10 - UNO SGRADITO ACCOMPAGNATORE
Anche quella sera ero in turno con Nate. Quando gli avevo chiesto spiegazioni, preoccupata che Olive stesse male, mi aveva candidamente risposto che aveva deciso di fare lui il turno serale, per tenermi d'occhio. Lo aveva fatto per me, in caso ci fossero stati altri problemi. Aveva detto così, come se fosse suo compito occuparsi di queste cose.
Non sapevo se trovare la cosa più seccante o lusinghiera. Apprezzavo che si preoccupasse dopo ciò che era successo la sera prima ma non mi andava che scombinasse gli orari di tutti per mettersi a fare l'eroe della situazione. Inoltre, mi infastidiva il fatto che desse per scontato avessi bisogno di lui.
Non ho bisogno di te, Nate. Non ho bisogno di nessuno. Me la so cavare da sola, come sempre.
L'idea poi che possa essere lui quel motociclista mascherato... diamine!
Scossi con frenesia il capo. «Non. Ci. Pensare. Cazzo!» Sgridarmi da sola non avrebbe funzionato a farmi passare quel sospetto tanto facilmente. Continuava a galleggiare nei miei pensieri ogni volta che incrociavo il suo sguardo e lui lo distoglieva come se avesse da nascondere qualcosa. Più evitava i miei occhi, più venivo pervasa da strani brividi e il cuore mi rimbalzava in petto.
Se è davvero lui, che faccio? Eh? Che diavolo faccio?
«Mancano solo i dolci al tavolo otto e abbiamo finito» disse Nate, sfrecciando in sala con i piatti per gli ultimi clienti. «Non restare lì impalata... inizia a pulire che ci portiamo avanti.» Dittatoriale come sempre.
Almeno Olive usava maniere più gentili per chiedermi di fare qualcosa.
Iniziai a sistemare le prime cose, a riordinare i servizi di posate e di piatti e spazzare laddove i clienti che stavano finendo la loro cena non potevano notarmi. Quando sentii il tintinnare del campanello e vidi Nate chiudere con doppia mandata la porta mi spostai con la scopa anche in sala.
«L'altra sera ho scoperto che abiti poco distante da me, sai? Non l'avrei mai detto.» Nate sollevò la testa dalla cassa e mi osservò mentre iniziavo a passare lo straccio.
Probabilmente si aspettava che me ne uscissi con qualche eclatante affermazione invece mi limitai a una leggera scrollata di spalle. E quindi? Voleva un premio per la scoperta? Questo lo fece sghignazzare, come se avessi appena fatto una battuta divertente.
«Questa sera non mi fermerò a fare i conti... quindi se tu mi aspettassi, mi faresti un grosso favore.»
Impiantai le mani sui fianchi e mi bloccai a fissarlo. «Cos'è tutto questo Nate?»
«Cosa?» Sembrò davvero confuso.
«È da prima che continuo a pensarci. Alla frase che hai detto. Al fatto che hai cambiato i turni per tenermi d'occhio. Sinceramente io credo che-»
«Wo, wo, wo... ferma un momento.» Alzò le mani impedendomi di continuare. Scivolò fuori dal retro del bancone e mi raggiunse come se la poca distanza fra noi potesse in qualche modo migliorare il nostro livello di conversazione. «Non ti arrabbiare. Parliamone.»
«Non sono arrabbiata.»
«Ah, no? E quell'espressione da demone cosa vorrebbe dire?»
«Questa è la mia faccia» biascicai scoccandogli una delle mie occhiate inceneritrici. Perché tutti avevano da ridire sulla mia faccia?
Nate si passò una mano nei capelli biondo cenere e sospirò. «Scusa, Robin. Non volevo essere invadente. Lo avrei fatto per te come per Olive... non fraintendere.»
E chi è che stava fraintendendo? Stava facendo tutto da solo.
Dannati uomini che pensano che tutto giri intorno al loro pisello!
«Capisco la tua preoccupazione ma so badare a me stessa. Lo faccio da una vita intera. Non ho bisogno di un eroe o un bodyguard.» Digrignai i denti e stringendo il manico del mocio tra le mani mi voltai verso gli spogliatoi. «Non ne ho mai avuto.»
