre. «Ti sembra che una tipa come me possa mettersi a piangere?»
Dannazione! Stupida Robin. Stupida, stupida e stupida.
Cos'è questo vittimismo? Non puoi già darti per vinta. Non ora!
«Ora devo proprio chiudere. Sono arrivata.»
Lo sentii sospirare. «Vai, Rob. E sii l'uomo che io non sono.»
Scoppiai a ridere e chiusi la chiamata. Sapeva sempre dire le cose giuste al momento giusto. Con una battuta abbatteva tutte le mie insicurezze e le mie ansie.
Stupido, Ogawa! Se non fossi così timido avresti orde di ragazze ai tuoi piedi!
Mi strizzai le mani e sollevai lo sguardo sullo stabile nel quale, forse, avrei passato i prossimi quattro anni della mia vita da collegiale.
Cazzo, ho la gola secca e le mani che mi grondano di sudore.
Vomito e stretta bagnata e appiccicosa... wow, sarà una presentazione con i fiocchi!
Saltellai da un piede all'altro per scaricare l'ansia e con la fotocamera interna del cellulare ricontrollai tutto il look da finto maschio per la millesima volta: occhiali giganti e da secchione, cappellino con visiera, tuta due taglie più grande, fascia per seno che mi toglieva il fiato come se avessi un corsetto e il nuovo taglio di capelli. Alla fine l'opzione del calzino nelle mutande per simulare un pacco era stata severamente bocciata da Takeru e io stessa avevo deciso che... bé, ero strana forte ma non abbastanza da andare ad un colloquio con un paio di calzini proprio lì.
Sembravo a posto. Circa.
Sbirciai l'orologio: ero in orario. Anzi, avevo venti minuti d'anticipo. A mia discolpa posso dirvi che temevo di perdermi per strada, quindi ero partita prima di casa. Giuro, non sono paranoica e in ansia. No, no... affatto.
Allontanando il cellulare mi feci una foto che inviai un attimo dopo a Takeru. La risposta non tardò ad arrivare e come sempre, quello stupido, non deluse le mie aspettative: "Sei così uomo che il calzino nel pacco è superfluo".
Infilai il cellulare in tasca soffocando una risata e alzai gli occhi sullo stabile.
Il palazzo era enorme. Alto sei piani e di uno sgargiante giallo canarino. Mi dava l'idea di un posto accogliente e solare, probabilmente era solo dovuto al colore tanto luminoso.
L'entrata non era una unica come nel mio condominio, ogni alloggio aveva la propria. C'era una scala in muratura esterna che portava ad ogni piano. Le porte degli appartamenti si affacciavano a corridoi esterni: sembravano gigantesche balconate che correvano lungo l'edificio come anelli.
Abbassai lo sguardo sul foglietto e la mano mi tremò. «Appartamento 12. Thomas.» Strinsi il pezzetto di carta tra le dita.
Dannazione! Dannazione! Dannazione! Tremo peggio di un vibratore ultimo modello.
Stai calma, Rob. Va tutto bene. Tu sei un uomo in perfetta regola anche quando non fingi di esserlo. Di che diamine ti preoccupi?
Salii le scale piano, senza fretta, soffermandomi a ogni passo. Sembrava quasi che il mio inconscio cercasse di ritardare quell'appuntamento con tutte le sue forze. In realtà, la paura mi stava divorando. Non lo avrei mai detto a voce alta né tantomeno ad anima viva ma sentivo il bisogno di aver Takeru vicino a me. Proprio come una bambina al suo primo giorno d'asilo.
E sono certa che se glielo avessi chiesto, probabilmente si sarebbe fiondato qui in un baleno. Cosa di cui gliene sarei stata debitrice a vita, ma... non potevo.
Questa era la mia battaglia e dovevo combatterla da sola.
Me l'ero cavata per una vita intera senza aiuti esterni e non sarebbe certo stata questa l'occasione in cui mi sarei aggrappata a qualcuno.
Feci gli ultimi scalini trattenendo il respiro, mi mossi lungo il corridoio esterno e quando raggiunsi l'appartamento ciondolai davanti all'entrata esitando. Ero arrivata. Ero arrivata davanti all'appartamento 12 e soltanto una porta mi separava da quello che sarebbe potuto essere il mio nuovo coinquilino.
Ero agitata? Cazzo, sì. Lo ero eccome.
Questo Thomas non ha nemmeno il nome sul campanello! Forse non vuole scocciatori.
E se è un assassino? E se i sospetti di Takeru fossero fondati?
Strinsi il pugno. Un po' per riflesso, un po' per fermare il tremore delle mani.
Bé, non mi resta che scoprirlo e in caso picchiarlo a morte. Insomma, sono io, sono Robin, una ex Scorpion. Posso difendermi anche da uno psicopatico, no?
Lo ucciderò e occulterò il cadavere. Semplice.
Strofinandomi i palmi sui pantaloni della tuta mi preparai a bussare. «Bene. Io vado, eh?» Allungai la mano e con decisione colpii la porta. Un paio di volte, senza esitazione. Restai in attesa immaginando che a breve qualcuno mi sarebbe venuto ad aprire e invece, non successe nulla.
Niente. Il nulla assoluto.
Ma scherziamo? Questo bastardo mi ha dato buca?
Mi sto cagando in mano da stamattina e questo mi dà buca?
Strizzai la visiera del cappellino e feci un profondo respiro. Dovevo mantenere la calma. «Bene. Riproviamoci. E che la giappo-minchiaggine di Takeru sia con me!» Bussai ancora. Le nocche produssero un rumore sordo sul legno. Era impossibile non avermi sentito.
Eppure, nessuno venne ad aprire.
Niente. Ancora niente. La porta restò chiusa, serrata.
Una risata secca e scocciata mi sfuggì dalle labbra, seguita da un grugnito rabbioso. Non ci potevo credere. Mi sembrava di sognare.
Se non fossi stata certa che quell'annuncio era qualcosa di serio, avrei subito pensato a qualche stupido scherzo.
Prima di tentare ancora, mi sporsi verso la porta e ci appoggiai contro l'orecchio. Dall'appartamento non proveniva alcun rumore e questo mi fece dubitare che ci fosse qualcuno in casa. «Ma scherziamo?» Serrai i denti sbuffando dalle narici come un toro e tirandomi indietro biasciai un'imprecazione che vi risparmierò di scrivere.
Immaginatela. Era molto, molto colorita. Molto.
Questo colloquio era davvero partito male e stavo già iniziando a spazientirmi. Che serietà poteva avere una persona che sin da subito si mostrava irreperibile?
Fissai l'orologio: mancava un quarto d'ora al nostro appuntamento.
Magari era ancora al lavoro e rientrava proprio in orario per il colloquio. Forse ero troppo impaziente. In fondo, ero largamente in anticipo.
Sfilai la cartella dalla spalla e l'appoggiai in terra. Mi era venuta sete. Avevo la gola che sembrava il deserto del Sahara. Presi la bottiglietta d'acqua e fissai la mano ancora tremante mentre svitavo il tappo. «Sono così agitata che non riesco nemmeno a deglutire.» Tracannai un sorso d'acqua.
Ero ancora accucciata quando la porta si aprì.
Due piedi scalzi entrarono nella mia visuale proprio sulla soglia della porta, così per non farmi prendere dal panico, mi presi il giusto tempo per dargli una lunga sbirciatina.
Risalii con lo sguardo e analizzai attentamente ogni dettaglio: una tuta sgualcita color antracite, una canottiera bianca e sopra, aperta, una camicia con la trama a scacchi grigi e neri; le maniche lunghe erano arrotolate fino al gomito. Il volto era nascosto da un asciugamano mentre continuava a tamponarsi i capelli. «Sei arrivato prima, eh?»
Questa voce. Ho già sentito questa voce.
Merda. Mi sembra di conoscerla. Possibile che... che...
Mentre si liberava dall'impaccio dell'asciugamano trattenni il respiro e d'impulso accartocciai la bottiglietta tra le mani. Un getto d'acqua mi schizzò in faccia infilandosi nel naso e facendomi scoppiare a tossire senza ritegno. Mancò poco che vomitassi per davvero.
Il viso mi passò dal solito pallore cadaverico a un rosso acceso. Temperatura facciale da trentasei gradi a cento come se mi avessero intinto in acqua bollente. Sentivo le gote scottare, le orecchie che mi bruciavano e a fatica riuscivo a respirare.
Se non riuscivo a prendere fiato entro breve, presto ci sarebbe voluto un defibrillatore.