Non ho mai avuto bisogno di nessuno. Nessuno si è mai preoccupato per me. Nemmeno quei falliti di genitori che mi ritrovo... così impegnati nelle loro carriere da non essersi mai accorti della mia disperata ricerca di attenzioni.
Un sibilo mi uscii dai denti stretti.
Fanculo. Me la cavo da sola. Ce la faccio benissimo anche da me.
«Robin!» La voce di Nate mi riscosse, la sua mano si posò delicatamente sulla spalla. Allentai la presa sul manico e mi fissai i palmi biancastri per l'eccessivo sforzo. Poi sollevai lo sguardo sulla sua mano sperando che la togliesse subito, cosa che non fece. «Va a cambiarti. Finisco io qui... così andiamo a casa insieme.» Deciso e senza ammissioni di repliche.
Odiavo questo lato di lui, questa ostinazione, questa prepotenza. Ma aveva trovato pane per i suoi denti, la sua parte dispotica si sarebbe scontrata ogni volta con la dura corazza della vecchia me, rimbalzandoci come una pallina da tennis lanciata contro un muro.
Feci per ribattere ma mi tappò la bocca con la mano. Probabilmente lo fulminai con lo sguardo perché sembrò turbato da quella mia espressione furibonda. «Voglio accompagnarti a casa in qualità di collega e amico. Me lo permetti?»
Sebbene il suo tocco fosse gentile, sentii un brivido scivolarmi lungo la base del collo. Quel conosciuto senso di disagio tornò a bruciarmi la pelle. Arretrai tentando di sottrarmi da quel contatto ma Nate assecondò il mio movimento, allora non mi restò altro che assottigliare lo sguardo in una truce occhiata e senza poter parlare mi limitai ad annuire. Solo allora mollò la presa. «Ora sei contento?» Non finsi nemmeno cortesia, lasciai che il tono tagliente della mia voce esprimesse al posto mio il disappunto per quel gesto.
Infilò le mani nei pantaloni della divisa e oscillò facendo un sorrisetto sornione. Un bagliore negli occhi illuminò quel verde intenso. Per un attimo ebbi l'impressione che fosse arrossito. «Chissà... forse lo sono.» Mi fece la lingua.
D'impulso gli sbattei il manico della scopa contro il petto e girando i tacchi mi defilai negli spogliatoi. Respiravo veloce.
Che diavolo stai facendo, Rob? Vuole solo essere cortese.
Bastava ringraziarlo, ma come sempre sei la solita stronza.
Se fosse il motociclista... perché preoccuparsi tanto per me?
Forse perché sono una collega?
Ma certo, piccola stupida che non sei altro. È così, ovvio.
Nate mi dava ai nervi. Non sapevo bene il perché ma sapevo che riusciva a far schizzare alle stelle il mio autocontrollo. Forse il motivo risiedeva tutto nel suo modo di fare: i maschi alfa con me non hanno mai funzionato.
Con uno scatto stizzito aprii l'armadietto con il cambio. Levarmi la divisa non fu mai tanto liberatorio come quella sera. Non vedevo l'ora di andare a casa e chiudere la porta in faccia a tutti i miei problemi. Compreso Nate.
Perché sì, Nate stava diventando un problema. Un enorme, biondo e misterioso problema. Che non accennava a mollare la presa, fra l'altro.
Sbucai con la testa dalla felpa e grugnii. Ero ancora seduta sulla panca con solo gli slip addosso.
Chissà lui dov'è... magari non è Nate. Magari bazzica solo nei dintorni del Joily.
Certo che se non fosse lui... con Nate al mio fianco non si fermerà di certo a parlarmi.
Perché in fondo, io voglio che si fermi a parlarmi, no?
Stavo ancora ripensando al motociclista. Ogni volta che i miei pensieri si soffermavano su di lui, lo stomaco si stringeva in bizzarre contrazioni che si estendevano a tutto il corpo trasformandosi in brividi. La sua presenza, così nebulosa e avvolta nel mistero, stuzzicava la mia curiosità e alimentava il mio desiderio di conoscerlo. Non sono mai stata amante dei tipi facili, anzi, si può dire che a me piacciono più i casi disperati. E il motociclista sembrava essere un caso veramente disperato, di quelli da sbatterti il cuore dentro una cella e gettare la chiave.