No. Non è possibile. No. È un incubo. No. È assurdo.
No. Cazzo, no. No, no e no.
Il mio cervello sembrava improvvisamente reduce di una lobotomia. «Tu – tu sei Thomas? Se – sei Thomas?»
Il giovane si passò l'asciugamano attorno al collo, i capelli neri ricaddero bagnati sulle spalle. Sorrise. «Esatto, in persona. Thomas... Thomas Lattner.»
Qualcosa nel petto mi fece un sonoro crack.
Voglio morire. Voglio morire, morire e morire.
Qualcuno mi schiaffeggi con violenza!
«Me ne vado.» Mi alzai di scatto afferrando la cartella.
Panico. Ero nel più completo panico.
Era appena successa la cosa più impensabile in assoluto nella mia esistenza di povera sfigata collegiale. Praticamente una roba folle e degna di un manga o di uno di quei filmetti da quattro soldi dove finisci per abitare con il cantate famoso per cui guarda caso hai una cotta epica dall'età del paleolitico. E lui ti ricambia. Non si sa come, ma ti ricambia. Anche se sei una verginella con ancora i baffi e il monociglio e lui magari potrebbe avere una sfilza di modelle cento volte più fighe di te.
Mr. Lattner. È proprio lui. Lui in persona.
No. Non ci posso credere. Non può capitare a me.
No. Merda, no. E adesso? E adesso che faccio? Che faccio?
Schizzai verso le scale per darmi alla fuga. Non potevo stare lì. Non dopo quella scoperta.
Avevo pensato a tutti meno che lui. Lo avevo rimosso dal mio piccolo cervellino stupido. Forse inconsciamente non ci avevo voluto pensare perché se lo avessi fatto, con ogni probabilità, non sarei nemmeno arrivata fin in fondo a tutta quella faccenda.
Corsi velocemente lungo il corridoio, senza nemmeno voltarmi e quando raggiunsi la rampa mi sentii per un breve attimo scampata alla catastrofe.
Però, non feci in tempo nemmeno a fare uno scalino perché venni agguantata per il cappuccio della felpa e tirata indietro.
Facemmo un volo epico: io, la cartella e Mr.Lattner.
Cademmo tutti e due in terra, a bordo delle scale e lui scoppiò a ridere. «Certo che sei un tipo strano, eh?»
Quella risata.
Una risata vera, non uno di quei sorrisi finti che ci regalava a scuola.
Mi entrò dentro come una freccia. Si fece strada a forza nel mio petto, creando scompiglio in tutti quei sentimenti tenevo impilati e imballati.
Aprii la bocca per dire qualcosa ma il cuore mi batteva così forte da sovrastare ogni altro rumore. Mi fischiava nelle orecchie come un treno in corsa o la sirena di un'ambulanza.
Già, quella che a breve sarebbe servita a me. Defibrillatore incluso.
«Mi dispiace non averti aperto subito. Stavo facendo la doccia. Non pensavo saresti arrivato prima.»
Mi girai a guardarlo e sentii il peso del cuore scivolarmi giù, fin dentro lo stomaco dove prese a girare insieme al vomito e al criceto di poco prima. Poco romantico, lo ammetto.
Eravamo così vicini che il suo respiro mi sfiorava il collo. Proprio nel punto dove qualche ora prima avevo avuto una folta massa di capelli e ora la pelle nuda mi sembrava così delicata e vulnerabile.
Serrai le mani attorno alla cartella e un brivido mi pervase da cima a fondo. Il calore del suo corpo contro il mio sembrava trapassare i vestiti fino ad avvolgermi in un abbraccio invisibile.
Mi girava la testa.
Non ha gli occhiali. E i capelli sono sciolti. Sembra un ragazzino. E la sua risata corrode l'anima.
Mi spacca il cuore. Me lo taglia in due.
«Ecco, io...» subito mi schiarii la voce con un colpo di tosse e parlai più sommessamente cercando di dare al mio timbro un tono più greve e maschile. «Già, ecco... sono un tipo molto puntuale.»
Se mi avesse scoperto sarebbe stata la fine. Non solo avrei perso la possibilità di stare a Detroit e frequentare il Missan ma avrei fatto anche una figura di merda epica. Fingersi addirittura un ragazzo per andare ad abitare con lui era un'idea che solo una sua ammiratrice folle poteva partorire.