E potrebbe essere Nate. Nate... quello che ti fa sclerare come una quindicenne capricciosa e impertinente.
Ringhiai esasperata e abbassando la felpa di scatto afferrai i jeans.
Qualcuno bussò alla porta. «Mi vado a cambiare. Cerca di non fuggire, okay?»
Nate. Ancora lui. Era ovunque. Roteai gli occhi verso il cielo e sospirai. «E allora muoviti» gli gridai scocciata.
Andarmene sarebbe stata la giusta punizione alla sua arroganza e testardaggine. La risolutezza con cui si rivolgeva a me forse era solo uno strascico del briciolo di potere che deteneva nel Joily. Probabilmente la differenza d'età lo faceva sentire in qualche modo superiore o magari credeva di poter decidere al posto mio.
Questa cosa mi faceva incazzare ancora di più. Così tanto che strinsi il nodo delle scarpe fino a sentirmi strozzare il collo del piede.
Non sarebbe certo stato il suo bel faccino a farmi cambiare idea o ammorbidire i miei atteggiamenti.
Uscimmo in contemporanea e questo creò sin da subito un'atmosfera pesante e silenziosa. Con uno scatto sistemai la borsa che avevo a tracolla. Ero ancora arrabbiata per quella confidenza che si era preso poco prima senza permesso. «Andiamo?»
Nate controllò di nuovo se era tutto spento e chiuso e poi mi precedette all'uscita laterale.
Non appena misi piede in quel vicolo una stretta al petto mi bloccò sul posto.
Subito Nate si voltò verso di me come se avesse captato il mio repentino cambio d'umore. La sua espressione si fece cupa e preoccupata. «Rob, è tutto okay? Se vuoi d'ora in poi usciamo dal davanti.»
Scossi il capo. Era stata una sensazione, solo un attimo. Un senso di disagio e paura che mi aveva colto alla sprovvista. Eppure io non ero mai stata così. Non mi ero mai sentita debole per le strade buie e malfamate di New York. Io ero la paura. Ero il Bau Bau che si aggirava in cerca di vittime.
«È tutto a posto.»
Si avvicinò, sollevando la mano in cerca di un contatto ma il ricordo di ciò che era successo prima lo fece desistere e lasciò ricadere il braccio lungo il fianco. «Ripensavi a ieri sera?»
Solo in quel momento mi accorsi di quanto Nate fosse alto. Mi superava di un buon venti centimetri e la vicinanza non faceva altro che sottolineare quel divario insanabile. «È stato un attimo. Giusto un pensiero... una sensazione spiacevole che si è subito dissolta.»
Il sapore di una fragilità che non avevo mai provato e che si era fatta strada nel mio cuore senza darmi vie di scampo. Ciò che ero diventata non riusciva a rendere giustizia a ciò che ero stata, né a ciò che sarei voluta essere. Intrappolata in una via di mezzo che rendeva insicuro ogni passo, ogni decisione.
La Robin di adesso era incompleta, fallata.
Sollevai gli occhi e quelli di Nate si focalizzarono nei miei, legandoci in un'occhiata lunga e silenziosa. Priva di parole ma piena di tanti discorsi che ci scambiavamo nel più assoluto mutismo. Mi sentii scavare dentro, leggere un piccolo e intimo angolo dell'animo.
Non riuscii a sostenerlo troppo a lungo quello sguardo, fui costretta a distoglierlo, a farlo vagare altrove. E solo in quel momento le mani di Nate raggiunsero le mie braccia, attirandomi contro di sé in un abbraccio che durò poco ma che mi sembrò interminabile.
Non ero avvezza a dimostrazioni d'affetto che non partissero da Adam e anche se ultimamente al mio fianco si era aggiunta la presenza di Takeru, che spezzava incredibilmente questa parte tanto frigida del mio carattere, ancora mi sentivo ingabbiata dalla vecchia me e da quella dura corazza con cui mi ero fatta scudo una vita intera. A volte si resta prigionieri delle proprie maschere.
«So che non dovevo abbracciarti, che il contatto ti crea disagio. Ma non ho resistito. Dovrai scusarmi se non ti lascio ancora... ma odio veder quell'espressione sul tuo volto a tal punto da... da volerla cancellare con ogni mezzo.» Furono parole dolci e inaspettate. Ne restai colpita tanto da non saper cosa ribattere. In quel tono sommesso, potei sentire tutto il suo senso d'impotenza per ciò che era successo la notte scorsa.
Assecondai questa sua richiesta, restai ancora un attimo così. Mi presi quell'abbraccio, quel calore estraneo ma gentile. Inspirai a fondo e il profumo di Nate sembrò insinuarsi in ogni parte di me, fu una travolgente brezza marina che sapeva di fresco e pulito. Era un odore piacevole e semplice, quel genere di fragranza in grado di piacere a tutti e di essere apprezzata su ogni capo.
Feci un ultimo e profondo respiro, respirando lui, il suo sapore e, posandogli le mani sul petto, lo allontanai abbastanza da riprendere possesso dei miei spazi. L'attimo di fragilità in cui mi ero abbandonata era finito. Non sembrò turbato da quel distacco repentino, anzi, sorrise e mi prese la mano intrecciando le dita alle sue, strattonandomi verso la via di casa.
Mano nella mano, le dita incastrate l'una con l'altra. Fu un gesto istintivo e non calcolato, eppure mi trattenne addosso quella sensazione di intimità che non potevo ancora dire di aver raggiunto con lui. Era strano come passassi dal trovarlo insopportabile a così tremendamente premuroso.
Passammo in mezzo alle vie illuminate, alla calca di gente felice, alle bancarelle addobbate che profumavano già di Natale nonostante fossimo solo agli inizi di Dicembre.
«Guarda!» Indicò un piccolo peluche a forma di gatto. «Ti piacciono i gatti?»
«Moltissimo, anche se a dir il vero non ne ho mai avuto uno. I miei genitori non sono mai stati inclini a comprare animali.»
«E ora che abiti da sola?»
E ora che abiterò sotto un ponte? Bé, dai... magari mi prendo un ratto.
«Non posso prenderlo nemmeno ora. Non resterò molto in quella casa. Se tutto va bene presto avrò un coinquilino con cui condividere le spese e non so ancora se ami o meno gli animali.»
Inclinò leggermente la testa e mi fissò interessato. «Hai problemi con il tuo appartamento?»
«Il mio ex proprietario mi ha dato un preavviso di poco più di una settimana. Devo andarmene entro questa domenica.»
Nate si scurì in volto e corrucciò le sopracciglia. «E il contratto?»
Fu come sentire il sapore della bile risalirmi la gola. «Dovevo firmarlo a fine mese. Ero ancora in prova.» Avevo così tanta rabbia che anche solo raccontarlo faceva venire fuori tutto il mio disgusto e la mia amarezza per la situazione. Brenn si era preso gioco di me e alla fine di tutto mi aveva rifilato un grosso calcio nel culo.
«Che gran bastardo!» E su questo non potevo proprio dargli torto. Allungando una mano fece segno alla commessa di incartargli qualcosa poi, slegò la nostra stretta per pagare. «Tieni» disse qualche bancarella più in là, allungandomi il pacchetto che afferrai con perplessità ma anche vivo interesse.
«È per me?»
«Proprio così.»
Fissai il pacchetto con un sorriso che non accennava a svanire dalle mie labbra, lo strinsi con un certo imbarazzo prima di sbirciare il suo contenuto: il peluche a forma di gatto. Sghignazzai. Anche questa volta Nate aveva fatto qualcosa in grado di sorprendermi.
«Perché?»
«Perché prima quel vicolo ti ha strappato il sorriso e volevo darti qualcosa che te lo facesse tornare.»
Estrassi il gatto dal pacchetto e gettando la carta in un bidone poco lontano mi strinsi il peluche al petto, proprio come una bambina. Era una sensazione piacevole. Era qualcosa di tenero e romantico. E io di romanticismo ne sapevo zero ma Nate in certe occasioni sembrava un tipo d'altri tempi.
Di giorno Nate e di notte il motociclista. Una sorta di doppia vita: di giorno un normale ragazzo, di sera un giustiziere.
Sarebbe così romantico che al solo pensiero già vomito arcobaleni, cazzo!
Girai il viso verso le bancarelle nella speranza di mascherare il rossore. Dopo il regalo, restammo in silenzio per diverso tempo, camminando l'uno vicino all'altra e scambiandoci solo rare e futili frasi su argomenti frivoli e di poca importanza. Era calato un imbarazzo difficile da scacciare.