Io non lo ero, però, lui non poteva certo saperlo quant'ero disperata io. Così prossima ad abitare sotto un ponte.
La versione casalinga dell'aitante e misterioso professore di matematica mi pizzicò gentilmente il naso e alzandosi da terra allungò una mano in mia direzione. «Meglio così, ci compensiamo... io sono un tale ritardatario.» Accennò un sorriso imbarazzato, portandosi una mano alla nuca e grattandosi goffamente i capelli. Senza il completo gessato sembrava molto più giovane.
Oddio... un ragazzino. Sembra in tutto e per tutto un ragazzino.
Non posso crederci. Chi è questo Lattner che ho di fronte? Da dove sbuca questo impacciato e ancor più affascinante giovane uomo?
Con titubanza afferrai la sua mano e lui con un leggero strattone mi sollevò in piedi. «Certo che sei magrolino, eh? Mangi a dovere?»
È perché sono una ragazza, diamine! Sono una fottutissima ragazza e sto per esplodere.
Ma che cazzo di domande fai poi? Ma saranno domande da fare a un completo sconosciuto?
«Ma – ma certo» borbottai, tirandomi la visiera ancor più sugli occhi. Più lo guardavo, più lo stomaco si riduceva a un minuscolo spaziettino stipato nel mio ventre. Si stringeva e rimpiccioliva contraendosi fino a farmi male. Avevo i crampi.
«Forza, seguimi. Ti faccio vedere l'appartamento.» Mi precedette, camminando scalzo fino all'entrata. Era bizzarro che mi avesse rincorso conciato in quel modo, senza preoccuparsi di com'era uscito di casa.
Si pulì i piedi sul tappeto e mi lanciò un'occhiata lunga e attenta. «Prima regola: niente scarpe in casa.»
Sorrisi. Era anche una delle mie regole. Takeru da bravo giapponesino avrebbe approvato.
Senza fare una piega sfilai le scarpe e le lasciai nella scarpiera all'entrata.
«Ti ho preso delle ciabatte nuove da usare qua dentro, così non cammini scalzo.» Me le allungò aspettando che le indossassi. «Come hai detto che ti chiami? Scusa... è che oggi sono venuti già in sette a veder la stanza.»
Allungai la mano con agitazione e iniziai a farfugliare qualcosa di molto simile al linguaggio umano: «Ah, io mi chiamo Robi... Rob... Rob... ert. Già. Robert.»
Ma che diavolo ti prende? Sei stupida? Tre minuti che ci parli e già gli stavi per dire il tuo vero nome?
Ah, andiamo bene. Un genio. In due giorni finisce che ti scopre.
«Robert... un bellissimo nome. Allora non ti spiacerà se ti chiamo Rob, no?»
Una vampata di caldo mi risalì il collo fino alle orecchie. Trattenni il respiro per evitare di andar in iperventilazione. Ero così bollente che probabilmente mi si poteva friggere un uovo sulla fronte.
Indossai le pantofole ed entrai in casa. Non appena varcai l'ingresso un enorme gatto venne a strofinarsi contro le mie gambe facendo le fusa. Automaticamente mi abbassai per accarezzarlo.
«Ti piacciono i gatti?»
«Moltissimo.»
Lattner sorrise e fui costretta a distogliere lo sguardo per respirare regolarmente. Quel sorriso era un'arma, dannazione. Peggio di due mani che ti strangolano. «Per fortuna. Lui è Muffin ed è il viziato di casa. Ha solo un anno ma ha già capito tutto dalla vita. Vero, Muffin?» Si abbassò accarezzando il grosso persiano sotto il mento, il gatto chiuse gli occhi facendo sonore fusa. Il lungo pelo arancione e il musetto schiacciato mi ricordavano Garfield.
Probabilmente se accarezzasse così anche a me... farei anch'io quelle fusa.
Il gatto gli morse il naso e Lattner fece un'espressione buffa e da ragazzino. Gonfiò le guance e mise il broncio.
Mi cercai di tappare la bocca ma la risata mi uscì con uno sbuffo nasale poco raffinato e lui alzò la testa.
«Ehi, che c'è da ridere?» Il sorriso di Lattner si aprì come un fiore sulle sue labbra rosee. Ogni volta che sorrideva, il viso gli si illuminava, trasformandolo totalmente in un'altra persona.