Quando Nate smise di camminare, mi accorsi che eravamo proprio di fronte al mio condominio. Non avrei mai pensato che la sua compagnia riuscisse a risultarmi addirittura gradevole, soprattutto dopo i costanti battibecchi che riempivano le nostre ore lavorative. Quella passeggiata insieme non si era rivelata un completo fallimento.
«Eccoci qua.» S'infilò le mani nelle tasche dei jeans e con la punta del piede iniziò a creare cerchi invisibili sull'asfalto. Aveva un'espressione che non gli avevo mai visto in viso, uno sguardo sommesso ed esitante. Sembrava impacciato, intimidito. «Sai, potrebbe diventare un'abitudine piacevole.»
Alzai lo sguardo da terra e cercai il suo. Le sfumature di verde si espandevano sull'iride in cerchi a spirale. Sembravano fatte apposta per ipnotizzare. «Come?»
Si grattò la testa e accennò un breve sorriso. All'improvviso l'imbarazzo aveva lasciato spazio a una tensione più viva e palpitante, vederlo arrossire fu una novità che mi fece sorridere. «Sì, bé... magari ci si potrebbe vedere anche al di fuori dell'orario di lavoro, no?»
Aprii la bocca come un ebete e lo fissai stralunata. Mi stava davvero chiedendo quello pensavo? «Co - come un appuntamento?» farfugliai incredula.
Il rosso gli divampò dalle orecchie per poi scendere in picchiata su tutto il viso. Sembrò quasi che qualcuno gli avesse gettato una secchiata di vernice in faccia. «Circa. S - sì. Direi decisamente di sì, già.»
Non me lo sarei mai aspettata. Non da Nate.
Oltre a quel suo arrogante modo di porsi, che in quel momento sembrava totalmente svanito, eravamo parecchio distanti d'età. Lui trentatré, io diciotto. Quindici anni di differenza non erano per nulla pochi.
Ma se fosse lui il motociclista mi interesserebbe davvero questo divario d'età?
Con la coda dell'occhio cercai il portone del condominio e strinsi ancora una volta il peluche al petto. Cercavo una via di fuga, un escamotage che non mi obbligasse a rispondere a quella domanda. Ero una frana con le relazioni, io. Non ero in grado di aver una storia, né niente di lontanamente simile. «Io credo che-»
Non mi lasciò finire. Ancora una volta mi tappò la bocca con la mano ma in questa occasione non ebbi tempo per sentirmi furiosa. Ci ritrovammo con i visi talmente vicini che notai delle pagliuzze gialle perdersi nelle tinte di verde dei suoi occhi. Trattenni il respiro. «Vorrei che ci pensassi prima di darmi una risposta definitiva, perché... sai, mi piacerebbe scoprire com'è la Robin fuori dal lavoro, quella vera.» Sentii improvvisamente la gola arida e la necessità di passarmi la lingua sulle labbra. La sua pelle contro la mia era bollente, soffocante. Per l'ennesima volta fui costretta ad annuire, privata della possibilità di replicare a voce. «Bene. Questo è tutto.»
Deglutii cercando di distogliere lo sguardo, consapevole che il mio viso avesse improvvisamente assunto gradazioni diverse dal mio solito pallore cadaverico. Le vampate di caldo mi risalivano dal collo fino alle orecchie.
Mi sentii come dopo una lunga e asfissiante sessione di sauna.
Staccò la mano dalla mia bocca facendo un passo indietro e mettendo distanza tra noi. «Bé, allora... buona serata, O'Neil.»
Rimasi a guardarlo mentre spariva dietro l'angolo, con lo stomaco sfarfallante e le gote brucianti d'imbarazzo. D'istinto, portai le dita sulle labbra dove fino a qualche attimo prima c'era stata la sua morbida e calda mano e mi sentii confusa, sconcertata. Trattenni quel calore così gentile. Quel tocco mi diede per un attimo l'idea di una dolce carezza. Fu stranamente piacevole e rassicurante, attraente ed erotico.
E ora, perché si è comportato così carinamente? Cosa diavolo vuol dire tutto questo?
Dannazione, Nate... sei tu il motociclista? Lo devo sapere. Ne ho bisogno.
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