Era come se indossasse una maschera che toglieva solo all'occorrenza, mostrando la parte più bella di sé a pochi eletti.
Questo Lattner, questa parte di lui... è qualcosa che posso vedere solo io.
È un privilegio che lui concede solo a me. Un regalo di cui io soltanto posso godere.
Quel pensiero mi fece tornare a battere forte il cuore. Chinai lo sguardo tagliandomi fuori da quel momento così imbarazzante e accarezzai Muffin nel tentativo di concentrare su altro la mia attenzione. «Il nome mi ha fatto sorridere. Non pensavo che potesse dare un nome così simpatico a un gatto.»
Dannazione, sei patetica. Patetica e imbarazzante.
Lattner si adagiò in terra e raccolse Muffin tra le braccia affondando il viso nel pelo della bestiola. Una sequenza di schiocchi fece cadere in brodo di giuggiole il gatto che si afflosciò tra le sue braccia riprendendo le fusa. «Robert, per favore... diamoci del tu. Chiamiamoci per nome.»
Per nome? Io, umile umana... umile collegiale... dovevo chiamare Mr.Lattner per nome?
No. No. No. Già mi agitava anche solo parlarci a un metro di distanza. Figuriamoci a chiamarlo per nome.
Avrei voluto negare scuotendo la testa come un asino ma in realtà, ero più rigida di un pezzo di legno. Boccheggiai qualcosa e poi annuii poco convinta.
Lattner rise. «Avanti, ripetilo: Thomas. Thomas... su.» Scandì ogni lettera senza perdere il sorrisetto sornione. Sembrava divertirsi del mio imbarazzo.
Gli rifilai una delle mie occhiate taglienti e questo sembrò metterlo ancor più di buon umore. «Non sono un bambino.»
«Ah, no? Eppure mi sembri tanto uno dei miei studenti... così giovane e impacciato col mondo.» Mi fece l'occhiolino e si sollevò da terra lasciando libero Muffin che subito corse via andando a occupare un posto sul divano. «Vieni, allora. Ti mostro la casa.»
L'appartamento era piccolo, accogliente e luminoso. La porta d'ingresso si affacciava alla sala che era la stanza più grande di tutte. Da lì si diramava un lungo corridoio che aveva sulla destra tre porte e sulla sinistra solo una. Le tre porte davano rispettivamente sulla cucina, sul bagno e infine sulla camera vuota destinata al coinquilino. Proprio di fronte c'era la camera di Lattner.
Ogni stanza era modesta ma strutturata in maniera tale che nessuno spazio venisse sprecato. In cucina c'era un tavolino attaccato al muro che aveva addirittura cinque sedie. Volendo si potevano pure fare degli invitati.
Il bagno era cieco, niente finestra. C'era una vasca con tanto di braccio della doccia, lavello con mobiletto, specchio tondo affisso al muro e il wc. In terra un tappetino grigio che si abbinava bene con le mattonelle bianche.
L'unica porta chiusa rimase quella dalla parte sinistra del corridoio. «Questa è la mia stanza. Non è molto diversa dalla tua ma eviterò di mostrartela... oltre a ritardatario sono anche estremamente disordinato.» Mi sorrise imbarazzato.
Il sorriso che faceva fuori da scuola era molto differente: più caldo, vivo, più coinvolgente e sincero. Questa doppia identità che mi stava mostrando era sorprendente. Due universi totalmente differenti.
Il Lattner casalingo batteva dieci a zero il Mr.Lattner professore.
«Questa invece sarà la tua stanza nel caso tu decida di restare.» Si spostò verso la porta di fronte e attese giusto un attimo prima di aprire.
Non c'era nulla di esaltante in quella stanza: un armadio a muro con un lungo specchio impiantato nella parte interna dell'anta, un letto matrimoniale spoglio, una scrivania molto semplice, alcune mensole e un comodino con tanto di abajoures.
Semplice e pratico.
«Lo so... non sembra nulla di che. Ma poi sarà compito tuo decorarla come più ti piace.»
Giusto! La renderò mia, personale.
Quel pensiero mi fece arrossire.
Era tutta una follia. La sola idea di abitare con Lattner lo era. Condividere con lui il mio tempo libero, darci del tu, chiamarci per nome, fingere di non essere un professore e la sua studentessa.
«Ehi, Rob?»
Rob... così sembra quasi che chiami me e non il mio alter ego.
E invece, io per te sono solo Robert.
Non alzai la testa, la tenni china. Il mio viso avrebbe tradito l'imbarazzo e io non potevo permettermelo. Ero un ragazzo in quel momento. Non ero Robin, non più. Ero Robert e non importava quanto vicino potessi essere a Lattner, per lui ero solo un ragazzo. Nient'altro.
Ogni volta che avrei messo piede dentro quelle mura, Robin sarebbe morta, Robert sarebbe nato. Un compromesso doloroso ma necessario.
«Sembra spaziosa» commentai, guardandomi attorno. Mi piaceva. «Come mai cerchi un coinquilino?»
Lattner si appoggiò allo stipite della finestra, incrociò le braccia al petto e rivolse uno sguardo fuori. Per un attimo gli occhi sembrarono svuotarsi da tutto, proprio come quella volta che l'avevo spiato in quell'aula, mentre stava correggendo i compiti.
«Odio stare da solo. Anche se... devo dire che spesso mi ci sento lo stesso, anche se sono circondato di gente.» Fu così franco che fece quasi male. Si passò una mano sulle braccia. Quel gesto mi fu così familiare da darmi i brividi: era lo stesso che spesso facevo anche io.
Rimasi congelata sulla soglia della camera. D'istinto mi portai le mani al petto, aveva preso a farmi male. Quando scivolava in questi pensieri che lo incupivano mi sentivo troppo vicina a lui, così vicina da riuscire a fare scontrare le mie paure con le sue. Conoscevo bene quelle sensazioni, non mi abbandonavano mai: un senso di vuoto, di solitudine, di spaesamento. Erano così chiare nei suoi occhi che solo chi le aveva provate sulla propria pelle riusciva a comprenderne il peso.
Lattner si riscosse, si voltò e mi sorrise brevemente. «Comunque non è da molto che è sfitta questa stanza. Ma odio vederla vuota.»
Vuota come il tuo cuore, eh? Te lo leggo nello sguardo Mr.Lattner. Lo hai chiuso a chiave quel cuore, ci hai messo un catenaccio attorno e lo hai sigillato. Deve aver una bella cicatrice per barricarlo così tanto.
Quelli come noi sono prigionieri di se stessi, incatenati al proprio passato e alle proprie ferite che non si chiudono mai, fanno solo meno male. Destinati a vivere una vità a metà, con un piede avanti e lo sguardo indietro. Spaventati dal futuro e ancor più dal passato.
«Mi piace questo posto. E anche Muffin.»
Il volto triste e vuoto di Lattner s'illuminò, si coprì la bocca con la mano e scoppiò a ridere. Quelle nuvole scure sembrarono sparire di nuovo, lasciarlo respirare per un altro po'.
I suoi ventisei anni finalmente riaffiorarono tra le pieghe di quel sorriso. «Non devo averti fatto una bella impressione se non sono stato nemmeno menzionato tra le cose che ti piacciono di questo posto.»
E come ti potevo menzionare, eh? Solo guardarti è come respirare ad alta quota.
Dammi tempo per abituarmi, Mr.Lattner. Un passo alla volta. Non mettiamoci fretta.
«Bé, ma... ma – ma perché era scontato.»
Mi passò accanto e allungando il braccio mi diede un buffetto sopra il cappello, sulla visiera, come si fa con i ragazzini. «Forza, vieni a compilare i moduli. Così puoi portare la tua roba quando vuoi.»
«Allora è fatta? Sono... cioè, vado bene?» Mi sentivo al settimo cielo. Tutte le mie preoccupazioni sul trovare un appartamento, sul dover lasciare la Missan e tornare a casa dai miei si erano annullate anche se molte nuove avevano occupato le fila delle vecchie ma, in quel momento, non ci volevo pensare. Ero troppo felice. Avevo bisogno di questo momento di felicità.
Lattner mi fissò per un istante, un sorrisetto malandrino gli spuntò sulle labbra. Sembrò sul punto di dirmi qualcosa, invece inclinò il capo e rise: «Tu che dici... Robert?»
Era fatta.
Sarei andata a vivere con Mr.Lattner.
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